Verona In 29/2011

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• DELITTI IN FAMIGLIA

VERONA

(Inchiesta) UNA CITTÀ BISTRATTATA

ALBERI BENE COMUNE www.veronainblog.it N° 29 - LUGLIO 2011 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S.P.A. - SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) ART. 1, COMMA 1 - DCB VR


Cultura


Primo piano In copertina: 25 giugno 2011. Manifestazione in difesa degli alberi dell’ex caserma Passalacqua

Davide e Golia

www.verona-in.it

È iniziata a Verona la campagna elettorale per le Amministrative 2012. Chi sfiderà il sindaco Tosi? Alla ricerca del candidato che metta insieme passione civica, competenze e voglia di vincere. Potrebbe non essere un Terminator quello che scenderà nell’arena, ma una persona normale, un volto nuovo e pulito

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Le amministrative si avvicinano a grandi passi e ci si chiede chi sarà il gladiatore che scenderà nell’arena per confrontarsi con Flavio Tosi. Qualche nome timidamente si fa, ma quando l’interessato vede l’arsenale messo a sua disposizione, gentilmente declina l’invito. Si fa quindi sempre più strada un’idea che potrebbe essere vincente: invece di cercare un possibile nuovo sindaco/a tra i notabili, che vedono nella sconfitta una perdita di prestigio, perché non scegliere un Patroclo qualsiasi? Dopo i referendum, dopo le vittorie a Milano e a Napoli di Pisapia e De Magistris, davanti al primo cittadino di Verona, che doma tigri e fa la ruota in televisione, qualcuno sta pensando di spiazzare l’avversario puntando su passione civica, competenze e voglia di vincere. Potrebbe non essere un Terminator quello che scenderà nell’arena (anche perché non c’è), ma una persona normale, un volto nuovo e pulito. Un candidato Davide, con una piccola fionda, da opporre al gigante Golia. Gli spalti potrebbero riempirsi e non è per nulla scontato che il tifo vada a favore del più forte. Queste considerazioni incrociano un preciso contesto: quello del variegato numero di gruppi, comitati e movimenti, nati a Verona per opporsi a scelte amministrative ritenute dannose per la città e per chi la abita. Dal traforo all’inceneritore, passando per Borgo Roma e la Valpolicella, è vero che ormai la tendenza è quella di raccogliere firme e fare petizioni contro tutto e contro tutti. Scendere in strada con cartelli e slogan sta diventando divertente e quindi contagioso. Basti pensare cosa sono stati negli ultimi tempi la grande manifestazione contro Ca’ del Bue (9 ottobre 2010), quella di “Se non ora quando?” (13 febbraio 2011) e quella a favore degli alberi (25 giugno 2011). Impegno civico, ma anche voglia di stare insieme in modo intelligente, che

a volte portano a risultati sorprendenti, come è avvenuto nel caso del cementificio di Fumane. Certamente Patroclo abita qui. E certamente un Davide con fionda che si rispetti presume la dotazione di “sassi” con determinate caratteristiche. Vanno bene gli ideali, la passione, il codice etico. Anche qualche idea stravagante non guasta, perché serve ad amministrare in modo leggermente frizzante. Ma ci vuole pure la concretezza di chi da anni macina battaglie civili, perché questa è la vera esperienza politica, non l’aver militato in un partito. Non guasterebbe una formazione giuridica, per ribadire che, quando si difendono i beni comuni, regole e legalità devono contare più dell’esibizione muscolare. Politicamente parlando, dove dovrebbe collocarsi questo candidato? Si aprono essenzialmente due strade. 1. Nel primo scenario egli è espressione di una lista civica. Tale lista, in caso di ballottaggio, potrebbe apparentarsi con altre forze per sostenere uno dei due nomi emersi dal primo turno. 2. Nel secondo caso il candidato sindaco fa parte di una lista preparata dalla coalizione di centrosinistra per le primarie, con precisi di-

ritti e doveri. Se passa questo scoglio egli diventa il candidato sindaco di tutta la coalizione. Balzano subito agli occhi i limiti e le potenzialità di entrambe le opzioni. Nell’ipotesi della lista civica essa raccoglierebbe i voti anche di coloro che all’interno dei movimenti non si riconoscono nell’area di centrosinistra. Sembra una contraddizione, ma è vero che tra coloro che si oppongono ai progetti dell’attuale leadership politica ci sono anche alcuni elettori del centrodestra. D’altra parte la lista civica non raccoglierebbe i voti necessari a fare un sindaco, mentre è certo che questa opzione indebolirebbe il centrosinistra, visto che molti dei consensi raccolti avrebbero questa provenienza. Nella seconda ipotesi, quella di una precisa collocazione politica, scontando qualche mal di pancia il candidato potrebbe usufruire della macchina organizzativa del centrosinistra e, se passasse le primarie, di un sostegno importante da parte di tutte le forze di coalizione. Una strategia potrebbe essere quella di creare comunque, anche in questo caso, una lista civica che raccolga i voti dei moderati. g.m.

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La mafia toglie soldi allo Stato e a pagare sono i cittadini onesti Il rapporto debito pubblico/PIL, in Italia, è pari al 120%: esattamente il doppio del parametro fissato dall’Unione Europea che, non a caso, ci osserva con particolare attenzione assieme ad altri paesi che si affacciano sul mare Mediterraneo. Lo stesso rapporto debito pubblico/PIL nel 1980 era del 56%

di Pierpaolo Romani* erve una manovra da 46 miliardi di euro per fermare la crescita del nostro debito pubblico. È questo il monito lanciato dalla Corte dei conti lo scorso 24 maggio presentando il rapporto sul coordinamento della finanza pubblica. Ci aspettano tempi di lacrime e sangue e una certezza: le tasse non saranno ridotte. Oggi, per chi non lo sapesse, il rapporto debito pubblico/PIL, in Italia, è pari al 120%: esattamente il doppio del parametro fissato dall’Unione Europea che, non a caso, ci osserva con particolare attenzione assieme ad altri paesi che si affacciano sul mare Mediterraneo. Lo stesso rapporto debito pubblico/PIL nel 1980 era del 56%. Come è stato possibile l’aver raddoppiato questo rapporto nell’arco di trent’anni? Tra le principali cause vi è certamente la diffusione di una serie di comportamenti illegali tra i quali, come principali, possiamo annoverare quelli della corruzione, dell’evasione fiscale e delle mafie. Citiamo qualche dato. Secondo la Corte dei conti ogni anno la corruzione costa agli italiani 60 miliardi di euro. L’evasione fiscale, secondo uno studio diffuso recentemente da Il Sole 24 Ore, è stimabile in 150 miliardi di euro annui. Le mafie, secondo il Presidente della Commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu, hanno un

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giro d’affari stimabile in 150 miliardi di euro l’anno. Lo stesso Pisanu ha affermato che le mafie sottraggono tra il 15-20% del PIL delle quattro principali regioni del Mezzogiorno – Sicilia, Campania, Calabria, Puglia – e la Banca d’Italia ha stimato che il riciclaggio del denaro sporco incide sul 10% del PIL nazionale. L’Istat, infine, ha calcolato in circa 270 miliardi di euro annui l’ammontare della cosiddetta economia sommersa. Chi paga tutti questi costi? I cittadini onesti, che faticano sempre di più ad andare avanti, che si ritrovano sempre più impoveriti – secondo l’Istat un italiano su quattro vive in condizioni di povertà – e costretti alla pratica della rinuncia non per avere il superfluo, ma per i loro bisogni primari: il cibo, la casa, la salute. L’illegalità costa. Questa è la realtà della quale tutti i cittadini devono essere consapevoli. E i costi non sono soltanto economici, ma anche di altro tipo. Pensiamo ad esempio alla salute. Dove vi è una presenza significativa di mafie e corruzione molto spesso l’ambiente è devastato dall’abusivismo edilizio e dall’inquinamento derivante, ad esempio, dallo smaltimento illecito di rifiuti tossico-nocivi. Corruzione e mafie non garantiscono la sicurezza: molte opere importanti, anche pubbliche, sono state costruite con cemento depotenziato. A L’Aquila la casa dello studente caduta con il terremoto del 6 aprile 2009 si reggeva su tre pilastri anziché quattro: sarebbe caduta per forza prima o poi. E quella sera otto giovani ragazzi sono morti. Dove vi sono una diffusa evasione fiscale, corruzione e mafia si assiste a una alterazione delle regole del mercato: la libera concorrenza sparisce, vincono i più furbi e non i più capaci, si costruiscono opere inutili e dannose, l’imprenditore onesto viene scacciato da quello disonesto. Infine, parliamo dei costi politici. Un candidato corrotto e/o legato alle organizzazioni mafiose può certamente contare su una quantità di risorse economiche maggiori di un suo avversario e quindi ha più possibilità di essere eletto sindaco, presidente di Provincia o di Regione, deputato nazionale o europeo. Una volta sullo scranno, quella persona non opererà per la tutela e la salvaguardia del bene comune, ma curerà gli interessi particolari della cordata che gli ha consentito di raggiungere il posto nel quale si ritrova. Il passante ferroviario di Milano è stato costruito in 23 anni. Allo scoppio di Tangentopoli ne erano passati 21. Dopo l’inchiesta condotta dal pool di magistrati milanesi guidati da Francesco Saverio Borrelli, il passante è stato finito in due anni con ribassi del 50% dei costi. Servirà una manovra lacrime e sangue ci dice la Corte dei conti. Siamo d’accordo. Ma a pagare devono essere innanzitutto i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi e i loro fiancheggiatori dal colletto bianco. I loro denari e i loro beni devono essere restituiti alla collettività. Per questo Avviso Pubblico e Libera hanno promosso una campagna nazionale intitolata “Corrotti”. L’obiettivo è raccogliere un milione di firme da consegnare al Presidente della Repubblica affinché si faccia interprete di questa domanda di giustizia sociale e fiscale presso il legislatore, chiedendogli di ratificare alcune convenzioni internazionali (come la Convenzione di Strasburgo del 1999) che migliorerebbero la prevenzione e il contrasto alla corruzione. Si può firmare anche on line collegandosi ai siti internet www.avvisopubblico.it e www.libera.it. Un piccolo gesto, ma una risposta concreta alla domanda “Cosa posso fare io?” che oggi molti cittadini, sia rassegnati che arrabbiati, si pongono. *Coordinatore nazionale Avviso Pubblico, già consulente della Commissiome parlamentare antimafia

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«Un nemico del popolo» L’opera teatrale del drammaturgo Henrik Ibsen sarà rappresentata ad agosto nei cortili di Verona. Al centro una questione di inquinamento ambientale che mette in discussione la criticità della democrazia, il conflitto tra salute e lavoro, il ruolo determinante dei media e quello ambiguo delle istituzioni controllate dalle lobby

di Corinna Albolino a rassegna estiva teatrale nei cortili di Verona quest’anno ospiterà ad agosto Un nemico del popolo di Henrik Ibsen, a cura della compagnia Trix Tragos di Verona con la regia di Nunzia Messina. Una rappresentazione itinerante che si propone di raggiungere i 44 siti inquinati di interesse nazionale (SIN), oggetto dello studio Sentieri dell’Istituto superiore di sanità. Si tratta di un dramma del 1882 che appartiene alla cosiddetta fase del teatro sociale del drammaturgo norvegese, insieme a I pilastri della società, Casa di bambola e Spettri. Un’opera che oggi è stata molto rivalutata, anche per la sorprendente attualità delle sue tematiche.Al centro infatti è una questione di inquinamento ambientale che, oggi più di ieri, mette in discussione la criticità della democrazia, il conflitto tra salute e lavoro, il ruolo determinante dei media e quello ambiguo delle istituzioni controllate dalle lobby. Possiamo meglio apprezzare questa pièce teatrale se proviamo a gettar luce sulla figura di Henrik Ibsen,considerato uno dei padri della drammaturgia moderna perché osò mettere in scena i conflitti psicologici della borghesia ottocentesca, smascherarne tutte le ipocrisie, stigmatizzarne il perbenismo, le menzogne. Dovendolo in qualche modo definire, possiamo dire uno spirito libero, uno spirito che contraddice, sosterrebbe Nietzsche filosofo tedesco suo contemporaneo, con il quale presenta evidenti analogie di pensiero. Un uomo, insomma, molto audace che in virtù di un rigore morale integerrimo, del culto della fede nella verità, trova la propria mission nel denunciare la sua società che invece pecca di disvalori etici e religiosi. Di tutto questo racconta la vita del dott. Thomas Stockmann, il protagonista del Un nemico del popolo: un personaggio che possiamo meglio comprendere se teniamo presente la cifra della drammaturgia di Ibsen e se riusciamo ad allargare lo sguardo sulla temperie culturale nordica e più in generale europea che agirono sulla sua persona. La storia di Stockmann diventa allora l’esemplificazione,l’epifania di un percorso più filosofico che accompagna la storia dell’Occidente a partire da metà ‘800. Né va trascurato che queste influenze si appalesano progressivamente nella vicenda del protagonista creando quel climax di incalzante tragicità che raggiunge il suo acme al termine dell’opera. Detto questo, Stockmann si presenta sulle prime come uomo normale, che esercita la sua professione di medico presso lo stabilimento termale che ha contribuito a far sorgere. Per vocazione crede nella scienza, nelle sue verità,nei suoi strumenti e progressi.Dunque l’atteggiamento è quel-

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lo di un positivista,un savan di fine ‘800 che ritiene di operare per il bene della salute della città, pensa di essere riconosciuto per l’autorevolezza dalla comunità. È tout court l’intellettuale organico, di gramsciana memoria, che si attiva con profondo senso morale per lo sviluppo della società. Per tutto ciò crede di poter comunicare tranquillamente le sue scoperte sull’inquinamento delle falde acquifere della città prodotto dall’industria, dapprima attraverso la stampa e poi nell’assemblea pubblica in cui potrà spiegare e suggerire le soluzioni al problema. Le cose sono però più complesse. Subentrano gli interessi economici dei singoli, quelli politici degli amministratori. La maggioranza si fa compatta rispetto al proprio tornaconto, si preferisce non sapere, non fare, non si esita a sconfessare i suoi risultati, a censurare i suoi discorsi, a intimargli di andarsene. In breve, lo si stigmatizza come nemico del popolo. La delusione di Stockmann è tanto più profonda quanto più prende consapevolezza del vero volto di una società fatta di deboli, opportunisti, corrotti, facilmente manipolabili. È a questo punto che esplode tutto lo spirito libero rivoluzionario, l’indignazione, l’invettiva del protagonista. È interessante osservare in proposito come dietro questa figura operi quel concetto di individuo, di singolo, teorizzato da Soren Kierkegaard, importante filosofo danese che molto influenzò il pensiero di Ibsen. Un individuo che nell’apertura delle possibilità offerte dall’esistenza è chiamato a scegliere,a decidere secondo una modalità di agire aut-aut. Stockmann,sottraendosi a ogni tipo di mediazione,opta per la qualità della vita etica. Diventa il paradigma del rigore morale, il cavaliere della fede in sé che non esita a sacrificare se stesso, la carriera professionale, la famiglia, in nome dei veri valori. Nella serie dei rimandi, il sentire di Stockmann richiama più oltre quello della personalità di Munch, un altro contemporaneo e conoscente di Ibsen, anch’egli reattivo al costume borghese dell’epoca. In un crescendo di tragicità, per i contenuti forti e per la scrittura potente, l’opera trova una evidente vicinanza con alcuni tratti del pensiero di Nietzsche. Analogo è lo spirito rivoluzionario, spietato nei confronti di quel potere del gregge che facendo leva sulla propria debolezza soggioga e opprime l’altro, agendo sul senso di colpa, sullo spirito di risentimento, sulla doppia coscienza e la falsa pietà. Per Nietzsche la volontà di potenza è l’essenza intima dell’essere e si esprime nell’illimitata volontà di accrescimento e di superamento della vita stessa. In sintonia con il filosofo, Stockmann dice che l’uomo più forte è quello che è più solo, perché liberato da ogni condizionamento. Come lo Zarathustra di Nietzsche, Stockmann vede il suo compito morale nell’educare le coscienze, nell’annunciare un uomo nuovo.

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Educare alla fede e alla politica in un mondo senza testimoni A scuola i ragazzi ragionano sul rapporto tra Chiesa e politica. Le affermazioni conciliari della non identificazione tra messaggio cristiano e ideologia, del rifiuto di identificazione del cristianesimo con le proprie scelte politiche, del dovere per il credente di impegnarsi in politica creano silenzi imbarazzati

di Rino Breoni* alla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II a oggi, ogni anno ripropongo, agli allievi della quinta liceo scientifico e della terza liceo classico, l’approccio storico e contenutistico di questo evento che ha segnato e segna la vicenda della comunità ecclesiale, ma che ha aperto strade e orientamenti dialogici con il mondo contemporaneo. Disponendo di una sola ora settimanale di religione, tanto in scuola paritaria che pubblica, dopo una panoramica che consenta di collocare il Concilio nel suo alveo storico e nel momento ecclesiale, cerchiamo di concentrare l’attenzione sulla Costituzione pastorale Gaudium et spes, approvata il giorno prima della conclusione del grande evento. Un documento databile, nato dalla perseveranza dei Padri Conciliari (di taluni in particolare) e dalla specifica volontà di Papa Montini, Paolo VI. Il testo conciliare mi offre l’occasione per condurre i ragazzi a riflettere sulla condizione dell’uomo d’oggi, tratteggiata certamente in modo ottimistico, ma non senza realismo talvolta drammatico, coniugando cenni morali, sociali, spirituali, rare volte sintetizzati in così brevi paragrafi ordinati e leggibili. Con me, i ragazzi apprendono del dovere che la Chiesa ha di “scrutare i segni dei tempi”, incominciano a riflettere sull’ateismo come fenomeno di massa e sull’ateismo fatto sistema, riferibile tanto alla visione marxista quanto consumista della vita del mondo. Ci si inoltra nella visione dell’amore e del matrimonio come realtà unitiva e come fondamento della responsabile scelta feconda. Ci si interroga sul rapporto fra Chiesa e cultura, lavorando sull’affermazione conciliare che nessuna cultura, che sia o voglia essere tale, è aprioristicamente chiusa alla “novità” evangelica. Nello scorrere delle settimane, nella vivacità dei confronti e delle posizioni, si fa strada l’idea chiara che il messaggio evangelico null’altro è che una proposta di vita all’uomo, possibile a realizzarsi nella comunità credente, la Chiesa. È a questo livello di lavoro didattico che si affronta il rapporto tra Chiesa e politica. Davvero in questa tematica pare che l’interesse degli allievi assuma connotazioni diverse. Le affermazioni conciliari, quasi apodittiche, della non identificazione tra messaggio cristiano e ideologia politica, del rifiuto di strumentalizzazione o identificazione del messaggio cristiano con le proprie opzioni politiche, del dovere, per il credente, di impegnarsi in politica (sia pure con modalità di-

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verse) creano silenzi imbarazzati e imbarazzanti. Questi ragazzi, che concludono la loro adolescenza e iniziano la loro giovinezza tra gli esami di maturità e i primi passi in strutture universitarie, che vivono la discoteca, che possono subire il fascino di una “canna”, di una ubriacatura di fine settimana, si sentono dire che sarebbe loro dovere – soprattutto se credenti – interessarsi di politica. Le reazioni, faticose ad affiorare, portano i segni inequivocabili del digiuno e della delusione. Mi voglio spiegare. Chiamo “digiuno” la pratica assenza di un’idea di politica che non venga dallo studio di discipline storico-filosofiche. Eppure don Lorenzo Milani aveva detto: “Di fronte a un problema, uscirne da soli è individualismo, uscirne insieme è politica”. C’è un vuoto di fondo, un deserto arido che ignora lezioni storiche importanti. «Maritain, chi era costui?» Eppure l’Umanesimo integrale rimane un riferimento. Ma chi, come, dove può creare condizioni perché queste intelligenze (che pure sanno di tante discipline) scelgano di affrontare, con apporto personale, problemi che li stanno investendo? E poi c’è la “delusione”: mica sono ingenui. La situazione che la nostra terra vive, un confronto politico scaduto a livelli impensabili, figure di politici che stanno fra l’irrilevanza, la contraddittorietà e il ridicolo, schieramenti che mutano a ogni cambiar di vento, interventi talvolta inopportuni “d’oltre Tevere” (va bene così per dire una realtà che non è la Chiesa) che cosa possono generare nell’animo di chi per età vive ancora, forse, ideali utopistici? I silenzi imbarazzati, le allusioni, l’amarezza della realtà, lasciano solo spazio alla speranza. Una parola la si spende. Servirebbero dei testimoni. Ma… c’è un programma da finire. *Rettore di S. Lorenzo

Luglio 2011


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Una nuova classe di lavoratori poco pagati e senza diritti Lo sfruttamento del lavoro, tipico della rivoluzione industriale, ha avuto come conseguenza anche quella di spingere i cittadini verso la solidarietà e la rappresentanza sociale. Ma oggi ci sono lavoratori precari, senza contratti definiti, che svolgono mansioni malpagate e spesso pericolose. Persone isolate e discriminate la cui condizione atipica nega ogni progettualità di Paolo Ricci* a cittadella operaia rappresentata all’inizio della rivoluzione industriale dai romanzi di Dickens e di Cronin,che ne hanno saputo esprimere mirabilmente l’ethos, ha costituito per molte generazioni il luogo privilegiato della socializzazione secondaria. Qui, pur in condizioni di sfruttamento selvaggio della forza-lavoro, si forgiava l’identità soggettiva, che trapassava poi in quella di classe sociale. La netta dicotomia tra il decidere e il fare, tra direzione ed esecuzione del lavoro, determinava un ordine onnicomprensivo e totalizzante, visibile all’interno e all’esterno della fabbrica che era, per così dire, il motore primo della stessa struttura e organizzazione sociale. E ne costituiva il supremo sigillo, scandendo ogni momento della vita comunitaria. Questo modello fondato sulla divisione del lavoro, che a propria volta generava opposizione sociale e conflitto, facilitava però anche forme di solidarietà e rappresentanza sociale che facevano sentire il singolo meno solo nell’affrontare la durezza della vita. Pur trasfigurandosi nel corso del Novecento, è resistito per quasi tutto il secolo scorso. L’industria manifatturiera per effetto delle nuove tecnologie ha progressivamente ridotto la quantità della propria forza-lavoro. L’introduzione massiccia degli automatismi, facilitati dall’impiego dei software, oggi consente sempre più di governare complicati processi produttivi con pochissimi addetti e di garantire fatturati impensabili solo un paio di decenni fa. Laddove questa trasformazione tecnologica non è apparsa conveniente,si è proceduto a trasferire materialmente i cicli produttivi tradizionali verso Paesi con economie a più bassa composizione di capitale, in cui il minor costo della manodopera risulta fortemente concorrenziale rispetto all’investimento in impianti più avanzati. Questa mancata convenienza interessa, in realtà, anche molte produzioni manifatturiere intrinsecamente inquinanti e pericolose, che hanno provocato non soltanto danni ambientali e sanitari rilevanti, ma anche una forte e ampia opposizione sociale, politicamente trasversale, che ne rende faticosa e costosa la permanenza nei territori di origine. L’Occidente non rinuncia certo a questi beni di consumo, ma cerca di liberarsi dei danni che la loro produzione implica, trasferendo gli impianti che ne sono responsabili in altri luoghi, dove le tutele sociali, a partire dal lavoro e dalla salute, sono molto più deboli, forse minori di quelle originariamente appartenute al vecchio continente.Ma non è soltanto tutto questo ad aver portato al tramonto la cittadella operaia. Concorre anche un radicale riassetto organizzativo del mercato globale. L’impresa punta alla massima valorizzazione del proprio core business, sotto il profilo dell’investimento sia in ca-

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pitale fisso che variabile, mentre tende a una progressiva esternalizzazione delle attività di servizio al core business. Ne consegue una selezione dei lavoratori dipendenti in due categorie: quella più efficiente e affidabile da destinare al core e quella meno gradita da impegnare nelle attività ancillari e da liquidare successivamente,attuandone il dirottamento verso imprese esterne, le tipiche cooperative di servizi. Quello che conta non è tanto l’allontanamento fisico di questi lavoratori, che anzi possono rimanere o ritornare all’interno della stessa azienda madre – la cosiddetta “internalizzazione di ritorno” – quanto la recisione di ogni loro vincolo contrattuale.Potranno essere espulsi in ogni momento dal processo produttivo cui appartenevano, attraverso la sostituzione dell’impresa di servizi cui è affidato il loro lavoro in appalto. Meno qualificato risulta, tanto più la concorrenza ne erode i margini di sicurezza,intesa nella duplice valenza sociale e sanitaria. Meno pagati e meno tutelati, questi lavoratori sono impiegati nelle attività più ingrate e pericolose (dalla pulizia ordinaria, alla manutenzione grossolana, alla scoibentazione dell’amianto) e in quelle più ripetitive scandite da ritmi incalzanti che non risparmiano neppure le attività amministrative variamente informatizzate. La cosiddetta “flessibilità del lavoro”completa la discriminazione. I cosiddetti lavori atipici che, al di là delle diverse configurazioni nominali, sono tutti accomunati da scadenze contrattuali a tempo determinato e breve, nonché dall’assenza di ogni reale garanzia di salvaguardia dei diritti fondamentali, la cui rivendicazione – anche nelle forme costituzionalmente e istituzionalmente consentite – produrrebbe come scontata conseguenza l’immediata recessione del contratto di lavoro. È un processo di spietata selezione di soggetti sempre più disponibili a subire condizioni di lavoro e di vita svantaggiose,oggettivamente non sindacalizzabili,sospinti sempre più verso forme di marginalità sociale. La precarietà assurge così a cifra esistenziale e la conseguente negazione di ogni progettualità sottrae la possibilità di conferire un senso alla propria vita. È il nuovo popolo dei sans papier, che mette in crisi uno stato sociale costruito sulle regole e sulle conquiste di un mondo del lavoro ormai in via di estinzione. Sembra che la dicotomia classica tra blu collars e white collars abbia ceduto il posto a un’altra dicotomia sociale, più negativa perché più sfuggente: quella tra core workers e contingent workers, trasversale a tanti settori lavorativi e qualifiche professionali, non solo manuali. I primi sempre meno numerosi, ben visibili, relativamente protetti dalle istituzioni, dallo statuto dei diritti dei lavoratori, dalla medicina del lavoro. I secondi sempre più numerosi, quasi invisibili, con orari di lavoro irregolari, mobili sul territorio e quindi poco stanziali. Questo esercito irregolare di lavoratori prevalentemente giovani, alimentato dagli immigrati, ma ormai sempre più da frange autoctone provenienti dalla classe operaia e dalla piccola borghesia impoverita, sfugge al controllo sociale del sindacato e dei servizi territoriali di prevenzione e assistenza,alle statistiche ufficiali degli infortuni e delle malattie professionali, all’attenzione delle forze politiche, per assurgere agli onori mediatici solo nella cronaca nera. È proprio qui, in fondo alla scala di ogni desiderabilità sociale, che si annidano i rischi maggiori e si riduce drasticamente la speranza di vita.Ma,a differenza del Novecento, tutto accade nel silenzio e nella solitudine. Se la situazione non è dirompente è soltanto perché resiste ancora l’ultimo argine costituito dallo stato sociale del secolo scorso. Sono le vecchie generazioni che tamponano la precarietà dei propri figli,con i risparmi da vivi e con la casa da morti. Sono gli ultimi doni fuggiti dal vaso di Pandora. *Docente di Sanità pubblica Università Ca’ Foscari di Venezia

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LA SCUOLA VERONESE

8.449 sono gli studenti dell’Infanzia, 41.155 quelli delle Primarie, 25.242 quelli della Secondaria di primo grado, 31.805 quelli della Secondaria di secondo grado mentre la popolazione studentesca delle paritarie è suddivisa fra 13.941 dell’infanzia, 2.426 delle elementari, 2.141, delle medie e 3.950 delle superiori

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La statistica veneta fornita dall’Ufficio scolastico regionale per il Veneto ci fornisce alcuni dati. Nell’anno scolastico 2010 /2011 appena terminato le scuole veronesi risultano essere 338 di cui 120 statali e 218 paritarie. Su un totale di 129.109 alunni, 106.651 hanno frequentato le statali e 22.458 le paritarie. Sul totale degli alunni, 3.209 sono portatori di handicap, dei quali 2.879 hanno frequentato le statali e 330 le paritarie. Entrando ancora più in dettaglio nelle scuole statali veronesi 8.449 sono gli studenti dell’Infanzia, 41.155 quelli delle Primarie, 25.242 quelli della Secondaria di primo grado, 31.805 quelli della Secondaria di secondo grado, mentre la popolazione studentesca delle paritarie è suddivisa fra 13.941 dell’Infanzia, 2.426 delle Elementari, 2.141, delle Medie e 3.950 delle Superiori. Altro dato interessante è quello della presenza di alunni nati all’estero o con cittadinanza non italiana che, nella provincia di Verona, risultano essere ben 14.310 di cui 2.555 hanno frequentato la

scuola dell’Infanzia, 6.275 la Primaria, 3.871 la Secondaria di primo grado e 2.727 la Secondaria di secondo grado. Tra questi, con 3.053 presenze, gli studenti rumeni si attestano come il gruppo più numeroso nelle scuole scaligere, seguiti dai marocchini con 2.857 alunni e dagli albanesi con 1.211. Agli ultimi posti ci sono invece gli alunni del Burchina con 8 presenze, preceduti da egiziani e ungheresi con

14 studenti. Ma estremamente variegato è il panorama delle etnie presenti: ben 50 fra comunitarie ed extracomunitarie provenienti da tutti i continenti a eccezione dell’Oceania. Infine un’ultima informazione riguarda i nomadi: durante quest’anno scolastico 330 hanno frequentato le scuole di città e provincia di cui 33 la scuola dell’infanzia, 203 la primaria, 118 le medie e solo 3 le superiori. (L.M.)


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IL TRASPORTO PUBBLICO IN CIFRE A guidare i mezzi pubblici sulle strade di Verona e provincia sono circa 600 conducenti, di cui 9 donne. Dal 2003 il numero totale dei biglietti e degli abbonamenti urbani ed extraurbani venduti è in costante incremento: da 54,8 milioni del 2009 ai 55,3 del 2010. Con l’aumento delle verifiche sugli autobus dell’ATV sono diminuiti i viaggiatori abusivi: su 15.000 mezzi controllati (1000 in più rispetto al 2009) e 230.000 passeggeri, gli evasori sanzionati sono stati 13.500, circa il 6% (prima del 2009 erano il 10%). Le linee su cui la rete si sviluppa principalmente sono quelle che circolano con maggiore frequenza: ad esempio, nel periodo invernale e nel tratto di percorso che hanno in comune, le linee 11-12-13 e 2122-23-24 mettono a disposizione un bus ogni 5 minuti. I principali poli attrattori della città, in cui si registra la più alta affluenza, sono

le due Stazioni di Porta Nuova e Porta Vescovo, l’Ospedale di Borgo Trento, il Policlinico e l’Università. Gli studenti costituiscono il 45% su un totale di oltre 30.000 abbonati al servizio urbano e l’80% degli abbonati a quello extraurbano. Negli ultimi anni la rete urbana è stata potenziata per servire anche i comuni di cintura, come Negrar e San Giovanni Lupatoto e le frazioni di Caselle di Sommacampagna, Lugagnano e San Vito al Mantico.

La grande rivoluzione del trasporto pubblico è stata l’introduzione, nel settembre 2010, del titolo integrato: un biglietto unico che permette di viaggiare dalla provincia alla città e viceversa utilizzando i bus di entrambe le linee, urbana ed extraurbana. Questa novità è in via di sperimentazione e attualmente è in corso la raccolta dei dati per elaborare le statistiche di utenza e tracciare il bilancio del primo anno di funzionamento del nuovo servizio. (C.B.)

Con l’aumento delle verifiche, sugli autobus dell’ATV sono diminuiti i viaggiatori abusivi: su 15.000 mezzi controllati gli evasori sanzionati sono stati 13.500

I NOSTRI STUDENTI ALL’ESTERO I dati più recenti sulla mobilità degli studenti dell’Ateneo veronese all’estero, relativi all’anno accademico 2009-2010, certificano che hanno partecipato al progetto Erasmus a fini di studio 301 persone, di cui il 73% femmine e il 27% maschi. I Paesi più gettonati sono Spagna (25%), Germania (19%) e Gran Bretagna (18%). Secondo il rapporto dell’Agenzia nazionale Lifelong Learning Programme, sono di più gli studenti della triennale a partire (70%) rispetto a quelli della specialistica/magistrale (30%) e il 50% del totale appartiene alla facoltà di Lingue e Letterature straniere. Il 45% di coloro che hanno svolto i propri studi all’estero ha alloggiato presso residenze universitarie, mentre il 55% ha preferito condividere un appar-

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tamento privato con altri. Mentre il 69% degli studenti è partito con una conoscenza linguistica buona o sufficiente, al ritorno il 92% dichiara di aver acquisito una padronanza buona, molto buona o eccellente della lingua straniera. La spesa complessiva (che comprende alloggio, trasporti, pasti e materiale didattico) è stata coperta dal 60% degli studenti con la borsa Erasmus e i contributi offerti dall’Ateneo di Verona, dalla Regione Veneto e dal MIUR (Ministero dell’Istruzione, università e ricerca). Nel complesso, i partecipanti ritengono ottima o molto buona l’esperienza all’estero; in particolare, l’85% ha apprezzato la possibilità di migliorare una lingua straniera, il 74% ha riscontrato una crescita

personale, il 71% ha sfruttato l’opportunità di confrontarsi con una cultura diversa in un Paese straniero e il 44% ha apprezzato i rapporti di amicizia instaurati durante la permanenza all’estero. (C.B.)


DIARIO ACIDO di Gianni Falcone

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Attualità VERONA

Delitti in famiglia I raccapriccianti fatti di cronaca nera che hanno insanguinato la provincia. Delitti maturati tra le mura domestiche per infermità mentale, per paura di rimanere senza denaro oppure per il sopraggiungere di una malattia incurabile di Francesca Lorandi Ubique filius familiae suae, “Ciascuno è figlio della propria famiglia”. Era la fine del 1992 in un’aula del tribunale di Venezia. Così esordiva l’avvocato Guariente Guarienti nella sua arringa difensiva.Al suo fianco,Pietro Maso.L’aforisma pronunciato dal legale rappresenta il denominatore comune di tanti omicidi che hanno avuto come teatro abitazioni del Veronese. Perché è lì,tra quelle quattro pareti che,come un’edera invisibile, un delitto si diffonde, prende forma. Raramente si tratta di un raptus di follia. Più spesso è un gesto meditato, alimentato da diversi fattori: soldi, passioni, ambizioni maturate in famiglie, all’interno delle quali c’è ottimo concime per quell’edera. «Maso era viziato dai genitori»,racconta Guarienti a distanza di ven-

t’anni, «non voleva studiare e nessuno lo criticava,perdeva tutti i piccoli lavori che iniziava perché, tanto, c’erano genitori che gli allungavano i soldi. Soldi che gli permettevano un tenore di vita di gran lunga superiore a quello consentito alla famiglia. E quando i genitori furono costretti a negargli quel denaro, lui meditò il delitto». “Eredità”, questa è stata la parola chiave del gesto di Maso, meditato per mesi. Uccidere tutta la famiglia per diventare l’unico erede, come in un film.“I genitori esistevano, non come principio di autorità, ma come un oggetto”, scriveva Vittorino Andreoli nella sua perizia psichiatrica, “un piccolo salvadanaio da cui poteva trarre quanto gli è servito fino ad un certo punto,oltre il quale,per avere quanto voleva, bisognava romperlo”. Per spaccarlo Maso ci aveva impiegato 53 minuti: una sequenza breve e facile, come in un film. Pietro e i suoi amici pensavano che il giorno dopo sarebbe stato semplice andare in banca e chiudere il conto corrente dei genitori. Il film è andato diversamente. Se Antonio e Maria Rosa Maso furono trucidati per un’eredità valutata un miliardo,nel 1994 Eleonora Perfranceschi morì per molto meno: una Fiat Uno rossa immatricolata dieci anni prima, un pugno di gioielli, 500 mila lire in contanti e tre stanze in affitto.Quelle che voleva occupare sua figlia Nadia Frigerio,33 anni.Uccise lei la madre,con

l’aiuto del fidanzato Marco Rancani, coetaneo. Prima stordirono la povera donna propinandole una dose da cavallo di sonnifero sciolta nel caffè. Poi la strangolarono con il filo del telefono. Nadia voleva a tutti i costi per sè il modesto alloggio dove abitava con la mamma: le sarebbe servito per ricevere i clienti. Marco le avrebbe fatto da protettore. «L’aspetto più odioso della vicenda è che i due volevano farci apparire la povera vittima come una poco di buono, mentre era accaduto il contrario: Eleonora Perfranceschi è stata assassinata perché voleva impedire che la figlia diventasse una prostituta», aveva detto l’allora pm Mario Giulio Schinaia. La sorte aveva riservato al magistrato un triste compito: prima inchiodare alle sue responsabilità Pietro Maso e i suoi tre complici; poi mandare in carcere, con l’accusa di omicidio premeditato aggravato da motivi abbietti, Nadia Frigerio e il suo ragazzo. Il corpo senza vita di Eleonora era stato scoperto il 12 no-


Cultura I delitti che si consumano all’interno dei nuclei familiari sono al primo posto, con il 31,7% del totale nazionale. Il fenomeno è in netto aumento (+12,1%), come testimoniano gli episodi di cronaca nera all’ordine del giorno, e continua a caratterizzare principalmente il Nord Italia

vembre lungo la strada che porta a Cancello,una frazione collinare.Le calze strappate, la camicetta sbottonata. Gli investigatori trovarono nella borsetta una confezione di profilattici, che erano stati disposti anche intorno alla salma. Era una messinscena, un film ricostruito dalla figlia e dal compagno. Sangue e soldi, un connubio che troviamo anche nel delitto Armando, avvenuto nel 1994 e tornato alla ribalta nei mesi scorsi: difficile non collegarlo con quello compiuto da Pietro Maso, a una decina di chilometri di distanza da San Bonifacio. Il movente, anche nel caso della morte di Maria Armando Montanaro, potrebbe essere infatti l’eredità. La Procura ha riaperto il caso dopo 17 anni, iscrivendo nel registro degli indagati cinque persone: le due figlie della donna, Katia e Cristina, e tre loro amici. L’ipotesi è di omicidio volontario premeditato e il movente sarebbe, forse, una questione di soldi. Era il 23 febbraio 1994 quando Maria Armando, un’infermiera di 42 anni, venne trovata morta nel suo ap-

partamento dalla figlia Katia di 19 anni. Il suo corpo, sul quale l’assassino aveva infierito con 21 coltellate, era adagiato sul letto. Il 9 marzo 1994 venne fermato Alessio Biasin, 58 anni, preside di una scuola a Monteforte D’Alpone, che aveva una relazione con la Montanaro. A incastrarlo furono alcune contraddizioni sul suo alibi. Alcuni mesi più tardi però venne scarcerato: sulla scena del crimine non c’era alcun elemento che potesse far pensare a un suo coinvolgimento nella vicenda. Anzi, l’analisi di alcune impronte trovate vicino alla donna fecero ipotizzare che l’assassino potesse essere una donna. Alessio Biasin, risarcito per l’ingiusta detenzione, morì nel 2001 in un incidente stradale. L’omicidio di Maria Armando Montanaro restò dunque per 17 anni senza un colpevole. Fino a quando lo scorso autunno il pm Giulia Labia ha riaperto il caso. Un uomo, in carcere per altri motivi, ha raccontato che la sua fidanzata gli avrebbe confessato di aver partecipato, in gioventù, a un omicidio. La donna, che era amica delle due sorelle Montanaro, du-

rante un’intercettazione ambientale, avrebbe poi fatto alcune importanti ammissioni circa l’omicidio di Maria Armando. Dalle indagini è emerso che nel delitto sarebbero state coinvolte le due figlie della donna, altre due amiche (tra cui quella intercettata) e un altro amico di origini argentine. All’epoca dei fatti erano tutti giovani ragazzi. L’accusa sostiene di avere elementi probatori molto pesanti nei confronti dei sospettati,e con ogni probabilità il movente andrebbe ricondotto nell’eredità: due giorni prima del delitto la Armando avrebbe telefonato a Cristina,che viveva a Milano e frequentava gli ambienti dei punk-a-bestia, per chiederle di tornare a casa e firmare dei documenti in cui rinunciava alla sua parte di eredità, per lasciare tutto a Katia. Una vicenda ancora molto nebulosa, considerando anche l’esiguità di quella eredità. Fu una scena da film dell’orrore quella a cui si trovò davanti Gianpaolo Trevisi, allora vice dirigente della Squadra Mobile scaligera. Era l’alba del 21 novembre 2008, la sera

ASSOGUIDE VERONA L’Associazione Guide Turistiche Autorizzate di Verona e Provincia ASSOGUIDE è composta da 23 guide turistiche tutte in possesso del patentino rilasciato dalla Provincia di Verona in base alla Legge Regionale del 4 novembre 2002, n. 33. L’Associazione unisce passione ed entusiasmo ad un costante lavoro di aggiornamento e approfondimento. Le lingue straniere nelle quali i soci ASSOGUIDE possono fornire il loro servizio sono: inglese, francese, tedesco, spa-

gnolo, giapponese, russo, olandese, greco, portoghese, rumeno. ASSOGUIDE si avvale di un sevizio multilingue per le prenotazioni e dispone di un numero telefonico di reperibilità per le emergenze. Oltre alle classiche visite della città e della Provincia di Verona, Assoguide è in grado di fornire itinerari personalizzati, adatti alle esigenze di associazioni culturali, piccoli gruppi, operatori congressuali, gruppi parrocchiali, gruppi di disabili, gruppi incentive, scuole di ogni ordine e grado.

ASSOGUIDE È MEMBRO DI: • Consorzio di Promozione Turistica Verona Tuttintorno • Consorzio di Promozione Turistica Lago di Garda è • Associazione Nazionale Guide Turistiche (Angt) • Associazione Regionale Guide Turistiche


Attualità Il Rapporto Eures Secondo il Rapporto Eures i delitti che si consumano all’interno dei nuclei familiari sono al primo posto, con il 31,7% del totale nazionale. Il fenomeno è in netto aumento (+12,1%), come testimoniano gli episodi di cronaca nera all’ordine del giorno, e continua a caratterizzare principalmente il Nord (94 vittime, pari al 48,2%), seguito dal Sud (62 vittime, 31,8%) e dal Centro (39 vittime, 20%). È l’arma da taglio lo strumento mortale più utilizzato (31,3% dei casi), e nove volte su dieci la vittima dei delitti “privati” è la donna. Il rapporto conferma come la “coppia affettiva” sia diventata una trappola mortale: lo scorso anno la maggior parte dei delitti familiari si è verificata all’interno della coppia, con 103 morti, quasi il 53%. Tra questi è il rapporto coniugale a fare più vittime (70 casi, pari al 35,9%), seguito dai delitti in cui a morire sono ex mogli o mariti o ex conviventi dell’autore (26, pari al 13,3%) e da quelli maturati all’interno di relazioni non formalizzate (7 le vittime). Il terzo gruppo di delitti avvenuti dentro le mura domestiche riguarda le altre relazioni di parentela (il 18%), tra le quali il dato di maggior interesse riguarda i fratricidi (5,1% ). Significativo anche il numero di vittime ultrasessantenni (19,5% del totale), la cui dinamica prevalente è quella dell’omicidio interno alla coppia, spesso seguito dal suicidio dell’autore.

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precedente Alessandro Mariacci aveva ucciso con due pistole prima la moglie nella taverna, dove forse stava riposando, e poi i tre figli di 3, 6 e 9 anni. Mariacci si era poi suicidato nella sua camera da letto al primo piano della villetta di via Belvedere.Il 25 maggio scorso,il giudice delle indagini preliminari Guido Taramelli ha firmato l’archiviazione del procedimento così come richiesto dal sostituto procuratore, Giovanni Pietro Pascucci. Ora su quella vicenda non si indagherà più: non ci sono altre responsabilità per quella tragedia, se non quella di Alessandro Mariacci. Qui non c’era l’ambizione, non c’era l’ossessione di accumulare ricchezza, ma la paura di perderla. Tante erano state le ipotesi vagliate dagli inquirenti i quali, alla fine, hanno considerato attendibile quella economica: il commercialista aveva ucciso la sua famiglia in preda all’angoscia di non poter mantenere il tenore di vita conservato fino a quel giorno. Fu l’identico movente a portare, due anni prima a Grezzana,il 48enne camionista Claudio Rubello a uccidere la moglie Paola Costa, 43 anni e la figlia Jennifer di 10, e poi ancora a colpire a martellate i figli Thomas di 16 anni e Anthony di 14,che miracolosamente si salvarono. Infine il suicidio, con un coltello. Il motivo del raptus? I soldi.“Per le mie stupide disattenzioni ho rovinato la mia famiglia”, riportava il biglietto lasciato sul tavolo in cucina. Quali disattenzioni? Rubello da alcuni giorni era molto preoccupato: faceva il padroncino per conto di un’azienda del Gruppo Aia, leader nel settore avicolo, e in quella storia c’entrava perfino l’aviaria: il virus che, oltre a diffondere la psicosi tra la gente, aveva mandato in crisi l’industria dei polli. «Rubello

ne è la prima vittima», aveva dichiarato Giordano Veronesi, presidente del Gruppo Aia. Ma c’era solo questo? Il padroncino di Grezzana temeva di dover chiudere baracca: la ditta trevigiana dove portava le carcasse di polli e galline era messa male,c’erano dipendenti in cassa integrazione, prospettive nerissime. Per giunta, Rubello aveva ordinato un nuovo furgoncino, indebitandosi. Nel 2002, a Gargagnago, Sergio Nicoletto, 32 anni, strangolò la moglie Raffaella Boscaini, 29 anni e soffocò nella culla con un cuscino il figlioletto Andrea di poche settimane. Dopo il duplice omicidio, si costituì ai carabinieri di San Pietro Incariano. La perizia stabilì che soffriva di un disturbo borderline della personalità associato a un disturbo post traumatico da stress. Ma anche il malsano legame di madri e padri con i propri figli è stato causa di tragedie familiari (23,6%): Sant’Ambrogio di Valpolicella, è la notte di Santo Stefano del 2001 quando in preda a un raptus Franco Valinetti, soprannominato “il profeta”, accoltellò la madre Maria Giuditta Campostrini, 57 anni. Fu ritrovata la mattina dopo, sgozzata con due coltelli da cucina. Internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia,sei mesi dopo, quando si rese conto di quanto aveva fatto,Valinetti si impiccò. E ancora, era il novembre 2002 quando a Soave, in preda a un delirio, Enrico Hejzlar, 38 anni, tagliò con un coltellino la gola della madre Silvana Sferico, 71 anni. Lei cercò di divincolarsi, lui la inseguì per tutta la casa per finirla, come in un film splatter della peggior specie. Solo per un miracolo la lama non intaccò la giugulare.

Nel 2006, a Pedemonte, Massimiliano Furini, 36 anni, uccise a martellate la madre Cristina Hofer, 56 anni. Dalle indagini emerse un rapporto segnato dalla presenza opprimente della donna. Anche in questo caso la perizia psichiatrica stabilì l’infermità mentale dell’uomo al momento dell’omicidio. E per questo fu assolto. Nel 2007 Umberto Garonzi, 85 anni, sparò alla moglie Pasquina Olivieri, 84 anni, per poi suicidarsi. La donna era malata di cancro e si stava spegnendo. L’anziano era passato dalla casa di cura dov’era ricoverata e, con il pretesto di portarla a fare un giro, se la riportò a casa e l’ammazzò con un colpo di fucile da caccia che deteneva regolarmente. Poi Garonzi si distese in fianco a lei, le prese la mano e si tolse la vita a sua volta.Erano sposati da sessant’anni e vivevano in zona Stadio. Erano invece sposati da oltre quarant’anni Renzo Busato e la moglie Nidia Trevisani, le ultime vittime di questo lungo elenco di delitti in famiglia. Il loro è stato un epilogo drammatico, di malattia e depressione, perché Nidia era da tempo malata di Alzheimer. Da alcune settimane non era più autosufficiente, la malattia le aveva ormai devastato il corpo. Doveva essere ricoverata in un ospedale e Renzo ne soffriva. Forse è stata la disperazione a spingerlo a soffocare la moglie con un cuscino, in camera da letto, mentre lei dormiva, per poi uscire di casa, andare sul retro e impiccarsi. Qui i soldi non c’entrano. Il movente va ricercato in un amore disperato.

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REALTÀ VIRTUALE A VERONA

Facebook: basta poco per commettere reati Pubblicare frasi ingiuriose o foto senza il consenso delle persone coinvolte è sufficiente per fare l’amara esperienza delle aule di tribunale di Adele Turri Facebook e i social network: universo virtuale e parallelo per tenere a portata di click tutti gli amici, ma anche arma a doppio taglio, in grado di offrire grandi opportunità di comunicazione e, al tempo stesso, di sfuggire al controllo, creando danni imprevisti. C’è chi si è ritrovato con la faccia sbattuta in prima pagina, colpevole solo di avere lo stesso nome di una delle “Bunga bunga girls” e le foto visibili sul profilo. C’è chi, come nel caso dell’aggressione di piazza Viviani, è stato riconosciuto dalle vittime tramite le foto pubblicate su Facebook: un’identificazione “fai da te”, che avrebbe anticipato

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quella effettuata in Questura. E alcuni tra i protagonisti della stessa inchiesta sarebbero finiti nei guai anche per alcuni commenti pubblicati sul social network, ritrovandosi sotto indagine per diffamazione e minacce. A TU PER TU CON I RAGAZZI Secondo l’ultima ricerca Nielsen, gli italiani trascorrono in media 6 ore e 28 minuti al mese su Facebook, circa un’ora in più rispetto alla media mondiale. I giovani lo usano tutti i giorni e ci trascorrono dai 30 minuti a qualche ora quotidianamente. Ognuno ha una sua personale concezione del social network, come loro stessi rac-

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«Oggi non è facile aggirare i controlli: ci sono organi preposti che si dedicano a ricostruire i percorsi all’origine di un messaggio. All’autore prima o poi si arriva, che sia anonimo o meno»

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contano all’uscita da scuola: c’è chi accetta tutti e ha 800-1.000 amici, c’è chi invece preferisce selezionare accuratamente i suoi interlocutori e si limita a 100-200 contatti. La maggior parte di loro assicura di condividere foto e informazioni personali solo con gli amici più stretti, altri invece non si fanno problemi e lasciano la bacheca aperta a tutti. Laura tra i contatti ha il fratello maggiore, «ma l’ho bloccato, così non può vedere nulla di quello che pubblico». Stefano sa che anche i genitori hanno un profilo Facebook: «Ma mi guardo bene dal chiedere loro l’amicizia, non voglio che controllino cosa faccio, chi mi scrive o le foto con i miei amici». Alcuni hanno persino architettato scherzi contro qualche compagno di classe. «Alcuni miei amici hanno creato un profilo con un nome falso e la foto di una bella ragazza, hanno finto di essere interessati a uscire con il nostro amico e lui c’è cascato», racconta Luca, «quando è arrivato all’appuntamento s’è ritrovato davanti loro che lo prendevano in giro». Ma Facebook non è un gioco e i tranelli possono essere sempre dietro l’angolo.

IL PRESIDE A fare un uso quotidiano di Facebook sono i ragazzi. «Le rete non va demonizzata, ma è importante che i giovani siano consapevoli che possono andare incontro a qualche problema o, anche incosapevolmente, causarlo», è il commento di Giancarlo Peretti, dirigente scolastico del Liceo Messedaglia, che tutti i giorni è a contatto con i suoi alunni e, sensibile al tema, ha organizzato nella sua scuola un incontro tra studenti, avvocati e magistrati, affinché spiegassero i possibili risvolti penali di un utilizzo non corretto dei social network. «Ormai Facebook è entrato a far parte dell’ordinarietà. Forse all’inizio avevamo ingigantito tutto, si temeva potesse raffreddare i rapporti interpersonali, invece il piacere di parlare rimane sempre», prosegue Peretti. «I ragazzi però non sono del tutto consci di ciò che fanno in rete: non c’è mai l’immediatezza della sanzione, le indagini della polizia postale arrivano troppo tardi, quando ormai il “caso” è acqua passata». Il dirigente del Messedaglia preferisce tuttavia guardare al bicchiere mezzo pieno. «Su Facebook c’è anche il gruppo del nostro liceo», dice Peretti, «lo trovo uno strumento interessante perché dà uno spaccato vero di ciò che pensano gli studenti della scuola; è un punto di lettura più informale dove spesso si trovano opinioni anche condivisibili, che ci aiutano a migliorare».

Angela Barbaglio, Procuratore aggiunto

IL MAGISTRATO «Uno dei rischi dei social network è quello di commentare in modo goliardico le caratteristiche di professori, amici, colleghi, conoscenti», spiega il procuratore aggiunto Angela Barbaglio, «chiacchierando su Facebook si divulgano affermazioni come se si parlasse in pubblico, in un locale o su un marciapiede: serve, quindi, un richiamo al senso di responsabilità e

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Attualità al rispetto della verità, altrimenti si rischia di incappare nel reato di diffamazione». Secondo il procuratore aggiunto, i ragazzi sono ben consapevoli dei pericoli della rete. «Non occorre un’intelligenza particolare, basta riflettere sul fatto che, pur avendo di fronte una quantità imprecisata di persone, stiamo dialogando con altri. La rete è un mezzo di comunicazione». Secondo la Barbaglio, i giovani sperano piuttosto di non andare incontro a possibili punizioni. «Nella vaghezza del web, i ragazzi magari credono di riuscire a farla franca, ma ciò denota comunque una consapevolezza di ciò che si sta facendo. È importante che sappiano, però, che oggi non è facile aggirare i controlli: ci sono organi preposti che si dedicano a ricostruire i percorsi all’origine di un messaggio e, quindi, all’autore prima o poi si arriva, che sia anonimo o meno». LA POLIZIA POSTALE

Facebook ha avuto un ruolo importante anche nel caso dell’aggressione di Piazza Viviani. Alcuni giovani sarebbero stati identificati dagli stessi amici della vittima: utilizzarono proprio il social network prima ancora del riconoscimento ufficiale in Questura

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Ad avere quotidianamente a che fare con il mondo del web sono gli agenti della Polizia postale. «Un tempo la rete veniva utilizzata solo per navigare, chattare, mandare mail», spiega Ciro Pellone, dirigente della Polizia postale e delle comunicazioni del Veneto, «oggi l’85% degli utenti la usa per vivere i social network: è come una vita reale, solo che i rischi sono più intangibili». Pellone elenca tre principi base, punti cardine per orientarsi nel pericoloso e affascinante universo di internet. Punto uno: non si può mai avere la certezza di chi sta dall’altra parte. «Sono sufficienti uno user name e una password per appropriarsi di un profilo», spiega il dirigente, «basta rispondere a delle domande o digitare alcuni caratteri su una tastiera e il gioco è fatto». Punto due: nulla si può cancellare in modo definitivo dalla rete. «Chi utilizza internet deve essere consapevole che qualsiasi cosa scrive, qualsiasi foto pubblica, qualsiasi profilo crea, resta, non verrà mai eliminato del tutto», prosegue, «anche per questo motivo, i social network sono più rischiosi: lasciandosi andare a frasi ingiuriose, pubblicando immagini senza l’autorizzazione di ogni singolo

soggetto ritratto, dando informazioni su gusti vizi o virtù di terze persone, si rischia di incorrere in conseguenze penali e andare incontro al processo per diffamazione, divulgazione di dati sensibili o foto, violazione della privacy, etc.». Punto tre: in rete non si viaggia mai anonimi. «Il nostro ufficio lavora a livello preventivo, cioè tenendo monitorata costantemente la rete, in particolare con riferimento a siti che trattano di violenze, materiale pedopornografico, autolesionismo, etc.», precisa il dirigente della Polizia postale, «e al livello repressivo: a seguito di denuncia o querela, scatta l’attività di indagine, che è composta da una parte tecnica su internet e dalla più tradizionale indagine di polizia». Anche se un utente di Facebook non è registrato con il proprio nome, può comunque essere identificato: la polizia, infatti, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, può chiedere al social network di fornire i dati informatici relativi a una determinata connessione (da cui ad esempio è stata postata una frase diffamatoria). Tramite l’indirizzo Ip è, quindi, possibile risalire alla linea telefonica che stava utilizzando quella connessione in quel determinato momento. A quel punto parte la normale attività di polizia per capire se a fare un utilizzo distorto di internet sia stato l’intestatario della linea, qualche familiare, un amico o conoscente. «Il principio che dev’essere assimilato è che chi naviga in rete lascia delle tracce», conclude Pellone, «e con quelle tracce informatiche è possibile risalire alla persona che le ha lasciate». FACEBOOK E LA GIUSTIZIA Facebook ha avuto un ruolo importante anche nel caso dell’aggressione di Piazza Viviani, avvenuta la notte del 3 febbraio 2009: Francesca Ambrosi, una ragazza veronese di 30 anni, venne colpita al volto con un posacenere per aver invitato un gruppetto di ragazzi a smetterla di intonare cori razzisti. Alcuni dei giovani finiti nel mirino della Procura sarebbero stati identificati, poche ore dopo l’accaduto, dagli stessi amici della vittima, che utilizzarono

proprio il social network per riconoscere, scoprire e collegare nomi e volti di coloro che avevano preso parte all’aggressione, prima ancora del riconoscimento ufficiale in Questura. Inoltre, da quell’episodio scaturì un’ulteriore denuncia: la ragazza colpita al volto querelò due degli imputati per alcune frasi pesanti che avevano pubblicato su Facebook. Lo stesso procuratore Mario Giulio Schinaia, però, decise di chiedere l’archiviazione della denuncia per diffamazione e minacce perché, a suo avviso, «non vi erano elementi sufficienti per sostenere adeguatamente l’accusa in giudizio». DAL WEB AL BUNGA BUNGA Chiara Danese, 31 anni, di Verona, non vuol più sentir parlare di quella storia: un incubo iniziato lo scorso aprile, con le telefonate di alcuni amici che le chiedevano che ci facesse ai festini di Arcore, in compagnia del premier Berlusconi. Chiara è cascata dalle nuvole: con il suo lavoro da assistente in uno studio dentistico e un fidanzato, che presto diventerà marito, non ha mai avuto alcuna intenzione di partecipare a provini per diventare soubrette, velina o di far carriera sul piccolo schermo. Quando ha aperto i giornali è rimasta senza parole: la sua foto era finita sulle prime pagine di quotidiani locali e nazionali. Le immagini di lei ritratta sorridente sono state associate al nome di una Chiara Danese che si era pentita di essere stata a casa di Berlusconi. «Serve una riflessione seria da parte dei professionisti che utilizzano questi social network come bacino di informazioni, perché siano più responsabili ed evitino di commettere errori, come quello che ha interessato la nostra cliente», commenta l’avvocato Francesco Amaini che assiste la Danese assieme alla collega Alessandra Zaninotto. Attualmente sono in corso le trattative tra i legali della giovane veronese e quelli dei giornali, circa una decina, che hanno pubblicato le foto. «Stiamo cercando un accordo con le controparti», conclude Amaini, «siamo tutti interessati a evitare la causa civile e a chiudere questa vicenda il prima possibile».

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Cultura

Alberi bene comune Sabato 25 giugno 2011.Fotocronaca della manifestazione in difesa degli alberi dell’ex caserma Passalacqua. Itinerario: dal quartiere universitario a piazza Viviani

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Inchiesta

INCHIESTA

UNA CITTÀ BISTRATTATA

Sede di forti e guarnigioni, Verona è stata in Europa al centro di vicende importanti, ma è anche una città mortificata da uomini incapaci di comprenderne la storia e di garantire uno sviluppo adeguato. Oggi tutto questo si traduce nella difficoltà di produrre un piano organico in grado di sistemare spazi aperti e contenitori. Si litiga su tutto e, per fare cassa, avanza la smania di vendere a privati gioielli che sono patrimonio di tutti. A ritroso nel tempo con tre architetti: Libero Cecchini, Otto Tognetti e Giorgio Massignan. Gli errori del passato, le occasioni mancate e i possibili rimedi

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di Michele Marcolongo E il museo dove lo metto? Quello di Storia naturale all’Arsenale. Anzi no, agli ex Magazzini Generali. Pardon, volevamo dire al Palazzo del Capitanio. O forse quello della Ragione. Ma sai che c’è? Visto che siamo riusciti a vendere solo Palazzo Gobetti (che ospitava una parte delle collezioni) ma non Palazzo Pompei, sede principale del museo, per il momento lo teniamo lì dove si trova; le collezioni “eccedenti” le parcheggiamo in deposito all’Arsenale e, selci blu permettendo, quando sarà pronto Castel San Pietro trasferiremo tutto là dentro... Del resto la Fondazione Carivero-

na ha proprio il problema di trovare un contenuto per il castello, acquisito dal Comune nel 2005, in epoca di centrosinistra, con vincolo di destinazione museale. Tra le altre cose, negli ultimi anni si era pensato di adibire Castel San Pietro a succursale dell’Heremitage di San Pietroburgo, ma poi russi avevano ritenuto più idonea la città di Ferrara; quindi si era pensato di trasferirvi la Galleria d’arte moderna, ora di stanza a Palazzo Forti ma destinata a prendere la via del Palazzo della Ragione; poi a un non meglio precisato “museo della città”; infine, ma è ancora soltanto un’ipotesi, al museo di Storia naturale. Ecco due esempi di circoli “vizio-

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Inchiesta A ben guardare il disordine “culturale” non è che un aspetto del generale disordine urbanistico e viabilistico, che affonda le sue radici nei decenni passati, rispetto al quale le amministrazioni odierne non hanno colpa, tranne quella di vivere tenacemente abbarbicate agli errori del passato, senza la volontà di cercare di porvi rimedio

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si” che da anni imperversano non solo sui musei, ma su tutti i cosiddetti “contenitori” della città. Progetti che mutano al cambiare delle amministrazioni o delle esigenze di bilancio, con il Comune sempre e comunque attento a cogliere l’occasione per alienare qualche pezzo di patrimonio architettonico con l’esplicito intento di far cassa. Ci sono casi di edifici storici scambiati con terreni come Palazzo Forti, finito alla Fondazione Cariverona come contropartita (parziale) dei 33 milioni che il Comune doveva pagare alle banche dopo la rinuncia a realizzare

il Polo Finanziario negli spazi dell’ex Mercato ortofrutticolo. A Palazzo Forti ora dovrebbero finire la Fondazione Arena e il nuovo Museo della lirica. Ma siccome nel grande risiko dei contenitori e dei palazzi nessuna mossa è priva di conseguenze, ecco presentarsi il problema del recupero dell’Arsenale. Una volta stracciato il progetto Chipperfield – commissionato dalla precedente Amministrazione di centrosinistra, che prevedeva il trasferimento della Fondazione Arena e dell’Accademia Cignaroli – esso rimane un contenitore privo di progettualità. Non pare un caso, dunque, che il recupero dell’Arsenale sia stato di recente stralciato dal piano triennale delle opere 2011-2013, in attesa che la giunta predisponga un nuovo “piano organico”. Una parte del denaro per la ristrutturazione dovrebbe venire dall’alienazione di Palazzo del Capitanio (17 milioni), ma visti i precedenti e le precarie condizioni di bilancio comunale, il condizionale è d’obbligo. Palazzo Pompei rimane invece ancora invenduto. A ben guardare, il disordine “culturale” non è che un aspetto del generale disordine urbanistico e viabilistico, che affonda le sue radici nei decenni precedenti, rispetto al quale le amministrazioni odierne non hanno altra colpa tranne quella di vivere tenacemente abbarbicate agli errori del passato, senza la volontà di cercare di porvi rimedio. Vediamo qualche altro esempio:

l’esaurimento della funzione della Zai storica, motore economico del secondo dopoguerra, era divenuta palese già dalla fine degli anni Settanta, quando l’omonimo ente che aveva in gestione gran parte delle aree di Verona Sud, il Consorzio Zai, si mise a cercare nuove direttrici di sviluppo al Quadrante Europa (il centro intermodale è del 1977); alla Bassona (del 1978 comincia l’assegnazione dei primi lotti alla cosiddetta Zai Due) e alla Marangona, che avrebbe dovuto diventare un Parco dell’Innovazione capace di attrarre imprese tecnologicamente avanzate. Trent’anni dopo troviamo che l’innovazione non è mai partita: non c’è mai stato un forte impegno da parte della classe imprenditoriale e non si sono mai sviluppate sinergie significative con l’Università per attivare la ricerca. A completamento di questa parabola c’è la recente proposta di costruire, proprio alla Marangona, il nuovo stadio dell’Hellas Verona; avanzata prima in sordina nel settembre 2010 e poi scopertamente nel gennaio 2011 dalla stessa società di calcio per il tramite di uno studio professionale specializzato. «Un bellissimo progetto», assicuravano i promotori ammiccando all’Amministrazione comunale che nel 2008 aveva già provato, senza successo, a fare accettare alla città l’idea di un nuovo stadio alla Spianà. Gli stessi vizi stanno presiedendo anche al recupero della Zai storica, un intervento di “ricucitura”

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di aree private, molto discusso e discutibile, che tuttavia, con l’Amministrazione Zanotto, aveva trovato una propria connotazione economico-sociale con i progetti del Polo Finanziario e del Polo Culturale che puntavano a sviluppare la vocazione terziaria. Con l’avvento della nuova Amministrazione di centrodestra i progetti vennero stoppati e ora al posto del Polo Finanziario è previsto un bel... parcheggio, o forse la nuova sede del Comune: come sempre è ancora tutto da decidere. Mentre negli spazi del Polo Culturale troveranno posto anche gli uffici dell’Ulss 20. Altro caso di cattiva (o meglio mancata) pianificazione riguarda l’assenza di un piano regolatore degli edifici storici e del patrimonio edilizio sotto utilizzato: il risiko (o il valzer) dei palazzi storici è un tormentone che assilla i veronesi da ormai molti anni. Più trascurati invece sono i circa 10 mila alloggi che, secondo i dati

dell’Istat rimangono sfitti in città. Una cifra impressionante, che dovrebbe suggerire la radicale revisione del programma di nuove edificazioni pubbliche e private. Il che, ovviamente, rischierebbe di mandare in malora tutta una serie di equilibri politici ed economici. Non da ultimo, è interessante osservare come è andata a finire la “lunga marcia” per l’acquisizione delle ex caserme avviata negli anni Novanta dall’Amministrazione Sboarina e perseguita da tutte le amministrazioni comunali successive fino al 2007 e al 2010, data di definitiva acquisizione rispettivamente della Passalacqua e dell’Arsenale. La prima caserma è stata consegnata alla cementificazione dei privati, con buona pace del Campus universitario che ne uscirà fortemente ridimensionato. La seconda è stata appunto stralciata dal piano triennale delle opere, in attesa di un “piano organico”.

UN PO’ DI STORIA

Di occasioni mancate è pieno anche il passato meno recente, a partire dal Piano regolatore generale del 1946-1954. In quegli anni la scena era dominata dall’architetto Plinio Marconi, che aveva disegnato un piano per una città gigantesca di 600 mila abitanti, piena di quello che sono passati sotto il nome di“sbreghi”, ovvero sventramenti, abbattimenti di case e quartieri per far posto a nuove opere urbanistiche. Pratica venuta in auge in tutte le città italiane durante il fascismo, ma perseguita fin dai primi del Novecento, alla ricerca di un malinteso concetto di modernità. A questa maniera di pianificare ritenuta “decrepita” si oppose, agli inizi degli anni Sessanta, un gruppo di giovani architetti riuniti da Guido Trojani attorno alla rivista Architetti Verona: Otto Tognetti, Arrigo Rudi, Gianlorenzo Mellini, Virgilio Vercelloni.

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Nel 1962 un pool di giovani riuniti attorno alla rivista Architetti Verona organizzò un convegno per proporre alla città scelte urbanistiche al passo coi tempi: «Sulle pagine della rivista venivano contestati alcuni sventramenti, come quelli del chiostro seicentesco di San Domenico, adiacente la chiesa di Sant’Anastasia» ricorda l’architetto Otto Tognetti che di quel gruppo faceva parte


Focus DAL PRG DEL 1975 AL PAT DEL 2007

Non si possono risolvere i problemi se manca una visione d’insieme di Giorgio Massignan* Le ultime grandi scelte urbanistiche per la nostra città furono fatte nel 1975 con l’approvazione della Variante generale al PRG, poi solo modifiche e varianti parziali,oltre 200 sino alla recente approvazione del PAT (2007). Per oltre trent’anni si è perso di vista il progetto unitario di città e dato luogo a uno sviluppo dispersivo degli insediamenti, a un incontrollato consumo di suolo e alla mancata realizzazione delle necessarie opere infrastrutturali. I soli interventi di una certa importanza sono stati eseguiti sulla viabilità (le bretelle, i sottopassi dei Mondiali ’90 e le tangenziali, inserite nella Variante del ’75), non sulla mobilità, che avrebbe consentito di pianificare, organicamente alle scelte d’uso del territorio, i diversi sistemi di spostamento. La Pubblica Amministrazione ha preferito scegliere la grande opera infrastrutturale, la complanare Nord con il traforo della collina e la strada di gronda. Scelta questa che modificherà lo sviluppo della città, spostandolo verso le aree settentrionali e occidentali. Valutazione strana, considerando che gli investimenti economici sono concentrati a Verona Sud. Da considerare che la chiusura a Nord dell’anello delle complanari, che collegherà direttamente i caselli di Verona Est e di Verona Nord, fornirà risposte solamente ai problemi di viabilità extra urbana e autostradale, ma non risolverà il problema del traffico urbano. Non si è neppure scelto quale forma dare alla città, come rapportarla con la campagna circostante e con i comuni contermini. Nel recente PAT si ipotizza che la popolazione veronese possa crescere di circa 10.000 unità per quinquennio, raggiungendo le 300.000 unità nel 2021,:cifra poco credibile.Per questo sono state previste aree di nuova edificazione per un aumento di 25.000 abitanti in circa 10 anni. Ancora una volta non è stato delimitato il confine dell’edificato urbano, annullando così il concetto di limite all’espansione edilizia della città. In questo modo le aree agricole cosiddette residuali, anziché essere paesaggisticamente tutelate potrebbero divenire, attraverso il Piano degli interventi, zone di sviluppo e di espansione.

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Le grandi scelte urbanistiche si sarebbero potute fare a Verona Sud, una zona con enormi aree dismesse da riqualificare. In realtà si è preferito ricucire le differenti proposte che i vari gruppi di imprenditori privati avevano presentato, senza considerare la complessità dell’intero territorio comunale. Nella zona dello scalo merci della ferrovia si sta perdendo l’occasione di realizzare un grande parco urbano. Sono infatti ipotizzati il passaggio di una superstrada in trincea e la costruzione di centri direzionali pubblici. Si sta perdendo l’opportunità di migliorare la qualità ambientale della zona e di realizzare una cerniera di collegamento ciclabile e pedonale tra la stazione e la fiera e tra la zona di Verona Sud e quella dello stadio con il futuro parco della Spianà. Altre scelte che avrebbero potuto essere urbanistiche,ma che in realtà sono del tutto scollegate da un concetto organico dell’uso del territorio sono: Le ex Cartiere Verona. In un’area di circa 150.000 mq è stata recentemente approvata la lottizzazione di una city con 300.000 metri cubi di nuova cementificazione, che ospiterà 70 negozi per 15.000 mq, 12 bar e ristoranti, palestre, centri per il fitness, multisale cinematografiche per 4600 mq e uffici per 30.000 mq. In quella zona andranno giornalmente a lavorare circa 1500 persone e molte altre migliaia vi arriveranno con le loro automobili per usufruire dei servizi commerciali e direzionali. Tutto questo significa stravolgere i già precari equilibri urbanistici e sociali della nostra città. Le ex Officine Adige, il Foro Boario, gli ex Mercati Ortofrutticoli, gli ex Magazzini Generali e la ristrutturazione delle ex Manifatture Tabacchi. La proposta dei privati per le prime quattro aree, che la Pubblica Amministrazione farà propria, è quella di realizzare circa quattro milioni di metri cubi di costruito,di cui un milione di edifici residenziali e tre milioni tra direzionale, commerciale e alberghiero: quantità certamente sovradimensionate per la realtà veronese. Al di fuori e al di sopra della pianificazione comunale, si inserisce quella regionale che, con la non opposizione del Comune di Verona,

permetterà di costruire, attraverso il Piano d’Area, altri milioni di metri cubi. L’ex Opificio Tiberghien a Borgo Venezia. Destinazione d’uso prevista per la promozione di attività relative al direzionale, commerciale e ricettivo. Saranno recuperati i volumi che erano destinati alle strutture produttive. L’Agorà della Croce Bianca. È proposto un centro turistico ricettivo metropolitano.Sono inserite funzioni che renderanno ancora più caotica una zona in cui insistono già dei forti attrattori di traffico. Ecocittà del Crocione. Si prospetta di creare un complesso a uso direzionale,di servizi e residenziale,in una zona che già ora ha dei grossissimi problemi di traffico e il cui handicap è l’eccessiva quantità di centri commerciali. Porte della Città al Nassar di Parona. In una zona ambientalmente pregiata, a pochi metri dall’Adige, confinante con la campagna e di possibile esondazione, è ipotizzata la costruzione di un complesso abitativo, direzionale e commerciale, di 72.399 metri quadrati. Una colata di cemento composta di undici fabbricati alti 11 metri con una superficie coperta di 6.780 metri quadrati per la residenza e di due fabbricati di 11 metri, con una cubatura di 24.930 metri cubi per una superficie coperta di 3.110 metri quadrati di direzionale e commerciale. Ecoborgo di Mezzacampagna (seminario di San Massimo). Si propone di realizzare centri direzionali, ricettivi, commerciali e residenziali.Oltre a queste strutture è ipotizzata la costruzione di un centro sociale e assistenziale. Una scelta importante e strategica sarebbe stata la pianificazione e le conseguenti destinazioni d’uso degli edifici storici e/o monumentali. Il cosiddetto piano regolatore dei contenitori storici avrebbe dovuto, assieme a quello della mobilità, rappresentare la base per la stesura del PAT. In conclusione le scelte urbanistiche fatte dalla nostra Amministrazione sono state del tutto estranee a una pianificazione unitaria del territorio. Si è preferito considerare caso per caso, slegando ogni singolo problema dal contesto organico della città. *Presidente di Italia Nostra-Verona

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piegato un ristretto numero di ingegneri e soltanto qualche architetto. Di qui, secondo Tognetti, la scarsa qualità estetica del quartiere, che tuttavia rimase uno dei più esclusivi fino agli anni Ottanta. Esaurita la direttrice di via IV Novembre venne avviata l’urbanizzazione della zona di Ponte Catena (Borgo Trento “Due”) che aveva in comune con la prima la caratteristica di essere in mano ad un’unica famiglia, i Jenna. Poi, piano piano, cominciò il lento ritorno verso il centro storico, anche se ancora nei primi anni Ottanta risiedere a Borgo Trento costava il doppio rispetto alla zona del Duomo. Un ritorno interrotto soltanto dal boom della casa in collina e favorito, secondo Tognetti, anche dall’inizio della stagione dei rapimenti (ad esempio quello di Garonzi o della giovane Tacchella). «Per motivi logistici o anche soltanto psicologici, il centro storico veniva preferito e ritenuto più sicuro» spiega l’architetto. Ora il rapporto si è definitivamente invertito, anzi, le quotazioni immobiliari di Borgo Trento sono in lenta ma continua discesa. E la Variante al piano regolatore? «Venne bloccata a lungo a Roma, in attesa che le competenze urbanistiche passassero alle Regioni. E quando tornò a Verona era stata

tagliata di brutto: 400 mila abitanti invece dei 600 mila del progetto originario» appunta l’architetto, «tuttavia ancora decisamente troppi». Andando sempre più a ritroso, un filo rosso lega la filosofia sottesa al Piano regolatore generale di Marconi alle concezioni urbanistiche pre-repubblicane. «Tutte le idee del Piano regolatore generale erano già contenute nel concorso di urbanistica indetto nel 1931 dal Comune di Verona e, ancora prima, erano contenute nella realizzazione di Ponte della Vittoria (del 1925, ndr) e nel conseguente sbrego di via Diaz» spiega l’architetto Libero Cecchini. «Sulle stesse basi è stato poi realizzato il ponte del Risorgimento (anni Sessanta, ndr) ed è nata l’idea di realizzare un analogo sbrego anche in via Oberdan». A Libero Cecchini, classe 1919, si deve la ricostruzione post-bellica del Ponte di Castelvecchio e di Ponte Pietra, nonché, negli anni Sessanta, un lavoro di salvaguardia delle Torricelle svolto con Piero Gazzola e che salvò le colline dalla voracità del Piano regolatore del 1975. Curatore degli Scavi scaligeri e del restauro di numerosi chiese e siti archeologici, tra cui San Zeno Maggiore, la sua opera rappresenta l’anello di congiunzione tra

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Per l’architetto Libero Cecchini non ci sono dubbi: «Le preesistenze della struttura urbanistica di Verona sono da rinvenire nella pianta dei forti risalenti alle diverse epoche: romana, viscontea, scaligera e asburgica, che formano già di per sé una struttura urbanistica. Peccato che per scelte poco lungimiranti siano stati in parte abbattuti, togliendo così la spina dorsale della città»

«Sulle pagine della rivista venivano contestati alcuni sventramenti, come quelli del chiostro seicentesco di San Domenico, adiacente la chiesa di Sant’Anastasia, poi ricostruito da Ettore Fagiuoli» ricorda Tognetti. Il gruppo di giovani architetti cercò di impedire che, dopo l’approvazione del Prg del 1958, venisse affidata a Marconi anche la Variante generale. Impresa ardua perché l’architetto aveva solidi agganci romani e a Verona poteva contare sul sostegno di Piero Gonella (fratello del più noto parlamentare democristiano) vicesindaco e assessore ai lavori pubblici, ma il gruppo era deciso: «Ritenevamo fondamentale la battaglia sul Piano regolatore così pensammo di organizzare un convegno per suggerire all’Amministrazione una personalità di diversa sensibilità rispetto Marconi» prosegue Tognetti. Il gruppo in effetti riuscì a far convergere l’interesse di personalità del peso del sovrintendente Piero Gazzola e del direttore dei Musei civici Licisco Magagnato sul nome di Luigi Piccinato, autore del Piano regolatore generale di Legnago. Pser un attimo il miracolo sembrò a portata di mano: l’Amministrazione di Giorgio Zanotto abbracciò l’iniziativa del gruppo e la fece propria. Il convegno si tenne con successo nel luglio 1962, ma ad appena un paio di settimane di distanza la doccia fredda: Zanotto affidò l’incarico della variante generale di nuovo a Marconi, infrangendo così i sogni dei giovani architetti. Ma che Verona era quella di allora? «Era il periodo del boom di Borgo Trento» ricorda Tognetti. A partire dagli anni Cinquanta il centro storico era stato abbandonato dalle famiglie della borghesia cittadina. Destinazione oltre Ponte Garibaldi e Ponte della Vittoria, dove c’erano già degli insediamenti in corrispondenza delle villette liberty. Le nuove urbanizzazioni si addensarono lungo via IV Novembre, che ancora oggi è l’unica strada di collegamento tra Ponte della Vittoria e l’Ospedale di Borgo Trento. La proprietà di quelle terre era in mano a un’unica famiglia, i Trezza-Acquarone. Per le nuove cstruzioni fu im-



Inchiesta Per noi profani è immediato pensare alla destinazione di forte Procolo e della caserma di Villasanta, da poco ceduti dalla Regione all’Azienda ospedaliera che li trasformerà in parcheggi a servizio del nuovo Polo Chirurgico. Con i suoi 60 anni di attività professionale e di impegno civico (tra le altre cose è stato per 25 anni vicepresidente dell’Accademia Cignaroli) e con circa 240 progetti al suo attivo, Cecchini mostra di essere giunto alla conclusione che «forse senza piani sarebbe stato meglio». Agli errori urbanistici si sono infatti sommati quelli politici-amministrativi: «Fino al 1927 Verona era circondata da comuni satellite come Avesa, Parona, San Massimo, Santa Lucia, San Michele, Poiano, Montorio che all’improvviso vennero assorbiti dalla città. C’era anche San Giovanni Lupatoto, che poi tornò a essere autonomo. Per fare grande Verona non hanno tenuto conto delle specificità: le città venete non hanno la strutture delle metropoli, ma di un insieme di comunità che hanno un proprio baricentro attorno al quale si sviluppano. Senza un piano sarebbe forse stato meglio, perché queste piccole comunità sono capaci di autocontrollarsi esercitando una propria forma di autocontrollo. Ma è andata come è andata ed è per questo che oggi abbiamo bisogno delle tangenziali». Nella grandeur di inizio Novecento, con le sue brecce nelle mura

antiche, gli isolati sventrati, i ponti e le strade costruite, Cecchini individua anche l’origine del caos viabilistico di cui soffre oggi Verona. Da queste opere e dai piani regolatori discende infatti la struttura viaria che taglia la città ai quattro punti cardinali incrociando invariabilmente il centro storico e in particolare Piazza Bra. Una struttura, osserva l’architetto, che prende forma a partire dall’innalzamento dei muraglioni a contenimento dell’Adige, realizzati alla fine dell’Ottocento dopo la grande piena del 1882 che precluse la navigazione con le barche. «Questo evento fece esplodere una città che fino ad allora era letteralmente chiusa a chiave» spiega. «Venuto meno il rapporto del centro col suo fiume, si sono aperte le brecce impostando una viabilità che passa tutta da piazza Bra». In effetti al 1912 risale l’apertura di una prima breccia nella cinta muraria sul lato Est di Porta San Zeno, finalizzata a favorire la circolazione sulla strada per Milano. Nel 1913, con l’intento di favorire i collegamenti con la nuova grande stazione ferroviaria da poco progettata, il Comune decide l’isolamento di Porta Nuova aprendo due grandi brecce di 30 metri ciascuna nelle mura laterali, scandalizzando i cultori dell’arte. Al termine di un lungo braccio di ferro con la Sovrintendenza di allora, tra il 1913 e i primi anni Venti, il Comune realizza la breccia di Por-

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«Le città venete non hanno la strutture delle metropoli ma di un insieme di comunità che hanno un proprio baricentro attorno al quale si sviluppano. Senza un piano sarebbe forse stato meglio perché queste piccole comunità sono capaci di auto-controllarsi esercitando una propria forma di autocontrollo»

presente e passato per una parte considerevole di quello che c’è (o che resta) di buono a Verona. La sua filosofia si riassume in alcuni semplici regole, bene esposte nella mostra dei suoi lavori che si è da poco conclusa agli Scavi scaligeri. La prima: lo spazio architettonico esiste in natura, il segreto è scoprirlo. La seconda: cercare di trasmettere la continuità della storia è come prendere il filo di una ragnatela e muoverlo senza spezzarlo. Se si spezza il filo si è rotto l’equilibrio ambientale. La terza: definire l’ambiente è come immaginare di aprire un grande ombrello sotto cui proteggere le preesistenza storiche o naturalistiche. E per Cecchini non ci sono dubbi: le «preesistenze» della struttura urbanistica di Verona sono da rinvenire «nella pianta dei forti risalenti alle diverse epoche: romana, viscontea, scaligera e asburgica, che formano già di per sé una struttura urbanistica». Peccato, prosegue l’architetto, «che per scelte poco lungimiranti siano stati in parte abbattuti, togliendo così la spina dorsale della città». Cecchini parla ad esempio del forte di Santa Lucia, ma ci ricorda che il Piano regolatore del 1975 «prevedeva di buttare giù anche l’Arsenale e al suo posto fare dei giardini». Fortunatamente il progetto non andò in porto, «ma è per questa ragione – sottolinea – che Borgo Trento rimane ancora oggi senza verde pubblico».

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«A Valencia nel 1957 ci fu una grossa inondazione, come quella di Verona del 1882. Dopo questo evento le autorità cittadine di quella città hanno deciso di deviare il corso del fiume lungo un canale artificiale e il letto prosciugato è stato trasformato in giardino pubblico». Secondo l’architetto Libero Cecchini qualcosa di simile si potrebbe fare anche a Verona

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ta San Giorgio. Poi fu il turno di Porta Vescovo (1920) e nel 1936 quello di Porta Palio. Ma c’era davvero bisogno di queste opere? «Fino al 1945 la popolazione di Verona era ai livelli di fine Ottocento – risponde laconico Cecchini – poi è cresciuta a macchia d’olio secondo piani regolatori fatti con poca lungimiranza». Insomma, in questa maniera la città forse pensava di aprirsi alla modernità, ma interrompendo il suo secolare rapporto col fiume finì per perdere una parte della sua anima. «Verona è sempre stata un posto non solo di difesa ma anche di riposo e svago. Accade fin dai tempi dei romani, come dimostrano i teatri – spiega l’architetto – ma la mancanza del fiume ha finito per isolare ancora di più una città che per secoli è stata chiusa a chiave» insiste. «Nel Medioevo era chiusa da mura e dai conventi. Gli stessi veneti sono stati più occupatori che liberatori, perché hanno lottizzato e venduto tutte le proprietà degli Scaligeri. Mentre con gli austriaci c’era più esercito che popolazione, di qui la necessità dei grandi forni per il pane» appunta Cecchini facendo riferimento all’ex panificio della Caserma di Santa Marta. Il valore dell’Adige per la città di Verona è presto illustrato: «Il fonte battesimale del battistero di Parma è realizzato con marmo di Sant’Ambrogio, che veniva trasportato

via fiume – argomenta l’illustre concittadino –, ma tutto il marmo con cui si costruirono le cattedrali della Valpadana, da Ferrara a Modena e via dicendo, proveniva da Sant’Ambrogio. Venivacaricato sulle barche a Ponton e viaggiava prima via Adige e poi via Po». Ed ecco la conclusione: «Tanti degli errori che sono stati fatti derivano dalla mancanza di capacità di leggere la storia». Ma quali altri rimedi si sarebbero potuti escogitare contro le piene dell’Adige? Cecchini non si tira indietro e spiega: «A Valencia nel 1957 ci fu una grossa inondazione come quella di Verona del 1882. Dopo questo evento le autorità cittadine hanno deciso di deviare il corso del fiume lungo un canale artificiale, un po’ come il nostro Camuzzoni, e il letto prosciugato è stato trasformato in giardino pubblico. Lì gli spagnoli hanno messo i grandi contenitori comunali: la biblioteca, il teatro, la città dell’Arte e quella della Scienza. Insomma, hanno dato alla città dei servizi e ora sono tutti contenti. Ma è successo là, a Valencia, non qui» commenta sornione Cecchini. «Certo che – ammette – l’ansa vuota del fiume sarebbe stata la cosa più bella del mondo...». In una città sostanzialmente tutta da ripensare, l’architetto si ritrova poco nel presente: «Mi sembra si stia procedendo sul lato negativo, cercando di disfare quello che di buono è stato fatto. Penso a certi

miei lavori, come la Banca Cattolica del Veneto in Corte Farina oppure a quelli di Fagiuoli: il garage Manin o il palazzo delle Poste, trasformato oggi in un albergo. È strano – conclude Cecchini – una volta il liberalismo si basava sulla proprietà, mentre in questa fase storica si pensa solo a vendere. Potrebbero essere invece questi i tempi per affrontare a tavolino i nodi urbanistici che si trascinano da decenni, come il Parco ferroviario, l’Ospedale, la Zai storica e via elencando». Forse si potrebbe cominciare proprio dai percorsi culturali, offrendo ai turisti in visita alla città degli itinerari meno dispersivi e più curati. Si potrebbe, osservando bene la disposizione di certi importanti contenitori, progettare un “itinerario della cultura” su un’unica chiara direttrice; uno di questi potrebbe partire dall’Arena, dalla Gran Guardia, quindi continuare nella direzione del museo Maffeiano e dell’ex garage Manin, il posto più adatto, vista la vicinanza con l’anfiteatro, per ospitare un moderno museo della lirica (destinato a diventare invece un centro commeciale di lusso). Sulla stessa linea troviamo il teatro Filarmonico, il museo di Castelvecchio, l’Arco dei Gavi con la via Postumia, il Ponte scaligero e infine, sulla riva sinistra del fiume, l’Arsenale. È tutto sotto i nostri occhi. Basta saper vedere.

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Società di Cinzia Inguanta Sara, Miriam, Elena, Alice, Loris, Ada, Manuel, Marianna, Grace, Anthi, Fabio e Avi hanno una convinzione: credono che la conoscenza possa portare al dialogo e all’interazione tra mondi che, pur vicinissimi, rischiano altrimenti di passarsi accanto come treni paralleli, senza mai incontrarsi. È per questo motivo che nel 2010 nasce, all’interno dell’Università di Verona, il gruppo studentesco “Come treni paralleli”formato da studenti italiani e stranieri. Il polo universitario veronese è situato a Veronetta, parte storica e popolare della città, vero crocevia di culture per la presenza di immigrati. La finalità del gruppo è quella di agire in maniera diretta nella realtà quotidiana del quartiere, in modo da favorire il dialogo e la reciproca conoscenza tra le diverse realtà che vi convivono (veronesi doc, studenti fuori sede e migranti) e aiutarle ad acquisire la coscienza di essere una risorsa reciproca. Per costruire questa consapevolezza “Come treni paralleli”, con il contributo dell’Università, organizza laboratori e tavole rotonde come “UNItegrazione”, che lo scorso anno, ha offerto agli studenti interessati due giorni di

GRUPPO STUDENTESCO

Come treni paralleli Nato a Veronetta, lo scopo è quello di favorire il dialogo tra culture diverse workshop giornalistici e uno spettacolo teatrale in collaborazione con il cartello “Nella mia città nessuno è straniero”. Quest’anno a marzo, in occasione della giornata internazionale contro il razzismo e dei recenti eventi in Africa del Nord, hanno dato vita a “Aule senza Frontiere”: un’occasione di riflessione e dialogo sul tema “i diritti del richiedente asilo politico”. L’evento si è articolato in tre momenti: un laboratorio di fotografia, una tavola rotonda e una rappresentazione teatrale. Gli incontri hanno avuto come tema i dirit-

ti del richiedente asilo politico e la situazione del migrante nella città di Verona, per soffermarsi a considerare con sguardo attento la situazione di chi giunge in Italia da paesi colpiti da serie problematiche sociali. Dalla necessità di mettersi in gioco, mescolarsi, scambiare idee ma anche oggetti e pezzi di vita nasce l’idea di “Asta a vista”, che si è tenuta il 3 giugno in Piazza Santa Toscana durante il mercato rionale settimanale. In quest’asta interculturale, è stata allestita una bancarella contenente oggetti donati

dagli stessi negozi di Veronetta e scelti per simboleggiare ciascuna delle comunità presenti nel quartiere. A ogni oggetto è stato abbinato un biglietto contenente sia la storia di migrazione di chi lo ha donato, sia del viaggio compiuto per arrivare in Italia. Il significato che il gruppo ha voluto far emergere è che integrarsi significa prendere qualcosa e lasciare qualcosa: scambio che può essere fonte di reciproca soddisfazione. Ada Indries e e Alice Dalla Vecchia rilevano come la risposta agli eventi non sia molto alta, ma risulti per contro qualitativamente significativa. Specialmente per quello che riguarda gli studenti italiani, c’è uno scarso interesse: manca la consapevolezza di far parte di una comunità complessa e piena di sfaccettature. Da parte dei migranti e degli studenti stranieri c’è invece una forte voglia di mettersi in gioco. Altro fatto significativo che emerge dall’esperienza del gruppo è quanto la scuola giochi un ruolo fondamentale nei processi d’integrazione. L’elemento discriminante è proprio l’accesso allo studio che aiuta a mettere in moto e a recepire la necessità di cambiamento, fornendo gli strumenti per accompagnare lo sforzo della trasformazione.

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Società INVENZIONI SCALIGERE

In crescita i brevetti depositati dai veronesi In riva all’Adige si inventa di tutto: dal dissuasore per salvare i delfini dalle reti, agli ammortizzatori per selle da bici; dalla macchina per piegare i biscotti, agli zaini trasformabili. Fino al distributore automatico di immagini e referti medici

Nel 2010 tra invenzioni, modelli di utilità, disegni e marchi sono state depositate oltre 2 mila pratiche, il 12 per cento in più rispetto all’anno precedente

di Marta Bicego La crisi affina l’ingegno, anche i riva all’Adige. Mentre l’economia arranca, la creatività dei veronesi in fatto di nuove idee da proporre pare non mostrare segni di stanchezza. A rivelare questa tendenza sono, innanzitutto, i dati della Camera di Commercio scaligera: nel 2010 tra invenzioni, modelli di utilità, disegni e marchi sono state depositate oltre 2 mila pratiche, il 12 per cento in più rispetto all’anno precedente. Segno che le aziende scaligere, seconde in Veneto solamente alle colleghe padovane, hanno iniziato con una certa decisione a investire in innovazione e creatività. Anche il 2011 sembra promettere bene, visto che nel primo trimestre dell’anno sono già state depositate

578 pratiche (con un incremento del 5,7 per cento) delle quali 63 riguardano brevetti industriali, 299 marchi d’impresa e 28 (quasi il doppio rispetto al 2010) i marchi internazionali. La scelta di confrontarsi con il mercato estero si è rivelata essere vincente per una società veronese che, dal 1981, si occupa di sviluppare e produrre tecnologia industriale nei settori della panificazione, degli ascensori, delle ferrovie e delle tecnologie marine. Partendo da un progetto finanziato dall’Unione europea, «nel 2002 abbiamo sviluppato il primo prototipo, poi approvato, di un sistema uditivo che tiene lontani i delfini dalle reti da pesca, evitando la morte di migliaia di esemplari e proteggendo le attrezzature dei pescatori» spiega il

Il Dolphin Dissuasive Device (Dispositivo dissuasore per delfini), attualmente veduto in venti paesi del mondo, è un’apparecchiatura elettronica che ha visto la luce a Verona ed è il frutto di una lunga ricerca effettuata sui mammiferi

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responsabile commerciale di Stm Products, Martin Ipuche. Il Dolphin Dissuasive Device (Dispositivo dissuasore per delfini) – attualmente veduto in venti Paesi del mondo – è un’apparecchiatura elettronica frutto di una lunga ricerca effettuata sui mammiferi, in sinergia con prestigiosi centri di studio, come l’Istituto di ricerche marini e ambientali del CNR e Seamed, entrambi di Mazara del Vallo. Il dispositivo «produce ultrasuoni che vanno a interferire con i segnali di ecolocalizzazione emessi dai delfini. Lavorano con uno spettro di suoni differenti e random – né troppo alti perché potrebbero essere dannosi, né troppo bassi poiché potrebbero portare all’assuefazione – che vengono prodotti soltanto quando viene rilevata la presenza dei mammiferi nell’area, senza causare quindi alcun tipo di danno agli animali che si avvicinano alle reti alla ricerca di cibo». Ogni dissuasore, prosegue, «copre un diametro di 3-400 metri e può essere collocato nell’acqua fino a 100 metri di profondità». Nei mesi scorsi, il prodotto è stato presentato a Seattle, ma sulle reti da pesca dei mari del mondo ne sono già stati posizionati oltre 5 mila. Concorrenza non ce n’è, sottolinea Ipuche, quindi «stiamo vendendo bene. Tuttavia – non risparmia la critica – se avessimo maggiori incentivi da parte del Governo,

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Società

E IN EUROPA? Nel 2010 l’Ufficio brevetti europeo (Epo) ha ricevuto 235 mila richieste di brevetto, l’11 per cento in più rispetto all’anno precedente, raggiungendo così il numero più alto di richieste pervenute nei suoi trentaquattro anni di storia. Il 39 per cento circa delle domande di brevetto proviene dai 38 membri dell’Organizzazione europea brevetti – tra i quali sul podio si collocano Germania, Francia e Svizzera –, il 26 per cento dagli Stati Uniti, il 18 per cento dal Giappone e il 5 per cento da Cina e Corea del Sud. Per quanto riguarda le aree tecniche, la tecnologia applicata alla medicina ha apportato il contributo maggiore (10 mila 500 domande) seguita da tecnologia informatica e macchine elettriche (8 mila 300 domande), apparati ed energia (8 mila 200). In crescita la biotecnologia (il 42,6 per cento), i prodotti farmaceutici (20 per cento) e la comunicazione digitale (11,2 per cento) mentre i settori delle telecomunicazioni, trasporti e computer non hanno ancora raggiunto i livelli che avevano nel 2008 prima della crisi economica. (M.B)

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avremmo altri ritmi e altre velocità». In effetti, passare da un’idea alla sua messa in pratica richiede tempo (dal momento in cui si deposita la domanda alla Camera di Commercio, a quando la pratica passa a Roma, all’Ufficio italiano marchi e brevetti del Ministero dell’economia) e denaro. Dall’ottobre del 1989 allo scorso maggio, da Verona alla capitale sono state inoltrate 3.165 occorrenze delle 21.476 provenienti dalla regione Veneto. L’elenco delle invenzioni è lungo e variegato. Ce n’è, in pratica, per tutti i gusti se si ha la pazienza di scorrere centinaia di voci: sigillatrici, dispositivi respingenti per gru oppure ammortizzanti per la sella della bicicletta, involucri incombustibili, speciali siringhe, composti farmaceutici, calzature a tenuta d’acqua, giocattoli di logica, macchine per piegare biscotti e zaini trasformabili. C’è addirittura un’apparecchiatura da collegare a un registratore di cassa o a un distributore di benzina per fare giocare automaticamente i clienti con la fortuna. Alcuni sono stati rilasciati, quindi potrebbero essere già presenti nelle nostre case, altri invece sono stati respinti. Se si ha una buona idea tra le mani, insomma, meglio non tenerla nel cassetto. Soprattutto se si tratta di quell’oggetto o macchinario

al quale, fino a quel momento, nessuno aveva ancora pensato... Come il distributore automatico di immagini e referti medici brevettato dalla scaligera Effedi che, al posto di snack e merendine, dispensa velocemente «referti medici come tac, analisi e risonanze su cd o supporto cartaceo che viene stam-

pato all’istante. Con un punto cassa nel quale pagare il ticket e prenotare i successivi controlli» illustra nei dettagli il titolare dell’azienda, Flavio Fiorazzo. Si tratta, in pratica, di un magazzino automatico che conserva i files – quelli più “pesanti” che non possono essere inviati via email – fino a quando l’utente (avvisato da un sms che i documenti da ritirare sono disponibili) si reca in ospedale o in ambulatorio a ritirarli. Il nome scelto per il macchinario, Hospeed, promette comodità e velocità agli utilizzatori: elimina le code che si creano agli sportelli ed è pratico da usare perché funziona come un bancomat, aperto ventiquattro ore su ventiquattro. «Abbiamo brevettato questa idea nel 2008, dopo un iter abbastanza lungo e costoso. L’effettivo rilascio di un brevetto può protrarsi per anni – conclude Fiorazzo –, ma se si ha un’invenzione che non esiste in nessun altro Paese... perché non provare?»

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Cultura

L’ENERGIA DI VERONA PER I VERONESI

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Società

ALTRAECONOMIA

Le banche del tempo Il meccanismo è semplice: chi sa fare qualcosa si mette a disposizione degli altri e quando avrà bisogno, potrà chiedere di essere ricambiato L’ultima nata ha trovato sede al civico 12 di via Enna: si chiama Banca del tempo “Per la Pace” e fa riferimento ai quartieri di San Massimo, Bassona, Borgo Nuovo, Croce Bianca e Chievo

in VERONA

di Marta Bicego Regalare qualche ora della propria giornata per ricevere in cambio altrettanti minuti preziosi da utilizzare quando si desidera. È il principio che regola le attività di un istituto di credito speciale, la Banca del tempo, nella quale non si amministrano banconote, ma le abilità delle persone. Il meccanismo è semplice: chi sa fare qualcosa si mette a disposizione degli altri così, quando avrà bisogno, potrà chiedere di essere ricambiato. Nate

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Società negli anni Trenta (in Inghilterra, Francia, Germania, Canada) per creare reti di solidarietà tra persone disponibili a scambiasi servizi, prestazioni e saperi in maniera gratuita per far fronte alla crisi economica, le Banche del tempo si sono diffuse anche in Italia, dove pioniere è stato nel 1994 il Comune di Santarcangelo di Romagna. A Verona – istituite da delibera della giunta comunale nel luglio 1999 – se ne contano cinque: “La Banca del tempo della città di Verona”, in Largo Divisione Pasubio, sede del coordinamento delle realtà cittadine; “Tu per me io per te” in Piazza Mura Gallieno, presso la prima circoscrizione;“Ora per ora”in Piazza Righetti, nella seconda circoscrizione; la “Banca del tempo prezioso” di via Brunelleschi, in terza circoscrizione; nell’ottava, in Piazza Penne Nere a Montorio, si trova la Banca “Scambiatempo”.

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L’ultima nata in riva all’Adige ha sede al civico 12 di via Enna, dove condivide gli spazi con l’associazione per la Pace dei popoli. Si chiama Banca del tempo “Per la Pace” e fa riferimento ai quartieri di «San Massimo, Bassona, Borgo Nuovo, Croce Bianca, Chievo» elenca la coordinatrice Francesca Borgo, ma «è aperta a chiunque voglia farne parte, purché non

iscritto in altre Banche del tempo». L’idea, spiega, è «superare la logica del baratto, ma creare relazioni tra diverse persone nei quartieri cittadini» per promuovere la cultura della solidarietà e risolvere problematiche di ordine materiale o personale che riguardano la quotidianità in un periodo di crisi come quello attuale. Opportunità che gli amministratori dovrebbero cogliere, evidenzia, appoggiando «la nascita e la diffusione delle Banche del tempo e auspicando che l’iniziativa parta da un gruppo promotore di cittadini in ogni circoscrizione. In diverse occasioni, l’assessore comunale alle Pari opportunità Vittorio Di Dio si è dichiarato favorevole alla costituzione di tali associazioni in quanto,per i principi su cui poggiano, possono concorrere a migliorare la qualità di vita dei cittadini nei quartieri». Tutto funziona come in una vera banca, con debiti e crediti accesi nei confronti dell’istituto di credito e non del singolo individuo, i quali però non si misurano in euro, ma in ore e mezze ore ricevute e messe a disposizione degli iscritti. «Uno scambio alla pari», prosegue, che non fa distinzioni tra professionalità: un’ora regalata da un medico o un avvocato per una consulenza, è equivalente a quella di un muratore o un operaio che si offrono per interventi di manutenzione. Senza far circolare denaro (se non nell’acquisto dei materiali necessari), ma saperi e conoscenze: abilità varie – riparazioni e

lavori manuali, lezioni, assistenza a bimbi e anziani, consigli sulla salute solo per ricordare parte dell’ampia offerta – che ogni correntista della Banca deve dichiarare al momento dell’iscrizione. Anch’essa, ovviamente, gratuita. Ogni iscritto, dopo un colloquio motivazionale, riceve un conto corrente intestato sul quale vengono registrate le ore addebitate e accreditate: «L’unico impegno è movimentare entrate e uscite, possibilmente al pareggio, evitando posizioni troppo a debito e a credito». Le prestazioni devono essere concordate, di volta in volta, dai diretti interessati che hanno a disposizione gli elenchi delle richieste e delle offerte con i recapiti degli associati da contattare. Un «sistema virtuoso», precisa la coordinatrice della Banca del tempo “Per la Pace”, che «crea reti di mutuo aiuto e amicizie tra persone di diverse età, allarga i rapporti di buon vicinato, favorisce scambi intergenerazionali per cui un pensionato può, per esempio, aiutare una giovane coppia». Gli effetti positivi sono molteplici. Il successo di ogni Banca del tempo, conclude, «dipende dalle energie e dalla volontà di favorire momenti di incontro da parte delle persone che ne fanno parte. Basta saper cogliere le occasioni che essa offre». In fondo, scriveva Italo Calvino, le città, (i paesi) non sono solo scambi di merci: sono scambi di gesti, parole, emozioni, memorie, passato, saperi...

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Territorio BASSA VERONESE

La pianura: i tesori sono anche qui Tra corti rurali, pievi e castelli medievali. Conviene risalire verso Nord seguendo alcuni corsi d’acqua paralleli ai maggiori centri urbani

Ciascuno dei quasi cinquanta Comuni dell’area di pianura nota come Bassa offre opportunità interessanti, luoghi spesso poco conosciuti da visitare durante il weekend

Parco Giardino Sigurtà

in VERONA

di Stefano Vicentini Con l’estate alle porte, il territorio veronese riscopre la propria vocazione al turismo esibendo le migliori risorse e varie attività tipiche della bella stagione: dalle visite culturali all’esercizio sportivo, dalla passeggiata nella natura al piacere enogastronomico. Se le strutture ricettive della montagna o del lago sono collaudate e promosse da anni di esperienza degli operatori, un’identica considerazione non può esser fatta per la pianura, per cui la sua scoperta è in parte una piacevole scommessa per il visitatore. Immaginiamo dunque di creare un opuscolo generale con itinerari per svariati gusti. Non deve mancare anzitutto un campionario delle bellezze naturali e artistiche: da una parte corti rurali, oasi naturalistiche e percorsi ciclabili, dall’altra chiese, musei e ville patrizie. Sono coinvolti quasi cinquanta Comuni dell’area di pianura nota come Bassa, a Sud di Verona: a un primo inventario, ciascuno di questi centri offre opportunità interessanti, luoghi spesso poco conosciuti da visitare nel tempo consigliato di un weekend. Partendo dalle grandi valli poco abitate al confine con Mantova, Rovigo e Padova, la scarsità di circolazione dei veicoli e l’ampiezza della campagna – con antiche torri colombare e corti rurali oppure qualche paesello che respira atmosfere d’altri tempi –

Castello di Bevilacqua

invitano al giro in bicicletta. Le direzioni consigliate sono quelle che risalgono verso Nord, seguendo alcuni corsi d’acqua paralleli ai maggiori centri urbani: nel Nogarese e Isolano il Tartaro, nel Ceretano e Bovolonese il Menago, nel Legnaghese il fiume Adige, nell’Est il Fratta nel Padovano e il Guà nel Vicentino.Vicino agli argini è facile trovare la flora e la fauna tipiche delle aree umide, soprattutto uccelli, ma anche graziosi capitelli, oratori e chiesette. Tra il Mantovano e il Veronese, nell’antica via romana Hostilia, sorge il santuario

Beata Vergine della Comuna, meta abitudinaria di campagna che i frati francescani conservano con zelo. Nel vicino territorio di Gazzo Veronese, le destinazioni preferite sono l’oasi naturale del Busatello con il “Ceson” di San Pietro in Valle e la chiesa romanica di Santa Maria Maggiore.Alla periferia della limitrofa Casaleone sorgono invece diverse tenute agrarie, corte Ravagnana, Castellazzo e Borghesana, talvolta utilizzate in estate per rappresentazioni teatrali e folcloristiche. Nei pressi di Cerea, a Sud si giunge alla palude Brusà in

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Territorio località Vallette, col villaggio preistorico Motta della Tombola, mentre a nord lungo il Menago si incontrano mulini un tempo funzionanti e la chiesa di San Zeno voluta da Matilde di Canossa. Le valli del Menago a Bovolone e la palude della Pellegrina tra Nogara e Isola della Scala (bivio Erbè), con le risaie e le antiche pile della campagna isolana fino alle risorgive di Buttapietra, confermano la presenza di una vasta area umida a uso generalmente agricolo, oppure delimitata come area naturale protetta. Nei dintorni di Legnago, risalendo dai latifondi di Torretta e passando dal piccolo aeroporto turistico di Vangadizza, si accosta la città dal ponte di Porto sull’argine dell’Adige, per arrivare dopo qualche chilometro al piccolo santuario mariano di San Tomaso a Bonavigo (frazione Orti), ricco di ex voto. Per chi si porta verso l’estremo sud-est, invece, dopo Terrazzo giunge al monastero di San Salvaro (al confine, sotto Urbana di Padova), centro culturale con annesso ostello della gioventù, e a Bevilacqua dove sorge un esuberante castello medievale adibito a cerimonie e feste, a due passi dalla pittoresca cittadella murata di Montagnana. Al centro della pianura veronese sorgono poi le popolose cittadine della Bassa, Isola della Scala, Nogara, Bovolone, Cerea, Legnago e Cologna Veneta, con diverse bellezze storiche. Se piace un’escursione ai castelli medievali, prendendo a riferimento le mete estreme, i manieri di Valeggio sul Mincio e Villafranca (Ovest) fino a Soave (Est), se ne incontrano altri a Salizzole, Sanguinetto e Isola della Scala (torre scaligera). Imbarazzo della scelta per le pievi romaniche, da quelle di Erbedello e Bastia nell’Isolano al Palazzo vescovile e alla chiesetta di San Giovanni in Campagna a Bovolone; dalla chiesa paleocristiana di San Salvaro a San Pietro di Legnago al santuario della Madonna della salute a Porto di Legnago (rifatto dopo la guerra); dall’oratorio di Santa Croce ad Angiari ai santuari Madonna della Strà di Belfiore sulla via Porcilana e Madonna di San Felice a Cologna Veneta, ma anche l’abbazia di Villanova a San Bonifacio. Da ricordare poi a Vil-

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L’abbazia di Villanova a San Bonifacio

lafranca gli oratori della Disciplina, di San Rocco e San Giovanni della Paglia, a Isola della Scala l’abbazia di Santo Stefano, a Nogara e Sanguinetto gli oratori di Campalano, delle Tre vie e di Tavanara, a Legnago l’Assunta, a Villa Bartolomea e Castagnaro Sant’Anna, ad Arcole Santa Maria dell’Anzana, a Zimella la grotta della Madonna di Lourdes del beato Claudio Granzotto. C’è molto da vedere pure per i musei: si può far tappa all’ossario di Custoza e al Museo del Risorgimento di Villafranca, al Museo Fioroni di Legnago e al Museo napoleonico di Arcole (vicino all’obelisco), quindi Cologna Veneta col Palazzo pretorio ricco di stemmi gentilizi. Tra le mostre di settore, a Bonferraro di Sorgà, ad Arcole e Concamarise ci sono musei contadini con ottime ricostruzioni del passato; a Cerea c’è un doppio museo dell’artigianato del legno (all’ex Perfosfati e a Villa Dionisi) che ricorda le vecchie botteghe; a Villafranca c’è il Museo Nicolis con le auto da collezione; a Gazzo, Povegliano, Oppeano, Isola della Scala, Cologna e Legnago ci sono musei archeologici. In quest’ultima, capitale della Bassa, vale la pena visitare anche il Torrione, il teatro del musicista Salieri e i resti architettonici del Sanmicheli. Non mancano, inol-

Se si incrociano la sagra, il folclore, la rievocazione storica o un raduno gastronomico, l’interesse coinvolge tutti i gusti e tutte le età tre, numerose dimore aristocratiche: tra le tante, la Zambonina e la villa del musicista Italo Montemezzi a Vigasio, le ville Nogarola a Castel d’Azzano e Balladoro a Povegliano, palazzo Maggi a Nogara, la residenza natale dello scrittore Lionello Fiumi a Roverchiara, le ville dei conti Dionisi-Tacoli o Guastaverza-Bottura tra Cerea e San Pietro di Morubio, le ville Sagramoso-Buri a Isola Rizza e Maffei-Rizzardi a Palù, villa Meneghini-Callas e il Castello a Zevio, Palazzo De’ Merli a Gazzo, le ville Lavagnoli a Veronella, Fascinato a Terrazzo, Ghedini a Villa Bartolomea, Gaudio e Querini a Pressana; ricco di misteri è infine il Palazzon del Diaolo di Sorgà. Per chi cerca di conciliare la visita col ristoro, si trovano agriturismi e ristoranti con piatti tipici di prodotti locali che identificano una zona: da Ovest a Est, tortellini (Valeggio), meloni (Erbè e dintorni), asparagi e riso (Isola della Scala), mele e pe-

re (Zevio e San Giovanni Lupatoto), radicchio rosso (area colognese e Casaleone), patate (Roveredo di Guà), fragole (Bonavigo), cavoli (Castagnaro). Per i dolci, sono note le aziende del mandorlato a Cologna Veneta, prelibatezza soprattutto invernale. Limitato è il vitivinicolo in pianura, con il Custoza ad Ovest e i vini dell’Arcole ad Est, ma si è vicini alla collina. Qualche cava isolata con pesci d’acqua dolce, agriturismi didattici con qualche maneggio, parchi acquatici e campi sportivi completano l’offerta. Si possono citare, da ultimo, il Parco Giardino Sigurtà e il Borghetto col ponte visconteo a Valeggio sul Mincio, l’aeroporto e il caffè Fantoni dell’800 a Villafranca, le terme di Caldiero, più o meno vicini al lago o alla città. In questo ricco campionario, pur non esauriente, la carta d’identità della Pianura mostra tante potenzialità di attrazione, promosse anche dalle Pro Loco e dagli Uffici Iat – da qualche settimana è stato aperto l’ultimo a Legnago. Se poi si incrociano la sagra, il folclore, la rievocazione storica o un raduno gastronomico, l’interesse coinvolge tutti i gusti e tutte le età: ritemprare l’animo nella natura o nell’arte è uno svago irrinunciabile, vista l’invidiabile bellezza del veronese.

Luglio 2011


Territorio LESSINIA

La magia delle Angoàne Esseri fantastici che la tradizione dipinge in modi diversi: orribili portatrici di una dimensione paurosa ma anche vicine alle fatiche delle donne lessiniche

di Aldo Ridolfi

Disegni di Alessandro Norsa

BIBLIOGRAFIA MINIMA 1. AA.VV., (a cura di Pero Piazzola), Orchi, anguane e fade in grotte e caverne, Curatorium Cimbricum Veronense: vi si trovano scritti di P. Piazzola, G. Rama, E. Bonomi, A. Benetti, tutti centrati sulle figure fantastiche della nostra Lessinia. 2. Rama Giuseppe, Creature fantastiche in “Cimbri/Tzimbar”, anno VI, n. 14, 1995, dove appare interessante la lettura etnografica che vede nelle creature fantastiche della Lessinia il risultato dell’incontro di due culture, quella nordeuropea e quella classica. 3. “Vita di Giazza e Roana”, 1971-1978, dove sono pubblicate – a cura di Piero Piazzola – numerose storie di esseri fantastici, ricevute dalla viva voce di anziani che partecipavano, fino agli anni Cinquanta-Sessanta, ai filò. 4. Attilio Benetti, I racconti dei “filò” dei Monti Lessini, La Grafica 1983.

in VERONA

Scendevano a valle con qualche difficoltà le Angoane, dalla Lessinia, da Giazza, da Campofontana. Ma scendevano. Scendevano lungo la Valle d’Illasi, si spingevano fino a Badia Calavena, fino a Cogollo, fino a Cazzano di Tramigna, dove, ci garantisce Giuseppe Rama per bocca dei suoi informatori, esiste il “Vajo delle Angoane” (Noterelle di folklore dei Monti Lessini, vol.1, p. 72). Anche la mia prima infanzia ha ascoltato le storie delle Angoane. Di quei racconti rimanevano, stranamente mescolate, realtà e fantasia, che non riuscivano a separarsi, a disporsi su sponde opposte chiare e distinte. Si sentiva, pur bambini, che quelle fantastiche abitatrici delle grotte, quelle pericolose guide per viandanti, quelle padrone della notte e dell’oscurità, regine di un mondo lunare e fatto di ombre e parvenze, assommavano, nello stesso tempo, le dimensioni del fantastico e del reale; si avvertiva, nella foga del racconto, nei toni della voce, nell’essenzialità dei commenti, che una qualche realtà la dovevano, a tutti i costi, veicolare. Poi, dopo l’infanzia, le Angoane, le Genti Beate, le Bele Butele sono diventate oggetto di studio, sono state assorbite negli studi folcloristici, snaturandole, facendo loro assumere uno statuto asettico ed

enciclopedico. Facendo loro perdere, in pratica, ogni alone magico. Ma tant’è, già ci aveva avvertito E. Husserl: “Genio che scopre, genio che occulta”. Però, nel frattempo, su questa strada, si è distinto, studiato, approfondito, scoperto un mondo complesso e suggestivo. Incominciando dalla “Casa delle fade” misteriosamente costruita in un anfratto roccioso nel Vajo di Squaranto: sito irraggiungibile che racconta di un mondo negato agli uomini, possibile solo agli spiriti. La sua stessa inacessibilità ne decreta la forza magica, la stessa architettura, avara di aperture, sottolinea l’alone misterioso che l’avvolge; i dirupi che lo circondano e il vajo profondo che fa da quinta naturale, contribuiscono a rimandare a un mondo arcano, separato, equivoco, contraddittorio. Per proseguire (ma qui ogni collegamento logico salta, piacevole essendo vagare tra le leggende senza precisi fili rossi) con il Sealagankúval nella valle di Fraselle, subito sopra Giazza. Da dove, nella notte dei morti, scendevano in processione schiere di Angoane, qui dette Genti Beate, verso il piccolo paesiano di Giazza immerso nell’oscurità e facendosi perciò orribilmente luce con il braccio di un morto! Ed è bella la distinzione, su cui tanto insisteva Piero Piazzola, tra le Genti Beate di Giazza e le Bele

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Territorio

Butele di Campofontana. Tanto quelle erano orribili e portavano in superficie una dimensione notturna e paurosa, altrettanto queste avevano a cuore il destino degli uomini ed erano coscienti delle fatiche che intessevano la vita delle donne lessiniche, figlie di una terra avara e difficile: perciò le aiutavano. Infatti, nottetempo, ben lungi dal voler terrorizzare i campesani, le Bele Butele si alzavano e correvano di casa in casa a raccogliere lenzuola da lavare che poi stendevano tirando un robusto canapo attraverso la valle e as-

sicurandolo a rupi spesso imponenti, come il corno Barila le purghe di Velo e di Durlo e così via. La saga poi, dell’Angoana Seralda, ha dello straordinario. Si legga, a questo proposito, la poesia di Piero Piazzola (nel box a destra) che sintetizza, con rara efficacia poetica, una storia più complessa, non solo e non tanto radicata nella dimensione montanara del vivere, ma intrisa piuttosto di un’umanità così profonda da essere capace di avvicinare due mondi solo apparentemente lontani. È la storia di una donna che annega per errore il figlio dell’Angoana Seralda, gettandolo, inconsapevolmente, nel pozzo dei Seraldi. L’Angoana, allora, vicinissima alla natura umana e lontana

dalla dimensione fantastica e “divina” cui la tradizione la relegava, nel suo inenarrabile dolore di madre, si vendica e trasforma la povera donna e suo marito in due roccioni che ancora oggi si possono vedere sul costone dietro la chiesa di Campofontana. Uno scontro tra uomini e fate vissuto, nella suggestiva immaginazione poetica di Piazzola, senza ombra di malvagità, ma piuttosto nella coscienza che uomini e spiriti fantastici siano ambedue prigionieri di un decreto maligno che supera le volontà individuali e le annichilisce. La dolorosissima ferita, però, rimane e il lutto, percorso senza ritorno anche per l’Angoana Seralda, riporta ogni cosa alla dimensione umanissima e dolorosa dell’esistenza. Ma tutto questo, tutto il mondo degli esseri fantastici intendo, termina con il Concilio di Trento. Si racconta infatti che, passando da questi luoghi San Carlo Borromeo diretto a Trento per il concilio, e informato dei problemi che queste donne – in compagnia peraltro con l’orco, il basilisco le streghe, ecc. – procuravano alla popolazione, decise di relegarle per sempre nelle grotte dei Lessini. Si racconta che non sono poche le pietre sulle quali questi esseri in fuga hanno lasciato le impronte delle loro unghiate. Ma, e le storie delle Angoane? Tante e suggestive… ma hanno bisogno di un’altra puntata.

Un simbolo del femminile L’Anguana, forse, può essere definito uno dei simboli del femminile, dove per simbolo intendiamo riferirci al termine greco sin-ballon, che significa “mettere insieme”. Infatti nel simbolo si trovano insieme gli opposti, che per questo non sono contraddizioni, ma parti di un tutto. Poiché in natura non può esistere una persona totalmente buona o cattiva, anche le anguane ricalcano questo aspetto educativo: sono bellissime, ma allo stesso tempo presentano dei difetti. Le imperfezioni e le anomalie sono però nascoste (la schiena ricurva, i peli coperti dalle vesti). Anche il celare, il nascondere è parte del mondo femminile. Mentre il maschile porta alla luce, è palese e diretto, il femminile riporta alla circolarità, all’ombra, al mistero, e questo è parte anche del gioco della seduzione. Quando, infatti, ciò che deve essere celato viene alla luce, si interrompe l’incantesimo e l’Anguana fugge, se ne va per sempre o comunque esce di scena. Alessandro Norsa

L’angoàna Seralda Seralda, Seralda, maga de le tane, fada de le lane; angoàna spavalda! (Ritornello) Coante strussie, coanto sfadigàr, coanto desténdar, coanto lavàr! Tute le note da le séngie ai fagàr; tanti nissói da sbàtar e da sugàr; Seralda, Seralda… Coanto da far, coanti dolori, coanta ‘ingòssa, coanti sudóri! Lana sùsia bianca, lana da netàr, lana da filar, lana da scartedàr. Seralda, Seralda… Gnénte de négro, sol che nissói ; Gnénte de negro, gnanca dei fioi. Lìssia de angoana, l’è sol lìssia bianca:

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macia de négro, creatura che manca. Seralda, Seralda… Carésse, basi, cunar, cantar. Te crùssia ‘l fiol; te chégni laoràr. La vera de ‘l posso l’è cuna fatal. E tutti lo piande ‘n t’el Vajo Guantàl. Seralda, Seralda… Par rabia du vèci te ‘ncanti. Le séngie te ‘mpiéni de pianti. La véna maledéta de coél vajo Te ‘ngòssi de lana, eterno stupàio. Angoana Seralda, pì mare che fada; l’amor destrùje dei maghi la strada. Angoana Seralda, fada desperà, striamenti e vìssare, tuto sassinà. da P. Piazzola, Aleluja Bonaccorso 2004, p. 67

Luglio 2011


Adieu pearà

Cultura

di Giulio Meazza BFS edizioni. In libreria, 12 euro

Il menefreghismo, la superficialità, l’interesse di bottega, la mancanza di senso critico sono i veri protagonisti del libro, il verminaio che alimenta un potere costruito sulla povertà spirituale di chi lo legittima, ma anche l’humus dove attecchisce L’ombroso, che risponde alla pazzia di una società degenerata con la follia “di una seconda vita comica e segreta...”

in VERONA

La consegna è avvenuta come ci si attendeva, modello pacco bomba: campanello, inserimento in cassetta dell’oggetto dopo aver inviato una mail per chiedere la recensione, fuga a cavalcioni di un Vespino anni Settanta. La bomba è un libro che porta il titolo Adieu pearà (BFS edizioni) ambientato nella Verona del 2029. Un bel racconto, peccato non esista un autore in carne e ossa. Per scelta, visto che il Giulio Meazza che compare in copertina non è iscritto all’anagrafe ma fa parte de L’ombroso, pseudogruppo di sputaveleno, denigratori della nostra bella Verona e di chi la governa, la cui posta, rigorosamente anonima, ha una sua precisa collocazione nella cartella “Fuori di testa” del nostro PC. Nel libro – 208 pagine formato 11 x 16,5 cm – L’ombroso un po’ si svela nella persona di Giulio, quarantenne, giornalista precario, che torna in città per assistere la madre malata dopo un lungo periodo di assenza. Giulio è un figlio ribelle, poco avezzo a frequentare le sacrestie, ma si annusa che ha passato del tempo a bagnomaria nel brodo cattolico. Venuto su male, direbbero i benpensanti, perché cita Gesù Cristo e San Tommaso, è umanamente e socialmente sensibile, misogino come tanti cattolici ma con il grande torto di essere intelligente e di non trovare nulla di simile a se stesso negli oggetti e nelle persone che gli stanno attorno. L’Ombroso è presuntuoso, dissacratore, corrosivo, sarcastico, apparentemente senza regole ma grazie a Giulio esce dall’ombra, ci viene incontro ed è una piacevole sorpresa. Parlare del futuro, storpiando nomi noti per renderli meno riconoscibili, permette di ingigantire fatti e psicologie rendendoli più evidenti, sconfinando nel grottesco. C’è questo clima nel libro, e anche molto Orwell, con telecamere e ronde che da padane nel tempo si sono trasformate in cani mastini pronti a mordere dopo il coprifuoco. Una città simile a una fattoria degli animali dove il porco parla rigorosamente in dialetto, bestemmia ed esige rispetto. Giulio vive in una Verona divisa tra sinistra e destra d’Adige, dove

Parlare del futuro, storpiando nomi noti per renderli meno riconoscibili, permette di ingigantire fatti e psicologie rendendoli più evidenti, sconfinando nel grottesco illustri accademici cercano nella storia della città fantasiose giustificazioni che servono alla politica per legittimare un governo che si alimenta del conflitto e della paura che ne deriva. Romani e Veneti da una parte, Lessinici e Galli dall’altra; lo stesso per Austriaci e Francesi e non viene risparmiato il mito di Romeo e Giulietta, perché “in ogni tempo i veronesi si sono avversati tra loro. Ad esempio i Montecchi, che venivano dai monti, erano alla sponda sinistra e i Capuleti a destra”. A supporto degli storici ecco uno stuolo di giornalisti pennivendoli, di cui Giulio fa vergognosamente parte, pronti a fornire l’informazione necessaria a coagulare il consenso attorno a politiche schizofreniche ingollate da cittadini che conducono una vita immutabile, dove “la povertà interiore delle loro esistenze li mette al riparo da qualsiasi rischio”. Il menefreghismo, la superficialità, l’interesse di bottega, la mancanza di senso critico sono i veri protagonisti del libro, il verminaio che alimenta un potere costruito sulla povertà spirituale di chi lo legittima, ma anche l’humus dove attecchisce L’ombroso, che risponde alla pazzia di una società degenerata con la follia “di una seconda vita comica e segreta, che rappresenti per ciascuno la boccia d’ossigeno in cui respirare, un pezzo di vero nascosto in cantina, coltura di libere arguzie e facezie, di sberleffi e memorie stralunate”. Accendono lumini la notte di nascosto quelli de L’ombroso, si riuniscono segretamente in Val Squaranto, celebrano riti orgiastici liberatori travestendosi con barbe finte e improbabili costumi per trovare così una consona collocazione nella città fumetto. Una caricatura che esplode

quando i cittadini di sinistra Adige, goffi e mascherati, tentano di passare il fiume: “La vita vissuta come noi la stiamo vivendo non ha più alcun senso” grida Brododidado ai preoccupatissimi veronesi della destra. “Bisogna che noi desideriamo di cambiarci, di riappropriarci delle nostre strade, delle nostre piazze, della nostra città”. Ci scappa il morto: a cadere sul Ponte Pietra è l’illuminato Uomofalena che invita i giovani a ribellarsi, abbattuto da una biglia in piena fronte mentre goffamente svolazza qua e là propinando anacronistiche perle di saggezza. Esce così di scena anche l’ultimo barlume di folle speranza. Muore dopo lunga malattia anche la madre del protagonista, mentre il padre si dichiara apertamente cittadino della destra. Giulio, dopo quest’ultima pugnalata, prende la sua decisione finale in un clima reso surreale dai secchi boati dei ponti fatti saltare per preservare l’ordine pubblico e l’identità di una città fantasma. Nelle librerie di Verona. 12 euro. Giorgio Montolli

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Tempo libero NOI L’ABBIAMO FATTO Sabato 18 giugno un gruppo di collaboratori del giornale VeronaIn e del blog Veronainblog ha disceso l’Adige sui gommoni dell’associazione Adige Rafting. Complice il tempo, che si è dimostrato clemente per tutta (e sola!) la durata della discesa, la comitiva ha vissuto un paio d’ore di puro divertimento, accompagnato da un po’ di salutare fatica e da interessantissime rievocazioni della storia fluviale della città. Dopo una prima

fase di approccio e ambientazione a bordo del gommone, i partecipanti hanno ricevuto un’infarinatura sulla tecnica della pagaiata, imparando velocemente l’importanza della sincronia e del bilanciamento delle forze. Presa un po’ di confidenza, si sono cimentati con manovre un po’ più “azzardate”, come il passaggio tra il basamento centrale del ponte e l’isolotto sabbioso immediatamente successivo, sempre sotto la guida sicura di un membro di Adige Rafting, presente in qualità di timoniere su ogni gommone. Tra scherzi, schiz-

zi e le risate dei bambini, gli apprendisti canoisti hanno appreso moltissime informazioni sulla storia della propria città, raccontate dai timonieri durante le soste effettuate in punti strategici lungo la discesa. I più coraggiosi hanno poi sfidato le “rapide” sotto l’arcata centrale del Ponte Pietra, ricevendo in cambio una notevole dose di adrenalina e un’ancor più notevole ondata, che ha reso tutti felici… ma fradici! La discesa si è conclusa con una gara finale tra i quattro gommoni del gruppo, con arrivo al Boschetto. (A.P.)

ADIGE RAFTING Imparare la storia navigando sul fiume «Siamo circa 40 persone, accomunate dalla passione per questo sport meraviglioso e purtroppo ancora poco conosciuto, nonostante la grande tradizione canoistica di Verona» racconta Davide Cocchio, membro dell’associazione

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di Andrea Pezzin La possibilità di riscoprire la città da una prospettiva privilegiata, nuova ma al contempo radicata nella storia di Verona: il fiume Adige. Il tentativo di avvicinare il più ampio numero di persone allo sport fluviale, suscitando una passione che conduca i più giovani fino all’agonismo. Un modo diverso di divertirsi e conoscere l’ambiente faunistico e floreale sulle rive del nostro fiume. Queste le opportunità offerte da Adige Rafting, associazione spor-

tiva che organizza discese dell’Adige a bordo di gommoni. Iscritta al FIRaft, Federazione Italiana Rafting, è nata dall’incontro tra il gruppo canoisti del Canoa Club Verona – il club canoistico più premiato in Italia – e l’esperienza del rafting in Val di Sole. «Siamo circa 40 persone, accomunate dalla passione per questo sport meraviglioso e purtroppo ancora poco conosciuto, nonostante la grande tradizione canoistica di Verona» racconta Davide Cocchio, membro dell’associazione. «Per diffonderlo abbiamo scelto di far sperimen-

tare il rafting con il gommone, mezzo molto più semplice e accessibile rispetto a qualunque tipo di canoa, e assolutamente sicuro. E dove se non lungo l’Adige? La storia della città, come la città stessa, è attraversata da questo fiume» L’iniziativa “La città riscopre il suo fiume”, che Adige Rafting promuove, propone due differenti percorsi di discesa lungo l’Adige, da effettuarsi il sabato pomeriggio nei mesi di marzo, aprile, maggio, giugno e luglio: il primo itinerario, il Parco dell’Adige Nord, prende il via a Corte Molon

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Tempo libero

per una visita al Parco Nord con le spiegazioni di una guida naturalistica, e prosegue poi con la discesa sui gommoni lungo l’Adige, con partenza dall’ex Scuola Americana in Lungadige Attiraglio (nei pressi della Diga del Chievo) e arrivo in zona “Boschetto”, sulla riva sinistra dell’Adige oltre il Ponte della Ferrovia. Il secondo percorso, il Parco dell’Adige Sud, prevede il medesimo tratto di discesa, ma dopo una breve pausa al “Boschetto” una guida naturalistica del WWF accompagna i partecipanti alla scoperta della natura incontaminata dell’Isola del Pestrino, oasi di protezione faunistica, e delle rive del Sud dell’Adige, tra argini, canneti e animali la cui vita gravita attorno al fiume. L’escursione si conclude alla diga Santa Caterina. Al termine di entrambi i percorsi è previsto un autobus dedicato, che riaccompagna i partecipanti al luogo di partenza. Durante la discesa le guide fluviali insegnano ai partecipanti i rudimenti sportivi del canottaggio e, durante le tre soste previste, raccontano importanti notizie sulle vicende, i costumi e le attività proprie della vita fluviale della città, dal Medioevo al secondo dopoguerra, svelando l’origine dei nomi di molte vie veronesi, o le tecniche anticamente adottate per la risalita del fiume. Rimanendo in ambito cittadino Adige Rafting è inoltre coinvolta in numerose importanti manifestazioni, come il Tocatì, di cui gestisce il trasporto fluviale, l’Adigemarathon che si tiene a ottobre in Val d’Adige, e il carnevale ve-

in VERONA

ronese, a cui l’associazione partecipa con il trasporto della maschera tradizionale del quartiere Filippini, il principe Reboano, che secondo la leggenda condusse un’invasione lungo il fiume occupando l’isola di Negroponte. Un terzo itinerario viene proposto fuori città, in Valdadige, con partenza a Dolcè e arrivo a Pescantina. Qui l’immersione nella

natura è quasi totale, con passaggi estremamente suggestivi come l’attraversamento della chiusa del Ceraino, in cui i gommoni seguono le curve del fiume all’interno di una gola dalle pareti rocciose. «Tutte le nostre attività» conferma Cocchio «hanno ricevuto una buona risposta dalla cittadinanza, in particolare l’iniziativa “La città riscopre il suo fiume”. Lavoriamo molto con le realtà associative, in primis gli enti pubblici legati al Comune, ma anche con numerosi privati. Spesso effettuiamo discese con membri dei Centri diurni e associazioni dei carcerati. Una collaborazione importante e speciale è quella con le scuole cittadine: apprezzano molto il taglio didattico che abbiamo voluto dare alle attività, sia dal punto di vista sportivo che storico-culturale. I ragazzi si appassionano subito sentendo raccontare la storia dell’eroe veronese Bartolomeo Rubele, o la vicenda della fuga degli Scaligeri dalla porticina nascosta di Castelvecchio».

Il progetto futuro di Adige Rafting è quello di entrare nel polo fluviale da realizzarsi al Chievo assieme ad altre realtà sportive, in primo luogo il Canoa Club. L’intento è organizzare corsi di soccorso fluviale, un’ulteriore possibilità di avvicinare sempre più giovani allo sport e ai valori del rafting.

CONTATTI info@adigerafting.it www.adigerafting.it 3478892498

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L’art. 8 della legge sulla stampa 47/1948 stabilisce che “Il direttore o, comunque, il responsabile è tenuto a fare inserire gratuitamente nel quotidiano o nel periodico o nell'agenzia di stampa le dichiarazioni o le rettifiche dei soggetti di cui siano state pubblicate immagini od ai quali siano stati attribuiti atti o pensieri o affermazioni da essi ritenuti lesivi della loro dignità o contrari a verità, purché le dichiarazioni o le rettifiche non abbiano contenuto suscettibile di incriminazione penale”.

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Giornale di attualità e cultura Direttore Giorgio Montolli

e

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Giorgio Montolli

Lungadige Re Teodorico, 10 37129 - Verona. Tel. 045.592695 Stampa NE&A print - Verona Registrazione al Tribunale di Verona n°1557 del 29 settembre 2003 Iscrizione ROC 18748 N° 29/luglio 2011 Copia venduta in abbonamento al prezzo di 15 euro l’anno www.verona-in.it Questo giornale è stampato su carta realizzata secondo rigorosi standard ambientali, sociali ed economici Chiuso in redazione il 28/06/2011

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AMIA VERONA SPA: BILANCIO IN ATTIVO PER 1 MILIONE

Il Presidente di AMIA Verona SPA, Stefano Legramandi

Il fatturato del 2010 risulta pari a 65,4 milioni di euro. Considerando che Amia ad oggi si avvale di 543 addetti, il valore del fatturato per dipendente è di 120 mila euro. Di particolare significato l’incisiva azione intrapresa nel corso dell’anno 2010, volta al recupero dell’evasione della TIA

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Amia Verona Spa ha archiviato il 2010 con un bilancio che si è dimostrato positivo. Infatti l’esercizio dello scorso anno si è chiuso con un risultato positivo di 2 milioni 636 mila euro, a monte dell’imposizione fiscale ed un utile post tax pari a euro 1.042 mila. Questi sono i dati emersi in sede di Assemblea di approvazione del bilancio 2010, alla presenza del Presidente Stefano Legramandi e dall’Assessore alle Aziende Partecipate Enrico Toffali svoltasi nella giornata di martedì 22 giugno presso la sede Amia. Una seduta nella quale è stato approvato il bilancio 2010 con grande soddisfazione, dovuta innanzitutto ad non aver aumentato nel corso del 2010 il costo del servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Infatti il Piano Finanziario 2010 della TIA è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al Piano Finanziario 2009. Per quanto riguarda il bilancio di esercizio nello specifico, il fatturato risulta pari a euro 65,4 milioni. Considerando che Amia ad oggi si avvale di 543 addetti, il valore del fatturato per dipendente è di 120 mila euro. La differenza tra valore e costi della produzione è pari ad euro 1,7 milioni e il margine operativo lordo, che è il più significativo parametro di produttività aziendale, si è assestato a 3,1 milioni. Di particolare significato l’inci-

Il Presidente Legramandi: «Nel 2010 ottimi risultati grazie allo sforzo di tutti i dipendenti. Ora puntiamo a un 2011 nel segno della continuità» siva azione intrapresa nel corso dell’anno 2010, volta al recupero dell’evasione della TIA. Dal punto di vista strategico si cercherà di migliorare ulteriormente, nel corso del 2011, la raccolta differenziata, che, nel mese di maggio, ha superato il 52%, risultato mai raggiunto a Verona e oltremodo significativo a livello nazionale. «Sono estremamente soddisfatto che per il primo anno del mio mandato, il bilancio aziendale si sia chiuso positivamente – dichiara il Presidente di Amia, Stefano Legramandi –. Il risultato è da attribuirsi ad un’efficienza organizzativa sommata al forte impegno dei lavoratori e dei cittadini di Verona: un connubio di fondamentale importanza». «I grandi risultati non sono mai merito di una sola persona – prosegue il Presidente – per cui trovo sia importante rivolgere un particolare ringraziamento al Sindaco Flavio Tosi e a tutta l’Amministrazione Comunale, oltre all’ex Presidente di Amia, Paolo Paternoster, che con il suo Consiglio di Amministrazione è rimasto in carica fino a ottobre dello scorso anno». «La scommessa che abbiamo vinto – dichiara il Direttore Generale di Amia, dott. Alfonsino Ercole – è di aver incrementato il livello qualitativo dei servizi erogati e nello stesso tempo aumentato il livello di redditività

dell’azienda. Nel corso del 2010 si è perseguito il miglioramento dell’efficienza interna, tale da posizionarci oggi, a detta di molti esperti e consulenti, ai vertici nazionali, e non solo, per contenimento dei costi e qualità del servizio». «Grande motivo di orgoglio per la nostra azienda – aggiunge il Presidente – è l’adesione al progetto LSU (Lavori Socialmente Utili) attraverso il quale, con Comune e Regione, abbiamo offerto un’opportunità di occupazione a persone in difficoltà». «È negli obiettivi di Amia proseguire nel segno della continuità – conclude Legramandi – , elaborando per il futuro nuove pianificazioni strategiche che ci permettano di rimanere una delle aziende leader del settore a livello nazionale». Risultato che trova tutti attori co-protagonisti: Azienda, Comune, cittadini e imprese. A cura dell’Ufficio Stampa Amia Verona Spa

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INSIEME FUORI DALLA CRISI

per difendere il lavoro e liberare i diritti a fianco dei lavoratori e dei pensionati contro il precariato giovanile e per salari pi첫 equi

CGIL - CISL - UIL VERONA


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