• È NATA VOLTAPAGINA
(inchiesta) Farmacie ON LINE
MISSIONE DI PACE Veronesi in Israele / Palestina n° 33 - dicembre 2012 - trimestrale edito dallo studio editoriale giorgio montolli - poste italiane s.p.a. - sped. in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1 - dcb vr
Voltapagina si è presentata alla città
Primo piano
Voltapagina vuole promuovere la cultura nella sua essenza, che è spirito critico, valorizzando le esperienze del “sottosuolo”. Senza questo percorso non è possibile ipotizzare di riscrivere la “P” di politica con la lettera maiuscola. L’associazione nasce attorno al periodico Verona In a dieci anni dal primo numero
Lo scorso 23 novembre l’associazione culturale Voltapagina ha iniziato ufficialmente la propria attività nella chiesa di Santa Maria in Chiavica, alle 18.30, presentando la performace Processo agli alberi, interpretata da Serena Betti, Guariente Guarienti, Margherita Sciarretta, Renzo Segala e Mario Spezia (vedi a pagina 5). Soci fondatori di Voltapagina sono Corinna Albolino, Luciano Butti, Vincenzo di Matteo, Gianni Falcone, Stefano Fittà, Giorgio Montolli, Antonio Morreale, Paolo Ricci e Carlo Trentini. 150 le persone che hanno partecipato all’evento, di cui 25 si sono iscritte a Voltapagina. Di seguito pubblichiamo la presentazione dell’associazione fatta dal presidente Paolo Ricci. Buonasera a tutti e grazie di essere qui. Sono Paolo Ricci, presidente dell’associazione Voltapagina che ha promosso questa rappresentazione insieme con i soci fondatori: Corinna Albolino, Luciano Butti, Vincenzo Di Matteo, Gianni Falcone, Stefano Fittà, Giorgio Montolli, Antonio Morreale e Carlo Trentini. Pochi minuti per contestualizzare l’iniziativa. Davanti a voi sono state proiettate delle immagini che oltre ad anticipare chiaramente il tema della serata (alberi, di Ivano Mancioppi ndr) hanno un valore simbolico, nel senso etimologico del termine, perché rimandano ad altro. Questo altro è la distruzione del territorio e il degrado della città sotto diversi profili, le cui bandiere issate più in alto sono l’inceneritore di Ca’ del Bue e il traforo delle Torricelle, opere inutili prima ancora che dannose. A queste immagini se ne sono alternate però delle altre. Sono le iniziative culturali che coinvolgono diverse espressioni artistiche, le forze positive che si contrappongono alla distruzione.
La cultura è quindi la prima connotazione della nostra associazione, però una cultura non intesa come cenacolo di sapienti, ma come processo di trasformazione sociale. Infatti, nessuna informazione o concetto, veicolato dai media, rete web compresa, può essere percepito come interessante, stimolante o semplicemente utile se non si dispone degli strumenti culturali per comprendere e interpretare i fatti che, come diceva Nietszche, di per sé sono stupidi. Una cultura agente che sappia incrociare l’economia non per cercare sponsor in cambio di lodi al Principe. L’incrocio, prima che per ragioni etiche, estetiche o ideologiche, avviene per ragioni intrinseche, oggettive. Infatti un’economia fondata sulla produzione illimitata di beni materiali, rispetto ai quali non si possa mai dire «mi basta così», è al tramonto. Il nostro Pianeta è finito, nel senso letterale del termine, perché le sue risorse sono limitate. Lo sono le sue materie prime, le sue fonti energetiche e, più radicalmente, i suoi elementi costitutivi, quelli delle tavola periodica di Mendeleev, che non si possono creare dal nulla. Anche i nostri rifiuti eccedono la nostra capacità di metabolizzarli, pur se riciclassimo tutto. Se tutti consumassero come oggi fa l’Occidente, non basterebbero quattro pianeti per mantenerci. La nostra economia incontra quindi un limite fisico ancor prima che ideologico. Non a caso il domenicale de Il Sole 24 ore, il giornale di Confindustria, ha coniato lo slogan Niente cultura niente sviluppo. In questo senso l’alternativa di un nuovo modello di sviluppo, a differenza del passato, è una necessità. Questa la novità. Per questo i nuovi beni di consumo, che eccedono il soddisfacimento dei bisogni vitali, si dovranno basare sulla manutenzione del territorio, del paesaggio,
del patrimonio artistico, sulla tutela dei beni comuni: aria, acqua e terra. Dovremo diventare produttori di beni immateriali e “consumatori di pensiero”. E in questo solo la cultura può soccorrerci. L’innovazione tecnologica ci può aiutare invece a gestire al meglio le risorse materiali ancora disponibili. La riduzione delle disuguaglianze sociali invece, ad evitare l’esplosione di conflitti insostenibili. Sappiamo che nel sottosuolo della nostra città pullulano iniziative culturali di vario genere che abbracciano anche questi ambiti e un ampio spettro di espressioni artistiche, ma che non riescono ad emergere, ad intercettare i media, a rendersi visibili e quindi ad innescare processi virtuosi di trasformazione sociale. Al massimo qualche francobollo sul quotidiano locale, a fianco di manifestazioni di folclore. Noi però disponiamo di un alleato importante, il giornale on-line Verona In, prima periodico cartaceo intorno al quale si è formato il nucleo dei soci fondatori di Voltapagina. Attraverso Verona In vogliamo dare visibilità a coloro che abitano questo sottosuolo, non fornendo un semplice spazio su cui affiggere i propri manifesti pubblicitari, ma un luogo di presentazione ed anche di auto-presentazione di esperienze e contenuti, che, attraverso un confronto anche serrato, obblighi gli interlocutori ad approfondire e a perfezionare le proprie posizioni. È quello che abbiamo chiamato metodo socratico e che intende ispirare sia Voltapagina che Verona In, compreso il giornalismo di inchiesta. Promuovere quindi la cultura nella sua essenza che è spirito critico. Senza questo percorso non è possibile anche solo ipotizzare di riscrivere la “P” di politica con la lettera maiuscola, comunque la si pensi. Paolo Ricci Presidente Voltapagina
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Focus
Gli interpreti della performance "Processo agli alberi", durante la serata di presentazione dell'associazione Voltapagina, il 23 novembre, all'interno dell'ex chiesa di Santa Maria in Chiavica. Nella foto in alto, da sinistra: Margherita Sciarretta, Guariente Guarienti, Mario Spezia. A destra Serena Betty, sotto Renzo Segala (foto di Ivano Mancioppi)
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Opinioni
«Per loro non c’era posto» ma questo è vero anche oggi Nel dinamismo vitale della Chiesa quale ruolo assumono i laici nella corresponsabilità pastorale? La vita liturgica non è ancora troppo legata ad una visione, ad una prassi che parte dall’altare?
di Rino Breoni*
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uando il direttore di questa rivista mi ha ricordato che il pezzo che sto scrivendo uscirà sul numero natalizio, è tornato alla mia mente un inciso evangelico di Luca (2,7) con cui si preoccupa di sottolineare che per Giuseppe e Maria incinta “non c’era posto all’albergo”. Albergo. Qualche testo traduce “locanda”. Qualche altro “caravanserraglio”. Comunque “non c’era posto”. Una composizione poetica, venata di romanticismo, ci ha descritto questo peregrinare di una coppia, in attesa di un bambino, che chiede ospitalità. Porte chiuse. Alberghi al completo. Chi ha avuto la fortuna di visitare i dintorni di Bethlem è sostare nella grotta dei pastori, pur con le cautele che ogni guida suggerisce, non ha faticato ad immaginare quella notte, il travaglio di una giovane coppia, di Giuseppe in particolare, per dare respiro alla partoriente e al nascituro. Ma “non c’era posto”. E quando non c’è posto ci si adatta, ci si sistema alla meglio. Senza forzare i testi, credo che il Vangelo, anche nei
capitoli dell’infanzia, i meno storici – almeno nel senso che diamo noi a questo termine – debbono essere letti con un pizzico di fantasia spirituale, quella fantasia creativa che da Francesco d’Assisi in poi, ha fatto fiorire tutti i capolavori pittorici, musicali, scultorei che ci hanno narrato di quella notte che noi celebriamo festosamente. Ma io, confesso d’essere rimasto colpito, rileggendo il testo lucano, da quell’inciso “non c’era posto”. Dove? Per chi? Non c’era posto per una coppia in difficoltà. Senza ricorrere a scomode verità che rischiano ormai di diventare luoghi comuni e che richiamano la situazione drammatica di coppie, bambini, anziani per i quali “non c’è posto”, vorrei indugiare ad altre carenze di posto. Evidentemente secondo una mia personalissima sensibilità. Ho terminato di leggere in questi giorni un’ultima opera di Giuseppe Alberigo, uno dei più attenti storici della Chiesa, sul Concilio Vaticano II e più volte, facendo anamnesi di quella stagione ecclesiale con un senso di interiore disagio, mi è venuto spontaneo dire “non c’è posto”. Il che non significa che la storia, sia civile che ecclesiale, non abbiano camminato ma si ha spesso la sensazione che si sia posta in atto un’azione normalizzatrice nei confronti di istanze autentiche fiorite cinquant’anni or sono. Torno a ripetere che queste note riflettono solo la mia modesta ottica nel considerare le cose ma egualmente alcuni interrogativi restano ineludibili. Nel dinamismo vitale della Chiesa quale ruolo assumono i laici nella corresponsabilità pastorale? L’etica, soprattutto quella della vita di coppia e della famiglia, non è ancora prevalente appannaggio di un pensiero celibatario? La vita liturgica non è ancora troppo legata ad una visione, ad una prassi che parte dall’altare? Il pensiero cristiano, non solo cattolico, sui problemi economico-finanziari non è ancora elaborato nell’orizzonte del capitalismo europeo e americano? Si potrebbe continuare con gli interrogativi per sospettare che “non ci sia posto”. L’ecumenismo si presenta come un dialogo ad alti livelli ma nella concreta realtà delle comunità territoriali, rischia di ridursi ad una celebrazione con qualche fratello di denominazione riformata oppure ortodossa. Non c’è posto. E non c’è posto per mancanza di spazio oppure perché gli spazi sono occupati da certezze intoccabili? Evito volutamente di spendere parole sul dialogo con la giovane generazione, blandita con grandi manifestazioni colme di entusiasmo, ma con cui il dialogo è difficile per l’uso di linguaggi diversi. “Non c’è posto”. Pessimismo? Visione della realtà ecclesiale priva di speranza? No. Assolutamente. Realismo vuole che, vicino all’inciso “non c’era posto per Loro nell’albergo”, ci sia posto per la speranza di ciò che fiorisce fuori dalle mura, in una grotta. Vi nasce il Signore della storia ed è capace di prendere posto nel cuore di tutti coloro che “cercano un luogo” dove passare la notte del loro cammino. Buon Natale. *Rettore di S. Lorenzo
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INCHIESTA
FARMACIE ON LINE «A vostro rischio e pericolo» In rete si possono acquistare farmaci contro la disfunzione erettile e la depressione a un prezzo molto basso, anche senza ricetta, con tutti i rischi connessi. Commercio vietato in Italia ma che in altri Paesi è regolamentato di Francesca Lorandi Utilizzando internet abbiamo tentato l’acquisto di medicinali per i quali in Italia è prescritta la ricetta medica. La sensazione è quella di trovarsi in un ambiente dove manca qualsiasi tipo di controllo, dove diverse farmacie fanno capo a poche organizzazioni. L’allarme per le possibili contraffazioni pare giustificato soprattutto per i farmaci generici, a bassissimo costo, perché di questi non è quasi mai dichiarata la provenienza
La contraffazione dei farmaci interessa il 10% del mercato mondiale. L’1% della contraffazione riguarda i Paesi industrializzati mentre per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo si va dal 10% al 30%. Questi dati escludono il traffico internet. Veniamo all’Italia. I dati forniti dal ministero della Sanità mostrano che l’attività di prevenzione svolta negli ultimi sei anni dai Nuclei antisofisticazioni e sanità dei Carabinieri ha portato a oltre 300 arresti e al sequestro di oltre 3 milioni e mezzo di farmaci. Circa un terzo di questi arresti e di questi sequestri è avvenuto nel 2011, segno che il fenomeno ha avuto una crescita esponenziale. Delle 337 persone arrestate dal
2005 a oggi, ben 84 lo sono state nel 2011. Sempre lo scorso anno, sono stati sequestrati 1 milione e 300 mila fiale delle 3 milioni e mezzo totali. Infine la maggior parte dei farmaci contraffatti arrivano dal Sud-Est asiatico. Sono dati che mostrano la preoccupante crescita di un fenomeno illegale. Anche l'acquisto di farmaci su internet, per ottenere prodotti sperimentali o anche solo per risparmiare, aumenta negli anni. Ma cosa succede agli acquirenti e in che tipo di medicinali rischiano di incappare? «Facciamo subito chiarezza in merito – puntualizza Paolo Pomari, presidente dell’Ordine dei Farmacisti di Verona –. L’acquisto dei farmaci online è assolutamente vietato per legge. Il motivo? Si stima che il 50%
dei farmaci venduti su internet sia contraffatto. Se poi a questo dato associamo che l’85% delle farmacie on-line non chiede la prescrizione e l’8% si accontenta di quella via fax è evidente che questo divieto va senza’altro a tutelare il paziente». Gli acquisti via internet sono preferiti a quelli in farmacia perché consentono una maggiore privacy, comodità e possibilità di evadere l’obbligo della prescrizione medica. Alcuni medicinali – Viagra e Cialis, ad esempio – creano ancora imbarazzo al momento dell’acquisto in farmacia. Con internet questo “inconveniente” non c'è. Un’altra problematica è legata all’acquisto di farmaci funzionali al miglioramento delle prestazioni fisiche e mentali come anabolizzanti, anfetamine, sostanze stupefacenti
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INCHIESTA
Alcuni medicinali, creano ancora imbarazzo al momento dell’acquisto. Con internet questo “inconveniente” è ovviato
e psicotrope. Qui non si tratta più di “vergogna” ma di una vera e propria assunzione di principi attivi che, senza una adeguata prescrizione medica, possono portare a gravi patologie. C’è poi un discorso economico dietro a queste farmacie online, che propongono medicinali a prezzi inferiori, «ma a fronte molto probabilmente di un prodotto contraffatto», sottolinea Pomari, che aggiunge: «Prima di cedere alle lusinghe della farmacia online poniamoci una semplice domanda: vale la pena rischiare quando c’è in ballo la propria salute?». Farmaci contraffatti e rischi per la salute «Un farmaco si definisce contraffatto quando, deliberatamente e fraudolentemente, reca false indicazioni riguardo alle sue origini o identità», fa chiarezza Pomari, che in un suo studio ha illustrato tutti i prodotti che ri-
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entrano sotto questa “etichetta”. I farmaci contraffatti possono includere: prodotti perfetti ma collocati illecitamente sul mercato, prodotti con un principio attivo differente da quanto dichiarato in etichetta, prodotti privi di principio attivo, prodotti con concentrazioni inadeguate oppure con falso imballaggio. Esistono inoltre altre due tipologie di farmaci cosiddetti falsi: quelli perfetti, realizzati con tutti i requisiti necessari da stabilimenti legittimati a fabbricarli ma collocati sul mercato da un soggetto diverso dall’importatore, dal rivenditore o dal distributore esclusivo, e quelli imperfetti, che contengono le giuste componenti ma non nelle quantità esatte e le cui formulazioni farmaceutiche non rispettano i requisiti richiesti in relazione, ad esempio, alla scadenza e alla biosensibilità. A questo elenco vanno poi aggiunti: a) i falsi in apparenza, prodotti che esteriormente appaiono simili a quelli autentici
ma che contengono principi non attivi o altre sostanze che, tuttavia, non sono nocive; b) quei prodotti che esteriormente appaiono simili a quelli autentici ma che non possiedono gli stessi principi attivi e contengono addirittura sostanze nocive. Esistono infine altre tipologie di contraffazione con manipolazione di prodotti autentici, come l’inserimento di medicinali autentici in confezioni contraffatte, attestanti contenuti più elevati di principio attivo, l’inserimento di medicinali autentici, scaduti di validità rispetto alle indicazioni fornite nelle confezioni originali o la commercializzazione di farmaci autentici, sottratti dai depositi di aziende produttrici e di grossisti o rapinati nel corso dei loro trasferimenti e conservati in condizioni inidonee. «I rischi per chi assume questi medicinali sono diversi a seconda della pericolosità che può essere legata al principio attivo – spiega Pomari –. In caso
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L'acquisto in rete: nessuna garanzia Siti internet fantasma e soldi persi Solo per i farmaci cosiddetti di marca, in Svizzera, Germania e Inghilterra esistono farmacie on line certificate dove è possibile acquistare in sicurezza a un prezzo leggermente inferiore rispetto a quello dei nostri negozi Utilizzando internet abbiamo tentato l’acquisto di medicinali per i quali in Italia è prescritta la ricetta medica: Viagra (sidenafil), Prozac (fluoxetina) e Leishmania 30 CH (un farmaco veterinario omeopatico per la prevenzione della Leishmaniosi). I siti dove sono stati fatti gli acquisti hanno sede all’estero, perché in Italia non è possibile vendere farmaci sul web. La sensazione è quella di trovarsi in un ambiente senza controlli, dove diverse farmacie fanno capo a poche organizzazioni che aprono e chiudono siti a piacimento. L’allarme per le possibili contraffazioni pare giustificato soprattutto per i farmaci generici, a bassissimo costo, perché di questi, al momento dell’acquisto, non è quasi mai dichiarata la provenienza. Per i farmaci cosiddetti di marca, in Svizzera, Germania e Inghilterra esistono farmacie on line certificate dove è possibile acquistare in sicurezza a un prezzo che può essere leggermente inferiore rispetto a quello dei nostri negozi. Per la ricetta ci sono questionari on line molto precisi per accertare lo stato di salute di chi acquista il farmaco ed è sottointesa la corresponsabilità del paziente. La merce, in questi casi, arriva regolarmente a destinazione in un paio di settimane. Ecco step by step i nostri acquisti on line.
18 giugno. Siamo sul sito www.alfa.net. Tutto è scritto in perfetto italiano. Una quantità enorme di informazioni: tanta pubblicità ai farmaci ma anche molti avvisi che il sito fa solo da tramite con i venditori, senza commercializzare nulla. Tentiamo l’acquisto di 60 pastiglie di Viagra per il quale in Italia, lo ricordiamo, occorre la prescrizione medica (per le analisi di laboratorio in programma è necessario prelevare le pillole da diversi blisters). Sul sito si avvisa che è disponibile il farmaco originale della Pfizer, che può essere acquistato in una farmacia inglese, insieme alla ricetta, al prezzo di 300,09 euro per 30 pillole (10,30 a pillola); oppure c’è il generico: 118,80 euro per 60 pillole (1,98 a pillola), senza ricetta e senza specificare da dove proviene, con tanto di certificato antitruffa e di certezza del rimborso in caso di mancato recapito. Procediamo con l’acquisto del generico. Le spese di spedizione dichiarate per la posta aerea internazionale non tracciabile sono di 8 euro. Il totale dovrebbe quindi essere 126,8 euro ma al momento del pagamento la cifra diventa inspiegabilmente 149,57 euro. Arriva subito la conferma via mail dell’acquisto ma non viene rilasciato nessun numero identificativo dell’ordine e neppure una ricevuta. 19 giugno. Arriva una mail per spiegare che facilmente la spedizione sarà frazionata per non avere problemi alla Dogana: 4 settimane per l’arrivo della prima spedizione e poi il resto ogni 7-15 giorni. Da notare che si viene implicitamente messi al corrente del fatto che potrebbero esserci problemi nell’introdurre in Italia il farmaco, mentre al momento dell’acquisto nessun avviso c’è in questo senso. 29 giugno. Siamo sul sito inglese www.beta. it per tentare l’acquisto di un farmaco omeopatico veterinario per il quale in Italia occorre la ricetta. Si chiama Leishmania 30 ch. 50 gram-
mi di pastiglie costano 15,93 euro, spese di spedizione 4,01 euro. Totale 19,94 euro. A momento del pagamento i conti tornano al centesimo e arrivano via mail sia la conferma dell’acquisto che la ricevuta. Tempo previsto per la consegna della merce: 2 settimane. 10 luglio. La Dogana ci informa per raccomandata che a Linate è arrivato un pacco da Singapore che contiene medicinali. Prima di rilasciare il pacco ci viene chiesto di fare una descrizione della merce, dell’uso che se ne intende fare e del suo valore. In mancanza di una risposta entro 10 giorni il tutto sarà rispedito al mittente. Sono allegati i moduli per la dichiarazione di responsabilità. Via mail informiamo www.alfa.net e chiediamo come suggeriscono di comportarsi con la Dogana. Nessuna risposta. 16 luglio. La Royal Mail è puntuale come un orologio: dall’Inghilterra arriva il farmaco omeopatico veterinario insieme a tutta la documentazione fiscale. 19 luglio. Inviamo una raccomandata alla Dogana dove dichiariamo il contenuto del pacco trattenuto a Linate. Spieghiamo che stiamo facendo un’inchiesta giornalistica e che è nostra intenzione far analizzare in laboratorio alcuni farmaci acquistati on line per verificarne la qualità. 20 luglio. Chiediamo a www. alfa.it di es-
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di Giorgio Montolli
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sere rimborsati dei 149,67 euro spesi per l’acquisto di Viagra generico mai arrivato a destinazione. Ecco il testo: «Buon giorno, l’acquisto è stato fatto più di 1 mese fa. La merce è stata trattenuta dalla Dogana. Non vogliamo ricevere altra merce da Singapore. Chiediamo la restituzione dei soldi». 20 luglio. In base all’esperienza fatta con i due precedenti acquisti cerchiamo di capirne di più. Questa volta siamo su www. gamma.it dove invitano a non esitare nel porre qualsiasi tipo di domanda. Qui vendono ben 42 tipi di soluzioni contro la disfunzione erettile. Le domande, che non avranno mai una risposta, sono le seguenti: «Prima di fare l’ordine vorremmo sapere: 1) Nel caso di Viagra generico da che Paese arriva la merce? 2) E nel caso di Viagra originale? 3) È possibile ottenere la ricetta medica? 4) Sul vostro sito si legge che è disponibile il servizio di spedizione
Paolo Pomari, presidente dell’Ordine dei Farmacisti di Verona: «I farmaci contraffatti possono includere: prodotti perfetti ma collocati illecitamente sul mercato, prodotti con un principio attivo differente da quanto dichiarato in etichetta, prodotti privi di principio attivo, prodotti con concentrazioni inadeguate oppure con falso imballaggio»
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tracciabile, con l’assicurazione che con esso non ci saranno problemi doganali: potete spiegare meglio? 5) Dove ha sede la vostra organizzazione?». 23 luglio. Cambiamo genere. Andiamo su www.delta.it e tentiamo l’acquisto di Prozac (pare sia di marca), antidepressivo che in Italia si può comperare solo con la ricetta. Ordiniamo 60 pastiglie di Prozac generico da 10 mg. La spesa è di 40,92 euro (0,682 a pillola). La spedizione costa 23,61 euro e avviene tramite corriere internazionale definito “sicuro”. Totale: 64,53 euro. Tempo di consegna: 1 settimana. Paghiamo e subito e arrivano sia la ricevuta fiscale, sia il link che dà la possibilità di verificare in ogni momento in che punto del globo si trova la merce. Così scopriamo che il nostro Prozac partirà dagli Stati Uniti, precisamente dal Wisconsin in un paesino vicino a Milwaukee. 23 luglio. È giallo. I due siti www.alfa.it (quel-
di sottodosaggio del principio attivo si avrà l’inefficacia terapeutica del farmaco e in caso di antibiotico anche diffusione di ceppi microbici resistenti. In caso di scarsa qualità del principio attivo ci sarà una impurezza di sintesi e prodotti di degradazione potenzialmente tossici. In caso di principio attivo diverso da quello dichiarato si andrà in-
lo del Viagra proveniente da Singapore) e www.delta.it (quello del Prozac appena acquistato) si incrociano in modo inspiegabile. Succede che finalmente arriva la promessa di un rimborso rapido, ma non si tratta dei 149,57 euro spesi per il Viagra generico che non ha passato la Dogana, bensì quello relativo all’ordine appena fatto di Prozac. Eppure gli indirizzi mail ai quali scrivevamo erano distinti, così come i due siti erano diversi. Ed è ancora più giallo quando nei giorni a seguire scopriamo che i nostri soldi per l’acquisto del Prozac non erano stati accreditati in qualche banca del Wisconsin, come pensavamo, ma a Shanghai, in Cina. 9 agosto. Insistiamo nel chiedere a www. alfa.it il rimborso dei 149,5 euro. Mentre da una verificawww.delta.it, il sito del Prozac non esiste più: è scomparso nel nulla, come i nostri soldi.
contro ad una inefficacia della terapia e alla tossicità dovuta a intolleranze e interazioni. Ulteriori pericoli vengono dagli eccipienti con tossicità e influenza sulla biodisponibilità del farmaco (velocità e capacità di assorbimento), dall’inadeguato confezionamento con interazione fisica o chimica dell’imballaggio col medicinale con rischio di
tossicità, perdita e contaminazione microbica o chimica del contenuto e dalla errata conservazione che porta ad una diminuzione del principio attivo e inefficacia terapeutica oltre ad una degradazione del principio attivo e degli eccipienti con possibile tossicità». Questi rischi, chiaramente, non si riscontrano nelle farmacie, dove il farmaco
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Ma l'Europa pensa alle farmacie on-line certificate ne di farmaci contraffatti e phishing. Tuttavia, a fronte di una società che chiede questo tipo di servizi, alcuni Stati si stanno dando da fare. L’Unione Europea ha recentemente preso delle forti misure per contrastare l’illegalità nel settore delle farmacie online. Nel 2007, ad esempio, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato una risoluzione sulle “Buone pratiche di distribuzione postale dei medicinali”, un passo importante nella protezione della sicurezza dei pazienti e della qualità dei medicinali distribuiti a distanza. È invece recentissima la risoluzione del Parlamento Europeo che stabilisce che entro 2 anni le farmacie online legali dovranno essere tutte accreditate presso un albo europeo. Le farmacie online legali potranno a quel punto esporre sul proprio sito il logo europeo di riconoscimento, che permetterà subito al consumatore di distinguerle da quelle illegali. La recente risoluzione europea è tesa a colmare un vuoto legislativo a livello comunitario: alcuni Paesi, come Inghilterra, Olanda e Germania ammettono la possibilità d’esercizio online alle farmacie e ne monitorano l’operato attraverso un severo regime di controlli. Le farmacie online inglesi, ad esempio, qualora rispettino alcuni parametri e standard operativi, possono entrare a far parte di un albo nazionale ed esporre un logo di riconoscimento sul proprio sito. E in Italia? Nelle leggi relative a questo settore, le pene pecuniarie sono ancora espresse in lire…
INCHIESTA
In base all’articolo 440 del Codice Penale chiunque corrompe o adultera acque o sostanze destinate all’alimentazione, prima che siano attinte o distribuite per il consumo, rendendole pericolose alla salute pubblica, è punito con la reclusione da tre a dieci anni. La stessa pena si applica a chi contraffà, in modo pericoloso alla salute pubblica, sostanze alimentari destinate al commercio. La pena è aumentata se sono adulterate o contraffatte sostanze medicinali. In base all’articolo 443 chiunque detiene per il commercio, pone in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa non inferiore a lire duecentomila. Infine con l’articolo 445 chiunque, esercitando anche abusivamente il commercio di sostanze medicinali, le somministra in specie, qualità o quantità non corrispondente alle ordinazioni mediche, o diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire duecentomila a due milioni. Un recente studio condotto da IMPACT-Italia, la task force nazionale che vigila sull’importazione illegale di farmaci contraffatti sul nostro territorio, ha stabilito che solo 1 dei 30 siti esaminati ha inviato il farmaco che il sito prometteva di vendere, ossia un farmaco originale. Nel 60% dei casi quello che veniva inviato era invece una copia generica non autorizzata e di dubbia qualità di produzione. Nel 40% dei casi i siti si sono invece rivelati delle farmacie false, dedite ad attività criminose come la distribuzio-
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INCHIESTA
Enrico Ioverno, andrologo: «Le farmacie danno garanzie perché chiedono la ricetta medica: lo stesso devono fare quelle su internet. Se non la pretendono, meglio diffidare»
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viene registrato e viene tracciato in tutti i suoi spostamenti, oltre a essere conservato in condizioni ottimali. E allora, perché le farmacie online diventano sempre più una concorrenza spietata e pericolosa? Non solo condanne «Una questione di imbarazzo». Così l’andrologo Enrico Ioverno spiega il proliferare di farmacie on line. Si fa fatica a parlarne, anche con un medico, e internet rappresenta la soluzione più facile. «Generalmente passano due anni da quando un paziente ha i primi sintomi di una disfunzione erettile alla prima visita specialistica – spiega il medico –. In quel lasso di tempo internet può rappresentare una soluzione. I vantaggi non sono tanto nei costi, perché se il farmaco è legale il prezzo non varia, ma almeno si evita l’imbarazzo di spiegare al farmacista il problema». Il medico spezza quindi una lancia a favore di queste soluzioni on line: «Le farmacie danno
garanzie perché chiedono la ricetta medica: lo stesso devono fare quelle su internet. Se non la pretendono, meglio diffidare». E non perché ci siano effetti collaterali pericolosi: «Non mi è mai capitato di riscontrarne – continua Ioverno – mi è successo piuttosto di imbattermi in pazienti che hanno provato medicinali acquistati on line che però
non hanno funzionato. Spesso infatti queste soluzioni, prodotte solitamente negli Stati Uniti o in Asia, hanno un principio attivo molto più basso del farmaco originale, o addirittura non hanno alcun principio attivo. Quindi, una volta che il paziente riscontra l’inefficacia delle soluzioni fai-da-te, si rivolge a un medico per risolvere il problema».
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LA STORIA DI AGSM AZIENDA GENERALE SERVIZI MUNICIPALIZZATI
la svolta energetica è smart
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«Oggi le energie rinnovabili, la razionalizzazione e il potenziamento degli impianti idroelettrici, la realizzazione di nuovi impianti fotovoltaici, i parchi eolici, il teleriscaldamento e le biomasse costituiscono la ‘nuova frontiera’ per l’approvvigionamento energetico»
Agsm, un futuro tutto ecologico
Paolo Paternoster Presidente del Gruppo Agsm
La lunga storia di Agsm inizia alla fine dell’Ottocento con la produzione di energia idroelettrica e attraversa il Novecento con puntuali risposte ai crescenti bisogni del territorio: illuminazione elettrica delle strade, energia per le case e le prime industrie, distribuzione e rete del gas metano, realizzazione di impianti idroelettrici, termoelettrici, centrali di cogenerazione e teleriscaldamento. Se i primi impianti idroelettrici Agsm segnarono l’inizio dell’era industriale di Verona, oggi le energie rinnovabili, la razionalizzazione e il potenziamento degli impianti idroelettrici, la realizzazione di nuovi impianti fotovoltaici, i parchi eolici, il teleriscaldamento e le biomasse costituiscono la ‘nuova frontiera’ per l’approvvigionamento energetico senza minacciare l’ambiente. Ogni anno Agsm produce oltre 200 milioni di chilowattora di sola energia pulita, evitando all’ambiente l’emissione di oltre150 mila tonnellate di anidride carbonica. Sono particolarmente fiero di ricordare che con i nostri impianti fotovoltaici produciamo 1 milione e 200 mila chilowattora ogni anno, evitando così l’emissione di 600 tonnellate di anidride carbonica nell’ambiente. Agli impianti fotovoltaici si affiancano quelli eolici grazie ai quali produciamo più di 100 milioni di chilowattora ogni anno, evitando così l’emissione di 60 mila tonnellate di anidride carbonica nell’ambiente. L’attenzione verso l’ambiente continua con i nostri impianti idroelettrici grazie ai quali produciamo 175 milioni di chilowattora ogni anno, evitando l’emissione di 86 mila tonnellate di anidride carbonica nell’ambiente. Mi sembra un impegno concreto che testimonia l’attività puntuale della prima multiutility veronese piacevolmente riassunta in questa pubblicazione.
Paolo Paternoster Presidente del Gruppo Agsm
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LA STORIA DI AGSM La svolta energetica è SMART
Sole, acqua, vento, fibra ottica sono gli elementi che nei prossimi anni cambieranno lo stile di vita dei veronesi, che nella loro quotidianità potranno fare delle scelte più rispettose dell’ambiente e tecnologicamente “intelligenti”
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la svolta energetica è smart
Agsm da anni ha scelto di investire nell’innovazione tecnologica mettendo in campo strumenti capaci di progettare un nuovo corso
Essere consapevoli che stiamo vivendo un’epoca di grandi trasformazioni consente di lavorare per un futuro responsabile, anche in ambito energetico. A dare una mano sostanziale non serve solo una coscienza generalizzata, che vede nell’impatto distruttivo sull’ambiente da parte dell’uomo ed i relativi mutamenti climatici una delle questioni centrali per poter pensare al futuro. C’è pure un’innovazione tecnologica che sta mettendo in campo strumenti capaci di progettare un corso nuovo. Così, dagli indirizzi indicati dall’Unione Europea che mirano al trasferimento delle fonti energetiche dalle fonti fossili alle rinnovabili, e dall’adesione del governo italiano a questi obiettivi, anche Verona acquisisce una nuova prospettiva.
Agsm, in particolare, da anni ha scelto di investire in questa direzione, basti pensare al primo impianto fotovoltaico a Zambelli, località nei pressi di Cerro Veronese, che risale al 1984. Dopo quella sperimentazione si è dovuto attendere il nuovo millennio per riconsiderare l’energia del sole, grazie a nuovi finanziamenti nel settore. Nel frattempo, Agsm ha continuato a produrre e vendere energia elettrica grazie alle centrali idroelettriche, nel tempo aggiornate e potenziate, agli impianti di cogenerazione e alla centrale termoelettrica del Mincio. Creare energia dall’acqua è la forma più antica di produzione di energia elettrica ed ha avuto un enorme sviluppo negli anni Venti e Sessanta del Novecento. Il sistema idroelettrico negli
anni Cinquanta viene sfruttato al massimo ed è in quel decennio che si costruiscono centrali alimentate da combustibili fossili, tanto che nel 1952 la produzione di energia elettrica è già raddoppiata rispetto al 1938. Nel 1962, il 70 per cento dell’energia elettrica è prodotta da impianti idroelettrici, ma dal 1962, con il petrolio calato a 9,7 dollari/barile e sotto la pressione dell’Eni, che spinge per un utilizzo massiccio degli idrocarburi, la produzione di energia elettrica da tale fonte subisce un’impennata. Con lo sviluppo industriale infatti, l’idroelettrico non è più bastato ed ora copre circa il 16 per cento del fabbisogno. Essendo minime le possibilità di un ampliamento del settore, salvo qualche piccola area che potrebbe ancora permettere la costruzione di piccole centrali, è nel ripotenziamento di ciò che è già presente che Agsm ha lavorato negli ultimi anni: nel decennio 2000-2010 si sono infatti adeguati gli impianti, dalle centrali di Maso Corona e San Colombano, in Trentino, alla diga del Chievo, che con cinque nuove turbine raggiunge una potenza di 1,55 MW, fino alla centrale di Tombetta, che oggi ha una potenza di 11 MW. LA FORZA INNOVATRICE DEL VENTO Ma è nel 2002 che gli investimenti si orientano su un’altra fonte energetica, tecnologicamente diventata matura e molto affine all’idroelettrica. L’eolico diventa infatti un settore di sviluppo per Agsm che nel 2005 appronta il progetto dell’impianto di Casoni di Romagna, sull’Appennino bolognese, entrato in funzione nel 2009 con 16 aerogeneratori da 800 KW ciascuno e una potenza complessiva di circa 13 MW. Collocato nei comuni di Monterenzio e Castedelrio, è in grado di produrre 20 milioni di Kilowattora
In alto: la diga del Chievo Sopra: la diga di Speccheri, a Raossi di Vallarsa in provincia di Trento A sinistra: l’impianto fotovoltaico dello stadio Bentegodi
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LA STORIA DI AGSM
L’impianto eolico di Casoni di Romagna, sull’Appenino bolognese
Da almeno 20 anni il costo dell’eolico diminuisce grazie a economie di scala, all’ottimizzazione dei processi produttivi e al miglioramento delle prestazioni tecnologiche
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all’anno, che corrispondono al fabbisogno energetico di 8 mila famiglie. Più piccolo per numero di pale eoliche, ed entrato in funzione qualche anno prima, nel 2006, c’è anche il parco eolico di Monte Vitalba, nel comune pisano di Chianni: i 7 aerogeneratori hanno una potenza complessiva di quasi 6 megawatt, che permettono di produrre 14 milioni di kilowattora, pari al consumo di 5 mila famiglie. Attualmente la progettazione di nuovi impianti sta procedendo in diverse aree geografiche: in Toscana sono in fase di cantiere i parchi di Riparbella, in provincia di Pisa, e di Monte Carpinaccio, a Firenze, mentre nel veronese si sta procedendo all’iter autorizzativo per due strutture, una a Rivoli, sul monte Mesa, e l’altra ad Affi, sul monte delle Danzie. La scelta dell’idoneità di un sito prevede uno studio di qualche anno e arrivare all’autorizzazione non è affatto semplice, se si valuta che in media in Italia viene approvato definitivamente solo un progetto su quattro.
Ma nonostante la complessità dell’iter, l’energia eolica è tra tutte le fonti rinnovabili quella più matura, sul piano tecnologico ed economico e, se collocata nel luogo appropriato, riesce a competere come prezzo con le fonti fossili. Inoltre, un parco eolico adeguato spesso ha un costo di produzione inferiore a un impianto idroelettrico nuovo, ulteriore dato a favore della collettività che, a nome di un vantaggio ambientale conseguente, sopperisce con il contributo in bolletta a quel quid mancante tra il valore di mercato dell’energia prodotta e il costo di produzione della stessa. Da almeno 20 anni, comunque, il costo dell’eolico ha continuato a diminuire, grazie ad economie di scala, all’ottimizzazione dei processi produttivi e al miglioramento delle prestazioni tecnologiche. Certo, al momento le fonti rinnovabili, compreso il fotovoltaico, possono diventare competitive grazie ai sistemi di incentivazione, però i benefici ambientali che apportano le rendono senza dubbio migliori rispetto alle fonti convenzionali.
Se si dovessero, in sostanza, integrare gli aspetti economici con gli effetti sull’ambiente, è chiaro quale sia la direzione da non abbandonare. Se in questo momento in Italia è affidato al vento il 4 per cento della produzione energetica, al pari grosso modo con il fotovoltaico, sono bastati sei anni per passare dal 16 al 24 per cento dell’energia prodotta. In termini economici, quel 4 per cento ha apportato all’incirca un aumento della bolletta annua di 3-4 euro, mentre lo stesso risultato produttivo nel fotovoltaico è costato circa 4 volte di più. Un segnale concreto che pone al centro della questione la sostenibilità economica degli incentivi, che progressivamente stanno diminuendo e puntano a far raggiungere in pochi anni la cosiddetta Grid Parity, ovvero il punto in cui l’energia elettrica prodotta con le energie rinnovabili avrà lo stesso prezzo di quella prodotta da fonti tradizionali. Esiste però un punto di debolezza in questa fonte energetica? Un impianto eolico costitui-
la svolta energetica è smart
Quanto impatta sull’ambiente l’eolico? La dismissione dell’impianto comporta in massima parte lo smaltimento di ferro e rame, materiali che possono essere riciclati, mentre l’ex area eolica può essere dedicata a coltivazione o pascolo
sce un impatto sull’ambiente di cui tener conto? Sicuramente, se si analizzano i casi in cui non c’è stata alcuna pianificazione e le pale eoliche sono spuntate come funghi in modo caotico, non si può negare che l’effetto sia esteticamente negativo. La percezione visiva ha certo un ruolo nella valutazione, ma andrebbe considerata anche alla luce dei vantaggi sul territorio, trattandosi di energia che non rilascia emissioni nell’ambiente. E la presenza degli impianti non corrisponde sempre e comunque a un’incidenza sul panorama, tale da escluderli dalla progettazione energetica del Paese. Un ulteriore dato positivo è costituito dalla facilità con cui un parco eolico può essere riqualificato dopo 20-25 anni, o addirittura rimosso. Facendo infatti un’analisi del ciclo di vita e i costi che comporta, un impianto eolico richiede molti meno fondi per essere smontato e sul territorio restano soltanto le fondazioni delle torri da rimuovere. La dismissione dell’impianto comporta in massima parte lo
I pannelli solari posti sul tetto della sede di Agsm
smaltimento di ferro e rame, materiali che possono essere riciclati, mentre l’ex area eolica può essere dedicata a coltivazione o pascolo. Insomma, se il difetto dell’eolico è che non si respira ma si vede, sta alla progettazione e allo studio del sito prescelto ovviare il più possibile all’impronta estetica sul paesaggio. È anche per questa ragione che Agsm, prima di presentare un progetto, si confronta con le amministrazioni comunali e con la popolazione locale. SOLE, QUANTA ENERGIA! Se l’energia idroelettrica è il passato nobile e l’eolica il presente vivo, il fotovoltaico è il futuro certo, perché la sua risorsa è illimitata. La svolta che ha fatto impennare gli investimenti nel settore è dovuta certamente alla politica degli incentivi, che hanno permesso di migliorare i costi di produzione con l’aumento delle richieste, portando ad una discesa dei prezzi di realizzazione mediamente del 20 per cento annuo. Ciò che è accaduto è stato sia frutto di
un’economia di scala che si è strutturata, ma anche l’ingegnerizzazione dei processi produttivi. Per dare un’idea concreta, si pensi che lo sviluppo del fotovoltaico in Italia in sei mesi del 2010, anno in cui gli incentivi erano alti, si è realizzato più della metà di tutto il fotovoltaico realizzato in Italia. Un boom che, se da un lato sottolinea le potenzialità e l’interesse per questo mercato, ha inciso sensibilmente sui costi delle bollette. Una pianificazione più a lungo termine, in sostanza, avrebbe permesso di ottenere gli stessi risultati, magari avanzando dell’1 per cento in quattro anni. D’altronde, ancora oggi il punto debole di questa tecnologia sono i costi di realizzazione: se si volesse attualmente produrre tutta l’energia elettrica necessaria in Italia solo con i pannelli solari, la bolletta rischierebbe più che di raddoppiare. Però la potenzialità di sviluppo è molto alta e con un costo assai limitato in termini di numero di impianti: basti pensare che se si coprisse meno della superficie della provincia di Verona, si produrrebbe più del 100 per cento dell’energia elettrica che serve a tutto il Paese. Ma ciò che conta di questa ipotesi è che non serve tappezzare ogni angolo della città per produrre energia. Il fotovoltaico è infatti una tecnologia che dà una buona resa e, soprattutto, si può fare con ottimi risultati anche dove non ci sia tantissimo sole, come dimostra la Germania. Il futuro, quindi, non può prescindere da questa risorsa, anche se in questo momento è molto difficile fare previsioni di sviluppo a lungo termine. Di certo si sa che la politica degli incentivi, che ha dimensioni sovranazionali, progressivamente cesserà e tra qualche anno si entrerà in un regime di concorrenza reale, una volta raggiunto il punto di maturazione del mercato. Agsm vivrà da protagonista questo processo, anche grazie a un passato significativo, a tutt’oggi messo a frutto. Parliamo del
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la svolta energetica è smart
L’impianto fotovoltaico installato per il Consorzio ZAI
In soli sei mesi Agsm ha installato 13.328 pannelli fotovoltaici sul tetto dello stadio Bentegodi, capaci di produrre 1 megawatt di potenza, che significa energia pulita per quasi 400 famiglie e 550 tonnellate di anidride carbonica non immesse nell’aria ogni anno
Al rifugio alpino Biasi al Bicchiere (3200 metri di altezza) si producono 2 Kilowatt di energia pulita
primo impianto realizzato nel 1984, che venne finanziato dalla Comunità Economica Europea, oltre che dalla Regione Veneto e dall’Enea, e che costò allora cento volte i prezzi attuali. Nella località Zambelli, vicino a Cerro Veronese, fu eretto uno
degli impianti d’avanguardia tra i più grandi d’Europa, rinnovato due anni fa installando 992 pannelli di nuova tecnologia, capaci di produrre una potenza di oltre 170 KW, due volte e mezzo l’impianto originario. Risalgono sempre agli anni Ot-
tanta altri due impianti, questa volta presso dei rifugi alpini: si tratta del Biasi al Bicchiere, vicino Vipiteno, a 3200 metri di altezza, in funzione nel 1988, e del Val Martello, nel Parco nazionale dello Stelvio, attivato a 2610 metri nel 1989. Da allora il salto temporale è stato sensibile, perché si è tornati a parlare concretamente di fotovoltaico solo nel nuovo millennio. È infatti del 2001 l’impianto installato sulla sede Agsm di Lungadige Galtarossa, che produce 24 mila kilowattora, mentre risale al 2009 una delle opere più significative di questi anni, la copertura dello stadio Bentegodi, commissionato dal Comune di Verona. In soli sei mesi, Agsm ha installato 13.328 pannelli fotovoltaici sul tetto dello stadio, capaci di produrre 1 megawatt di potenza, che significa energia pulita per quasi 400 famiglie e 550 tonnellate di anidride carbonica non immesse nell’aria ogni anno. Il progetto ha anche ricevuto nel 2010 il riconoscimento nell’ambito del Premio internazionale per il clima e l’ambiente “Un bo-
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la storia di agsm
AGSM: GLI IMPIANTI DI PRODUZIONE ENERGIA La ricerca di nuove fonti energetiche non è una strada a senso unico. Il passato si integra con il presente, si aggiorna tecnologicamente e continua a contribuire al fabbisogno complessivo. Perché non c’è una sola ricetta, quando si parla di energia. Agsm, che da anni sta investendo nel settore eolico e fotovoltaico, conta anche un importante sistema idroelettrico, una centrale termoelettrica, cinque impianti di cogenerazione e una rete di teleriscaldamento.
damento delle centrali elettriche. L’acqua calda viene quindi convogliata negli impianti di riscaldamento degli edifici.
Produzione termoelettrica
La Centrale termoelettrica del Mincio, inaugurata nel 1966, sorge a Ponti sul Mincio, in provincia di Mantova, all’interno del Parco Naturale. A partire dal 2002 sono stati apportati degli adeguamenti a parte dell’impianto, con l’installazione di un impianto turbogas a ciclo combinato, che ha portato la centrale ad avere una potenza complessiva di 380 MW. L’impianto fornisce energia a Verona, Brescia, Rovereto e Vicenza.
Produzione eolica
La centrale idroelettrica di Tombetta
La centrale eolica a Monte Vitalba, Pisa, in funzione dal 2007 è composta da 7 aerogeneratori e ha una potenza complessiva di 6MW, mentre il parco eolico di Casoni di Romagna, in funzione dal 2009, conta 16 aerogeneratori per una potenza totale di circa 13 MW. Stanno seguendo l’iter autorizzativo un nuovo impianto previsto sul monte Mesa a Rivoli Veronese, da 10 MW, e un altro ad Affi, da 4 MW, sul monte delle Danzie. Sono in fase di realizzazione gli impianti di Riparbella, a Pisa, che prevede 10 pale eoliche per 20 Mw di potenza totale, e quello di Monte Carpinaccio, Firenze, il cui progetto conta 17 turbine per una potenza complessiva di 13 MW.
Produzione idroelettrica
Produzione fotovoltaica
Cogenerazione e teleriscaldamento
Un altro scorcio dell’impianto fotovoltaico sui tetti del Bentegodi
La produzione elettrica da fonte idrica si trova principalmente in territorio trentino. Il torrente Leno confluisce nella diga di Speccheri, inaugurata nel 1958, dotata di una capienza di 10 milioni di metri cubi. La diga alimenta la centrale idroelettrica di Maso Corona ad Ala, Trento. Gli ultimi rifacimenti risalgono al 2008 e oggi la centrale ha una potenza complessiva di 40 MW. Le acque del Leno inoltre si raccolgono anche nel bacino della diga di Toldo, che rifornisce la centrale di San Colombano, la cui potenza installata è di 20 MW, mentre il flusso del rio Ala è utilizzato dalla centrale ad acqua fluente di Valbona, la cui potenza è di 2 MW. Due le centrali idroelettriche a Verona: quella di Tombetta, che sfrutta la portata del canale Camuzzoni e dispone di una potenza di 12 MW, mentre la centrale del Chievo impiega l’acqua dell’Adige ed ha una potenza installata di 1,45 MW. La cogenerazione permette di generare energia elettrica con impianti a turbogas e motori a ciclo otto, alimentati a gas naturale: il calore prodotto dagli impianti va ad alimentare il sistema di teleriscaldamento, grazie all’uso di centraline locali di scambio termico, mentre l’energia elettrica prodotto viene immessa nella rete distributiva di media tensione. Le centrali di Verona si trovano a Forte Procolo, Saval, Golosine, Basso Acquar, Banchette, cui seguono due centrali negli ospedali di Borgo Trento (potenza di 0,8 MW) e Borgo Roma (1,4 MW). Le centrali dei quartieri cittadini hanno una potenza complessiva totale installata di 60 MW e producono contemporaneamente energia elettrica (280 gigawattora/anno) e termica (265 gigawattora/anno). La rete di teleriscaldamento copre in città 140 km e trasporta nelle centraline locali di scambio termico il calore recuperato dal raffred-
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Il primo impianto fotovoltaico di Agsm risale al 1984 e si trova in località Zambelli, a nord di Cerro Veronese. Grazie a un recente ammodernamento, raggiunge una potenza installata di 178 KW. Seguono nel 1988 e 1989 due impianti ad alta quota, quello presso il rifugio Biasi al Bicchiere, vicino Vipiteno, e il successivo al rifugio Val Martello, nel parco nazionale dello Stelvio. Nel 2009 lo stadio Bentegodi è stato rivestito da 13.328 pannelli, con una potenza installata di circa 1 MW. È seguita nel 2010 la realizzazione di un impianto fotovoltaico quattro volte più grande sui tetti di 11 edifici del Consorzio Zai, per una potenza complessiva di poco superiore a 3,7 MW. Nel 2011 sono entrati in funzione gli impianti installati su alcuni capannoni avicoli a Grezzana, per una potenza totale di 960 KW. Nel corso del 2012 sono in realizzazione alcune installazioni sui tetti di scuole cittadine.
la svolta energetica è smart
La novità saranno le centraline di ricarica elettrica delle auto, disponibili in vari punti della città. Il progetto è allo studio e si sta pensando di collocare le colonnine per ricaricare le batterie in punti dove sarà comodo lasciare l’auto
A destra: un esempio di come i veronesi potranno ricaricare l’auto elettrica
sco per Kyoto”, per aver realizzato il più grande impianto fotovoltaico italiano su una struttura sportiva. L’anno seguente è stato contrassegnato dalla realizzazione di un altro impianto per il Consorzio Zai, il più grande sui tetti veronesi e con una potenza complessiva di 3700 KW. Undici i capannoni coinvolti, di cui sei hanno subito il cambiamento della copertura e l’impermeabilizzazione. I 37.300 metri quadrati di tetto sono stati ricoperti da poco più di 48 mila moduli fotovoltaici e una produzione annua di 3.700 MWh, che copre il fabbisogno di 1240 famiglie, con una relativa riduzione di emissione di CO2 pari a 1850 tonnellate. Il 2011 ha registrato un nuovo progetto, entrato in funzione a fine anno, che ha coinvolto alcuni capannoni avicoli a Grezzana, per i quali è stato pure necessario sostituire le coperture in eternit, e dotati di una potenza complessiva di 960 KW. Il 2012 invece è contrassegnato da ulteriori impianti minori sui tetti di alcune scuole cittadine.
saranno le centraline di ricarica elettrica delle auto, disponibili in vari punti della città. Il progetto è allo studio e si sta pensando di collocare le colonnine per ricaricare le batterie in punti dove sarà comodo lasciare l’auto, soprattutto in centro città, dove l’uso del mezzo elettrico sarà più utile. A chi obietta invece che l’avanzare della crisi economica metterà sempre più un freno alle spese extra e quindi anche agli impianti, la risposta torna ad essere positiva per questo settore. Se è vero infatti che oggi la richiesta di energia è in calo, complice la recessione, comincia pure a registrarsi l’effetto di una cultura più sensibile al risparmio energetico, sia nelle famiglie che nelle imprese che, da qualche anno a questa parte, stanno sostituendo le fonti di spreco. Il fabbisogno è pure mutato: se pochi anni fa il rife-
rimento internazionale come giorno di massimo consumo era il terzo mercoledì di dicembre, ora con il diffondersi dei condizionatori il consumo massimo è diventato estivo. L’ingresso del fotovoltaico, da tre anni a questa parte, ha anche cambiato il costo dell’energia durante la giornata: prima del solare, a fronte di un’alta richiesta, aveva un valore massimo nelle ore centrali, durante le quali il consumo da parte degli impianti di condizionamento subisce un incremento. Ora, è evidente che proprio in quelle ore le celle fotovoltaiche producono di più e così il costo dell’energia in questi orari viene calmierato. Non è quindi improbabile che a breve ci si troverà a cambiare i piani tariffari e ad utilizzare gli elettrodomestici maggiormente di giorno, quando la produzione fotovoltaica è disponibile al massimo.
UNA PROSPETTIVA CHE CONVIENE Come sarà la Verona di domani vista dall’alto? Dalla Torre dei Lamberti si vedrà un proliferare di pannelli solari? La risposta non è scontata: anche perché finora i centri storici faticano ad entrare nel pieno di questa corsa. Pur essendoci infatti sul mercato proposte esteticamente compatibili con gli antichi coppi, è il loro costo che allontana. Ma non è detto che nel tempo non si trovi una soluzione plausibile. Quello che è certo – e che già si comincia a vedere – è che l’unione di iniziative private e di interventi pubblici apporterà una continua crescita del solare nella periferia cittadina e laddove non ci siano vincoli di tipo storico-artistico. Un altro elemento che si farà molto probabilmente strada – ed è il caso di dirlo – saranno i mezzi di trasporto elettrici. La novità
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la storia di agsm
AGSM: TUTTI I DATI SUL FOTOVOLTAICO Un po’ di numeri possono aiutare a capire come potrà cambiare la Verona solare. Guardando i dati relativi al maggio 2011 (come si evince dai due grafici), escludendo il centro storico si vede che a Verona ci sono in totale 36.997 tetti, pari a 9.451.820 metri quadri. Fatta una valutazione delle diverse fasce di potenza realizzabili su ogni tipologia di tetto (superiore ai 10 mila metri quadri, tra i 5000 e i 10 mila, tra i 1000 e i 5000 e tra zero e 1000), si otterrebbe una potenza totale di picco pari a 473 MW, stimando, al ribasso, che il pannello abbia un rendimento del 10 per cento, che la superficie utile sia solo il 50 per cento del totale e che nessun impianto faccia ombra a quello vicino. Con questi numeri, la stima che si era fatta per il 2009 prevedeva una produzione installata di 19 MW, che a maggio 2011 ha però raggiunto già i 25 MW. Il calcolo quindi non ha lo scopo di illustrare una realtà registrata, ma consente di capire che c’è un ampio margine di crescita per il solare in città e che il problema di come accumulare l’energia prodotta in ore di picco, da utilizzare quando il sole non c’è, diventerà sostanziale. La stima infatti dimostra che a fronte di un picco di potenza di 473 MW, la quantità assorbita si ferma a 250 MW. L’anno scorso gli impianti allacciati arrivavano a 450, pari a 18,4 MW di potenza di picco stimata. Per una valutazione prudenziale e tenendo conto che non sempre i pannelli solari sono in condizioni ottimali di produzione, mantenendo come picco 17 MW, si è raggiunto l’anno scorso il 7 per cento della totalità di potenza di picco (250 MW) prodotta da tutti gli impianti produttivi
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Il fotovoltaico nei comuni di Verona e Grezzana Richieste di allacciamento 2010: 400 2011: 80 Impianti attualmente allacciati 450 - 18,4 MWp Fotovoltaico/Totalità Potenza picco: 17 MW/250 MW (7%) Energia: 18,4 GWh/1360 GWh (1,34%)
STIMA POTENZIALITà PV SUI TETTI DEL COMUNE DI VERONA
1) Si è assunto che la parte utile di un tetto sia il 50% della superficie, e che il pannello abbia rendimento 10% 2) Esclusi dal calcolo delle superfici i tetti del centro storico
di Verona (e non solo dal fotovoltaico). In termini di energia, fissata in 1300 gigawatt/ora la quantità assorbita dalla città, il solare mediamente produce l’1,34 per cento del fabbisogno, pari a 18,4 gigawatt/ora.
Ma i dati stanno crescendo e il fotovoltaico ha la possibilità di arrivare al 20 per cento di energia elettrica prodotta a Verona, qualora si riuscisse a raggiungere la massima copertura dei tetti.
Luglio 2012
la svolta energetica è smart
E LE BIOMASSE? Un discorso a parte riguarda le biomasse e gli investimenti di Agsm nel settore. L’energia più interessante che si può produrre con questa modalità è di tipo termico, perché la conversione di ciò che viene bruciato in energia elettrica è poco redditizia e i rendimenti variano dal 20 al 50% al massimo. L’utilità della combustione delle biomasse diventa quindi interessante se per produrre calore si utilizzano materiali di recupero. Agsm fin da subito è stata contraria all’impiego di fonti alimentari per ottenere energia, sia perché la resa non è significativa, sia – e soprattutto – perché non è eticamente accettabile mettere in concorrenza il cibo con l’energia elettrica, che inevitabilmente comporta una corsa speculativa dei prezzi. Un esempio viene dal mais: la proposta di bruciarlo insieme ai liquami, anche se sul piano energetico ha performance migliori, richiederebbe 50 ettari di mais coltivato per produrre la stessa energia che si ricava da 0,01 ettari occupati dall’eolico e 2 ettari di fotovoltaico. Cosa convenga fare, è facile comprenderlo. Quali materiali allora vale la pena bruciare per sviluppare calore? Ancora non si sono progetti di sviluppo. In attesa di un’ipotesi convincente, lo sguardo continua ad essere rivolto al sole. D’altronde, è anche vero che, nella storia umana, una tecnologia batte tutte le altre e diventa dominante.
DALLE TLC UNA VERONA SMART Parliamo di futuro, ma in realtà il processo di cambiamento è già in atto. Pensiamo ai nostri semafori e alla loro gestione differenziata in base al flusso di traffico e alle condizioni meteo: oggi bastano pochi dati, raccolti da sensori posti sotto l’asfalto da Agsm, per far durare di più
o di meno un rosso e sbrogliare le matasse degli ingorghi. Certo, non sempre è la formula magica, ma grazie alla gestione di 58 regolatori semaforici, le possibilità di rendere oggi più fluida la viabilità sono maggiori e più tempestive. Non solo di automobili si parla se si pensa al movimento delle informazioni: se infatti andia-
mo incontro a una città in cui le energie rinnovabili avranno sempre più peso, sarà necessario creare un percorso potenziato perché l’energia prodotta da tanti piccoli impianti fotovoltaici sia convogliata e resa disponibile all’utilizzo. E la necessità di avere una nuova rete energetica coinvolge anche le telecomunicazioni (tlc), per mi-
Bastano pochi dati raccolti dai sensori posti sotto l’asfalto per decidere la durata del rosso e risolvere in questo modo i problemi del traffico
Sono 58 i semafori intelligenti che regolano il traffico cittadino
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la storia di agsm
Sfruttando il wi-fi, montato sui pali dell’illuminazione pubblica e collegato in rete alla fibra ottica, si potrà dialogare con i sensori delle nostre abitazioni, ad esempio per dare servizi a persone disabili, controllare i dispositivi energetici domestici, verificare dove è più facile trovare parcheggio ancor prima di partire da casa
Il particolare di una colonnina di ricarica per auto elettriche Sotto: esempio di fibra ottica. La rete di Verona si estende per 300 chilometri e nei prossimi anni interesserà diversi comuni della provincia
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gliorare in affidabilità, sicurezza ed efficienza il sistema energetico. Parliamo di reti intelligenti, le cosiddette smart grid, che avranno il compito di connettere gli elementi collegati alle infrastrutture elettriche ai sistemi di comunicazione, in modo da generare un sistema flessibile e automatizzato di informazioni che ottimizzino la fornitura elettrica. “Una necessità evidente se pensiamo ai dati che provengono dai contatori o dalla videosorveglianza, i quali richiedono, per essere raccolti, un crescente bisogno di banda a disposizione. Il controllo del consumo di energia, la gestione dell’operatività della rete elettrica, per una riduzione dei costi per gli utenti e un’ottimizzazione dei servizi in affidabilità, efficienza e sicurezza, vedrà al centro dello sviluppo proprio le tlc. Le reti, che già disciplinano la nostra vita, saranno il fulcro di ogni dinamica, capaci di interconnettere sistemi di produzione e centraline di rilevazione dati, da restituire poi ai cittadini in forma di informazioni e servizi. Così anche sfruttando il wi-fi, montato sui pali dell’illuminazione pubblica e collegato in rete alla fibra ottica, si potrà dialogare con i sensori delle nostre abitazioni, ad esempio per dare servizi a persone disabili, controllare i dispositivi energetici domestici, trasmettere dove è più facile trovare parcheggio ancor prima di partire da casa. Pensiamo a quale vantaggio ci sarà quando non solo i contatori del gas saranno tutti telegestiti, come prevede la nuova normativa, ma anche quelli dell’acqua, così da poter avere una lettura più prossima al reale consumo, ed evitare così di ricorrere agli anticipi o ai conguagli. Questo futuro, che già comincia a realizzarsi, è proprio dell’identità storica di Agsm, che da più di cent’anni realizza e gestisce reti per il trasporto e la distribuzione di servizi energetici. È con il boom dell’inizio 2000 dei servizi di tlc che si è sviluppata in città una rete in fibra ottica –
che oggi corre lungo 300 chilometri –, beneficiando del fatto che l’azienda aveva precedentemente realizzato nel sottosuolo di Verona le infrastrutture necessarie. Una delle principali iniziative è stata la costituzione della rete per i servizi territoriali, quindi a disposizione del Comune di Verona per erogare servizi alla collettività e di altri enti pubblici presenti in città, come ad esempio l’università, l’azienda ospedaliera, le Ulss. La videosorveglianza per la sicurezza e per la viabilità, il controllo dei semafori, i pannelli a messaggio variabile, gli indirizzatori di parcheggi, le colonnine Sos, le telecamere della Ztl, i sistemi di pagamento on-line, il progetto Guglielmo (dal nome dell’Internet Service Provider) che con Agsm mette a disposizione la connessione gratuita a internet in modalità wi-fi, sono esempi chiari di come si possa incidere sulla vita cittadina grazie alle telecomunicazioni. Quello che accadrà nei prossimi anni interesserà quindi l’utilizzo delle informazioni raccolte in data base per erogare nuovi servizi: lo stesso bike-sharing potrà estendersi ulteriormente, come essere affiancato dalle colonnine per la ricarica delle auto elettriche, cui abbinare un sistema di prenotazione del mezzo elettrico per muoversi in centro. Non è fantasia a briglia sciolta, ma una possibilità che può realizzarsi in poco tempo, perché Agsm può utilizzare una rete a banda larga ben distribuita. Insomma, il problema non è raccogliere dati, ma ciò che si intende fare con essi per migliorare il futuro. E questa prospettiva non riguarda solo i confini cittadini, ma si sta lavorando per aprirsi alla provincia: la fibra ottica infatti è in fase di estensione a Grezzana, comune in cui già ci sono infrastrutture elettriche di Agsm, per proseguire nei prossimi cinque anni anche verso San Martino Buon Albergo, San Giovanni Lupatoto, Villafranca,
la svolta energetica è smart
Con il cellulare sarà possibile utilizzare i servizi per la viabilità e programmare i nostri spostamenti
Bussolengo, Peschiera, San Bonifacio e Legnago. Un’area molto vasta e urbanizzata, in cui però si ovvierà alla carenza di reti elettriche Agsm anche utilizzando le infrastrutture fognarie, grazie a nuove tecnologie di posa dei cavi che eviteranno di fare degli scavi ex novo. Gli strumenti per avere tra 10 anni una città smart ci sono, quindi. Cambieremo anche noi cittadini, magari senza rendercene conto, come è accaduto dal 2000 ad oggi. Vorremo poter utilizzare sempre di più i servizi per la viabilità e per l’accesso alle informazioni con il nostro cellulare, programmare i nostri spostamenti anche – magari – prenotando un’auto elettrica, passeggiare in centro storico, magari informandoci sulle peculiarità del nostro patrimonio consultando la rete wifi. Cose che non sono impensabili, ma che si stanno avverando: basti pensare che tutte le sedi della Fondazione Arena sono collegate in fibra ottica, così pure il teatro Ristori, Palazzo Forti, la Gran Guardia e alcuni musei della città. Staremo a vedere se si saprà cogliere questa opportunità, che già c’è, offrendo nuovi servizi culturali. Intanto c’è la rete ad aprirci le possibilità. Il digital divide diminuirà e i cambiamenti
saranno più evidenti rispetto a quello che è accaduto nei dieci anni precedenti. E Verona scoprirà una nuova, “intelligente” bellezza. Fabiana Bussola, l'autrice del testo, si è laureata in Lettere – indirizzo Storia e critica delle arti visive – a Ca’ Foscari, Venezia. Dal 1996 è giornalista pubblicista, collabora con varie testate locali e nazionali, cura le pubbliche relazioni come responsabile dell’ufficio stampa di importarti aziende nel settore vitivinicolo. Ringraziamenti Grazie a Danilo Castellarin, capo ufficio stampa di Agsm, per la collaborazione nel recupero delle fonti. Grazie a Serena Marchi per la ricerca iconografica. Grazie a Marco Burato, per aver ispirato l’iniziativa.
Realizzazione Studio Editoriale Giorgio Montolli (Verona). Speciale pubblicitario.
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Dicembre 2012
DIARIO ACIDO di Gianni Falcone
Reportage
ISRAELE/PALESTINA
MISSIONE DI PACE Dove la guerra sembra eterna
Flavio Lotti, coordinatore del Tavolo per la Pace: «Dobbiamo stare in ascolto, capire cosa noi possiamo e dobbiamo fare per mettere un giorno la parola fine al conflitto tra israeliani e palestinesi»
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Dal 27 ottobre al 3 novembre si è svolta la Missione di pace in Israele e Palestina promossa dal Coordinamento nazionale degli Enti locali per la pace e i diritti umani, con il patrocinio del ministero della Cooperazione internazionale e l’integrazione, in collaborazione con la Rete europea degli Enti locali per la pace in Medio Oriente, la Regione dell’Umbria e la Tavola della pace. Alla missione hanno partecipato 212 persone: studenti, giovani, insegnanti, amministratori locali, sportivi, giornalisti, esponenti di gruppi e associazioni e semplici cittadini provenienti da 90 città italiane, tra cui Verona.
di Donatella Miotto Finalmente, dopo ore di volo e ritardi, il viaggio inizia davvero, la sera di sabato 27 ottobre, con le parole di Flavio Lotti, coordinatore nazionale del Tavolo per la Pace: «Se vogliamo uscire dalla grande crisi che stiamo vivendo, dobbiamo riaprire gli occhi sul mondo. Quello che sta accadendo ci richiama alle nostre responsabilità di italiani e di europei. Dobbiamo stare in ascolto, capire cosa noi possiamo e dobbiamo fare per mettere un giorno la parola fine a questo conflitto». Ed oggi finalmente siamo scesi in campo: 212 pellegrini della pace, con un’età che varia dai 16 agli 82 anni, esploreranno questa terra santa e martoriata. Dopo aver srotolato gli striscioni per formare un’enorme bandiera arcobaleno davanti alla basilica della Natività, siamo accolti da Victor
Batarseh, Sindaco cristiano di Betlemme, che ci racconta come già l’essere qui aiuti la città: «L’unica attività economica che si è ripresa, permettendoci di ridurre la disoccupazione dal 30 al 18%, è il turismo». Intanto, però, l’occupazione israeliana e la costruzione del muro di separazione hanno eroso la terra su cui si espandeva la città, che da 31.000 km2 si è ridotta a soli 6.000 km2. «La prima fonte d’occupazione della popolazione era l’agricoltura», spiega il sindaco, «ma oggi i nostri ulivi stanno al di là del muro e i contadini ora non possono nemmeno fare il raccolto». Situazione che Betlemme condivide con altri 150 villaggi palestinesi, dove le abitazioni sono state separate dai campi. Questo mentre attualmente solo l’8% dei cittadini di Betlemme ha il permesso di andare a lavorare a Gerusalemme. Erigere un muro fra zone israeliane e palestinesi non ha solo precluso il diritto alla terra e al lavo-
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Reportage ro, ma anche il diritto alla salute: «Per le cure specialistiche dobbiamo andare a Gerusalemme» continua Batarseh «ma lo possiamo fare solo con un permesso speciale. E anche in caso di urgenza le nostre ambulanze non possono passare: al confine il malato va spostato dalla nostra ambulanza a quella israeliana». Per ragioni di sicurezza, ovviamente. Ma a volte il passaggio può essere fatale. Che senso ha quindi questo muro? Iniziato nel 2002, come barriera protettiva in risposta alla campagna di attentati suicidi, avrebbe dovuto seguire la “linea verde” di confine con la Cisgiordania. Avrebbe forse potuto essere una chiara, seppur tetra, linea di demarcazione utile a realizzare quella soluzione di due popoli, due stati prospettata dall’ONU. Ma le cose sono andate diversamente. Se la linea verde è lunga 300 km, attualmente sono stati costruiti già 450 km di muro e, quando sarà terminato, ne misurerà ben 700. Questo perché il muro circonda i nuovi insediamenti israeliani e li include, così come fa proprie le principali risorse idriche, riuscendo a strappare ben il 10% di territorio ai palestinesi. Quel che rimane ha poco a che vedere con la conformazione di uno Stato. «Se, per capire Gaza, la parola chiave è “blocco”» racconta Ray Dolphin, responsabile dell’Ufficio dell’ONU di coordinamento degli Affari Umanitari nei Territori Palestinesi Occupati «per la Cisgiordania la parola è: “frammentazione”. Non solo questa terra è priva di ogni collegamento con la striscia di Gaza, ma al suo interno la maggior parte del territorio è tuttora in quell’area che, secondo gli accordi di Oslo, avrebbe dovuto essere solo fino al 1999 sotto il controllo israeliano. Se, dopo 13 anni, restano ben poche speranze sull’effettiva realizzazione di quel programma, ancor più difficile è pensare che sia davvero possibile eliminare un giorno gli insediamenti militari e le riserve naturali che impediscono ogni attività agricola e che lasciano in mano israeliana quasi tutta la fascia est del paese. E ancor meno realistica è l’idea di eliminare un muro di più di 450
km. O le 150 colonie che punteggiano illegalmente, per l’Onu e per il diritto internazionale tutta la Cisgiordania, insediamenti abitati ormai da 500 mila coloni». Quel che resta da questa lunga e continua opera di erosione è una nazione sparsa a macchia di leopardo, un arcipelago di villaggi e città accerchiate. Nei prossimi giorni saremo impegnati a capire qualcosa di più su questa complessa realtà. Cercheremo di trovare segnali di speranza. E cercheremo anche di portarli. In viaggio per Sderot La mattina del 29 ottobre mi arriva un sms: «Sei disponibile a cambiare gruppo per andare a Sderot?». Certo. Ho proprio voglia di vedere coi miei occhi un posto di cui sì è parlato tanto in tutto il mondo. Di capire come si può vivere ai confini con la Striscia di Gaza, sotto la minaccia di un attacco missilistico che perdura da anni, con poche sospensioni. Di capire anche le ragioni degli israeliani, di sentire sulla mia pelle il loro bisogno di difendersi. Devo ammettere però che non ho ben chiara la situazione di questi
giorni: la capisco quando Flavio Lotti, il coordinatore di questo viaggio, ci annuncia di aver ricevuto una telefonata che chiedeva se siamo proprio sicuri di voler andare: nella mattinata sono caduti ben 20 missili, e 3 hanno colpito la città. «Stiamo valutando cosa fare», ci dice. E poco più tardi: «Si parte: una missione di pace non può limitarsi a visitare i posti tranquilli». Eccoci in pullman. Flavio, da vero capitano responsabile della sua nave, ha deciso di cambiare programma e di accompagnarci. Anche per avvisarci ancor più chiaramente: altri gruppi internazionali hanno rinunciato a questa tappa, chi decide di andare dev’essere ben consapevole di ciò a cui va incontro. In caso di allarme, dobbiamo essere pronti a correre per rifugiarci nel primo bunker. «Chi non se la sente è meglio lo dica subito. Sia ben chiaro: ognuno è responsabile di se stesso». Me la sento? Potrei accettare che qualcuno della mia famiglia si cacci in una situazione simile? No, certo che no. Allora forse è meglio lasciar perdere, tanto non salverei nessuno. Mentre ci penso
il pullman parte. Mi faccio coraggio pensando che in fondo anche uscire tutti i giorni nel traffico di Verona non è privo di rischi. Due ore dopo eccoci a Sderot, davanti alla casa di Nomika Zion, la nostra straordinaria “guida” della città. Lei e Flavio discutono sul programma delle prossime ore: noi vorremmo andare ai confini con la Striscia. Nomika ci dice che non è il caso, che a lei e agli altri abitanti di Sderot non verrebbe mai in mente di andarci, tanto meno in un giorno come questo. «È per questo che ci siamo noi», ribatte Flavio sorridendo. Il mio mal di testa aumenta. Tour della città: la prima fermata è davanti a una delle tante casette monofamiliari. Nomika ci fa notare un cubo costruito a lato di ogni casa, troppo piccolo per essere un garage. Nel 2008 è stato avviato un programma che prevede che ogni abitazione disponga di un bunker, costruito con i finanziamenti del governo. Soldi sottratti al welfare e ai servizi educativi, ovviamente. Così Sderot è diventata, paradossalmente, la città più sicura del mondo. Ma il Sindaco proprio in questi giorni è ricorso a uno sciopero
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Reportage
Il muro avrebbe dovuto seguire il confine con la Cisgiordania ma è molto più lungo perchè include i nuovi insediamenti israeliani e le principali risorse del territorio
della fame per ottenere maggiori finanziamenti statali, in modo da evitare il collasso dei servizi di protezione sociale; servizi che non sono un lusso, in una città multiculturale, dove è continuo il flusso di immigrati ebrei provenienti da ogni parte del mondo. Seconda tappa: un parco giochi. «Da quando è iniziato il lancio dei missili, nel 2001, i bambini non potevano più uscire all’aperto a giocare» ci spiega Nomika. Grazie a una donazione il Comune, nel 2007, ha potuto adeguare il parco giochi alla situazione: «Vedete quegli enormi bruchi di cemento? Quando suona l’allarme i bambini sanno che possono rifugiarsi lì». Oltre ai bruchi-bunker, le pensiline-bunker, per aspettare l’autobus in sicurezza. Il teatro comunale bunker e anche la scuola-bunker: sicura, certo, ma tristemente impressionante con quelle finestre così piccole. Ed eccoci arrivati davanti alla Striscia di Gaza. Eccola laggiù, la prigione a cielo aperto che concentra oltre un milione e mezzo di abitanti in 350 Km quadrati (la provincia di Verona, con novecentomila abitanti, ha un’ area 9 volte superiore). Fra noi e quell’orizzonte densamente costruito, la buffer zone, un’ampia fascia invalicabile di terreno incolto. I Palestinesi che hanno provato a rientrarci dopo l’esproprio, magari solo per rivedere la
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propria terra, non sono tornati vivi. Ma, per Israele, si tratta di una fascia “di sicurezza”. Come si vive in una città così sicuramente insicura, Nomika ce lo spiega nel piccolo salotto di casa sua, che riesce ad accoglierci tutti (certo il bunker di casa non è stato progettato per 40 persone, ma è meglio non pensarci). Come si vive in una città così sicuramente insicura, Nomika Zion, la nostra straordinaria guida israeliana nella città di Sderot, ce lo spiega nel piccolo salotto di casa sua, che riesce ad accoglierci tutti (certo il bunker di casa non è stato progettato per 40 persone, ma è meglio non pensarci) al ritorno dalla visita lampo al confine con la Striscia di Gaza. «È più facile resistere a una guerra che dura alcune settimane, piuttosto che a uno stillicidio imprevedibile che dura da più di un decennio», ci spiega con riferimento al continuo arrivo di missili. «Il sistema immunitario si indebolisce, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Finché scopri che non ce la fai più, e te ne vai». Nel 2009 la popolazione di Sderot era diminuita del 50%. Poi altri immigrati sono arrivati, chissà perché, in questa trincea, dove nonostante tutto le case mantegono un costo più alto che altrove. Depressione e stati d’ansia sono estremamente comuni, anche nei bambini. «Si parla di sindro-
me post-traumatica» continua Nomika, «ma qui non c’è mai un post. Come ti puoi sentire normale quando sali in auto la mattina per portare i bambini a scuola, e sai che se scatta l’allarme hai 10 o 15 secondi per metterli in salvo in un rifugio? Se devi pensare quale figlio proteggere per primo, sapendo che nel frattempo metti a rischio l’altro? Se hai paura anche a fare una doccia, perché sai che in quei dieci minuti potrebbe suonare l’allarme?». Molta gente si è abituata a dormire vestita. E in molte famiglie da anni si preferisce dormire tutti insieme nel bunker. E pensare che prima dell’87 la gente qui era in ottimi rapporti con chi viveva a Gaza: «Ci si conosceva, poteva capitare di andare al mare insieme, a fare shopping». Poi nel 1987 c’è stata la prima intifada, durata sei anni. Nel 2000 la seconda, con l’ondata di attentati suicidi, i primi missili. Nel 2008 Israele ha lanciato l’operazione “Piombo fuso” e, in risposta, a Sderot sono arrivati anche 60 missili al giorno. «Molti israeliani nel 2008 venivano qui da tutto il Paese portando fiori e musica, come si trattasse di un festival», continua Nomika. «Molti si radunavano sulla collina per ammirare lo spettacolo dei bombardamenti e urlare eccitati. Eppure la Bibbia ci ammonisce: “Non gioire quando il tuo nemico cade, e quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi : 24, 17). Intanto però tutti i giornalisti sostenevano quell’operazione di guerra. Sembrava impossibile aprire, se non un dibattito, almeno una fessura in quel fronte che non ammetteva contraddizioni: questa non è democrazia». Nomika decide allora di far sentire la sua voce: «Not in my name, not for my security», afferma in un articolo che farà il giro del mondo, tradotto in 20 lingue. Lo scrive consapevole che avrebbe pagato la sua scelta con l’isolamento sociale, che sarebbe stata considerata una traditrice del suo popolo. Ma c’è stato anche qualcuno che ha letto in quelle parole sentimenti che non osava esprimere. «Non ero sola, quindi, ero l’espressio-
ne di un dissenso diffuso che era stato messo a tacere. Abbiamo iniziato a incontrarci, a parlare di ciò che sentivamo, a diffondere un’altra voce: com’è possibile che tanta violenza non provochi una reazione altrettanto forte? E come si può essere felici per la distruzione di altre persone?». Questo accade quando si elimina ogni possibilità d’incontro, quando l’altro diventa un entità invisibile, come sono oggi i Palestinesi per la maggior parte degli Israeliani: persone senza un nome, un volto, un’ identità. La mission di Other Voice è quella di rendere visibile l’invisibile. Per ridare dignità a se stessi, prima ancora che all’altro. «Questo conflitto infinito ci ha fatto perdere la nostra capacità di empatia, e quindi una parte della nostra umanità», afferma Nomika. «Durante l’ultimo Giorno della Memoria abbiamo proposto una riflessione: se smetti di considerare l’altro un essere umano, tu stesso finisci con l’essere inumano. Quest’idea è strettamente collegata con quanto dovremmo aver imparato dalla Shoah: chi è stato perseguitato non può rendere vittima qualcun altro. Invece spesso chi si sente oppresso è portato ad identificare la causa della propria sofferenza in un nemico. È più difficile capire che dall’altra parte c’è invece un‘altra vittima dello stesso conflitto». Parlare di pace sembra ormai non aver più un reale significato, da queste parti. Ma Other Voice non cessa di sperare nella possibilità di meno utopici “accordi a lungo termine”, che vanno costruiti attraverso il dialogo, «anche con Hamas», come spiega Nomika, che alla fine della giornata ci ringrazia per essere stati con lei: «Siamo così isolati qui, così soli. E la politica aggressiva del nostro governo ci porta a essere ancora più pessimisti per il futuro. L’unica speranza è legata ad una pressione esterna, dagli Stati Uniti, dall’Europa, sul nostro governo. Potete fare tanto per noi». Un appello che ci sentiremo ripetere tante volte in questa settimana, soprattutto dai Palestinesi: non lasciateci soli, non dimenticateci, parlate di noi quando tornate in Italia, grazie. Dicembre 2012
Reportage
Un pomeriggio a Sderot: «Vittime dello stesso conflitto»
Nella casa di Nomika Zion a Sderot
La mattina del 29 ottobre mi arriva un sms: «Sei disponibile a cambiare gruppo per andare a Sderot?». Certo. Ho proprio voglia di vedere coi miei occhi un posto di cui sì è parlato tanto in tutto il mondo. Di capire come si può vivere ai confini con la Striscia di Gaza, sotto la minaccia di un attacco missilistico che perdura da anni, con poche sospensioni. Di capire anche le ragioni degli israeliani, di sentire sulla mia pelle il loro bisogno di difendersi. Devo ammettere però che non ho ben chiara la situazione di questi giorni: la capisco quando Flavio Lotti, il coordinatore di questo viaggio, ci annuncia di aver ricevuto una telefonata che chiedeva se siamo proprio sicuri di voler andare: nella mattinata sono caduti ben 20 missili, e 3 hanno colpito la città. «Stiamo valutando cosa fare», ci dice. E poco più tardi: «Si parte: una missione di pace non può limitarsi a visitare i posti tranquilli». Eccoci in pullman. Flavio, da vero capitano responsabile della sua nave, ha deciso di cambiare programma e di accompagnarci. Anche per avvisarci ancor più chiaramente: altri gruppi internazionali hanno rinunciato a questa tappa, chi decide di andare dev’essere ben consapevole
di ciò a cui va incontro. In caso di allarme, dobbiamo essere pronti a correre per rifugiarci nel primo bunker. «Chi non se la sente è meglio lo dica subito. Sia ben chiaro: ognuno è responsabile di se stesso». Me la sento? Potrei accettare che qualcuno della mia famiglia si cacci in una situazione simile? No, certo che no. Allora forse è meglio lasciar perdere, tanto non salverei nessuno. Mentre ci penso il pullman parte. Mi faccio coraggio pensando che in fondo anche uscire tutti i giorni nel traffico di Verona non è privo di rischi. Due ore dopo eccoci a Sderot, davanti alla casa di Nomika Zion, la nostra straordinaria “guida” della città. Lei e Flavio discutono sul programma delle prossime ore: noi (o meglio, lui, e gli altri, più coraggiosi di me) vorremmo andare ai confini con la Striscia. Nomika ci dice che non è il caso, che a lei e agli altri abitanti di Sderot non verrebbe mai in mente di andarci, tanto meno in un giorno come questo. «È per questo che ci siamo noi», ribatte Flavio sorridendo. Il mio mal di testa aumenta. Tour della città: la prima fer-
mata è davanti a una delle tante casette monofamiliari. Nomika ci fa notare un cubo costruito a lato di ogni casa, troppo piccolo per essere un garage. Nel 2008 è stato avviato un programma che prevede che ogni abitazione disponga di un bunker, costruito con i finanziamenti del governo. Soldi sottratti al welfare e ai servizi educativi, ovviamente. Così Sderot è diventata, paradossalmente, la città più sicura del mondo. Ma il Sindaco proprio in questi giorni è ricorso a uno sciopero della fame per ottenere maggiori finanziamenti statali, in modo da evitare il collasso dei servizi di protezione sociale; servizi che non sono un lusso, in una città multiculturale, dove è continuo il flusso di immigrati ebrei provenienti da ogni parte del mondo. Seconda tappa: un parco giochi. «Da quando è iniziato il lancio dei missili, nel 2001, i bambini non potevano più uscire all’aperto a giocare» ci spiega Nomika. Grazie a una donazione il Comune, nel 2007, ha potuto adeguare il parco giochi alla situazione: «Vedete quegli enormi bruchi di cemento? Quando suona l’allarme i bambini sanno che possono rifugiarsi lì». Oltre ai bruchi-bunker, le pensiline-bunker, per
aspettare l’autobus in sicurezza. Il teatro comunale bunker e anche la scuola-bunker: sicura, certo, ma tristemente impressionante con quelle finestre così piccole. Ed eccoci arrivati davanti alla Striscia di Gaza. Eccola laggiù, la prigione a cielo aperto che concentra oltre un milione e mezzo di abitanti in 350 Km quadrati (la provincia di Verona, con novecentomila abitanti, ha un’ area 9 volte superiore). Fra noi e quell’orizzonte densamente costruito, un’ampia fascia invalicabile di terreno incolto. I Palestinesi che hanno provato a rientrarci dopo l’esproprio, magari solo per rivedere la propria terra, non sono tornati vivi. Ma, per Israele, si tratta di una fascia “di sicurezza”. Come si vive in una città così sicuramente insicura, Nomika Zion ce lo spiega nel piccolo salotto di casa sua, che riesce ad accoglierci tutti (certo il bunker di casa non è stato progettato per 40
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Reportage
Un bunker a forma di bruco per i bambini israeliani: serve a sdrammatizzare l'orrore della guerra
persone, ma è meglio non pensarci). «È più facile resistere a una guerra che dura alcune settimane, piuttosto che a uno stillicidio imprevedibile che dura da più di un decennio», ci spiega con riferimento al continuo arrivo di missili. «Il sistema immunitario si indebolisce, senza che nemmeno ce ne rendiamo conto. Finché scopri che non ce la fai più, e te ne vai». Nel 2009 la popolazione di Sderot era diminuita del 50%. Poi altri immigrati sono arrivati, chissà perché, in questa trincea, dove nonostante tutto le case mantegono un costo più alto che altrove. Depressione e stati d’ansia sono estremamente comuni, anche nei bambini. «Si parla di sindrome post-traumatica» continua Nomika, «ma qui non c’è mai un post. Come ti puoi sentire normale quando sali in auto la mattina per portare i bambini a scuola, e sai che se scatta l’allarme hai 10 o 15 secondi per metterli in salvo in un rifugio? Se devi pensare a quale figlio proteggere per primo, sapendo che nel frattempo metti a rischio l’altro? Se hai paura anche a fare una doccia, perché in quei dieci minuti potrebbe suonare l’allarme?». Molta gente si è abituata a dormire vestita. E in molte famiglie da anni si preferisce dormire tutti insieme nel bunker. E pensare che prima dell’87 la
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gente qui era in ottimi rapporti con chi viveva a Gaza: «Ci si conosceva, poteva capitare di andare al mare insieme, a fare shopping». Poi nel 1987 c’è stata la prima Intifada, durata sei anni. Nel 2000 la seconda, con l’ondata di attentati suicidi e i primi missili. Nel 2008 Israele ha lanciato l’operazione “Piombo Fuso” e, in risposta, a Sderot sono arrivati anche 60 missili al giorno. «Molti israeliani nel 2008 venivano qui da tutto il Paese portando solidarietà ma anche fiori e musica, come si trattasse di un festival», continua Nomika. «Molti si radunavano sulla collina per ammirare lo spettacolo dei bombardamenti e urlare eccitati. Eppure la Bibbia ci ammonisce: “Non gioire quando il tuo nemico cade, e quando egli inciampa il tuo cuore non si rallegri” (Proverbi: 24, 17). Intanto però tutti i giornalisti sostenevano quell’operazione di guerra. Sembrava impossibile aprire, se non un dibattito, almeno una fessura in quel fronte che non ammetteva contraddizioni: questa non è democrazia». Nomika decide allora di far sentire la sua voce: «Not in my name, not for my security», afferma in un articolo che farà il giro del mondo, tradotto in 20 lingue. Lo scrive consapevole che avrebbe pagato la sua scelta con l’isolamento sociale, che sarebbe stata
considerata una traditrice del suo popolo. Ma c’è stato anche qualcuno che le ha detto di aver letto in quelle parole sentimenti che non osava esprimere. «Non ero sola, quindi, ero l’espressione di un dissenso diffuso che era stato messo a tacere. Abbiamo iniziato a incontrarci, a parlare di ciò che sentivamo, a diffondere un’altra voce: com’è possibile che tanta violenza non provochi una reazione altrettanto forte? E come si può essere felici per la distruzione di altre persone?». Questo accade quando si elimina ogni possibilità d’incontro, quando l’altro diventa un entità invisibile, come sono oggi i Palestinesi per la maggior parte degli Israeliani: persone senza un nome, un volto, un’ identità. La mission di Other Voice è quella di rendere visibile l’invisibile. Per ridare dignità a se stessi, prima ancora che all’altro. «Questo conflitto infinito ci ha fatto perdere la nostra capacità di empatia, e quindi una parte della nostra umanità», afferma Nomika. «Durante l’ultimo Giorno della Memoria abbiamo proposto una riflessione: se smetti di considerare l’altro un essere umano, tu stesso finisci con l’essere inumano. Quest’idea è strettamente collegata con quanto dovremmo aver imparato dalla Shoah: chi è stato perseguitato non può ren-
dere vittima qualcun altro. Invece spesso chi si sente oppresso è portato ad identificare la causa della propria sofferenza in un nemico. È più difficile capire che dall’altra parte c’è invece un‘altra vittima dello stesso conflitto». Parlare di pace sembra ormai non aver più un reale significato, da queste parti. Ma Other Voice non cessa di sperare nella possibilità di meno utopici “accordi a lungo termine”, che vanno costruiti attraverso il dialogo, «anche con Hamas», come spiega Nomika, che alla fine della giornata ci ringrazia per essere stati con lei. «Siamo così isolati qui, così soli. E la politica aggressiva di questo nostro governo ci porta a essere ancora più pessimisti per il futuro. L’unica speranza è legata ad una pressione esterna, dagli Stati Uniti, dall’Europa, su chi ci rappresenta. Potete fare tanto per noi». Un appello che ci sentiremo ripetere tante volte in questa settimana, soprattutto dai Palestinesi: non lasciateci soli, non dimenticateci, parlate di noi quando tornate in Italia, grazie. Grazie a te, Nomika, alla tua forza, alla decisione di non rinunciare alla tua umanità. Per noi non è stata certo una fatica, è stato solo un pomeriggio diverso e molto intenso. E l’allarme, hai visto? In queste ore non è mai suonato. (D.M.) Dicembre 2012
Cultura
L’approdo invisibile, il romanzo diario-confessione di Grazia Livi In Biblioteca Civica la scrittrice ha presentato un suo testo del 1980
S
di Corinna Albolino
empre interessante incontrare Grazia Livi quando viene a Verona. Spesso ospite della nostra città, invitata negli anni scorsi dal Circolo della Rosa e dalla Società Letteraria, ricordiamo che la scrittrice vinse proprio a Verona nel 2006 il Premio internazionale Scrivere per amore assegnato dal Club di Giulietta per il romanzo Lo sposo impaziente. La storia emozionante del viaggio di nozze di Lev Tolstoj e della giovane moglie Sofia, edita da Garzanti. Questa volta l’opportunità ci è stata offerta, martedì 13 novembre alla Biblioteca Civica, dal Gruppo di lettura Chiaro scuro, un gruppo di donne italiane e straniere che da anni condividono e commentano periodicamente la lettura di un testo scelto. Un’iniziativa dunque di grande ricchezza per chi, dopo aver letto e discusso, può confrontarsi con l’autrice. Più in generale, un appuntamento stimolante per le donne che seguono da tempo Livi, ne ricordano in particolare il famoso saggio Da una stanza all’altra del 1984, dove protagoniste sono le biografie di sei note scrittrici (Virginia Woolf, Jane Austen, Emily Dickinson, Caterina Percoto, Katherine Mansfield, Anaïs Nin) alla ricerca di una loro emancipazione individuale, affermazione creativa. Oppure rievocano l’altro appassionato romanzo-saggio del 1991 Le lettere del mio nome in cui, passando in rassegna l’opera di alcune grandi figure del Novecento, si racconta il diveni-
re della donna negli ultimi quarant’anni, il suo farsi soggetto consapevole sulla scena storica. Tutte affezionate lettrici che amano questa scrittura perché sa andare dritta al cuore delle donne indagandone da sempre i misteri. Una scrittura “chiara come un lampo” che, come bene sottolinea Chiara Turozzi, studiosa di scrittura femminile, è rigorosamente sempre tesa a ricercare le parole giuste, capaci di raccogliere ed esprimere senso. Occasione dell’incontro è un testo del 1980, L’approdo invisibile, riedito recentemente. Un’opera scelta tra i molti romanzi dell’autrice, perché, come ci informa Emma Mignani Carraro fondatrice del Gruppo Chiaro scuro e presentatrice dell’ospite, segna per Livi il passaggio importante dalla scrittura giornalistica a quella saggistico-narrativa, approdando così a un nuovo genere letterario. Un libro che rappresenta la risposta definitiva a quella vocazione di scrittrice che, confessa l’autrice, dall’adolescenza la abita e trova la sua scaturigine in quell’urgenza di narrare le vite degli altri, di entrare nelle loro esistenze. Forte è infatti il desiderio di conoscere l’altro, sapere chi è, mettersi in dialogo. Più oltre, un modo per capire a fondo se stessi. Un romanzo che è insieme diario e confessione e parla di un ritorno a Londra a distanza di vent’anni. È la scoperta di una città ora ritrovata completamente diversa, trasformata, spesso quasi irriconoscibile nei suoi personaggi, paesaggi. È il sorgere della consapevolezza che a rendere tale la realtà non sono tanto i mutamenti prodotti dallo scorrere del tempo, quanto le trasformazioni dello sguardo della narratrice, uno sguardo ora diventato, alla luce dell’esperienza, lucido, disincantato. A colpire come in ogni opera, è la capacità narrativa di Livi, la sua bravura nel descrivere le situazioni più disparate e soprattutto la sua maestria nel rendere vivi i personaggi, le loro storie. Tutto merito di quel profondo e magico processo di identificazione che l’autrice, ci confessa, riesce di volta in volta ad attuare quando si immerge nella scrittura. Un appuntamento dunque molto coinvolgente, purtroppo non valorizzato appieno per l’uso inadeguato dei microfoni.
Lettura amore mio, Elisa Zoppei C’è, nel movimento delle nuvole nel cielo, nell’erba che cresce, nello scorrere maestoso dei fiumi, un senso della continuità sorprendente e assoluto, privo di ogni iato. Non c’è separazione, distinguo, frattura, tutto procede in un continuum incessante, perfetto, inattingibile. Ma poi scopri, con doloroso disappunto, che ogni operare umano si colloca altrove: i libri sono strutturati in capitoli, lo Stato non può operare che attraverso la suddivisione amministrativa, la storia necessita più che mai di essere scandita in epoche: la cronologia le è connaturata. Ebbene, avendo aperto Lettura amore mio. Navigando nel mare dei libri, Gabrielli editore di Elisa Zoppei, vi ho trovato con piacere, con sorpresa, con soddisfazione un continuum dove, appunto, le parole scorrono come il mo-
vimento delle nuvole nel cielo, dell’acqua nel fiume, dell’erba che cresce. Da Truman Capote si scivola inavvertitamente a Betty Smith e poi si corre verso Eva Luna, e poi ecco Antonio Faeti, e ancora La lingua salvata, la maestra Selma Lagerlöf, Il libraio di Selinunte,... Così, semplicemente, con una continuità che appartiene al pensiero. Che è propria dell’amore. Che è sigillo della passione. Un continuum tenuto assieme non da artefici retorici, letterari, linguistici ma solo e senza resto dalla persona che legge: in questo caso Zoppei. E sì che lì i capitoli e i paragrafi ci sono, e sono molti, ma c’è nel testo una fluidità che toglie a quegli strumenti pragmatici ogni dittatura sullo spirito della comunicazione. Il quale spirito, invece, sta deliziosamente accoccolato in quel misterioso e mai chiarito del
tutto legame tra lo scrittore, il lettore, il testo, la vita. Forse c’entrano quelle “isole inesplorate dell’anima” (p. 19) cui fa riferimento l’autrice, unico, vero comun denominatore dell’umano sentire, capace di rompere ogni steccato, di disgregare ogni confine, di farsi beffa di ogni recensione. Potrei parlare dei contenuti presenti in Lettura amore mio. Che ci sono: frutto di anni, addirittura di una vita. Disgregherei la magia insita nell’opera, le toglierei l’ossigeno, la consegnerei alla saggistica. Non mi va di farlo. Fatelo voi, se volete, scorrendo l’indice. Ma poi dimenticate tutto e cominciate a leggere. Aldo Ridolfi
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Storie CAMPIONI DI UN TEMPO
Quando andava in onda “Il processo della tappa” Bruno Costalunga, ciclista professionista di Cellore, iniziò la sua carriera negli anni Cinquanta correndo per Chlorodont e Molteni
di Aldo Ridolfi Ne è passato di tempo dal quel 1958, quando Bruno Costalunga, classe 1935, affrontava le sue prime corse, prima da allievo e poi da dilettante, su una bicicletta di cui non si leggeva nemmeno la marca. E con quella bici, nata per sottrazione dei parafanghi e per
Siamo negli anni eroici del dopoguerra, quando la bici era strumento indispensabile per i più poveri ma anche simbolo di sogno e di evasione
Un primo piano di Bruno Costalunga scattato quando correva con la Chlorodont, la squadra dei “toscanacci”
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sostituzione del manubrio, con tre soli rapporti, senza casco, senza fascetta fermasudore, senza le bustine di zuccheri raffinati, con nessun’altra strategia che quella di spingere sui pedali, ha vinto qualche decina di corse. Erano anni di entusiasmi grandi come le montagne, di gesti generosi e privi di calcoli: inse-
gna, certo, la famosa boraccia tra Coppi e Bartali, ma Bruno portava contemporaneamente fino a dieci litri di bibite che distribuiva senza calcolo alcuno ad amici e “nemici”, incurante di ogni strategia di squadra. C’era, in quel suo darsi da fare, un’ingenuità inguaribile che Bruno ricorda con un pizzico di amarezza ma con una simpaticissima autoironia. Dai, Bruno, quelli erano i tempi in cui l’ingenuità era un valore di cui non vergognarsi, e non erano brutti tempi! Siamo infatti, negli anni eroici del dopoguerra, quando, come bene ricostruisce Marc Augé, la bici era «strumento indispensabile per i più poveri ma anche simbolo di sogno e di evasione». Allora la gente partiva dai paesi della valle e raggiungeva le Dolomiti per veder passare El giro. Non c’era l’automobile in ogni famiglia, ma suppliva egregiamente la machina del “servizio pubblico” (detta in altri termini, un taxi) con ampio bagagliaio pien de paneti, salado e grinto! Allora non si parlava che di Baldini e Nencini, di Gaul e Massignan, di Van Looy e Darrigade, personaggi mitici che Bruno conosce non solo nelle piccole fisime quotidiane ma anche negli atteggiamenti autoritari che sono, ahinoi, così frequenti nei campioni. Passa professionista presto, con la Chlorodont, una squadra di toscanacci, che, se non stavi attento, Dicembre 2012
Storie
Bruno Costalunga mentre racconta con entusiasmo la sua carriera ciclistica
«Una volta, a Goito, un camion della Coca Cola, fermatosi per applaudire i ciclisti, è stato assalito dal gruppone «come un s-ciapo de storlini su un vigneto»: non sono rimaste neanche le bottigliette vuote!»
ti fregavano anche il tubolare di scorta! Sorride Bruno, divertito. Al fondo del suo sguardo una luce adolescenziale caccia via le ombre accumulate più tardi, in anni non generosi, segnati da difficoltà e dolori. Dalla Chlorodont passa alla Molteni. E un poco si commuove, ancora oggi, quando ricorda il Commendator Molteni e si capisce quanta stima reverenziale ci fosse nel ragazzo di campagna per quell’uomo che lo pagava semplicemente per correre: in-
credibile. Quando poi gli nomini Sergio Zavoli il suo sguardo allegro assume la luce di un rispetto profondo: «L’era ‘na personalità». E se rimbalza il nome di De Zan è prontissimo a dire «Mmi g’ò parlà insieme!» Ci sono andato con Marco Tosi a casa di Bruno, a Cellore di Illasi Marco non ha fatto carriera, ma usa la bici per recarsi sul posto di lavoro, da 25 anni, con qualsiasi tempo, con temperature polari e nelle giornate torride di luglio, compiendo 50 chilometri al gior-
no. Mi sembra anche questa una carriera straordinaria. Loro due si capiscono benissimo. Bruno afferma che il mestiere del ciclista è duro davvero, da maledire il giorno in cui sei salito per la prima volta in bicicletta. Marco annuisce. Bruno dice di essere nato con la passione della bici. Marco capisce al volo l’emozione dell’amico, che è anche la sua. Bruno fa riferimento ai rischi che si prendevano in discese vertiginose, bagnate, prive di ogni protezione. Marco lo sa bene e condivide il barlume di paura che attraversa per un attimo il viso di Bruno. Fuori, piove, con calma, quasi senza farsi sentire, dopo un’estate aridissima. L’acqua era per il ciclista un’ossessione. Bruno accompagna alle parole i gesti e le espressioni. E ci racconta che sul passo del Muraglione, durante un giro d’Italia, non c’erano fontane e dunque l’organizzazione aveva messo a disposizione cassette di bibite: come svanite nel nulla! La sete del ciclista, allora, sembrava inestinguibile. Una volta, a Goito, un camion della Coca Cola, fermatosi per applaudire i ciclisti, è stato assalito dal gruppone «come un s-ciapo de storlini su un vigneto»: non sono rimaste neanche le bottigliette vuote! «Otanta carte da mile al mese i me dasea»: una cifra, uno stipendio straordinario per un bocia che lavorava alla Valdadige, una somma di cui essere orgogliosi: anche allora l’autostima non era faccen-
Bruno Costalunga e Marco Tosi, due modi diversi di utilizzare la bicicletta, il primo per la competizione, il secondo per recarsi a lavorare
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Cultura
da secondaria nell’esistenza di una persona. Sì, perché accanto alle «butele che le fasea la fila» e ai numerosi ammiratori, Bruno aveva anche qualche detrattore: «Quel lì el fa el coridore parchè nol gà oia de laorare!». E cade giusto il ricordo di quel facoltoso appassionato di Cazzano che lo ospitava alla sua tavola generosa
anche per qualche settimana per rimetterlo in sesto: nonostante il boom economico di quegli anni, qua in campagna non sempre i cibi erano appropriati ai consumi calorici di un ciclista. Non ha il culto di se stesso Bruno. È sua moglie Erminia che ha messo insieme pochi documenti superstiti di quella splendida gio-
vinezza, di quell’età d’oro per Bruno e per l’Italia. Ora essi sono lì, allineati alla parete della sala. Nonostante il mezzo secolo trascorso, in quel momento, abbiamo avuto tutti nitida la sensazione che la frontiera che divide il presente dal passato è sottilissima, trasparente, inesistente.
Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli
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BIBLIOGRAFIA MINIMA Marc Augé, Il bello della bicicletta, Bollati Boringhieri 2009 In quattro brevi capitoli passa dal mito della bicicletta (anni Cinquanta-Sessanta), alla sua crisi, all’utopia di una bicicletta che si riappropria dello spazio urbano, alla bellissima missione di far nascere nuovo «umanesimo della bicicletta» (p. 65). Alfredo Oriani La Bicicletta, Laterza, Bari 1918. (I ed. 1902) Lire. 6.50 Bellissimo libro, introvabile, dalla copertina leggera e verdognola, rilegato con filo di refe che taglia la carta rinsecchita e fragilissima delle pagine. Racconta di un viaggio in bici in Appennino, di fine Ottocento, e altro ancora: bello! Ivan Illich, Elogio della bicicletta, Bollati Boringhieri. Parla poco della bicicletta e ne parla avanti nel testo, oltre la metà, quando ti chiedi del perché di quel titolo. Però le virtù della bicicletta stanno dietro a tutto il libro, costituiscono quinte silenziose e discrete, sono il vero motivo dell’intrattenere. Roberto Piumini, Il ciclista illuminato, il Melangolo. È la storia di Zugalà, ciclista professionista che ci metteva «tutta la sua forza: ma era poca». È la salita dello Schiattolo a metterlo in crisi, a sconfiggerlo e a deluderlo; a costringerlo, quasi, a prendere la prima strada in discesa che fosse comparsa: una scelta in qualche modo filosofica, riferita alla discesa «come forma pura». Aldo Ridolfi, Ciclisti in Lessinia, La Grafica Racconta la Lessinia nella sua dimensione macro e micro, assieme alla bici, alle storie, al bosco e alle fade.
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L’ENERGIA DI VERONA PER I VERONESI
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