Verona In 21/2009

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INTERVISTE GUIDO PAPALIA CORINNA ALBOLINO RINO BREONI

VIOLENZA A VERONA Dopo le aggressioni di Porta Leoni e Piazza Viviani alcuni giornalisti veronesi si sono chiesti il perché di questi brutali episodi e hanno cercato di indicare delle possibili vie di uscita N°

21 - APRILE 2009 - TRIMESTRALE EDITO DALLO STUDIO EDITORIALE GIORGIO MONTOLLI - POSTE ITALIANE S . P. A . - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - 70% - DCB VERONA



Primo piano

Una libera circolazione delle idee

In copertina: Porta Leoni, la gente in meditazione sul luogo della tragedia

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L’idea di raccogliere i pareri dei giornalisti veronesi sul problema della violenza a Verona a un anno dalla morte di Nicola Tommasoli è nata su facebook (internet) nei giorni successivi all’aggressione avvenuta in Piazza Viviani il 4 gennaio di quest’anno, che ha visto coinvolti giovani di destra e altri ragazzi riuniti all’interno del Caffè Posta. Quest’ultimo episodio ha scosso l’opinione pubblica ed è riverberato sul social network con prese di posizione sulle cause che sarebbero all’origine di tanta brutalità. È stato Giancarlo Beltrame a proporre di esternare in modo costruttivo non solo sulla rete, ma anche nero su bianco, quei pensieri sparsi, utilizzando questo giornale. Abbiamo acconsentito e quindi coordinato l’iniziativa fornendo una traccia: “provare a individuare le cause della violenza con esempi concreti, cercando delle coraggiose ipotesi di soluzione ai problemi per fare di Verona una città a misura d’uomo”. Quanto è giunto in redazione è stato pubblicato senza effettuare alcun taglio, nella convinzione che per affrontare con lucidità problemi tanto gravi e urgenti tutte le opinioni siano necessarie e che per creare spazi di confronto autentici debba esserci prima una libera circolazione delle idee. Sono così emersi due filoni: il primo che riconduce la violenza a una generale perdita di valori; il secondo più determinato ad individuare una matrice “politica”, legata alle frange dell’estrema destra veronese.

Vogliamo sottolineare altri due aspetti di questa iniziativa, non secondari. Anzitutto non capita tutti i giorni che giornalisti provenienti da varie testate, con esperienze e sensibilità diverse, decidano di tentare insieme, con molta umiltà, di analizzare un fenomeno che evidentemente li scuote e li interpella in prima persona. Il secondo motivo è che la scelta di fare questa operazione su un piccolo giornale è significativa per quanto riguarda la libertà di stampa. Siamo infatti convinti che iniziative editoriali come questa siano importanti per il pluralismo dell’informazione, soprattutto quando, di fronte alla gravità di certi fatti, diventa difficile trovare lo spazio per avviare una seria riflessione che serva a scuotere le coscienze e a prevenire certi mali. Per completare il lavoro abbiamo sentito tre pareri: il procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia Guido Papalia, il filosofo Corinna Albolino e don Rino Breoni, figure autorevoli nei diversi settori di competenza. Vi invitiamo a cogliere l’impegno e la generosità che stanno dietro le idee espresse, anche se diverse tra loro. Ci sono infatti elementi unificanti che affiorano con forza tra un ragionamento e l’altro che colpiscono per la loro intensità. Forse è questo sforzo che ci è richiesto: di passione per la nostra città, per le persone che la abitano. E forse transita proprio da qui l’ipotesi di una Verona meno violenta, più accogliente e a misura d’uomo. g.m

Grazie alle Madri per una Verona Civile, che hanno messo a disposizione le fotografie pubblicate, a Gianni Falcone per la vignetta e all’avvocato Claudia De Mori per la consulenza. Hanno contribuito economicamente alla realizzazione del giornale: Confindustria Verona (Vice Presidente Politiche Sociali) Associazione Vivi l’Europa Università della pace G. La Pira Comboni Fem Andrea Castelletti Pierluigi Perosini Alberto Sperotto La tiratura è stata di 2500 copie per una spesa di 2050 euro.

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Violenza a Verona

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Le interviste

GUIDO PAPALIA

L’ispirazione nazifascista c’è ma assume nuovi connotati Prevale una forma di razzismo che colpisce chi è diverso da me, chi non è della mia stessa opinione, chi non segue la mia religione, chi non veste come me di Giovanni Marchiori e Giancarlo Beltrame

«Questi giovani pensano di poter diventare dei moderni crociati, dei liberatori, con un compito ben preciso: quello di allontanare dal luogo sacro coloro che reputano diversi, mandandoli via dalle strade e da quello che ritengono il loro territorio»

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Non vi è nato, ma ne parla come fosse la sua terra. Sicuramente non si esprime con inflessioni dialettali veronesi, ma le parole pronunciate evidenziano il legame di affetto con il territorio e la società scaligera. Una città, quella di Verona, in cui Guido Papalia, ora Procuratore generale della Corte di Appello di Brescia, ha lavorato per quasi trent’anni come magistrato: dall’estate del 1980 allo scorcio finale del 2008. Circa tre decenni caratterizzati da un grande impegno professionale sono un valido motivo per ascoltare l’opinione di un uomo che può, da un particolare punto di osservazione, fornire conoscenze sul tema della violenza a Verona. Più che un’intervista l’incontro con Papalia, avvenuto nel suo ufficio a Brescia, è stato un piacevole colloquio. Una sorta di chiacchierata in cui il magistrato si è contraddistinto, oltre che per la gentilezza e la grande disponibilità, anche per la precisione con cui ha ricordato episodi e date riguardanti atti giudiziari che si susseguivano tra gli appunti. Una lunga serie di nomi del passato, storie e vicende che riguardano la criminalità organizzata e il terrorismo negli anni ’60 e ’70, passando per i problemi del tifo violento nel mondo del calcio, verso la fine degli anni ’80. – Il suo “debutto” veronese è avvenuto in un periodo difficile, l’inizio degli anni Ottanta, con una data che è rimasta nella mente di molti italiani: il 17 dicembre del 1981, giorno del rapimento del

generale James Lee Dozier. Come ricorda quel periodo? «Un momento delicato che si è fortunatamente concluso nel migliore dei modi. In quel caso non solo si riuscì a liberare il generale, ma l’operazione si concluse con il rilascio dell’ostaggio senza colpo ferire. Inoltre riuscimmo ad individuare tutti gli autori del sequestro, non solo i cinque custodi dell’ufficiale, ma proprio tutti i componenti che appartenevano alla colonna veneta, a quella romana e a quella toscana delle BR. I responsabili del sequestro furono arrestati e condannati e la liberazione di Dozier fu certamente motivo d’orgoglio».

– Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta ci sono stati dei gravi episodi, che potremmo definire di violenza gratuita. Quale ricorda con maggior tristezza? «Sicuramente l’omicidio di “Crea”, un anziano barbone che fu ucciso per strada. La vittima, un uomo di 73 anni, Olimpio Vianello, detto Crea, era un barbone che abitualmente dormiva nel cortile dell’ex tribunale. Quella notte due giovani, dopo aver trascorso la serata a bere in un bar, decisero di andare a caccia di “neri”. E purtroppo si imbatterono nel povero Crea che stava dormendo. Uno dei due si avvicinò all’anziano col-

Guido Papalia

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Violenza a Verona

«Inizialmente c’era ancora un riferimento ideologico. Un’idea certamente contestabile, ma comunque radicata in qualcosa. Un esempio potrebbe essere il caso degli skinheads...»

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pendolo alla nuca durante il sonno con un corpo contundente. Quando i soccorritori giunsero sul posto trovarono l’anziano agonizzante. Poco dopo Crea morì. Questo caso è stato risolto quasi dieci anni dopo con la condanna del giovane omicida. Veramente un brutto caso di violenza, caratterizzato dalla determinazione e dalla volontà di fare del male e basta». – Il fenomeno della violenza è sicuramente mutato con il passare del tempo. Così, avvicinandoci alla metà degli anni Novanta, a Verona si è vissuto un periodo che è stato definito di “controllo del territorio”. Quali sono le differenze con l’epoca del terrorismo? «Inizialmente c’era ancora un riferimento ideologico. Un’idea certamente contestabile, ma comunque radicata in qualcosa. Un esempio potrebbe essere il caso degli skinheads. Nell’estate del 1995, infatti, alcuni giovani del Fronte Veneto Skinheads avrebbero imposto a uno sharp, testa rasata antirazzista, di non entrare allo stadio per assistere alla partita del Verona. Tutto ciò avveniva perché come skin era fondamentale seguire una certa ideologia: dovevi essere razzista e dimotrare di sostenere con convinzione le idee del gruppo di appartenenza».

– E poi? «Negli ultimi anni la situazione è mutata. Mi riferisco in particolar modo all’ultimissimo periodo, tra il 2007 e il 2008. A differenza degli anni del terrorismo non c’è una chiara struttura di riferimento. Certamente rimane l’ispirazione nazi-fascista, ma a prevalere è una forma di razzismo che colpisce chi è diverso da me, chi non è della mia stessa opinione, chi non segue la mia religione, chi non si veste come me e non possiede i miei principi o quelli della mia famiglia, gli unici giusti e gli unici da seguire. L’obiettivo è quello di allontanare tutti coloro che hanno opinioni diverse dalle mie». – Allontanare da dove, da che cosa? «Per esempio dal cuore della città: il centro. Tanto che questi giovani pensano di poter diventare dei moderni crociati, dei liberatori, con un compito ben preciso: quello di allontanare dal luogo sacro coloro che reputano diversi, mandandoli via dalle strade e da quello che ritengono il loro territorio». – Parlando di controllo del territorio è possibile definire lo stadio, e in particolare alcune frange della curva, come uno degli ambienti dove si sviluppa questo modo di pensare?

«Non c’è dubbio. È proprio così. E questa nuova forma di violenza, secondo me, è pericolosissima». – Le scelte politiche amministrative contro l’abbattimento delle zone di degrado possono fornire un alibi per un certo tipo di violenza? «Sono del parere che bisogna evitare la nascita di ghetti. Piuttosto sarebbe meglio adottare dei provvedimenti per aiutare gli emarginati». – Sembra che a Verona ci sia una reazione di rigetto nei confronti delle critiche provenienti dall’esterno. È possibile che, per quanto riguarda questo aspetto, sia più sensibile di altre città? «Noto qualche affinità tra l’ambiente veronese, che ho conosciuto negli ultimi 28 anni, e quello siciliano e calabrese. La gente vuole difendere il proprio ambiente, ma bisogna farlo nel modo corretto. Non era giusto prendersela con i giornalisti che parlavano della mafia, come è sbagliato sostenere che a Verona non ci siano certi mali e non ha proprio senso arrabbiarsi con chi si pone delle domande. Purtroppo questi episodi di violenza non sono fatti isolati e forse l’uccisione di Crea nel ’90 e l’omicidio Tommasoli non sono poi così distanti tra loro».

Aprile 2009


Le interviste

CORINNA ALBOLINO

Niente capri espiatori Il male ci abita dentro Il problema non sono l’altro, le istituzioni o la città, secondo una visione semplicistica e poco responsabile. Quando la prevenzione parte dalle emozioni di Elisabetta Zampini

Sono stati preparati alcuni laboratori per aiutare i ragazzi a capire ciò che è accaduto a Nicola Tommasoli. I giovani venivano invitati a scrivere muovendosi tra due quesiti: “io” vittima che subisce; e “io” aggressore, per far emergere i lati oscuri dell’anima. Gli scritti prodotti sono profondi, belli, intensi

in VERONA

Arriva il momento in cui, dopo aver osservato, commentato e riflettuto su ciò che accade, dopo che ci si è indignati, arrabbiati, dopo che si sono ricercate responsabilità, dopo che si sono lanciate domande e raccolti tentativi di risposte, si cerchi infine un’apertura nuova, una possibilità di azione oltre e nonostante la violenza destabilizzante respirata. Una soluzione che, agendo sul presente e sulle persone che lo abitano, possa ammettere un futuro diverso. La morte di Nicola Tommasoli è stata uno scandalo. È un punto interrogativo aperto. Perciò farne memoria è un obbligo. Un dovere morale, civile, ma anche educativo. Questo è il senso delle tante iniziative che l’associazione “Madri insieme per una Verona Civile” ha portato avanti dopo i fatti di Porta Leoni, rivolte a tutta la città ma in modo speciale ai giovani. Una tappa significativa è stata quella di fotografare, fare memoria, appunto, di tutti i biglietti, le lettere, i doni che hanno reso luogo di memoria condivisa Porta Leoni. Ne è uscita un mostra che è stata esposta per due mesi nella chiesa di San Giorgeto. Iniziativa già di per sé forte. Attuale. Dare risalto e forza a spontanee espressioni “dell’uomo della strada”. Ritenerle fonti potenti di memoria. Ci si intende? Non i grandi discorsi. La retorica. Ma quasi anonime parole di cittadini che hanno sentito forte la domanda esplosa in quel luogo. Attorno a questa mostra si è svilup-

Corinna Albolino

pato però un percorso ulteriore e molto interessante che conferma, e ce n’è bisogno di questi tempi, il successo di una via culturale ed educativa che si fonda sulla consapevolezza, sulla conoscenza di sé, per produrre cambiamenti nell’essere e nell’agire. La dottoressa Corinna Albolino, filosofa ed esperta in scrittura autobiografica, con la collaborazione di Anita Pavan, una lunga carriera di insegnante alle spalle, ha coordinato e seguito una serie di laboratori rivolti ai ragazzi al termine della visita alla mostra di San Giorgeto. Corinna Albolino si è formata alla Libera Università di Anghiari (AR) diretta da Duccio Demetrio, ordinario di pedagogia dell’adultità all’Università Bicocca di Milano. I laboratori hanno perciò avuto come riferi-

mento e sfondo culturale l’attività di ricerca e di sperimentazione che da anni Demetrio sta conducendo e che si basa sul riconoscere la potenza della scrittura autobiografica, non solo per riconoscere che la vita di ognuno e di ciascuno è tutta importante e merita di essere raccontata, ma anche come straordinario strumento di cura, per sottrarre la propria vita al caso. «L’obiettivo dei laboratori – spiega la dottoressa Albolino – era quello di aiutare i ragazzi capire ciò che era accaduto a Nicola Tommasoli ma anche a tutti i “Nicola” che, per le variabili più diverse, avrebbero potuto ritrovarsi in una situazione simile. Comprendere, come punto di partenza, che il problema del male non è “l’altro” o un’istituzione o una città. Cioè una entità ester-

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Violenza a Verona Ciascuno è stato chiamato in prima persona a disvelarsi, a parlare di sé, a scoprisi. I laboratori infatti hanno evidenziato la loro efficacia soprattutto in termini di conoscenza di sé, a tutto tondo, tra spazi azzurri e coni d’ombra. Parlando di sé in termine di vittima o persecutore. Nei confronti dei compagni, dei genitori, di se stessi. Questo a dispetto di chi si ostina a predicare sulla presunta superficialità dei giovani

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na e separata. Perciò una visione semplicistica, deresponsabilizzante e non empatica. Il male appartiene da sempre alla natura dell’uomo, ci abita interiormente. Ci disarma. Il passaggio dal male al bene non è pura questione di volontà. Tutto ciò porta inevitabilmente a percorrere la via della complessità. Si riflette su ciò che si è, sia sul versante positivo che negativo. Riconoscendosi poi si può far il passo successivo e cioè individuare quelle azioni regolative che la cultura ci offre per sublimare i comportamenti pericolosi. Non si tratta di una censura però di queste pulsioni ma piuttosto nell’intraprendere percorsi alternativi e socialmente accettabili in cui la propria individualità si possa esprimere». Molti studenti di tutte le età hanno visitato la mostra, in particolare hanno partecipato ai laboratori le scuole Maffei, Fracastoro, Galilei e King. Determinante è stata la collaborazione degli insegnanti che hanno conosciuto prima il percorso del laboratorio e hanno poi continuato la riflessione in classe. Ma dire “riflessione” per restituire il senso del percorso compiuto dai ragazzi non è termine sufficiente. Si rischia di pensare ad un’operazione di tipo esclusivamente “razionale”, che non ne spiegherebbe il successo. Perché a livello razionale, regolativo e normativo, è facile definire certe azioni deprecabili e condannabili. Tuttavia ciò non basta ad evitarle. Il percorso dei laboratori perciò andava oltre, toccava l’emozionale, il profondo, la memoria personale, il vissuto di sé che veniva fatto risuonare e portato a galla. «Il laboratorio prendeva avvio da un primo confronto, cioè dal dire agli altri quali frasi lette durante il percorso della mostra avevano colpito, erano rimaste più impresse – prosegue Corinna Albolino -; si discuteva quindi sulla scelta creando delle analogie tra i contenuti dei messaggi e personali esperienze, avviando cioè dei processi di identificazione. Quindi i ragazzi venivano invitati a scrivere muovendosi tra due quesiti: “Io come Nicola” e cioè “io” vittima che subisce; e “Io contro Nicola”, l’ ”io” aggressore che fa emergere i lati oscuri del-

l’anima. Certo, a livelli di portata minore, s’intende, ma comunque azioni “contro” che si sperimentano nella quotidianità, gesti di offesa, alterchi, parole forti, conflitti. Infine ognuno era invitato a leggere e a condividere». Gli scritti prodotti sono profondi, belli, intensi. Si pensa anche all’ipotesi di pubblicarli così come si è fatto per tutti i biglietti, le lettere, le poesie e gli oggetti lasciati a Porta Leoni, raccolti nel libro che ha preso il titolo dalla frase-testamento di Primo Levi “Comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Nelle parole dei ragazzi non c’è un parlare per il parlare, è assente il luogo comune, bandita la “doxa”. Perché ciascuno è stato chiamato in prima persona a disvelarsi, a parlare di sé, a scoprisi. I laboratori infatti hanno evidenziato la loro efficacia soprattutto in termini di conoscenza di sé, a tutto tondo, tra spazi azzurri e coni d’ombra. Parlando di sé in termine di vittima o persecutore. Nei confronti dei compagni, dei genitori, di se stessi. Questo a dispetto di chi si ostina a predicare sulla presunta superficialità dei giovani. Ciò accade quando si rimane in superficie e non si praticano strade e metodi per andare oltre. «Questa è una educazione alle emozioni – sottolinea la dottoressa Albolino – . E la scrittura autobiografica è una via. Aiuta ad elaborare. A dissociare tra l’ “io che scrive” e l’ “io narrante”, aprendo così la possibilità di esplorare tutte le sfumature che si percepiscono dentro di sé. Permette di prendersi in mano. Tornare indietro. Chiarire e mettere ordine. Aver piena consapevolezza di sé e delle proprie idee per avviare così con l’altro un vero, schietto e aperto, dialogo. E qui per dialogo non intendo uno scambio di pareri in tono minore, avvilito, “pacifista”. Ma anche impetuoso, appassionato e conflittuale. Per dialogare è necessario saper far valere le proprie idee e nello stesso tempo tenere conto delle differenze. E soprattutto sapere che il proprio parere è dinamico e può essere modificato». Questi laboratori hanno una valenza emblematica. Si amplificano oltre l’esperienza di chi li ha

vissuti. Offrono un’idea e un’agire. Cioè dicono che ci sono dei percorsi educativi che, puntando su profondità e complessità, su riflessione ed emozione, su un umanesimo che è anche nostra tradizione culturale, possono generare vissuti che vanno in direzioni opposte alla violenza. Sono percorsi che producono domande, non temono di pescare in mari meno noti. Portano a coltivare la memoria autobiografica e sociale in una dinamica di vasi comunicanti; si strutturano sul fermarsi, conoscere, dare senso e ripartire. E i luoghi educativi, tutti, non solo la scuola, hanno oggi la possibilità di fermare il tempo per aprire queste possibilità. Solo riconoscendo e dando un nome a tutti i sentimenti che ci frequentano, sentendo fortemente l’umanità che ci impasta, si può davvero provare compassione attiva per ciò che avviene all’esterno: “Se ti fermi, ti innamori” recita il titolo del romanzo di Loredana Frescura, scrittrice dei ragazzi e per i ragazzi.

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Le interviste

DON RINO BREONI

Anche il più lungo dei viaggi comincia con un passo Siamo ancora in tempo a invertire la rotta, ma bisogna iniziare a farlo. I genitori devono riscoprire il loro ruolo che non è quello di assecondare sempre i figli di Cinzia Inguanta

«Non è molto appariscente ciò che può fare un prete. Formare, o meglio contribuire alla formazione della coscienza, all’esercizio del senso critico. E questo ancora prima di una proposta strettamente religiosa. È l’uomo che va aiutato a crescere e per il prete le occasioni non sono poche»

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– Secondo il suo punto di vista come sta rispondendo la città agli episodi di violenza che si stanno verificando a Verona? La risposta della gente comune, del mondo culturale, della politica, della chiesa... «A me pare che, globalmente, la risposta agli episodi gravi di violenza tenda ad esaurirsi in manifestazioni di stupore indignato, in espressioni di partecipazione di non molto peso per una inversione di tendenza. Deporre fiori e messaggi dove la violenza si è espressa, facendo vittime, è certamente un gesto di attenzione, di pietà ma non molto incisivo. Questi segnali reattivi andrebbero fatti propri dai vari mondi della cultura, della politica, della religione. A me pare che queste realtà a loro volta non vadano oltre le affermazioni di principio, l’esecrazione, la dissociazione. Siamo ben lontani da analisi pertinenti e precise, premessa indispensabile per un’azione preventiva e correttiva». – Chi dovrebbe fare queste analisi? Cosa potrebbe emergere? «Le analisi si possono condurre a diversi livelli: ad esempio quello statistico e quello sperimentale. Può essere che, oltre all’approccio scientifico, sia utile attingere alla fonte dell’esperienza, con senso critico, leggendo al di là delle impressioni immediate. Per fare degli esempi: l’attenzione disinvolta, e magari festosa, con cui un prete può essere accolto dai giovani la sera dopo cena, magari prima di fare mattina in

qualche discoteca, non può sbrigativamente essere letta come disponibilità ad accogliere un messaggio spirituale. Se migliaia di giovani si radunano per manifestazioni mondiali di carattere religioso ciò non è la riprova che sta passando un messaggio evangelico, per quanto autorevole sia la voce che li raggiunge. Se chi ha la responsabilità civile segue le strade delle proposte sportive, agonistiche, popolando (a volte in modo assai discutibile) le piazze, rimane tuttavia il fatto che questi giovani, anche quando giocano, fanno sport, si divertono possono portare nel cuore i segni dolorosi di situazioni familiari difficili ed essere privi di riferimenti: gli effetti sono sotto gli occhi di tutti». – Non le pare che la gravità di quanto sta accadendo nella no-

stra città necessiterebbe di uno sforzo congiunto tra le istituzioni veronesi per arginare il fenomeno? Qualcosa di organizzato come una commissione che prenda coscienza del fenomeno e proponga elementi di contrasto... «Mi sia permessa una parola dubbiosa sull’efficacia di una “commissione” che prenda coscienza e contrasti fenomeni di questa portata. Se ognuna delle istituzioni chiamate in causa facesse quanto è nelle proprie finalità, le cose andrebbero meglio. Le assemblee scolastiche, ad esempio, con i cosiddetti “esperti” ottengono ascolto e dibattito, ma è nelle aule che fiorisce la piccola delinquenza. Si osservi l’arredo scolastico, si leggano i messaggi (foto e altro) che si tollerano appesi sui muri, si ascolti il gergo, si noti la gestualità adole-

Don Rino Breoni, abate di San Zeno

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Violenza a Verona

«La società abbia il coraggio di ammettere le proprie contraddizioni: non è pensabile riformare gli itinerari scolastici ignorando che ogni giorno è inflitta alla gioventù una “violenza” sottile con il piccolo schermo, internet o altro, cattedre ben più incisive di quelle scolastiche»

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scenziale o universitaria. Sono sparite le categorie di bene e di male, di opportuno e inopportuno, di conveniente o meno. A uno spontaneismo distruttivo gli educatori appiccicano spesso l’etichetta di “ragazzate”. Una commissione forse avrebbe il merito di apparire fra le notizie di cronaca con foto e dichiarazioni, per poi lasciare tutto… sicut era in principio” (come era prima)». – Vede Verona come una città pigra in questo senso? E se sì, perché? Ci spiega cos’è il peccato di omissione e come si può individuare in questo frangente? «Verona non è diversa da altre città. C’è una pigrizia diffusa che è il frutto di uno stordimento collettivo dovuto al bombardamento mediatico. Questo non è il luogo per sottolineare il graduale imbarbarimento del gusto medio diffuso. La sovrapposizione incalzante di eventi, proposte, suggestioni distrae l’attenzione, soprattutto quella interiore: c’è stata un’aggressione, si è uccisa o ferita una persona? La televisione e i giornali ne danno notizia ma... c’è chi ci deve pensare... su un altro canale c’è il derby... Non passa neppure per l’anticamera del cervello il farne oggetto, a botta calda, di conversazione e di confronto in famiglia. Già questa è una prima e fondamentale omissione». – Qual è la prima cosa che si sentirebbe di fare come prete... qualcosa di concreto. «Non è molto appariscente ciò che può fare un prete. Formare, o meglio contribuire alla formazione della coscienza, all’esercizio del senso critico. E questo ancora prima di fare una proposta strettamente religiosa. È l’uomo che va aiutato a crescere e per il prete le occasioni non sono poche: i contatti con i giovani ci sono ancora. Penso che quasi tutti coloro che hanno compiuto gesti delinquenziali abbiano anche frequentato le nostre parrocchie. Quali messaggi hanno ricevuto? Sono ben lontano dal puntare il dito o mettere sotto accusa qualcuno. Temo però che un messaggio religioso, se non ha aderenze con la realtà anche difficile, rischia di slittare in uno spiritualismo disincarnato».

– Ci sono comportamenti apparentemente innocui che invece sono potenzialmente in grado di generare violenza? Quali? «Un vecchio adagio diceva “il disastro comincia dalle piccole cose”. E queste possono non avere immediati rimandi alla delinquenza, alla criminalità e tuttavia esprimere individualismo, non curanza dell’altro, prevaricazione. Un sottofondo che può esplodere poi in violenza. Perché cedere il posto sull’autobus? Perché moderare la voce al ristorante per non imporre agli altri il silenzio o la mortificazione di un dialogo? Perché alzarsi quando entra il professore in classe? Perché cedere il passo a chi svolge un ruolo? Che male c’è nel chiamare “cioccolatino” un uomo di colore? Che male c’è nel mostrare l’ombelico o il fondo schiena?». – Ci sono piccole iniziative che possono contrastare la violenza e che andrebbero sostenute da parte di chi ha a cuore le sorti della città? «Nelle esemplificazioni appena fatte, chi ha il coraggio cominci ad evidenziare subito ciò che non va, con decisione e con garbo, mettendo in conto anche qualche reazione non simpatica. Lo si faccia nei giardini pubblici, nei luoghi di aggregazione giovanile e altro. Ciascuno nel proprio ambito e secondo le proprie competenze». –Ritiene che la soluzione a quanto si sta verificando sia problematica? «L’ampiezza e la gravità dei problemi è tale che sarebbe ingenuo prospettare soluzioni. L’avvertire un senso d’impotenza di fronte alla condizione giovanile non significa rimanere con le mani in mano. La saggezza cinese sostiene che “il più lungo dei viaggi comincia sempre con un passo”. Se le istituzioni chiamate in causa facessero questo piccolo passo qualcosa succederebbe. I genitori riassumano il proprio ruolo, svilito dal considerarsi “amici” dei loro figli; tornino ad essere riferimento, proposta di vita, ripetendo con chiarezza e motivando i “sì” e i “no”. La scuola torni a definirsi in maniera più autentica il luogo in cui cresce il “soggetto pensante”. La società abbia il co-

raggio di ammettere le proprie contraddizioni: non è pensabile riformare gli itinerari scolastici ignorando che ogni giorno è inflitta alla gioventù una “violenza” sottile con il piccolo schermo, internet o altro, cattedre ben più incisive di quelle scolastiche. Ciascuno si deve assumere le proprie responsabilità, vivere i ruoli che la vita e le competenze comportano. La stessa Chiesa, se non sta attenta, rischia di fare suoi gli stilemi e le espressioni mondani, contrabbandando la provocazione evangelica con suggestioni accattivanti. Constatando che il male fa tanto scalpore, si finisce col credere che la Chiesa sia chiamata a farne altrettanto con il bene, e di più. C’è di che riflettere. – Delle ronde-assistenti civici cosa pensa? «Personalmente ritengo che la mia città non sia più violenta di altre. L’enfatizzazione mediatica di fatti, pur gravi, ha seminato il panico. Le polemiche e gli interrogativi nati nei confronti di queste ronde da parte anche delle forze di polizia, aggiungono perplessità a perplessità. Potenziando nei debiti modi i tutori ufficiali dell’ordine pubblico, credo che la città sarebbe adeguatamente custodita e si eviterebbero colorazioni ideologiche inopportune». – Una parola ai giovani... «Imparate a ragionare con la vostra testa, liberandovi da qualsiasi forma di condizionamento».

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I giornalisti

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Violenza a Verona

Quanto è “normale” ammazzare di botte? Non è facile, non è automatico arrivare a educare ai rapporti: presuppone conoscenza di sé e degli altri, anche dei diversi e dei nuovi che fanno più paura di Vittorio Zambaldo

«È proprio la normalità, che diventa omertà e corresponsabilità, a spiegare perché nella nostra provincia non è normale che uno ammazzi un altro di botte, ma è normale che lo si giustifichi, che si capisca il violento e la sua violenza, che non se ne parli perché non è bene rovinare famiglie e ragazzi “normali”»

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Se in città la violenza sbatte le teste contro i muri e si trasforma in tragedia, nei paesi della provincia è ovattata nel verde e nel silenzio. Sembra fare meno male, perché anche l’ambiente attutisce i colpi e stempera i toni: qui si dovrebbe crescere bene e vivere meglio. Il male viene sempre da fuori, si pensa, è “foresto” come la paura, come il buio, come la foresta, appunto, delle ombre della coscienza. Eppure quando la violenza esplode e ha il nome di Tizio della porta accanto e di Caio che sta di là della strada, allora ci si meraviglia, si sta in silenzio imbarazzati, si ripensa alle “cattive amicizie” di fuori, sempre, e ai cattivi maestri, immancabili in ogni cattiva coscienza. A Illasi e a Boscochiesanuova la notizia che Guglielmo Corsi, Andrea Vesentini e Federico Perini, tre ragazzi “di paese”, erano accusati del pestaggio e della morte di Nicola Tommasoli a Porta Leoni è stata accolta con lo stupore dei neofiti alle cattive notizie. «Non è possibile. Non è credibile. Metterei la mano su fuoco». Frasi che hanno ripetuto in tanti, più i coetanei che gli adulti, per la verità, forse perché la vita e gli anni insegnano la malizia del sospetto. E chi sapeva di certi precedenti, di certi allarmi, di certe tendenze, ne parla come della peste: «C’è, ma non mi tocca; so che ne è stato preso lui, ma è un contagio che non mi colpisce». La prova? A Illasi, sull’onda dell’emozione, un gruppo di cittadini chiede al parroco di organizzare

una veglia di preghiera e una fiaccolata che passi nei luoghi di aggregazione dei giovani: la piazza, il bar, il campo sportivo, le scuole. La preghiera si fa, la processione laica anche, ma mentre il corteo si incammina all’ombra di candele tremolanti, giovani stanno seduti ai tavoli del bar davanti alla fila che si forma e s’incammina. Neppure si alzano, come una sfida, non smettono né di bere né di fumare né di parlare. Guardano solo e non partecipano, neanche per dire: «Dispiace che un coetaneo sia morto così». Una frase di circostanza, che impegna poco la bocca e per nulla le coscienze. A Caldiero, undici mesi prima avevano pestato un ragazzino minorenne, solo perché creduto comunista per via di una maglia rossa addosso e perché conosciuto come «amico di zingari e stranieri». Due adulti che vedono la scena non fanno in tempo a intervenire per salvare il ragazzo da un pugno che gli frantuma la mascella, ma quando avrebbero tempo e dovere di testimoniare non lo fanno. Tace anche chi avrebbe per mestiere il compito di parlare. Vivono in quell’isolato centinaia di persone che sanno, ma solo uno di loro in due anni ha suonato al campanello della famiglia per chiedere come stesse il ragazzo: «Fa male soprattutto il giudizio che queste cose siano in fondo normali», è stato il pensiero pesante e sereno della madre della vittima. Ecco, è proprio la normalità, che diventa omertà e corresponsabilità, a spiegare perché in provincia non è normale che uno ammazzi

un altro di botte, ma è normale che lo si giustifichi,che si capisca il violento e la sua violenza, che non se ne parli perché non è bene rovinare famiglie e ragazzi “normali”. È il risultato del silenzio delle coscienze, private delle radici della virtù e dei rami degli ideali, tronchi cavi che risuonano per echi, perché da altrove arrivano le voci del «fare presto e bene» e dentro di sé ciascuno pensa a ripetere per intero l’eco. Azione e riflessione partono dal dialogo, dalla comunicazione, prima in famiglia,poi a scuola,poi nel gruppo dei pari, fino alla comunità civile degli adulti: e un’azione che ha per mani i pugni e per piedi i calci non va incontro agli altri per “comunicare” ma solo per “trasmettere violenza”. Non è facile e non è automatico arrivare a educare ai rapporti: presuppone conoscenza di sé e degli altri, soprattutto dei diversi e dei nuovi che fanno più paura; fiducia in sé e negli altri; capacità di comunicare, di cooperare, di affrontare e risolvere i conflitti. Una chiesa che presta i suoi banchi a tutti per pregare, come a San Zeno di Colognola, non è una chiesa che perde identità, ma che predica un Vangelo vivo. Un comune che aiuta chi fa più fatica ad essere accettato svolge una funzione che è connaturale alla sua stessa esistenza di casa comune; una scuola che insegna ad esprimere l’aggressività in forma verbale e con capacità simboliche come la poesia e il romanzo, avvia sulla strada del dialogo; una famiglia che si impone con la legge dell’affetto non genera mostri, perché è la violenza che genera violenza.

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Tra miserie politiche e paure sociali Lo spirito di questo tempo è un impasto di inerzie familiari, di diffidenze, di intolleranze razziali, di culto del soldo, di una fede ridotta a mera ritualità di Raffaello Zordan Il giocattolo Verona si è rotto da tempo: zoppica quanto a coesione sociale, esprime una cittadinanza ringhiosa o, quando va bene, dedita alla contemplazione del proprio ombelico, manca di una leadership politica degna di questo nome. Ma i più sembrano non accorgersene. Il meccanismo si chiama rimozione. La posta in gioco è il convincimento di potersi arroccare all’infinito in un’ipotetica isola felice, nella città perfetta che, come tale, non ha bisogno di essere governata ma solo assecondata nei suoi istinti familisti ed economicisti. Ci fosse un caso Tommasoli al mese, lo spirito veronese di questo tempo troverebbe il modo di rimuoverlo, di addossarlo ai “balordi” di turno (che per definizione non sono figli di nessuno, non calpestano questa terra, non respirano questa aria) e di difendere la vecchia, logora di città-cartolina, che è soltanto una caricatura di città. Lo spirito di questo tempo è un impasto di inerzie familiari, di diffidenze e di paure sociali, di miserie politiche, di intolleranze razziali, di culto del soldo, di una fede religiosa ridotta a mera ritualità. Per capire meglio che cos’è e come funziona questo spirito veronese proviamo a soffermarci su alcuni dei fattori che lo costituiscono e lo alimentano: una certa “veronesità”, una politica inadeguata, una società civile ininfluente, specie nella sua componente cattolica. Fatto salvo il tratto, apprezzabile,

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«Domanda: che aspetta l’associazionismo cattolico a dire, a voce alta, qualcosa di cristiano a quella fetta consistente di cattolici praticanti che tiene ben distinto l’ambito della fede da quello dei soldi e delle convenienze? Verona è piena di associazioni di cittadini impegnate nel sociale, nella cultura, nella scuola... ma va colto che gran parte di questo mondo guarda esclusivamente al proprio segmento di attività» della riservatezza, la “veronesità” spesso sconfina nell’indifferenza sociale e nella diffidenza verso tutto ciò che è al di fuori del proprio cortile culturale. Di norma, i veronesi guardano prima di tutto alle loro convenienze immediate e non si espongono. Possiamo dire che si accontentano di fare il loro privato “compitino” e che hanno la tendenza a riconoscere volentieri solo i propri simili, così da sentirsi sicuri nel presente e rassicurati per il futuro. Venendo alla politica, non diversamente da quanto accade sul piano nazionale, ciò che prevale, soprattutto nei partiti del centro-

destra, è una visione semplificata e semplicistica di come gira il mondo e di come ci si possa stare dentro. Non che l’amministrazione Zanotto fosse immune dal populismo o non abbia commesso errori (compreso quello di aver lisciato il pelo alla veronesità), ma oggi ci si affida ad un uomo solo che sintetizza in sé lo spirito veronese di questo tempo. Il che semplifica anche il lavoro di chi ha l’obiettivo limpido di fare affari sulle spalle della collettività. Questa politica, pur quasi del tutto priva di contenuti decenti o forse proprio per questa ragione, ha convinto il grosso dei veronesi a collocare a Palazzo Barbieri un sindaco che ha nel suo fulgido curriculum le ronde padane ante litteram, le fiaccolate contro la Caritas perché si prende cura degli immigrati, la proposta in consiglio comunale che le case popolari siano date solo ai veronesi e che gli immigrati siano obbligati a salire sui mezzi pubblici dalla porta anteriore in modo che l’autista possa verificare se hanno il biglietto. Altro che sicurezza, questa è roba da democrazia autoritaria che evidentemente ben si sposa con quella certa veronesità. E la società civile che fa? Lasciamo stare il sindacato che, diviso e acciaccato, si occupa del suo specifico, punto e basta. Ma Verona è piena di associazioni di cittadini impegnate nel sociale, nella cultura, nella scuola... Va colto che gran parte di questo mondo guarda esclusivamente al proprio segmento di attività, al proprio impegno parcellizzato, ha un rapporto

strumentale con la politica, ha un atteggiamento competitivo e fa fatica a intessere relazioni stabili con le altre associazioni. In definitiva è un mondo che ha scarso interesse a progettare un impegno legato ad una visione coerente ed esigente di città. Ora nell’associazionismo sono numerosi i cattolici che fanno volontariato e che sono impegnati a vario titolo nel sociale. Domanda: che aspetta questo associazionismo cattolico a dire, a voce alta, qualcosa di cristiano a quella fetta consistente di cattolici praticanti che tiene ben distinto l’ambito della fede da quello dei soldi e delle convenienze? Altra domanda: i gruppi cattolici di base non sono stanchi di fare il volto edificante di Verona e di contare poco o niente sia dentro sia fuori la chiesa? Altra domanda ancora: questo associazionismo di base – guardando il Vangelo e guardandosi in faccia – quando deciderà di costituirsi come soggetto politico, promuovendo la formazione e la partecipazione politica; quando troverà il coraggio di incalzare i partiti sul terreno delle scelte strategiche e quando si assumerà il compito di intervenire puntualmente sulla scena politica e sociale veronese senza lasciare che sia il solito monsignore-giornalista a pontificare su tutto? C’è tutta una città (a cominciare da quella cattolica) da svegliare e da orientare. C’è tutto un criterio di cittadinanza da ricostruire, da articolare, da modernizzare. Una partita dura, ma l’associazionismo cattolico di base può contribuire a innescare il cambiamento.

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Violenza a Verona

Aiutiamo i giovani ad andare oltre l’apparenza Nella mia esperienza di insegnante ho visto che, avvicinando gli allievi alla musica, all’arte, al cinema, alle buone letture si verificavano positivi cambiamenti di Paola Bozzini Ho la sensazione che la gioventù di Verona sia come una pentola a pressione. Lucida, pulita, bella all’esterno e dentro tutto un ribollire che trova a fatica il giusto varco di sfogo. Da anni assisto a episodi di violenza commessi per lo più da giovani. Dai sassi lanciati dai cavalcavia ai falò del dopo partita, dagli atti vandalici più diversi alle bande di skinheads per giungere a un vero e proprio squadrismo intollerante, minaccioso e purtroppo anche omicida. Che cosa si muove dentro i nostri ragazzi? Perché è indiscutibile che tutti questi episodi non sono altro che esplosioni di rabbia, di un malessere interiore inespresso, non individuato e forse anche inconsce richieste di aiuto. Davanti ai fatti che la cronaca impietosa elenca, l’istinto è sempre quello di trovare una cosa o qualcuno su cui addossare la colpa, ma non credo sia questo il modo giusto per giungere a qualcosa di costruttivo. I fattori da prendere in considerazione sono molteplici. Viviamo in una provincia ricca, anche se la gente tende a non ostentare il proprio benessere, ma piuttosto a nasconderlo. Nella maggior parte dei casi i giovani coinvolti nelle violenze di ogni genere, sono figli di normali famiglie, senza gravi problemi economici o situazioni di particolare disagio, con genitori piuttosto attenti nei confronti dei propri figli. E allora, dove si annida la radice malata? Agli inquirenti, alcuni ragazzi hanno detto di avere agito per fu-

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gare la noia. Altri hanno asserito di non avere pensato alle conseguenze delle loro azioni. Molti non hanno saputo dare alcuna risposta. Mi torna alla mente la risposta di Maso: «Ma io non pensavo che fosse così difficile! Non pensavo che reagissero». Credeva che l’assassinio dei suoi genitori si sarebbe svolto come nelle fiction del cinema o della televisione. Ecco, si potrebbe partire da qui, da un’analisi sincera dell’influenza che la tv e un certo cinema hanno sui giovani. Sin da piccoli. Quante ore trascorrono davanti al piccolo schermo? E, soprattutto, che cosa passa davanti ai loro occhi? Da un po’ di tempo anche i cartoons si sono tinti di violenza e così i video games (più gente investi più punti fai!) per non dire dei pupazzi orientali dai ghigni orrendi. Una vera scuola del brutto. E il resto lo aggiunge certa pubblicità che esalta l’avere, l’apparire, il possedere e la competizione. Crescono perciò con l’idea che conti più ciò che si ha in tasca di quel si ha in testa o nel cuore. Ho conosciuto un giovane obeso, obeso a tal punto da dover essere ricoverato in una clinica. Mangiava in modo assurdo e beveva birra con altrettanta foga. A chi gli ha chiesto perché facesse così, ha risposto: «Era un modo per colmare il vuoto, il vuoto che ho dentro e che resta sempre uguale!». Forse anche i nostri giovani soffrono per un uguale vuoto interiore e cercano di eliminarlo o di sopraffarne l’assordante suono con azioni eclatanti. Il benessere ha portato a una perdita progres-

siva dei valori che contano e che non sono il denaro, il jeans firmato o il cellulare dell’ultima generazione. Così è cresciuta la necessità di appartenere a un gruppo per non sentirsi soli, oltre che vuoti. Il branco protegge, aiuta, sostiene, fuga le paure e permette di esprimersi liberamente. Insieme tutto diventa possibile. Presi uno a uno sono normali ragazzi, senza grandi spavalderie o aggressività, ma uniti si trasformano in una sorta di bomba sempre pronta ad esplodere per colpire chi è diverso, straniero o italiano non importa, basta che ai loro occhi appaia “diverso”. Insieme si può dare fuoco a un

«Viviamo in una provincia ricca, anche se la gente tende a non ostentare il proprio benessere, ma piuttosto a nasconderlo. Nella maggior parte dei casi i giovani coinvolti nelle violenze di ogni genere sono figli di normali famiglie, senza gravi problemi economici o situazioni di particolare disagio, con genitori piuttosto attenti nei confronti dei propri figli. E allora, dove si annida la radice malata?»

barbone addormentato, si possono minacciare ragazzini più giovani e si può picchiare a morte chi non ha la sigaretta pronta da offrire. La soluzione? Arduo trovarla. Penso si debba costruirla mattone per mattone con pazienza educando le menti ed il cuore al bello, a ciò che c’è di buono, alle cose che davvero valgono. Nel corso della mia esperienza di insegnante ho visto che, avvicinando gli allievi alla musica, all’arte, al cinema ricco di contenuti, alle buone letture si verificavano positivi cambiamenti. Nascevano domande importanti, discussioni che andavano in profondità su argomenti esistenziali come la vita, la morte, gli ideali, il senso della patria, l’amore per gli altri, la passione artistica e l’impatto della presenza di Dio nella nostra vita. Si aprivano dialoghi che mi consentivano di capire meglio i ragazzi dandomi la possibilità di offrire aiuto. Il dialogo, riuscire a instaurare un rapporto d’anima e saper ascoltare con il cuore. Ritengo sia questa l’unica chiave per aiutare i giovani a scoprire e a estrinsecare sé stessi, colmando il vuoto con l’amore, la fiducia e contenuti che diano significato al vivere. Ed è altrettanto importante insegnare ai giovani a guardarsi attorno e a vedere ciò che c’è al di là dell’apparenza per aiutarli a comprendere che siamo tutti in cammino lungo una stessa via. La rabbia, la violenza, l’odio possono solo creare ostacoli, difficoltà, dolore e distruggono tutto ciò che di buono c’è in ogni creatura.

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«Bravi ragazzi» con un cuore di pietra Il diverso ha un nome straniero, vive nell’ombra, viene sfruttato e ci si ricorda di lui con foto e generalità in bella evidenza solo quando commette un reato di Marzio Perbellini

«Il bravo ragazzo è pronto a difendere il territorio, a “tenere il mondo fuori dalle mura”, come qualcuno ha scritto in pennarello sull’Arco dei Gavi, parafrasando il “There is no world without Verona walls” di William Shakespeare»

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Un bravo ragazzo. Giovane, curato, buone scuole, bella macchina, tanti amici e famiglia benestante. Bel sorriso da reclame e un grande cuore di pietra, incastonato nel contesto veronese come un porfido in una via del centro. Nessuno lo vede fino a quando non lascia il buco. Un “Italian psycho” lo definirebbe lo scrittore Niccolò Ammaniti: un “innamorato che scrive sotto casa lettere d’amore con lo spray alla fidanzata, le fa il regalo a San Valentino e in fondo pensa che dare fuoco a un marocchino non sia particolarmente terribile”. Perché sotto l’abito griffato ha l’anima nera, difficile da scorgere nella città che riconosce e accoglie solo ciò che è bello in superficie. Il bravo ragazzo di giorno frequenta la parrocchia e di sera va in giro a pestare la gente. In chiesa si fa il segno della croce e in piazza inneggia al nazismo. Tutti lo vedono fare la comunione e nessuno lo vede menare le mani. Il bravo ragazzo è pronto a difendere il territorio, a “tenere il mondo fuori dalle mura”, come qualcuno ha scritto in pennarello sull’Arco dei Gavi parafrasando il “There is no world without Verona walls” di William Shakespeare. A Verona coi bravi ragazzi si chiude un occhio, anzi, due, salvo quando, dopo l’ennesima aggressione contro il “diverso”, il nemico, l’alieno, ci scappa il morto, come con Nicola Tommasoli, ucciso la notte tra il 30 aprile e il 1 maggio dell’anno scorso a Porta Leoni. Ecco allora che la città sbigottita

si indigna, scopre e si interroga su tanta violenza. Guarda il buco e non capisce. Eh sì che di bravi ragazzi a Verona ce ne sono stati di illustri, come Pietro Maso, sempre impeccabile col suo foulardino a pois e che diede allo psichiatra Vittorino Andreoli l’occasione di tracciare un quadro al vetriolo (mai digerito) del nostro contesto sociale, rozzo e privo di cultura. O gli studenti modello figli della borghesia strabene alla Wolfgang Abel e Marco Furlan, e così descritti da Guido Vergani, giornalista di Repubblica, il 1 dicembre 1986, alla prima udienza del processo a Ludwig, il nome con il quale i due sono stati condannati per aver ucciso dal 1977 al 1984 prostitute, preti, tossici, omosessuali. «Sono piccoli, mingherlini», scrive. «Le sbarre grigie li sovrastano e fisicamente li rimpiccioliscono. Wolfgang Abel e Marco Furlan hanno l’aspetto di ado-

«Di bravi ragazzi a Verona ce ne sono stati di illustri, a partire da Pietro Maso, sempre impeccabile col suo foulardino a pois e che diede allo psichiatra Vittorino Andreoli l’occasione di tracciare un quadro al vetriolo (mai digerito) del nostro contesto sociale, rozzo e privo di cultura»

lescenti e facce da ginnasiali». Bravi ragazzi. La violenza in città torna sempre con la stessa faccia, ma nessuno la vede. O se lo ricorda. Perché da noi non si fruga sotto ai vestiti. Ci si accontenta dei vestiti, semplicemente. Così impegnati dalle nostre parti a “perseguitare” quelli con le mani sporche e gli indumenti sgualciti. Il “diverso” contro il quale si scaglia la Lega di Flavio Tosi, sovrano della città col suo 65 per cento di consensi. Il diverso che ha un nome straniero, vive nell’ombra, viene sfruttato, e ci si ricorda di lui con foto e generalità in bell’evidenza solo quando commette un reato. Il diverso che la Chiesa ha paura di difendere; il diverso che dà fastidio ai padroni di quell’amato fazzoletto di terra pulito e incontaminato del centro storico dove i “brutti ceffi” non si vedono e loro, i bei ragazzi dalla camicia bianca, continuano a parcheggiare impunemente il proprio suv in divieto di sosta. Alla faccia delle regole e della tolleranza zero. Che sono inflessibili invece per chi chiede l’elemosina, per chi gestisce call center e negozi di kebab, per chi vuole pregare in una moschea, per chi ha capelli lunghi, dreadlocks e fa risorgere dall’oblio un asilo comunale abbandonato da anni. Per chi non ha casa, li chiamano gli “sbandati”, che non hanno altro che una panchina dove mangiare, o riposare. Per chi vorrebbe abbattere le mura di una città che si illude di essere sicura solo quando tiene il mondo fuori. Mentre il mostro ce l’ha nella pancia. Da sempre.

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Violenza a Verona

Tolleranza e accoglienza: due potenti antidoti Bisogna tenere alta la guardia che difende il diritto e non il pregiudizio, la reciprocità e non la grettezza, la convivialità e non il fondamentalismo di Maria Teresa Ratti

«Verona potrebbe essere meno violenta se i suoi abitanti fossero più accoglienti. E più accoglienti di cuore, non solo di facciata. È un’istanza che ho raccolto anche da donne italiane di nascita ma non native di Verona, le quali mi hanno raccontato la loro fatica per trovare, in città, conoscenze e soprattutto amicizie»

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Sono da poco rientrata dal Brasile, dove ho avuto la gioia di partecipare al Forum Sociale Mondiale tenutosi nella città di Belém, nello stato amazzonico del Pará. Un’esperienza, nel suo insieme, molto ricca di contenuti ma soprattutto molto coinvolgente per quanto concerne il leitmotiv che da anni accompagna questo evento: un altro mondo è possibile! Credo valga la spesa riflettere su alcune implicazioni racchiuse nel tema del Forum da tenere come filo conduttore alla nostra riflessione. Un altro mondo è possibile: l’affermazione esprime una presa di posizione di fronte alla quotidianità di un vissuto che ci ha portati a capire che questo mondo in cui viviamo non è proprio quello che avevamo desiderato, ma tanto meno è un labirinto dal quale è impossibile trovare via d’uscita. A Belém ho incontrato donne e uomini venuti da diversi angoli della terra per dirsi a vicenda che è importante rimanere in rete e che è essenziale continuare a cercare soluzioni alternative al modello politico-economico imperante, più preoccupato di accaparrarsi il controllo delle risorse che di salvaguardare la dignità della persona e l’integrità del creato. Nelle piccole o grandi aule-tende del Forum sono risuonate parole e rappresentati simboli che esprimevano la necessità di fare propri quegli stili di vita capaci di generare solidarietà e giustizia, e, nel contempo si è ulteriormente compreso – come ha affermato il saggio François Houtart – che «non si

tratta più di cambiare alcune regole del gioco, come alcuni governi danno ad intendere, ma è urgente cambiare il gioco stesso». Che c’entra tutto questo con il perché della violenza nella città scaligera? Quali ispirazioni trarre per delineare prospettive che ci indichino delle modalità per costruire una città a favore della persona umana? Conosco più da vicino la storia missionaria che lega Verona al mondo che non la quotidianità della vita cittadina, ma, avendo avuto la fortuna di vivere con popolazioni diverse per molti anni fuori Europa, oso formulare qualche indicazione. Ricordo con nostalgia la festa che la gente di Gaichanjiru, pochi chilometri a nord di Nairobi, aveva organizzato per il mio arrivo. Per assicurarsi che io cogliessi la genuinità del loro interessamento nei miei confronti si premunirono di darmi un nome loro, con il quale sentirmi pienamente parte del gruppo. Le donne, poi, facevano a gara nel voler conoscere la mia vita “precedente”, prima del mio arrivo in Kenya, e con una creatività che rasentava talvolta l’incredibile mi comunicavano la gioia che si sprigiona da un’accoglienza sincera e solidale. Così facendo contribuivano ad abbassare il livello del mio iniziale disorientamento e favorivano il mio inserimento progressivo nel nuovo contesto di vita. Negli Stati Uniti, dove sono vissuta per sei anni, ho incontrato diversi veneti che dicevano di essersi “(ri)fatti” la vita là dove erano sbarcati. Perché allora tanto accanimento, ora, verso chi viene da oltreconfine per cercare una possibi-

lità per migliorare la propria vita? «Sono tempi difficili», si sente spesso dire, ma è proprio quando la “crisi”è impellente che si deve allargare la mano e non stringere il pugno! Se non siamo capaci di farlo per solidarietà dovremmo farlo almeno per giustizia. Ma non sono cose che si improvvisano... Verona potrebbe essere meno violenta se i suoi abitanti fossero più accoglienti. E più accoglienti di cuore, non solo di facciata. È un’istanza che ho raccolto anche da donne italiane di nascita ma non native di Verona, le quali mi hanno raccontato la loro fatica per trovare, in città, conoscenze e soprattutto amicizie. E Verona fatica su questo versante perché forse ha dimenticato il bene ricevuto dall’incontro con i popoli che hanno accolto i veronesi nel mondo. Nella Verona che nel IV secolo accolse Zeno l’africano e da lui fu evangelizzata e che, a sua volta, ha inviato missionarie e missionari verso i quattro angoli della terra; nella Verona del Duemila, divenuta crocevia di culture, religioni e tradizioni ma che, in questi tempi, meschinamente e in molti modi sbatte le porte in faccia a chi bussa alle sue porte in cerca di casa e di cittadinanza, bisogna tenere alta la guardia che difende il diritto e non il pregiudizio, la reciprocità e non la grettezza, la convivialità e non il fondamentalismo. E se una gara a punti si deve giocare non può essere che la gara della resistenza e della denuncia di tutto ciò che calpesta la dignità e offende la persona. Insieme ce la possiamo fare. Se lo vogliamo, un’altra Verona è possibile!

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Violenza a Verona

Un’identità debole crea la paura del diverso Gli episodi violenti hanno punti in comune: sono stati compiuti da ragazzi decisi a difendere il territorio e hanno come vittime persone considerate diverse di Marco Sedda «... anche i criminali e i delinquenti avevano dei genitori. In un senso astratto e metafisico i genitori hanno sempre un po’ colpa se i figli sono dei criminali. Praticamente ne hanno un po’ meno, perché un uomo diviene criminale anche per colpa dell’ambiente, non lo è soltanto per costituzione ereditaria. Ma una cosa è certa: non esiste assolutamente il caso in cui il padre o la madre o tutti e due insieme non abbiano nessuna colpa di come cresce il figlio». Giorgio Scerbanenco, “I ragazzi del massacro” (Garzanti, 1994) La provinciale. La prima, e dunque superficiale, impressione che ho avuto quando mi sono stabilito a Verona, poco più di un anno fa, è stata quella di una città provinciale. Niente di nuovo, nel panorama italiano: forse solo Milano può vantare un respiro internazionale tra i capoluoghi della nostra penisola. Ma per Verona la cosa sorprende per almeno tre motivi: perché la sua posizione geografica avrebbe dovuto renderla più aperta alle influenze d’oltralpe, perché la sua storia racconta di contaminazioni e influenze secolari, italiane e straniere, e infine perché la sua grande tradizione culturale avrebbe dovuto favorire il dialogo e l’empatia verso gli stranieri. Tutto questo non è estraneo all’atteggiamento che i veronesi hanno nei confronti di chi proviene da oltre la cinta muraria della città: la diffidenza verso chi arriva da altre realtà o è portatore di una cultura differente è il più evidente sintomo di un atteggiamento profon-

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damente provinciale. Nei confronti dello straniero, di solito nel veronese non scatta la curiosità e la voglia di confrontarsi, ma una chiusura respingente. Valori e radici. Per molti commentatori la violenza, in particolare quella giovanile, è causata da una mancanza di valori. Può esser vero, almeno in parte, ma gli episodi che in questi ultimi mesi hanno sconvolto l’opinione pubblica scaligera non sono una novità frutto di tempi cupi. È sufficiente rivangare l’odio alimentato dalle ideologie politiche che hanno caratterizzato gli anni Settanta o gli scontri tra ultras che hanno segnato gli anni Ottanta. Forse nei decenni passati la violenza faceva meno scalpore, vuoi perché c’erano problemi di altro genere e molto più gravi, vuoi perché non venivano esaltati dai mass media o ripresi con i videotelefonini e scaricati su youtube. Gli episodi di violenza registrati a Verona hanno due caratteristiche: sono stati compiuti da un gruppo di ragazzi, il cosiddetto branco, che si muove e si comporta come a voler difendere il proprio territorio violato; hanno come vittime persone in qualche modo considerate diverse. L’altro continua a fare paura, anche oggi, e allora si va contro chi non si omologa alla cultura predominante. Più che all’assenza di valori, la causa di questa ostilità verso il diverso sembra essere causata dalla mancanza di solide radici e di sicurezza in se stessi. L’omologante globalizzazione. Una carenza a cui non è estraneo quell’inarrestabile processo mondiale chiamato globalizzazione.

«Se non si sa da dove si viene e a cosa si appartiene, si cerca un surrogato e ci si sforza comunque di costruire dei propri punti di riferimento. Ecco allora che un giovane ricerca il senso di appartenenza nel gruppo, mortificando così la propria identità di individuo che viene annullata da quella del gruppo» Un fenomeno che negli ultimi 10 anni, da quando si è diffuso l’uso di internet, ha avuto un’evidente accelerata. I bambini e i ragazzi che oggi crescono in una qualunque città del mondo occidentale ricevono per lo più gli stessi input culturali. La musica, i film, le mode: da questo punto di vista un giovane di Verona cresce con gli stessi riferimenti culturali di un ragazzo nato in qualsiasi altra cittadina europea. Ma questo fenomeno di omologazione può provocare guasti e distorsioni se non si hanno delle radici profonde che permettono di non perdersi e di mantenere una propria identità. Un esempio, per capirci: i bambini nati negli anni Settanta sono cresciuti leggendo Pinocchio o le avventure dei pirati di Salgari, oggi le favole per i bambini del mondo occidentale sono quelle rielaborate da Disney o assimilate attraverso i cartoni animati giapponesi.

Ecco, il problema delle radici: se non si hanno, si rischia di venire spazzati via e di perdersi nel mare magnum delle culture predominanti. Se non si sa da dove si viene e a cosa si appartiene, si cerca un surrogato e ci si sforza comunque di costruire dei propri punti di riferimento. Ecco allora che un giovane ricerca il senso di appartenenza nel gruppo, mortificando così la propria identità di individuo che viene annullata da quella del gruppo. In Barbagia. A questo proposito è interessante comparare la situazione di Verona con quella di una realtà completamente diversa, la Barbagia. Un territorio montagnoso al centro della Sardegna, una sorta di isola nell’isola, con gravi problemi infrastrutturali e fortemente depresso dal punto di vista economico. Ebbene, anche qui negli ultimi anni si è assistito a una escalation di violenza giovanile. Se fino a qualche anno fa i reati erano per buona parte quelli tipici di una società agro-pastorale, da qualche anno si assiste a reati caratteristici del mondo metropolitano: furti, scippi, rapine, spaccio di droga, crimini che una ventina di anni fa erano praticamente inesistenti. Questo cambiamento è dovuto sia alla diffusione della droga, soprattutto cocaina, che non ha risparmiato neanche il mondo delle campagne, sia ai nuovi modelli comportamentali adottati dai giovani pastori dei paesi dell’interno dell’isola. Da questo punto di vista, tra un ragazzo di Orgosolo e un suo coetaneo di Verona le differenze col tempo si fanno sempre più labili.

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Quando la giornalista è anche mamma Credo che mio figlio sia un ottimo ragazzo. Vive e rispetta gli altri. Io dovrei fidarmi, palpitare al massimo quando esce in macchina. Ma ho altre paure... di Laura Lorenzini Sono una giornalista, ma anche una madre. E come tante madri ho vissuto la storia di Nicola Tommasoli come una botta nello stomaco. Somatizzandola, subendola come una questione personale. Mia e di tutte le altre madri che hanno figli più o meno ventenni, più o meno dell’età di Nicola. Che girano la sera, incontrano amici, bazzicano i propri punti di ritrovo, luoghi che riflettono identità, filosofia di pensiero, ideali, cultura di appartenenza. O semplicemente bar in cui bere una birra e ascoltare musica. C’è chi ha un figlio come i “butei”, i ragazzi della curva, magari con la testa rasata, magari con abiti Gucci e scarpe Prada, passione le “vasche” da piazza Erbe a Portoni Borsari o dalla Bra a piazza Viviani. E c’è chi, come me, ne ha uno che assomiglia a Tommasoli. Capelli quasi alle spalle. A volte raccolti con un codino. Un jeans qualunque, o pantaloni larghi tipo etno, felpone lunghe col cappuccio. Spesso e volentieri abiti volutamente trasandati. Immancabile chitarra al seguito. Poca o zero politica, intesa come quella dei partiti. Piuttosto una chiara idea di non omologazione, di distinzione dal coro, dalla vita modaiola. Di un modo di essere molto easy, mai belligerante, sempre in pace col mondo, aperto a persone ed esperienze. Gente “tranqui”, come dicono loro in gergo. Credo che mio figlio, come Nicola e tanti altri, sia un ottimo ragazzo. Amante della vita, pieno di progetti, preso dallo sci e dall’arram-

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«Ero una giovane idealista e vivevo, ignara, una Verona che già allora era divisa in due. Il centro, con il bar Forst di via Mazzini, in mano ai “fascisti”. Lo stradone Maffei, con la sede dell’Msi. Il bar Motta, che era il bar dei “bajosi”, cioè dei discotecari e delle sbarbine immortalate mirabilmente dagli Skiantos. Al di là del fiume, come oggi, c’erano i covi rossi» picata e dalla mountain bike, studi all’università, passione per la musica, libri, riviste e mille altri interessi.Vive e rispetta gli altri. Io dovrei fidarmi, stare rilassata. Palpitare al massimo quando esce in macchina, perché potrebbe correre, ubriacarsi, fare chissà quali guasconate. Invece no. Ho altre paure. Pochi giorni dopo la morte di Nicola, ho iniziato a mettere mano nel suo armadio. Ho nascosto sotto la pila di magliette quelle di Che Guevara e di Bob Marley. Le braghe stile indiano le ho imboscate nel mio armadio. L’ho pregato di spuntarsi i capelli. Gli ho raccomandato di girare in gruppo. Di evitare il centro. Di non rispondere alle provocazioni. Di stare fuori dalle risse. Di andarsene subito, ai primi segni di sca-

ramucce. O di evitare del tutto di uscire. Preferendo case di amici, cinema, posti fuori da Verona. Era la comprensibile apprensione di una madre, sconvolta da un ragazzo ucciso a calci in faccia per un codino e –forse – un mezzo spinello in bocca. Ma ho capito che stavo cadendo in un pericoloso avvitamento di terrore, di autodifesa, di chiusura di porte e tapparelle. Per scappare. Evitare. Non vedere e non sapere. Come durante il fascismo, il nazismo. Lo stalinismo. O le dittature dei colonnelli in Sudamerica. Mi sono chiesta se fosse giusto. E mi sono risposta di no. È un delitto avere un codino, girare con un amico di colore, avere una maglietta con la faccia di Massimo Cacciari (me l’aveva regalata il sindaco di Venezia quando lavoravo al Gazzettino di Venezia, e io l’ho passata a mio figlio)? È così sconveniente e riprovevole rifiutare gli abiti griffati, preferire la semplicità all’ipocrisia, il vivere e lasciar vivere alla sopraffazione e all’intolleranza? Io, francamente, non vedo colpe. E credo invece che questa città non riesca a uscire da un provincialismo gretto e bigotto e dalle caste, da una cultura dell’apparenza e da circoli chiusi che impediscono qualsiasi afflato cosmopolita o semplicemente europeista. Verona rimane chiusa alla libera espressione, alle differenze, al giudizio in base ai meriti piuttosto che al diritto di successione, sempre più bendisposta al conto corrente o all’omologazione del pensiero piuttosto che alla creatività e al leale confronto. Così si spiega la

madre in ansia per il figlio che vorrebbe vivere da giovane, come tutti i giovani, girando liberamente per i locali come accade a Londra o a New York. In ansia come lo era la mia, più di vent’anni fa, quando, adolescente, mi intruppavo nei cortei con gonne lunghe e zoccoloni da convinta femminista. Ero una giovane idealista e vivevo, ignara, una Verona che già allora era divisa in due. Il centro, con il bar Forst di via Mazzini, in mano ai “fascisti”. Lo stradone Maffei, con la sede dell’Msi. Il bar Motta, che era il bar dei “bajosi”, cioè dei discotecari e delle sbarbine immortalate mirabilmente dagli Skiantos. Al di là del fiume, come oggi, c’erano i covi rossi.Avanguardia Operaia in via San Vitale, Lotta Continua in via Scrimiari, il Pdup-Manifesto in via XX settembre. Unica eccezione, il Movimento nonviolento di Massimo “Mao”Valpiana, futuro esponente dei Verdi, relegato in uno scantinato in via Filippini da 15 mila lire al mese, in piena zona minata. Pieno centro. E infatti Valpiana fu riempito di botte perché beccato di notte, da alcuni esponenti di destra, ad attaccare manifesti in stradone San Fermo. Non era terra sua, lì non poteva starci. Come Tommasoli. Come la ragazza pestata in piazza Viviani. Trent’anni dopo, nulla sembra cambiato.

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Violenza a Verona

Un tizzone fascista cova ancora sotto la cenere La nostra città, prima del ventennio fascista laica e socialista, dopo la liberazione divenne democristiana. Ma non fu certo per una improvvisa conversione di Giuseppe Brugnoli

«I partito moderato raccolse i voti di tutti quei fascisti che furono portati a Verona dalla Repubblica sociale, che qui aveva i suoi ministeri e quindi i suoi impiegati. La nostra città ha fornito un terreno adatto a favorire aggregazioni amicali che trovavano una giustificazione culturale in saghe pseudoesoteriche che impostavano il pathos del loro racconto sul mito del conflitto di civiltà e della necessità di mantenere una irrazionale e anacronistica purezza originaria nel popolo»

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“Dall’analisi del perché della violenza alle prospettive per una Verona a misura d’uomo”… “provare a individuare le cause della violenza con esempi concreti, tracciando delle coraggiose ipotesi di soluzione ai problemi per fare di Verona una città a misura d’uomo”… “essere concreti e costruttivi, tanto nelle analisi quanto nelle prospettive”. Ecco la traccia di un “tema in classe”, da svolgere nello spazio di 4-5 mila battute, spazi inclusi. Una bella sfida, non c’è che dire. L’analisi quindi deve necessariamente prescindere dai discorsi generali, che sono così belli perché onnicomprensivi, per affrontare la domanda: in un mondo come il nostro dove la violenza è dappertutto, e gli esempi ci vengono sottoposti ogni giorno, esiste una violenza “veronese” con caratteristiche proprie, con una specifica individualità antropologica? Se le cause della violenza sono le stesse a Verona come in qualsiasi altro luogo del mondo, allora le “coraggiose ipotesi di soluzione ai problemi” possono essere formulate “per fare di Verona una città a misura d’uomo” come per fare di Mumbai o di Baghdad una città a misura d’uomo. Ma il problema proposto parte dall’assunto che a Verona ci siano cause specifiche di una violenza con caratteristiche particolari, e la prima incognita da risolvere sia l’individuazione di queste cause che non hanno corrispondenza in altre parti d’Italia e del mondo. Se quindi “l’analisi del perché della

violenza” porta alla constatazione che la situazione, il clima, ma anche gli episodi stessi di violenza non caratterizzano in modo speciale Verona rispetto ad altri luoghi con cui la città possa essere correttamente paragonata, allora viene a mancare anche ogni “coraggiosa ipotesi di soluzione” che sia indicata per Verona. La premessa vale per sostenere che invece, se si chiede come analisi di studio e di proposta Verona, si ritiene che la città meriti e forse abbia bisogno di un approfondimento critico. E quindi, per poter procedere, conviene identificare una specificità, che qualifica la violenza a Verona come diversa, in tutto o in parte dalla violenza panica che sommerge il mondo intero. Provo a buttare un’ipotesi, che non è un “esempio concreto” e neppure una “ipotesi di soluzione” ma solo un’ipotesi di causa. Essa parte dalla constatazione che Verona, città che prima del ventennio fascista è stata laica e socialista, dopo la liberazione divenne francamente democristiana. Non per una improvvisa conversione, ma soltanto perché il partito moderato raccolse i voti di tutti quei fascisti che furono portati a Verona dalla Repubblica sociale, che qui aveva i suoi ministeri e quindi i suoi impiegati. Rimasti a Verona dopo la guerra, spesso disoccupati o sottoccupati, questi ex fascisti non militarono se non in minima parte nelle nuove formazioni politiche che rivendicavano una continuità con lo scomparso regime, ma allevarono nei loro figli generazioni di “nostalgici” che,

per esprimere la loro insofferenza verso i nuovi padroni del vapore si orientarono verso una milizia di carattere sportivo, di preferenza come tifosi di calcio, in cui potevano esprimere la loro voglia revanchista anche in esercitazioni di guerriglia urbana o in attentati, o presunti tali, dimostrativi. Verona, città appartata e lontana dal circuito dei grandi centri di attrazione politica o dalle scuole di elaborazione ideologica come le università, forniva un terreno di coltura adatto a far crescere rivendicazioni e a favorire aggregazioni amicali che trovavano una giustificazione culturale in saghe pseudoesoteriche che impostavano il pathos del loro racconto sul mito del conflitto di civiltà e della necessità di mantenere una irrazionale e anacronistica purezza originaria nel popolo. E poichè, come diceva Goja, “el sueno de la razon produce monstruos” ecco che questo irrazionalismo eretto a sistema di vita e a comandamento di carattere istituzionale-religioso porta a fenomeni come quelli attribuiti trent’anni fa ad Abel e Furlan ed ora ai giovani incolpati delle aggressioni di Porta Leona e di Piazza Viviani. Ipotesi di soluzione? Tornare a pensare che la diversità è ricchezza, non soltanto culturale, e che un mondo in cui “uomini dai capelli lunghi si accompagnano a donne dai capelli corti”, come i razzisti del profondo sud statunitensi definivano scandalizzati durante la guerra civile gli yankee venuti dal nord, è non solo possibile ma anche “normale” è uno dei dati più elementari per una civile convivenza.

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I giornalisti

Tutto bene a Verona ... e allora avanti così Serate a bere, iniziate con il primo bicchiere alle 18, fino a tarda notte tra fiumi di rhum e birra. E il tifo allo stadio, che non sempre è passione per il calcio di Giovanni Marchiori

«Quando non si dice più grazie e per favore, la fine è vicina», dice lo sceriffo Bell nel libro “Non è un paese per vecchi” di Cormac McCarthy, portato sul grande schermo dai fratelli Coen. Verona non è zona di confine con il Messico, ma “accettare” violenza e aggressività come normalità è rischioso

in VERONA

Un ambiente finito sotto la lente di ingrandimento. Una città analizzata al microscopio. I suoi ragazzi improvvisamente osservati come degli extraterrestri, soprattutto dai loro concittadini, ancora increduli per ciò che combinano questi giovani che, fino a ieri, erano dei bravi “butei”. Del resto, violenza ed aggressività sono due termini che, nell’ultimo periodo, sono stati associati spesso all’atmosfera che si respira nella nostra bella Verona. E in particolare ai giovani veronesi. A quello che è il loro modo di fare, di comportarsi e di relazionarsi con il prossimo. Di conseguenza è naturale che l’ambiente rimanga sconvolto. Una reazione del tutto normale insomma. Qualsiasi città, comunità, o piccola società avrebbe vacillato davanti a fatti del genere. Così, le domande si susseguono. Perché fanno quello che fanno? Com’è possibile? E a quel punto tutti alla ricerca delle ipotetiche cause. Ma da dove nasce questa violenza? Perché questi episodi carichi di aggressività accadono proprio a Verona? Dopo i quesiti, è finalmente giunto il momento delle prime risposte. Sono persone normalissime, fanno una vita comune. Come la maggior parte dei loro amici e coetanei. Fermi tutti! E sta a vedere che è proprio questo il punto: la normalità. O meglio, ciò che oggi è visto, considerato e tollerato come normale. Perché in fin dei conti, sembrerebbe proprio che la voce venga alzata soltanto di fronte ai fatti eclatanti. Agli episodi di sangue che ci hanno fatto soffrire

e che ci costringono a riflettere su quello che è il nostro modo di vivere. Le nostre abitudini. La quotidianità. Ed ovviamente la normalità, o meglio ciò che ormai, consideriamo come normale. Fino a quando appunto, non accade qualcosa di tremendo. Un fatto che spaventi l’intero Paese. Una vicenda che metta Verona in discussione e che faccia sì che i veronesi si sentano osservati (non per forza giudicati) dagli altri. Una situazione difficile da gestire, per coloro che non avevano mai notato segnali di pericolo. E perché mai? Campanelli d’allarme non ce ne sono stati! O comunque nessuno li ha uditi. Perché tanto fino a quel momento era tutto normale. Giovani veronesi studenti o lavoratori accomunati da aspetti e caratteristiche. Proprio come i ragazzi di altre province, intendiamoci. Forse, però, qui da “noi” certi atteggiamenti sono più “marcati”. E gli esempi non mancano. Serate a bere, iniziate con il primo bicchiere di spritz già alle 18 e che terminano a tarda notte tra fiumi di rhum e birra. Neanche ci dovessimo difendere da temperature nordiche. Risultato? Gruppi di giovani a zonzo completamente ubriachi. Continuando con il tifo allo stadio, che non necessariamente significa amore per la squadra o passione per il calcio. Tra canti e applausi, non mancano purtroppo i cori razzisti. E in un ambiente così carico di adrenalina non è semplice trattenere i lati aggressivi di noi stessi. Senza dimenticare quella che è la principale ambizione di moltissimi giovani veronesi, cioè l’arric-

chirsi. Il denaro davanti a tutto, il mezzo indispensabile per poter realizzare i propri sogni: auto, vestiti e vacanze. Tutto all’ultimo grido. E in una vita caratterizzata principalmente da atteggiamenti e azioni di questo genere, il rischio di perdere il controllo è alto. Solo che ormai non ci si fa quasi più caso, quando a dire il vero, nella bella Verona conviviamo spesso con azioni e modi di fare al limite del “normale”. Perché ci sono stati insulti e provocazioni per le vie del centro nei confronti di ragazzi di altre province, in alcuni casi conclusi con inseguimenti, spintoni e cazzotti. Fatti gravissimi. Ma purtroppo in un certo senso accettati. Altrimenti sarebbe difficile spiegare la perplessità e lo sgomento di fronte ad un’aggressione finita tragicamente. Un’azione vista come un qualcosa di isolato. Un attimo di pazzia, che ha portato qualcuno “dei nostri” fuori dallo schema. Perché l’atteggiamento di coloro che ora sono all’indice è stato fino a quel punto “normale”. È evidente invece che i segnali di pericolo ci sono stati e ci sono tuttora. È solo che ci si è “abituati”a questo drammatico tran tran. “Quando non si dice più grazie e per favore la fine è vicina”, dice lo sceriffo Bell nel libro “Non è un paese per vecchi”di Cormac McCarthy e portato sul grande schermo dai fratelli Coen. Verona non è zona di confine con il Messico, ma “accettare” violenza e aggressività come normalità è rischioso.

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Violenza a Verona

La fatica che dobbiamo fare La violenza ha cause che superano i confini cittadini. Non è però una teoria astratta e lontana, ma un fenomeno drammaticamente locale che va contrastato di Giorgio Montolli Verona, per quanto riguarda il fenomeno della violenza, non è diversa da altri centri urbani: a volte è l’affetto che nutriamo per questa città, insieme all’ignoranza per quanto si trova oltre le sue mura, che ci spinge a tentare di individuare delle responsabilità solo interne. Un provincialismo che si manifesta anche in modo contrario, quando, sollevata la città da una responsabilità così pesante, si finisce per accettare certi fenomeni violenti come senza rimedio perché d’importazione. Usciamo per un attimo dalle anse dell’Adige per fare alcune considerazioni di carattere generale. Con la secolarizzazione della Chiesa, il crollo del sistema socialista-marxista e la deriva di quello liberale la nostra identità è entrata in crisi e con essa i nostri modelli educativi che vengono percepiti dalle nuove generazioni come falsi e anacronistici. La coesione sociale non risponde più a dei valori condivisi e finisce per prevalere l’elemento irrazionale con la costituzione di aggregazioni autoritarie e populiste o di gruppi estremisti e violenti. A questo proposito le responsabilità della TV, a cui Pasolini attribuiva la colpa di genocidio, sono enormi. In questa situazione generale si colloca Verona, che ha comunque una propria storia e una sua peculiare connotazione culturale. Il fatto che nella nostra città sia mancato un vero e proprio movimento operaio ha consentito di

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traghettare fino ai giorni nostri una mentalità padronale e contadina, legata ai valori della terra e alle logiche del piccolo commercio, che affonda le sue radici nel lungo periodo della dominazione veneziana. Con questi valori, uniti a un radicato sentimento religioso, si costruisce la Verona del dopoguerra, quando forze politiche, imprenditoriali e culturali disegnano insieme il nuovo volto della città (scuole, strade, fabbriche, risorse energetiche, gruppi di solidarietà). Abbiamo così assimilato una nuova mentalità urbana e industriale che ci ha permesso di raggiungere un alto grado di benessere materiale. Ma è un modello storicamente superato, certamente inadeguato per affrontare le sfide di questo terzo millennio globalizzato. Eppure continuiamo ad organizzare la nostra vita, il nostro sistema di relazioni, le nostre forme di governo e i nostri piani di sviluppo con gli stessi criteri di 30-40 anni fa. Le conseguenze sono un’eccessiva cementificazione a danno dell’ambiente, una mentalità del superfluo e dell’iperconsumo, una comunicazione drogata, l’intolleranza verso i poveri, gli stranieri o anche solo per chi porta i capelli lunghi e veste in modo originale. Le ideologie, ma anche i riferimenti culturali locali, entrano in crisi quando la forza che li anima non si identifica più nella sua storicizzazione. Ma queste fasi di passaggio potrebbero essere gestite meglio se sapessimo riconoscere i valori profondi che stanno dietro le strutture che l’uomo crea per organizzare nella storia la propria esistenza. È

infatti a partire da tali valori che si possono costruire nuovi modelli culturali di riferimento trovando nuovi significati alle parole di sempre. Per fare un esempio: se raggiungere il centro storico in automobile era sicuramente una manifestazione di benessere, oggi lo è muoversi a piedi o in bicicletta perché abbassa il pericolo di infarto e di cancro ai polmoni. Se la violenza non è una prerogativa veronese essa diventa però un problema per la città nel momento in cui si manifesta non in una teoria astratta e lontana ma nelle nostre vie e nelle nostre piazze (porta Leoni e piazza Viviani, per intenderci). Ecco allora alcune idee che andrebbero finanziate e inserite in modo coordinato in uno specifico programma di intervento locale. 1. Puntare sui giovanissimi facilitando il loro inserimento in associazioni che si occupano di pace, convivenza e mondialità, non a parole ma con azioni e stili di vita concreti (gli scout ad esempio). 2. Inserire nei programmi scolastici percorsi di educazione alla convivenza civile e alla tolleranza, per genitori e figli, con veri e propri laboratori, favorendo l’incontro con culture e religioni diverse e gli scambi con l’estero. 3. Mettere in cantiere delle iniziative per aumentare nei giovani la considerazione nei confronti delle istituzioni, in particolare delle forze dell’ordine e dei magistrati. 4. Valorizzare e seguire i giovani talenti di casa nostra per far cre-

scere figure autorevoli nei settori della cultura, dell’arte, della politica, dell’educazione. 5. Studiare percorsi culturali che valorizzino l’aspetto cosmopolita della città, per evidenziare che Verona nella storia è stata al centro di avvenimenti internazionali che l’hanno portata a confrontarsi con culture diverse. 6. Far crescere negli extracomunitari una coscienza civica, anche attraverso una loro rappresentanza organizzata (non un ghetto) in grado di interloquire con le istituzioni cittadine. 7. Favorire i piccoli giornali che, liberi da interessi e monopoli, garantiscono il pluralismo delle idee e possono svolgere più efficacemente un’informazione onesta e stimolante. 8. Chiedere agli intellettuali di uscire dalla loro nicchia e di spendersi per la città in cui vivono. 9. Coinvolgere gli imprenditori valorizzando la loro abitudine a ragionare in modo dinamico e produttivo. 10. Istituire un osservatorio etico a tutela delle persone, che intervenga sui media denunciando tutte quelle azioni, anche quelle amministrative, non rispettose della dignità umana. Non possiamo infatti permetterci panchine con i braccioli anti clochard, ingressi per gli autobus riservati agli stranieri, schedature varie,discriminazioni nei confronti di associazioni pacifiste, esercito e ronde per le strade, case da gioco e altre strampalate iniziative in essere o in fieri con le quali i veronesi non stanno certo scrivendo una bella pagina della loro storia.

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I giornalisti

L’equilibrio si costruisce tra le mura domestiche L’armonia dell’istinto, della volontà, il senso morale, l’etica della vita, l’educazione alla socialità nascono in famiglia con l’esempio dei genitori di Gianfranco Tommasi

«Lo psicoterapeuta Roberto Framba, in un’analisi sul bullismo, afferma che “i bulli di oggi, da piccoli, a 2 anni, epoca del no, sono stati lasciati in balia della loro aggressività, senza contenimento né per l’impulso né per l’ansia che genera”»

in VERONA

Di fronte a fatti gravi di violenza, che vedono protagonisti i giovani – per fortuna una esigua minoranza – mi domando che cosa tutti noi abbiamo covato in seno. Sono figli nostri, sono cresciuti qui tra di noi, eppure si comportano diversamente da noi e manifestano atteggiamenti che la stragrande maggioranza dei loro coetanei rifiutano. Le cause della violenza giovanile non sono sempre facilmente individuabili. Sbrigativamente spesso si punta il dito sulla società – ma la società siamo noi – e una delle componenti importanti è la famiglia, luogo dove nasce l’uomo, si sviluppa e si forma. In questo senso, sono personalmente convinto, confortato anche da molti esempi, che una delle concause della devianza giovanile va ricercata anche nel fallimento educativo della famiglia. Spesso le cause che favoriscono la violenza in certi giovani, sono le stesse che portano all’uso della droga. Per esigenze obiettive e per far quadrare i conti i coniugi sono costretti a mettere insieme le risorse economiche. Sono entrambi fuori casa per buona parte della giornata, affidando ad altri, i figli. Ne consegue, un mutamento radicale nella gestione dei rapporti tra gli stessi genitori e tra genitori e figli. Una realtà conosciuta da tutti noi. Negli anni ’70, la domanda era: “Perché ti droghi”? Su questo drammatico interrogativo ho firmato più di una trentina di inchieste sul campo. Le risposte presagivano quello che ora stiamo vi-

vendo – la crisi della famiglia. I genitori dei ragazzi intervistati risultano occupati a soddisfare le esigenze create dalla modernità, dando poco tempo ai figli, lasciandoli soli, particolarmente in quel delicato passaggio tra la fanciullezza e l’adolescenza. Per cui, nel tentativo di riparare, sbagliando, risolvono tutti i loro problemi, risparmiando al figlio ogni difficoltà senza prestare attenzione alle loro domande esistenziali, non dedicando la giusta vicinanza e la comprensione verso i naturali mutamenti di umore e di comportamento dovuti all’esplodere della pubertà. Di conseguenza, questi ragazzi con in tasca quattro soldi, trovano fuori dalla famiglia, risposte sbagliate alle loro ansie accrescendo il loro disagio. Un disagio che si aggrava con l’insicurezza, dovuti all’incertezza nel futuro che essi respirano ogni giorno. L’equilibrio dell’istinto, della volontà, il senso morale, l’etica della vita, l’educazione alla socialità e alla convivenza nascono tra le mura di casa con l’esempio dei genitori. Se in questo luogo non si costruisce l’equilibrio della volontà dell’uomo di domani, questi sarà in balia di ciò che trova fuori casa: se debole cederà alle mode distruttrici del fisico e della psiche e se la sua aggressività infantile non sarà stata corretta, diventerà un violento. Lo psicoterapeuta Roberto Framba, in una analisi sul bullismo, afferma che «i bulli di oggi, da piccoli, a 2 anni, epoca del no, sono stati lasciati in balia della loro aggressività, senza contenimento né per l’impulso né per l’ansia che gene-

ra». Da grandi, se ne deduce che la loro esistenza sarà spesso caratterizzata da impulsività e da un caratteristico bisogno di dominare e sottomettere gli altri con un atteggiamento positivo verso la violenza, spesso inclini a istintive reazioni, contagiando e incoraggiando il “branco”. Inoltre, di fronte a spettacoli di violenza e privi di filtri inibitori, cadono vittime dell’emulazione. L’analisi sin qui espressa si riferisce all’ambito di una famiglia normale, cioè che vive una stabile relazione. Le ricadute negative sull’educazione dei figli, si aggravano nelle situazioni di famiglia “instabile”. In quelle famiglie che si compongono e si scompongono, dove non c’è una continuità educativa con la vicinanza costante di entrambi i genitori biologici, vi sono molte probabilità che nei figli si generi l’embrione della debolezza e dell’insicurezza. Se non dominato e curato in tempo, può svilupparsi in più direzioni: o nel bullismo prima e nella violenza poi, o nel ricorso alla droga. In definitiva il fenomeno della violenza giovanile non è un’espressione esclusivamente veronese. La violenza nasce tra i giovani (pochissimi per fortuna) come nel resto del Paese, perché le cause sono comuni. Quando la famiglia viene meno, è la società a pagarne le conseguenze e i giovani sono le prime vittime.

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I giornalisti

Il lungo filo nero di un male oscuro Qui sono sorti movimenti come il Veneto Fronte Skinheads da cui, come schegge impazzite, oggi nascono aggregazioni spontaneistiche senza più ideologia di Giancarlo Beltrame C’è un male oscuro a Verona? In principio questo fu il quesito. Senza risposta. O con troppe risposte. Tutte poco piacevoli al sentire comune. Erano trascorsi pochi giorni dall’ennesimo fattaccio. Una ragazza spedita all’ospedale col naso rotto da un colpo in faccia con un pesante portacenere dopo un’aggressione del solito branco di “buthellas”, quel coacervo di frequentatori della Curva Sud e del Centro storico – sentiti come il Territorio – che si alimenta dei facili miti del tifo per l’Hellas e di ideologie naziste e fasciste mal digerite e comunque vissute in chiave di razzismo e superomismo. Due centimetri più in là e saremmo stati a piangere, sette mesi appena dopo Nicola Tommasoli, un altro morto. Un altro omicidio preterintenzionale, come sarebbe stato giuridicamente catalogato. Ma colpire un uomo o una donna in faccia con un oggetto pesante, ma prendere sistematicamente a calci in testa con stivaletti o scarpe dalle punte rinforzate appositamente per i raid “purificatori” del fine settimana battezzati “Boot Party” un uomo o una donna che si è gettato a terra per renderlo inerme, si può definire un atto che va “al di là” delle intenzioni? L’intenzione di far male c’è. E se per far male, non una ma due dieci venti volte adotto un metodo pericoloso per l’incolumità e la stessa sopravivenza altrui, devo mettere in conto che prima o poi ci scappi il morto. Solo sugli schermi, piccoli o grandi che siano, chi le prende in un certo modo poi si rialza indenne o quasi.

in VERONA

C’è un male oscuro a Verona? Aggressioni, violenze, pestaggi succedono anche altrove. Magari anche peggio che in riva all’Adige. Ma qui c’è qualcosa che in altre città non c’è. Qui c’è una specie di primogenitura. Qui, in quegli stessi ambienti di “famiglie bene”, di “scuole come si deve”, di “amicizie virili”, nacque Ludwig. Trent’anni fa. In una città attraversata dai fantasmi del terrorismo di sinistra e di destra, tra bombe per le peggiori stragi che prima di insanguinare il Paese passavano o stazionavano nei covi di ultradestri dai strettissimi legami con servizi segreti italiani e americani, tra rapimenti di generali USA in nome del popolo oppresso e attentati incendiari contro proprietà simbolo o rapine per autofinanziarsi, ci fu chi decise di mettere in pratica la propria personale “pulizia” della società eliminando bersagli simbolo: nomadi, omosessuali, tossicodipendenti, prostitute, frequentatori di luoghi di perdizione. E lo fece usando emblemi, simboli e parole d’ordine del nazionalsocialismo. Nel nome della “purezza della razza”. Qui c’è la continuità. Un lungo filo nero che si snoda lungo gli anni e i decenni. Una matassa attorcigliata, dove uno dei capi affonda le proprie radici addirittura nel biennio di Verona capitale di fatto della Repubblica Sociale di Salò, con tutte le trame oscure e gli inghippi che accompagnarono la fine della guerra e il riciclaggio, spesso in Sud America, da parte degli Alleati di alcuni dei peggiori uomini ombra del regime scon-

fitto. Dove altri capi sono le teste di un’idra dall’unico corpo. Dove sorgono e prosperano movimenti politici come Ordine Nuovo e Fronte Nazionale, gli unici sciolti per decreto del ministro dell’Interno per ricostituzione del Partito Fascista. Questa idra è il brodo di cultura da cui sono nati movimenti come il Veneto Fronte Skinheads e da cui come schegge impazzite oggi nascono quelle aggregazioni spontaneistiche, senza più ideologia, nel senso di una elaborazione di un pensiero politico o di un progetto di società, che vivono e agiscono con una violenza mirata nei confronti di chi individuano come avversario, sia egli tifoso di una squadra rivale, simpatizzante di un’area politica opposta o semplicemente portatore manifesto di uno stile di vita non gradito, tutto nel nome di una “fede” e di un senso di appartenenza collettivo che va a colmare vuoti individuali. Basta andare semplicemente su Youtube per coglierne i segni. C’è un canale, TerroreNeroVerona, creato da un ventenne, che si proclama appartenente al Veneto Fronte Skinheads, il cui slogan è “Verona è FASCISTA!” e i cui “Hobby e interessi” sono: “HELLAS VERONA! Massacrare di botte comunisti, sinistroidi, islamici, ebrei, cinesi”. Una intolleranza violenta che ha trovato facile esca nelle parole d’ordine di una certa politica dell’esclusione trionfante oggi in città. Le parole non sono mai neutre. E non bisogna quindi stupirsi o stracciarsi le vesti, invocando pene severe quando certi episodi succedono. Certi fatti sono conse-

guenza logica e diretta delle parole seminate, soprattutto tra i giovani, nel corso degli anni. Qui c’è cecità. Una voglia, così radicata da sembrare non scalfibile, di non vedere e non capire. Un riflesso condizionato, che potremmo chiamare difesa della veronesità. Essa consiste nel rigettare automaticamente e aprioristicamente qualsiasi critica, analisi, lettura differente che provenga dall’esterno. Verona è come la matrigna di Biancaneve che si rimira allo specchio per sentirsi continuamente ripetere che è la più bella del reame. Che sia bella non c’è dubbio, ma vuole essere la più bella. Sempre e comunque. E se lo specchio le risponde ha qualche ruga e che altre possono essere più belle, lo infrange. O lo copre con un telo nero. Lo specchio deve rimandare solo l’immagine che di sé essa ha in mente. Altrimenti è “aggressione mediatica”. C’è un male oscuro, allora, a Verona? Assumendomene la responsabilità, io dico sì. C’è un male oscuro che ha colpito i giovani di questa città, non tutti per fortuna, ma tanti, troppi. Un male che viene da lontano, un male che ha trovato un ambiente ideale per svilupparsi, un male che rischia di peggiorare nel futuro. Un razzismo ontologico, introiettato, non più supportato nemmeno da un pensiero ideologico, ma di pancia, viscerale. E quando al posto del cervello a muovere le azioni umane sono le viscere, l’umanità ha sempre conosciuto le sue vicende peggiori. A Verona come altrove.

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Violenza a Verona

Nessuno spiraglio Né qui, né altrove L’automatismo «a Verona succede una cosa brutta, la stampa ne parla, ergo la stampa/il mondo ce l’hanno con Verona» sembra funzionare da più di un secolo di Federica Sgaggio «Non capisco perché per una lite a Verona venga sollevata una questione (…) nazionale e se ne parli per mesi, mentre se a Napoli la camorra ammazza (...) una persona (…) i telegiornali ne parlano per un giorno e poi nessuno ne parla più». Questo, proveniente da un lettore che negli ultimi decenni dev’essersi volentieri spesso distratto, è uno dei commenti comparsi sull’Arena.it dopo l’arresto degli otto accusati di aver picchiato Francesca Ambrosi. L’automatismo «a Verona succede una cosa brutta, la stampa ne parla, ergo la stampa/il mondo/i cattivi ce l’hanno con Verona» sembra funzionare da più di un secolo. Apparentemente, sono almeno 143 anni che la città fatica a capire il motivo per il quale esista chi accanitamente si ostina a dare notizia dei fatti (anche) violenti che accadono a Verona. Se non temessi di contravvenire alla prima legge della veronesità – cioè l’understatement, il «volare basso» – mi verrebbe quasi da pensare che la città patisca una specie di mania di persecuzione. Ma siccome temo di contravvenire alla prima legge della veronesità, non lo dico. Nel 1866, in ottobre, da Verona vennero cacciati gli austriaci. L’evento non fu indolore, e sul terzo numero del quotidiano L’Arena si legge: «La stampa italiana ribocca dei fatti nostri. (…) Le apprezziazioni dei giornalisti (…) ci piovvero addosso come una rampogna (…). Le prime notizie partite

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da Verona annunciavano all’Europa che (…) i Veronesi trascesero oltre i confini del contegno decente, passarono a vie di fatto contro le i.r. Truppe Austriache, e (…) si abbandonarono agli eccessi del furor popolare. Se fosse vero quanto fu scritto sugli avvenimenti del 5 e 6 ottobre, noi saremmo i primi a chiederne venia. (…) Ma noi siamo ben lungi dal dover chinare il capo; abbiamo invece (…) l’obbligo di non lasciare che la calunnia ci soffochi». Ma quali sono i fatti a cui così tortuosamente si riferisce il neonato giornale? Sono i torbidi in cui fu uccisa quella Carlotta Aschieri che, incinta, è ricordata nella lapide all’inizio di via Mazzini, dove una volta c’era il caffè Motta. Alla città non piace affatto che si dica che c’è stata «ammuina»; e meno ancora piace che a storcere il naso sia stato – perbacco – il presidente del Consiglio barone Bettino Ricasoli, autore di un telegramma con il quale – scriverà L’Arena dandone notizia con un certo qual comodo, il 21 ottobre 1866 – la città viene messa in stato d’assedio: «Siamo venuti nel convincimento», scrive il giornale, «che la popolazione fu insultata, provocata, costretta ad uscire dai limiti della moderazione». «Moderazione» è una parola importante. Segniamocela. La colpa, già dal 1866, è di qualcun altro. E il problema sta nelle «false informazioni fatte pervenire, forse a disegno», al credulone Ricasoli su un «popolo» invece «per abitudine moderato e tranquillo».

«Da noi scatta sempre l’autodifesa a oltranza. Accadeva anche nel 1866 quando gli Austriaci furono cacciati da Verona e fu uccisa Carlotta Aschieri. Non vedo alcuna speranza di incontrare una città a misura d’uomo. Verona è capace di accettare qualunque cosa: omicidi, pestaggi...». D’altra parte, come disse il sindaco, la gran parte degli aggressori di Tommasoli viene dalla provincia. Magari è in provincia che sono razzisti. In città no Per dirne un’altra: nel 1921 (anno in cui il 12 aprile L’Arena dà notizia del primo congresso provinciale fascista), il Padova calcio perde in casa dalla Bentegodi, il «proto-Hellas». I padovani menano pugni, e i veronesi rispondono sparando rivoltellate. Colpa grave? No: erano «quasi tutte in aria». Uno potrebbe domandarsi: «Va bene: e cosa c’entra con “l’analisi del perché della violenza” e “le prospettive per una Verona a misura d’uomo”»? Ci arrivo. Trascurando il piano dell’analisi dei perché, io sono solo in condizione di raccontare ciò che quoti-

dianamente sperimento. E cioè che non sono in grado di vedere alcuno spiraglio da cui si possa transitare fino a incontrare una Verona a misura d’uomo. Verona – e intendo dire le sue donne dai capelli tinti, i suoi uomini scarpati all’inglese, i suoi ragazzi con suv e case al lago, l’orgoglio per il proprio «cattivismo», le sue commesse sempre in tiro (mai passasse per di lì la troupe di un provino tv)… – ha accettato che un’alleanza politica che metteva insieme Lega nord, An, Forza nuova, Fiamma tricolore e chiesa anticonciliare (spingendo Forza Italia alla minorità matematica e culturale) venisse definita una «coalizione di moderati». Cosa che evidentemente non poteva essere, e infatti non è stata, almeno agli occhi di chi abbia un ricordo anche vago di cos’è stata la Dc. Verona è capace di accettare qualunque cosa: omicidi, pestaggi, o – come mi è capitato di vedere in presa diretta – pugni a un ragazzino di colore al grido di «la te piase, eh, la figa bianca?». Purché nessuno – nemmeno il barone Ricasoli – si sogni di farla «oggetto di biasimo pubblico» per essersi spinta oltre l’argine della “moderazione”. D’altra parte, come disse il sindaco, la gran parte degli aggressori di Tommasoli viene dalla provincia. Magari è in provincia che sono razzisti. In città no. E poi – puff – ecco che quel che succede a Verona si allarga in Italia. Dove, in effetti, la colpa è – circa – dei romeni.No. Io spiragli non ne vedo, né qui né altrove.

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I giornalisti

Meno autodifesa e più ricerca dei perché Viene da chiedersi quanto certe chiusure mentali, certi pregiudizi espressi in casa diventino poi il terreno fertile dove il branco miete le sue aberrazioni di Elena Zuppini È una tentazione congenita, probabilmente comune a tutte le altre realtà. Ma, si sa, i difetti si notano quando si guardano da vicino. Ogni volta che Verona è teatro di episodi di violenza, anche con risvolti terribili come il delitto Tommasoli, la preoccupazione maggiore per la città sembra diventare i probabili attacchi alla sua immagine da parte dei media nazionali. Per carità, da Pietro Maso in poi nulla ci è stato risparmiato e più le autorità scaligere hanno alzato la voce più i soloni della carta stampata e della televisione ci hanno preso gusto, approfittandosene anche di una certa “permalosità provinciale”. Non c’è dubbio che Verona è molto di più della testa bacata di alcuni dei suoi figli. Ma condensare molte energie nell’autodifesa, impiegandone gran poche nella ricerca del perché – riprendendo le parole del procuratore Schinaia –, ci sono ragazzi che hanno fatto della violenza uno stile di vita, rende sterile qualsiasi indignazione di fronte alla morte di un ragazzo a causa di una sigaretta negata o all’occhio tumefatto di una ragazza picchiata con un posacenere perché “diversa”. Credo che sia assurdo trovare delle cause tipicamente veronesi visto che i nostri giovani non hanno nulla di diverso da quelli di altre città. Se Verona ha una sua colpa è che troppo spesso alcune manifestazioni di violenza verbale e di esplicito razzismo che si levavano dalla Curva Sud del Bentegodi sono state tacciate come l’opera di

in VERONA

quattro deficienti se non addirittura l’espressione folcloristica del tifo calcistico. Salvo poi “scoprire” che gli arrestati per l’omicidio di Nicola, della rissa di piazza Viviani e di altri fatti di cronaca appartengono agli ultrà dell’Hellas e s’ispirano all’ideologia nazifascista (ma forse la conoscono solo per slogan) a cui la Sud non è estranea. Allora che fare? Credo che tra le tante chiacchiere la direzione giusta l’abbiano tracciata i genitori di Nicola a pochi giorni dall’inizio del processo contro i presunti autori dell’omicidio del loro figlio: «Oggi troppi giovani sono omologati in una non cultura», hanno scritto in una lettera. Verrebbe da aggiungere: non solo loro e forse non per colpa loro. Ma dove nasce questa non-cultura? Credo che il nocciolo della questione sia la famiglia. Mi diceva un pedagogista: la mente rispettosa, che non conosce nemico o avversario, non è innata nel bambino, ma si plasma e si insegna. Viene da chiedersi quanto certe chiusure mentali, certi pregiudizi espressi in casa anche solo a parole, finiscano poi per diventare il terreno fertile dove il branco miete le sue aberrazioni. Tuttavia, quanto l’ambiente esterno incoraggia queste chiusure? Per esempio, mi domando se coloro che ci governano non dovrebbero muovere i neuroni delle persone piuttosto che la pancia. Non abbiamo bisogno di “ministri della Paura” (il personaggio inventato da Antonio Albanese), ma di politici e amministratori che diano ancora peso alla forza dirompente delle parole – che assumono signi-

«Penso alla Chiesa, che vorrei più in strada ad avvicinare quei ragazzi che non incontra in parrocchia e che un tempo erano la priorità dei grandi santi educatori. E penso ancora alle istituzioni: dovrebbero avere più coraggio nel proporre iniziative culturali (in senso stretto) che si discostino dal pensiero unico corrente senza partire con il pregiudizio che intanto alla gente interessa il Grande Fratello» ficato diverso quando provengono dall’alto – e che cerchino il consenso non assecondando e amplificando le paure ancestrali della gente ma riportandole al filtro della razionalità e realizzando il bene e il benessere comune, senza escludere nessuno. Un esame del nostro operato lo dovremmo fare poi anche noi dei mass media. Nessuno ci chiede di colorare di rosa o nascondere fatti di cronaca nera, ma quanta obiettività c’è in certi titoli, quanto senso critico mettiamo nell’analizzare un fenomeno o nel riportare la sparata del politico di turno? Siamo convinti che la percezione di insicurezza dei cittadini non sia dovuta a una

certa politica e alla cassa di risonanza che i media fanno di essa? Va da sé che una società che si sente minacciata ha bisogno di un capro espiatorio, che non è mai colui che è omologato al pensiero dominante, e crede più alla forza delle mani che a quella del dialogo e delle leggi. In tutto questo s’inserisce una certa debolezza delle altre agenzie che dovrebbero fare cultura. La scuola, per esempio, che spesso trasmette un sapere slegato dalla vita, come se fosse solo in funzione di un voto e non il filtro da cui i ragazzi imparano a guardare la realtà, evitando così di vendere il cervello ai falsi profeti. Penso alla Chiesa, che vorrei più in strada ad avvicinare quei ragazzi che non incontra in parrocchia e che un tempo erano la priorità dei grandi santi educatori. E penso ancora alle istituzioni: dovrebbero avere più coraggio nel proporre iniziative culturali (in senso stretto) che si discostino dal pensiero unico corrente senza partire con il pregiudizio che intanto alla gente interessa il Grande Fratello. Chi l’avrebbe mai detto che il fine settimana di arte e scienza, Infinta…mente, potesse attirare così tanti veronesi, e giovani: eppure non si parlava di calcio, ma di intelligenza artificiale. La città tutta dovrebbe avere più coraggio nel confrontarsi sui grandi temi e sulle questioni che la riguardano da vicino. Di convegni se ne fanno molti, ma spesso si ha l’impressione che si riducano a un parlarsi addosso tra chi coltiva lo stesso orticello. E anche questo è noncultura.

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Violenza a Verona

Ma dove sono le famiglie? Servono regole più severe Il lassismo, quello familiare, quello scolastico e quello giudiziario ha indebolito la società. Se un figlio sbaglia i genitori cercano di passarlo per vittima di Silvia Beltrami

«È vero, i vu cumprà sono spariti dal centro. Oggettivamente davano fastidio. Ma non erano il problema di Verona. É vero, le ex cartiere sono state abbattute. Ma ora lo spaccio avviene sempre di più alla luce del sole, in strada». La verità è che, nel bene e nel male, i diversi ci sono sempre. Da che mondo è mondo. E a poco allora servono le ordinanze per il decoro»

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Calci e pugni per una sigaretta negata da un giovane che portava il codino. Calci, pugni e cinghiate per espressioni di disaccordo a slogan inneggianti il fascismo. La “lezione”, i sentimenti di condanna dopo la tragedia di Corticella Leoni, l’epiteto di Verona città violenta che ci hanno appioppato i mass media di tutta Italia, non sono bastati. Esattamente 9 mesi dopo, come una gestazione, la violenza, gratuita, cercata, pretestuosa, ha partorito ancora. Ha partorito un’altra aggressione. In pieno centro. Un centro blindato. Ma la porta non ha retto, ancora una volta. Sono pericolosi quando si muovono in gruppo, soprattutto la notte, quando la blindatura è meno pressante. Quando, nel nome di un “credo”, si arrogano il diritto di fare i gradassi, di sentirsi padroni della città. E di prendersela con chi, a prima vita, non è come loro. Tra rossi e neri a Verona c’è sempre stata tensione, per o meno tra le frange estremiste della destra e della sinistra. Una tensione bidirezionale. Benzina o bombe molotov contro le serrande del negozio di una “Testa rasata” o le sedi dei movimenti della destra estrema, botte e calci alle persone che, per il loro modo di vestire o di comportarsi, sembrano di sinistra. A intervalli più o meno regolari, la Digos ha le sue indagini da fare, che non sempre hanno portato, in verità, all’individuazione dei responsabili. Verona è cambiata negli ultimi anni. É diventata una città meno tollerante, perché il mendicante, il

senza tetto, l’immigrato, il diverso in genere, in nome di un ordine da riportare, viene additato, colpevolizzato, etichettato, sanzionato, eliminato. È vero, i vu cumprà sono spariti dal centro. Oggettivamente davano fastidio. Ma non erano il problema di Verona. É vero, le ex cartiere sono state abbattute. Ma ora lo spaccio avviene sempre di più alla luce del sole, in strada. La verità è che, nel bene e nel male, i diversi, chi non agisce nella legalità, ci sono. Sempre. Da che mondo è mondo. E a poco allora servono le ordinanze per il decoro. Se in una città prevale la mentalità per cui bisogna diffidare del “diverso”, è evidente che chi la pensa così si sente legittimato ad agire in nome di quella battaglia per il decoro. Anche per questo Nicola Tommasoli è stato ucciso: Nicola aveva il codino, il codino simboleggia idee di sinistra. Ecco perché c’è stata l’aggressione fuori dal bar Posta 9 mesi dopo. Perché la compagnia che dentro stava festeggiando un compleanno ha dimostrato di non gradire gli slogan inneggianti il nazismo, i buuh contro i neri. Non fossero stati in gruppo, forse finiva tutto lì. Ma erano in “branco” e quando sono in branco si sentono forti, invincibili. E scappano quando si rendono conto che la loro vittima è inerme a terra o quando vedono la camionetta con i militari. Nei due “branchi” identificati dalla Digos ci sono amici e amici degli amici. Giovani, anche di buona famiglia. Giovani già noti alle forze dell’ordine; molti sono “daspati”, hanno cioè l’inibizione di entrare allo stadio. Perché anche qui si trasforma-

no, mentre magari in famiglia sono figli modello. «Ma dove sono le famiglie?», si chiede il procuratore di Verona Mario Giulio Schinaia. Famiglie che, evidentemente, non intervengono abbastanza. Quando un genitore sa che il proprio figlio non può più entrare allo stadio, non deve aver bisogno di aspettare la condanna di un giudice per sapere che suo figlio fuori casa è violento, eppure succede, sempre più spesso. Fino a sentirsi suonare il campanello all’alba e vederselo portare via in manette. La famiglia dunque manca in casi come questi. È la prima responsabile di tragedie come queste. Anni fa se un figlio era vivace lo si metteva in collegio. Ora no, non succede più. Si tende a coprirlo, a farlo credere vittima di un certo sistema. Cosa fare? È innegabile che il lassismo, da quello familiare a quello scolastico a quello giudiziario, ha indebolito il sistema di autodifesa della nostra società. Un società dove l’apparire è più importante dell’essere,dove la forma accredita più della sostanza. Vanno richiamate e ribadite certe regole, più severe, per cercare di rimettere in carreggiata chi ha sbandato una prima volta per evitare che sbatta contro un platano, di rimettere in carreggiata i giovani, certi giovani d’oggi, che saranno gli uomini di domani. Invece così passano in secondo piano realtà, presenze, figure che esistono ma che non godono dei clamori e della ribalta della cronaca. Anche a Verona sono tante, basta sfogliare l’elenco telefonico o entrare in google, in sostanza basta volerle vedere.

Aprile 2009


I giornalisti

La causa di tanta brutalità è banale e si chiama noia Spesso i giovani protagonisti di episodi violenti, se non addirittura efferati, sono ragazzi che mostrano difficoltà nel riconoscere emozioni e sentimenti di Anna Ortolani

«I ragazzi, (“tutti” i ragazzi, anche quelli che non possono andare in piscina, a tennis o a sciare) hanno a disposizione dei centri sportivi non a pagamento? Ci sono luoghi che non siano le discoteche dove stare insieme facendo qualcosa di divertente e costruttivo, senza dover sborsare soldi che non tutti hanno a disposizione? Crescono giustamente le opportunità ricreative per la terza età: quante ne esistono per i giovani?»

in VERONA

La violenza è una prerogativa umana: nel mondo animale esiste l’aggressività ma non la violenza gratuita. In nome di dottrine religiose, principi etici, concezioni del mondo diverse, pregiudizi ingiustificati, gli uomini lottano e si aggrediscono fra loro, spesso con ferocia, diversamente dalle specie animali che, se si sbranano, lo fanno per soddisfare i loro bisogni alimentari, difendere il loro territorio o la loro vita. Le cause di questa “peculiarità” umana non sono note, certo è che a determinare il gesto violento concorrono fattori biologici, psicologici e sociali. Statisticamente, ad esempio, la componente di aggressività che può sfociare in violenza è più frequente nei maschi che nelle femmine. Le bambine sarebbero meno aggressive perché più inclini alla comunicazione e al linguaggio, all’empatia e alla comunicazione. Invece i maschi sarebbero emotivamente più distaccati, mostrando sovente difficoltà ad immedesimarsi nella sofferenza altrui. Effettivamente spesso i giovani protagonisti di episodi violenti, se non addirittura efferati, sono ragazzi che mostrano difficoltà nel riconoscere emozioni e sentimenti, quelli che consentono di entrare in sintonia con gli stati mentali degli altri. Questo scollamento aumenta la difficoltà a distinguere finzione e realtà, e questo spiega perché, ad esempio, uno dei responsabili dei lanci di sassi dal cavalcavia si giustificasse affermando che non era sua intenzione far del male a persone in carne ed

ossa, ma “solo” colpire le auto, un po’ come si fa in un video gioco. Confondere reale e virtuale è pericoloso perché viene meno la valvola di sicurezza, sostenuta da fattori educativi, che permette di sublimare l’aggressività nella finzione. Lo stesso meccanismo funziona anche nello sport, dove la competizione traduce agonisticamente l’istinto di sopraffazione nei confronti dell’antagonista. Ma al di là di tante spiegazioni sociologiche e psicologiche, un sospetto si affaccia alla mente di fronte all’insensatezza di fatti che accadono anche nella nostra città. Viene il dubbio che la ragione di un pestaggio mortale, delle fiamme appiccate ad un poveraccio, dei sassi buttati dai cavalcavia, sia tanto banale quanto atroce: la noia. I ragazzi, (“tutti” i ragazzi, anche quelli che non possono andare in piscina, a tennis o a sciare) hanno a disposizione dei centri sportivi non a pagamento? Ci sono luoghi che non siano le discoteche dove stare insieme facendo qualcosa di divertente e costruttivo, senza dover sborsare soldi che non tutti hanno a disposizione? Crescono giustamente le opportunità ricreative per la terza età: quante ne esistono per i giovani? Se la noia è insopportabile, per sentirsi vivi si ricorre anche alla violenza, che cerca un bersaglio frugando nell’intolleranza, un virus ricorrente nella storia. Succede che una razza si ritiene irragionevolmente superiore ad un’altra, e si genera il razzismo. Oppure c’è una discriminazione di genere, com’è ancora oggi in molti Paesi

dove si ritiene che l’uomo sia superiore alla donna. Esistono pregiudizi economici, di casta, di classe sociale, di corporazione, e nelle sue forme estreme, l’intolleranza si intreccia al fanatismo. Qual è l’antidoto? La tolleranza, naturalmente, quella che Voltaire, nel suo Dizionario filosofico (1763) definisce “appannaggio dell’umanità”. Non è però la direzione in cui sta andando la nostra società, sempre più impaurita, sempre più incline a cercare fuori da sé le cause del suo malessere, che è invece profondamente interno. I ragazzi lo rispecchiano, restituendoci l’immagine di un mondo che non ci piace ma che noi stessi abbiamo forgiato.

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Violenza a Verona

Sebastiano sa dove colpire per far male In famiglia nessuno gli chiede nulla: hanno paura di lui. Gli oscuri tatuaggi che spuntano minacciosi sul suo corpo sono un invito a non porre troppe domande di Alessio Corazza

«Sebastiano posa davanti al cartello Krematorium del campo di concentramento di Auschwitz. È con uno del solito gruppetto di amici (tutti maschi, di ragazze non se ne vedono mai) che si ritrova anche in altri scatti: di fronte all’obiettivo ridono, hanno un’espressione beota e gaia, tengono il pollice alzato in segno di vittoria»

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Sebastiano sa dove colpire per far male. Sa dove colpire per rompere le ossa. Sa dove colpire per uccidere. Me ne sono reso conto quasi per caso,a una riunione di famiglia.Lui si fa vedere poco, passa a salutare e poi se ne va, nessuno sa dove. Quella volta il discorso è caduto su una rissa allo stadio accaduta qualche giorno prima. Avevano arrestato un suo amico che, a sentir lui, non c’entrava nulla. «Quello non è uno che va in curva – aveva detto – era la prima volta che andava al Bentegodi». C’era scappata di mezzo una coltellata e al processo ci sarebbero andati giù duri. A sentire Sebastiano, chi aveva usato con tale disinvoltura la lama era stato un ingenuo. «Basta sapere dove colpire – spiegava con disarmante sicurezza – e una mano può essere mortale. Ma anche con un colpo secco qua – e indicava un punto preciso sotto il costato – si può facilmente rompere una costola e poi sparire, nel nulla». L’uditorio familiare ascoltava perplesso, ma anche ammirato. Mamme, nonne e zie fingevano di rabbrividire a quel dispiego di violenza, ma gli uomini sembravano più accondiscendenti: uno zio opponeva qualche domanda tecnica, un altro ricordava un aneddoto che lo aveva visto protagonista. Di Sebastiano so poco, nonostante la nostra anagrafe comune. Se non fossimo parenti, io e lui non avremmo mai avuto occasione di incrociarci se non a qualche manifestazione. Cosa che è capitata. Lui, confuso nel corteo, a cantare cori e sventolare sciarpe. Io ai margini, con un taccuino in mano. Quel che

so di lui lo devo in buona parte ad una bacheca di sughero appesa nella taverna dove ci ritroviamo due volte l’anno, per il Natale e la Pasqua, di cui lui dispone come un locale personale il resto dell’anno. Appese alla rinfusa ci sono una serie di fotografie che lo ritraggono in varie situazioni, accanto ad adesivi con slogan di Forza Nuova (“Le sole bombe sono le nostre idee”), spille del Verona e biglietti dello stadio. Me n’è rimasta impressa nella mente una in particolare. Sebastiano posa davanti al cartello Krematorium del campo di concentramento di Auschwitz. È con uno del solito gruppetto di amici (tutti maschi, di ragazze non se ne vedono mai) che si ritrova anche in altri scatti: di fronte all’obiettivo ridono, hanno un’espressione beota e gaia, tengono il pollice alzato in segno di vittoria. Quando quella bacheca è comparsa in taverna, ho provato disgusto e ho deciso di non metterci più piede finché non fosse stata tolta. Ma poi sono stato convinto a non creare il caso: e così, Natale dopo Natale, Pasqua dopo Pasqua, me la ritrovo davanti. Non è l’unica visione inquietante con cui mi devo confrontare: su una mensola, accanto a bottiglie di Valpolicella e Amarone, c’è n’è una che ha sull’etichetta l’inconfondibile effige di Adolf Hitler. Furherwein, si chiama: non so se contenga un vino buono, ma è chiaro che non è fatta per essere bevuta. È un elemento decorativo. Su un mobiletto c’è uno stereo con accanto una pila di cd. Non riconosco nessuno dei titoli, ad eccezione de “La direzione del vento” di Massimo Morsello,

l’ex terrorista dei Nar e cantore della destra più radicale. Sebastiano è cinque anni più giovane di me. Quando eravamo piccoli, toccava a lui stare in porta a parare i miei tiri. Poi lui è diventato un discreto portiere nella squadra di calcio del suo paese e, in fondo, ho sempre pensato fosse merito mio se aveva sviluppato quella dote. Come sia diventato ammiratore di Hitler, però, proprio non saprei dire. La nostra famiglia non è di quelle che si interessano di politica, se non per prendersela col governante di turno. I nostri nonni non erano né fascisti né partigiani, ma nascosero per mesi un pilota inglese che si era schiantato sulle nostre colline durante la guerra. Lo avessero trovato i tedeschi, lo avrebbero fatto prigioniero e i miei nonni sarebbero stati fucilati. Io e Sebastiano non saremmo mai nati. Da quando è diventato a tutti gli effetti un adulto, io e lui non abbiamo mai avuto un granché da dirci. So che lui aveva pesantemente criticato una mia vecchia fidanzata. Aveva la pelle bianca come il latte, era perfino cattolica: ma era americana. Poi una volta mi ha mandato un sms sul telefonino: non era un saluto, o una cortesia, ma una critica ad un mio articolo troppo tenero – a suo avviso – con gli immigrati. Sebastiano è un oggetto misterioso anche per le persone che gli sono vicine. In famiglia nessuno osa chiedergli nulla: hanno paura di lui. Gli oscuri tatuaggi che spuntano minacciosi sul suo corpo sono un invito a non porre troppe domande. Io stesso non saprei cosa chiedergli.

Aprile 2009


I giornalisti di Andrea Sambugaro Il torto? Segnare un gol con la maglia sbagliata e la pelle olivastra: Juio Cesar Uribe, il «diamante nero», centrocampista peruviano del Cagliari, non lo sapeva ma quel 21 novembre del 1982 fu il primo destinatario degli uh-uh al Bentegodi. Poche domeniche prima, il 17 ottobre, a Verona era arrivato l’Avellino di Geronimo Barbadillo, anche lui di Lima: niente cori, ma una banana gonfiabile con il marchio Chiquita, come quelle esposte nelle rivendite di frutta e verdura, gettata dalla curva mentre andava a battere un calcio d’angolo. L’ESEMPIO DEL CHIEVO

Accadesse oggi, i cancelli dello stadio rimarrebbero a lungo chiusi. Quando gioca l’Hellas, ovvio, non con i tifosi del Chievo. Loro hanno riempito la bacheca della società di premi Fair play, il riconoscimento destinato al club con il pubblico più corretto. L’unica macchia, in fondo, rimane uno striscione con la scritta «Napole-cani». Nel 1982 il razzismo era tollerato, circoscritto, se non ignorato. Così il 28 aprile del 1996, in un derby con il Chievo, dalla curva sud, dov’era seduta anche il sindaco Michela Sironi, ignara di ciò che stava avvenendo, potè penzolare un manichino nero con la maglia gialloblù accompagnato dall’apparizione di due tifosi incapucciati come mebri del Ku Klux Klan e dello striscione «El nero i ve l’ha regalà, dasighe lo stadio da netar» riferiti a un giocatore di colore, Michael Ferrier, originario delle Antille olandesi, che l’Hellas avrebbe ingaggiato. Un manichino che ha varcato i confini: è riapparso lo scorso anno a Barcellona in una mostra intitolata «Passione nel pallone» riaprendo la ferita di Verona. Così il 20 febbraio del 2000 gli uh-uh rivolti a Lilian Thuram e Saliou Lassissi, francese e ivoriano del Parma, poterono essere assordanti, così quando il 30 aprile dello stesso anno la Juve dell’olandese Edgar Davids venne a perdere uno scudetto al Bentegodi la curva potè urlare «Schiavi dei neri, voi siete schiavi dei neri».

in VERONA

DALLA CURVA SUD

Una, nessuna, cinquemila... «La curva, per chi ne volesse dare una definizione, definizioni non ne ha. Forse non è la culla di tutti i mali, ma lo specchio e la sintesi di una realtà esterna che incontriamo, respiriamo, animiamo tutti i giorni ma che tutti possiamo contribuire a modificare in meglio o in peggio» Basta e avanza, anche se la catena di esempi potrebbe essere molto più lunga nonostante da qualche anno i signori del pallone abbiano deciso che non era più tollerabile lasciare che gli stadi fossero zona franca, dove tutto è ammesso (tant’è che, da quando sono entrate in vigore le sanzioni per la discriminazione razziale, l’Hellas ha pagato dazio ed è stato costretto più di una volta a giocare senza pubblico: fuori tutti, tifosi buoni e cattivi). Tanto lo si sa, lo si è sempre detto e lo si è sempre scritto: Verona è razzista. Se in curva appare lo striscione «Lavatevi» quando al Bentegodi gioca il Napoli, il sindaco Lele Sboarina è chiamato al tg a dare una spiegazione. Ma se la risposta al San Paolo è un «Giulietta è ‘na zoccola», la reazione è una risata. Nessun sindaco di Napoli ne deve rispondere. Anzi, l’asserzione diventa il titolo di un libro. O la chiusura di una telecronaca da parte di un giornalista campano, in tribuna stampa, nell’ultimo Verona-Napoli. Cercare su you tube, in internet, per credere. MA VERONA È RAZZISTA?

Il male si annida in curva, si alimenta lì, tra i «butei», quelli che, quando nelle piazze d’Italia si manifestava per la pace con le

bandiere con l’arcobaleno, ne sventolavano altre a righe gialloblù con la scritta «Pache». Una di quelle bandiere, del resto, è stata a lungo esposta all’ingresso di uno dei negozi di riferimento dei «butei», il Black Brain di corso Milano, il cui titolare, intervistato per un programma Rai, alla domanda «Chi era per lei Benito Mussolini?» rispose: «Un grande statista». LE CONTRADDIZIONI

Ma qualche contraddizione dev’esserci, almeno per chi non si accontenta delle etichette e degli stereotipi che dicono tutto e niente. Se Verona è razzista, perché il pubblico del Chievo non lo è? Da dove viene, da un altro pianeta? Se la curva è razzista, perché quando un giocatore di colore è a terra infortunato non gli urla «Morte, morte, morte» con il pollice verso, come fa sempre, ma «Vita, vita, vita» con il pollice rivolto verso l’alto e poi, quando il calciatore si rialza, applaude? È accaduto poche domeniche fa, in Verona-Reggiana. Se un gruppo della curva grida «Butei liberi», riferendosi ai giovani in carcere o agli arresti domiciliari per la morte di Nicola Tommasoli e per la rissa in piazza delle Poste, perché altri fischiano? Il fatto è che la curva, per chi ne volesse dare una definizione, defini-

zioni non ne ha. È una, nessuna e cinquemila. È un teatro dove non si assiste, ma si recita ogni volta che il Verona gioca. Gli attori sono loro, i «butei», che fanno il tifo per se stessi, che ci vanno giù pesante ma sanno anche, spesso, ironizzare. L’Hellas sprofonda? Cantano «Io credo risorgerò» e si applaudono. E magari inscenano una processione sollevando un tifoso seminudo in posizione da crocifisso, imitando il suono delle campane a morto. Il Verona in trasferta sta perdendo 2-0? S’inventano il gol del pareggio, esultano, scandiscono «Due-a-due, due-a-due» anche se non è accaduto nulla. Tra lo stupore del pubblico di casa, come ricorda Tim Parks in «Questa pazza fede», il libro che racconta un campionato con i tifosi, trasferte comprese. Nella squadra avversaria gioca un difensore che si chiama Negro? È bianco, ma appena tocca palla gli fanno uh-uh. Difficile stabilire dove finisca il razzismo e dove cominci la goliardia. In ogni caso la curva nasce e muore la domenica, un’ora prima e un’ora dopo la partita e ognuno è libero di partecipare ai suoi riti come crede. Unendosi ai cori o rimanendo in silenzio, applaudendo o fischiando, con la propria responsabilità e la propria coscienza. Altrimenti non si spiegherebbe perché è frequentata da persone che durante la settimana hanno un comportamento assolutamente normale a scuola, al lavoro, in famiglia. Altrimenti non si spiegherebbe perché c’è anche un settore dove molti spettatori sono bambini. IL MONDO FUORI LO STADIO

Forse la curva sud non è la culla di tutti i mali, ma lo specchio e la sintesi di una realtà esterna che incontriamo, respiriamo, animiamo tutti i giorni ma che tutti possiamo contribuire a modificare in meglio o in peggio. Il servizio di vigilanza del Bentegodi ha 28 telecamere che riprendono tutto ciò che accade durante la partita, ma solo dieci sono puntate sugli spalti, le altre sono tutte rivolte verso l’esterno. Solo un caso? Oppure fuor di queste mura un mondo c’è?

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Violenza a Verona

Delitti e processi “politici” a Verona Dagli anni di piombo a Ludwig, fino alla storia recente

GLI ANNI DI PIOMBO (1969-1984) 1969 22 aprile Una carica di dinamite piazzata davanti al Palazzo dell’Agricoltura scardina il portone d’ingresso e provoca il crollo di un soffitto. 6 dicembre L’auto del senatore Adelio Albarello, prestata alla sezione veronese del Psiup, viene incendiata. 12 dicembre Strage di piazza Fontana a Milano. 1970 14 marzo Il trentino Marco Pisetta si costituisce a Verona a un maresciallo di pubblica sicurezza che dall’ufficio politico della Questura di Trento era stato trasferito nella città scaligera. Amico di Renato Curcio, nel 1969 aveva partecipato agli attentati contro le sedi dell’Inps e del Palazzo della Regione a Trento. Entrerà nelle Brigate Rosse, di cui fu il primo pentito dopo un nuovo arresto nel 1972. 28 agosto In una sala passeggeri della stazione ferroviaria di Porta Nuova, ignoti depongono una valigia contenente un ordigno. Fortunatamente è notata da un sottufficiale della Polfer e viene portata in un luogo isolato dove esploderà un’ora più tardi. Il 2 agosto 1980, nella stazione ferroviaria di Bologna, l’attentato sarà riproposto con le medesime modalità provocando 85 morti e 200 feriti. 19 novembre Scontri in piazza tra polizia e studenti delle medie superiori in centro. Numerosi feriti sia tra i poliziotti, sia tra gli studenti che protestavano contro la “repressione”. 7 dicembre Tentato Golpe Borghese. Con un’azione coordinata sull’intero territorio nazionale, gruppi di civili, appartenenti a formazioni di destra (Avanguardia nazionale, Movimento sociale, Ordine nuovo), ad organizzazioni criminali (‘ndrangheta, mafia) e reparti militari e di polizia iniziano un’ope-

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razione che dovrebbe concludersi con il rovesciamento del governo. Le inchieste giudiziarie coinvolgeranno alcuni veronesi, tra cui l’ufficiale dell’esercito Amos Spiazzi (successivamente prosciolto) e l’ordinovista Elio Massagrande. Un testimone dirà che il concentramento dei partecipanti veronesi al “Golpe Borghese” era nella sede dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra di piazza Mutilati.

1974 13 gennaio Il colonnello dell’esercito Amos Spiazzi viene arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla Rosa dei Venti.

Dicembre Iniziano nella questura di Verona le indagini sul movimento politico Ordine nuovo diretto da Clemente Graziani, che porterà ai successivi processi e al suo scioglimento per decreto nel dicembre 1973.

18 giugno L’auto di un giornalista del Gazzettino viene distrutta in un attentato incendiario.

1971 24-25 marzo In un’operazione della polizia sono arrestati Pietro Rocchini, Claudio Bizzarri, Elio Massagrande, Roberto Besutti. Tutti membri di Ordine Nuovo. 1972 13 febbraio Un gruppo di neofascisti aggredisce e ferisce in via Mazzini il senatore del Psiup Adelio Albarello e il segretario provinciale del partito Giorgio Gabanizza. 11 luglio Due attentati incendiari ai danni di altrettante sezioni del Pci. 1973 30 gennaio Luigi Bellazzi, militante di estrema destra, aggredisce un militante di sinistra e poi spara con una pistola lanciarazzi contro 2 agenti di polizia intervenuti per porre fine all’aggressione, ustionandoli. 10 aprile Viene devastato il deposito dei libri della casa editrice di sinistra Bertani, che pubblica tra l’altro l’opera teatrale di Dario Fo. 3 agosto Attentato incendiario alla sede della Dc. 4 agosto Due bottiglie incendiarie sono lanciate, durante la notte, contro il cimitero ebraico.

28 maggio Strage di piazza della Loggia Brescia. Le indagini degli anni ’90 coinvolgeranno alcuni veronesi, legati ai servizi segreti militari americani e all’estremismo di destra.

15 dicembre Molotov contro il garage del presidente democristiano della Regione Veneto, Angelo Tomelleri, accompagnato dal primo volantino delle Brigate Rosse. 21 dicembre Viene arrestato Marcello Soffiati, di Ordine Nuovo, dopo una perquisizione nella sua abitazione di via Stella, dove la polizia rinviene armi, bombe a mano, detonatori, proiettili anticarro e 10 candelotti di esplosivo. Indagini giudiziarie di molti anni dopo indicheranno in quella casa il covo dove transitò la bomba usata per la strage di piazza della Loggia a Brescia. 28 dicembre Il giudice di Venezia Felice Casson sequestra al veronese Marcello Soffiati alcuni documenti che fanno emergere il ruolo avuto da servizi segreti americani nell’addestramento di neofascisti italiani. 1975 Una bottiglia incendiaria viene lanciata contro la porta d’ingresso dell’abitazione del direttore de “L’Arena”Gilberto Formenti. 21 febbraio La polizia arresta 3 studenti di sinistra che contestano un’assemblea al Maffei dei gruppi di destra. 19 maggio Incendiate due auto di militari americani in piazza Simoni. Volantino delle B. R. 30 agosto All’uscita di un cinema, elementi

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Violenza a Verona di destra malmenano il sindacalista Nadir Welponer. 30 settembre Viene ferita e catturata dopo un conflitto a fuoco con la polizia ad Altopascio (Lucca) la brigatista rossa veronese Paola Besuschio. 1976 19 aprile La sede del Pci di Legnago viene devastata di notte da un gruppo di neofascisti. 17 maggio Molotov contro la sede dell’Associazione indutriali in piazza Cittadella per l’inizio del processo a Curcio a Torino.Volantino B. R. 5 giugno A Borgo Roma 4 militanti di Avanguardia operaia sono aggrediti da una squadra di destra mentre affiggevano manifesti di Dp (Democrazia proletaria); uno di essi riporta trauma cranico. 14 giugno Vengono arrestati a Verona Marco Fasoli, Michele Galati e Luigi Pedilarco, e a Milano il veronese Franco Brunelli, tutti ritenuti, con diversi ruoli, componenti delle Brigate Rosse. Fasoli e Pedialrco saranno assolti, Galati e Brunelli condannati a fine ottobre 1977. Fasoli diventerà uno dei membri di spicco delle B. R., condannato all’ergatolo per gli omicidi Gori e Albanese. 4 novembre Molotov nelle cabine della Sip in via Leoncino. Volantino firmato Nuclei d’iniziativa armata per il comunismo. 1977 19 febbraio Viene dato fuoco con liquido infiammabile all’ingresso del cinema Astra, che sta proettando “La lunga notte di Entebbe”, definito in un volantino di rivendicazione “film fascista sul massacro israeliano”. 6 aprile Attentato incendiario a una cooperativa di facchini. Rapina politica con sequestro di persona in un’altra cooperativa di Golosine. Volantino firmato Iniziativa armata per il comunismo.

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2 maggio Attentato incendiario alla sezione Dc di Borgo Trento in via Mameli 92. 10 maggio Una bottiglia incendiaria viene lanciata contro la sinagoga 25 agosto Primo omicidio di Ludwig, il nomade Guerrino Spinelli viene bruciato nella sua Fiat 126 a Verona. 1 novembre Bottiglie incendiarie sono lanciate contro 3 sezioni del Pci e una del Psi. 1978 22 gennaio Irruzione della Ronda proletaria all’istituto tecnico Marconi, Devastati gli uffici. 13 maggio Attentato incendiario distrugge l’auto dell’ex segretario Dc Alberto Rossi nel garage di casa. Telefonata di rivendicazione delle B. R. a “L’Arena”. 26 agosto Raid incendiario contro cinque pullman che hanno portato spettatori in Arena. Un ferito. Telefonata di rivendicazione dei Gruppi comunisti a “L’Arena”. 24 ottobre I “Proletari armati per il comunismo” feriscono alle gambe l’agente di custodia Arturo Nigro, dopo averlo atteso sotto casa. 16 dicembre 2 giovani aggrediscono e disarmano in un posto di polizia l’agente Antonio Di Pasquale. 17 dicembre Secondo omicidio di Ludwig, a Padova viene ucciso il cameriere Luciano Stefanato, omosessuale, a colpi di bastone. 1979 1 gennaio Un commando di sei persone attacca l’ex posto di guardia del forte di Azzano, sequestrando sei persone, l’intera famiglia del maresciallo dell’esercito Filippo Cantore. Cercavano armi.

6 gennaio Rapina dei Pac alla posta di Borgo Venezia, in via Salgari. 17 gennaio I Gruppi armati comunisti rivendicano l’imboscata con bombe molotov a un’autoradio dei carabinieri attirata in un agguato in via Sauro con una finta telefonata di segnalazione di un’auto rubata. 17 giugno Attentato contra la sede del Pci Luciano Manara rivendicato dai Nar, Nuclei armati rivoluzionari, movimento clandestino di estrema destra. 19 giugno Si impicca nel carcere di Verona Lorenzo Bortoli, militante dei Collettivi politici veneti. 26 giugno Incendio con bome moltov di otto motoscafi a Bardolino. 12 dicembre Terzo omicidio di Ludwig, a Venezia viene ucciso con una trentina di coltellate il tossicodipendente ventiduenne Claudio Costa. 1980 11 aprile Attentato incendiario distrugge la porta dell’abitazione del capogruppo Dc in Consiglio comunale Giancarlo Passigato. Quarto omicidio di Ludwig, a Vicenza viene uccisa l’ex prostituta Alice Maria Baretta a colpi di ascia e di martello. 1981 10 gennaio Un raid squadristico compiuto da attivisti di destra distrugge la sede della casa editrice Bertani, specializzata in pubblicazioni di sinistra. Diversi i feriti. Si tratterebbe di una rappresaglia per precedenti aggressioni subite da militanti di destra durante attività di propaganda. 3 aprile Alcuni giovani di sinistra vengono aggrediti mentre attaccano manifesti in città. 6 aprile Viene arrestato per rissa il missi-

no Nicola Pasetto, futuro parlamentare. 25 maggio Quinto omicidio di Ludwig. Viene datta alle fiamme la Torretta di Porta San Giorgio, ricovero per sbandati e senza casa. Nell’incendio muore il diciassettenne studente Luca Martinotti, che si era fermato per dormire. La rivendicazione viene fatta così: “LUDWIG. LA NOSTRA FEDE È NAZISMO, LA NOSTRA GIUSTIZIA È MORTE LA NOSTRA DEMOCRAZIA È STERMINIO. RENDIAMO NOTO CHE ABBIAMO PUNTUALMENTE RIVENDICATO IL ROGO DI SAN GIORGIO A VERONA CON IL MESSAGGIO INVIATO A ‘LA REPUBBLICA’. ALLEGHIAMO UN DISCHETTO METALLICO IDENTICO A QUELLO APPLICATO SULLA PIU’ GRANDE DELLE TRE TORCE USATE. GOTT MIT UNS”. 16 giugno Vengono ritrovati 170 volantini brigatisti, alcuni contengono minacce ad aziende locali. 13 novembre Rapina dei Pc alla Cassa di risparmio di San Massimo. 27 novembre Rapina dei Pac alla Cassa di risparmio di Negrar. 17 dicembre A Verona, un nucleo delle Br sequestra il generale James Lee Dozier, vice comandante della Nato per il sud Europa. Dagli Usa partono immediatamente investigatori incaricati di affiancare quelli italiani. 1982 23 gennaio La polizia arresta, nell’ambito dell’inchiesta sul sequestro Dozier, Nazareno Mantovani. 28 gennaio Sempre nell’ambito delle indagini sul sequestro Dozier, è arrestato Armando Lanza. Il generale Dozier viene liberato in un appartamento di Padova da uomini dei reparti speciali della polizia. Vengono arrestati Antonio Sa-

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Cronistoria vasta, Emilia Libera, Emanuela Frascella, Cesare Di Lenardo e Giovanni Ciucci. 29 gennaio Per il sequestro Dozier vendono arrestate altre 18 persone. Si scoprono covi in tutto il Veneto, tra cui uno a Verona. 1 febbraio A Verona, è arrestata Maria Giovanna Mussa, militante delle Br e latitante da 2 anni. 5 marzo Per insurrezione e guerra civile vengono arrestati tre giovani veronesi gravitanti nell’area di Prima Linea e dei Pac, Proletari armati per il comunismo. 25 marzo A Verona, è emessa la sentenza a carico degli imputati per il sequestro Dozier. Al pentito Antonio Savasta sono inflitti 16 anni e 6 mesi di reclusione; a Cesare Di Lenardo, 27 anni; a Emilia Libera, 14 anni; stessa pena è inflitta a Giovanni Ciucci. 20 luglio Sesto e settimo omicidio di Ludwig. Vengono uccisi a martellate Gabriele Pigato e Giuseppe Lovato, entrambi frati settantenni del Santuario della Madonna di Monte Berico a Vicenza. 1983 26 febbraio Ottavo omicidio di Ludwig, viene assassinato a Trento il sacerdote don Armando Bison, che è trovato con un punteruolo sormontato da un crocifisso conficcato in testa. 14 maggio Altri sei omicidi di Ludwig, viene dato fuoco al cinema a luci rosse Eros di Milano, dove muoiono 6 persone e 32 restano ferite. 1984 8 gennaio Quindicesimo e ultimo omicidio di Ludwig, è appiccato un incendio alla discoteca Liverpool di Monaco di Baviera; nel rogo muore una persona e altre sette restano ferite. 4 marzo Wolfgang Abel e Marco Furlan

in VERONA

vengono arrestati per aver cercato di incendiare la discoteca Melamara di Castiglione delle Stiviere in provincia di Mantova, dove si trovavano quattrocento ragazzi, la maggior parte dei quali mascherati per la festa di carnevale. Sono i due assassini di Ludwig. 10 dicembre Si conclude con 14 condanne e due assoluzioni il processo a 16 ex appartenenti dell’ultrasinistra gravitanti nell’area dell’Autonomia e dei Pac, Proletari armati per il comunismo. Le accuse comprendevano tre rapine, l’incendio di alcuni motoscafi a Bardolino e alcune corriere in piazza Cittadella tra il 1978 e il 1981. Fra i condannati Cesare Battisti e i veronesi Alessandro Berzacola, Giovanni Gaeta, Maria Cecilia Barbetta, Paolo Sommaruga, Arrigo Cavallina, Giuseppe Lorusso, Francesca Cavattoni, Gabriele Gabrieli, Maria Cristina Oliosi.

DIECI ANNI DI (RELATIVA) TREGUA (1985-1995) 1985 2 dicembre A Sandrà, è arrestato Omar Sadat Salem Fathat, giordano, “capitano” dell’Olp, in possesso di un arsenale di armi e di esplosivi. 11 dicembre Omar Sadat Salem Fathat è condannato a 14 anni di carcere.

1987 1 febbraio Con l’accusa di associazione a delinquere vengono arrestati 12 tifosi delle Brigate gialloblù. Nelle abitazioni vengono sequestrate anche delle bandiere naziste con croci uncinate. Tra i 14 imputati i futuri leader locali dell’ultradestra Alberto Lomastro e Alessandro Castorina. Il successivo processo vedrà tutti condannati in primo grado nel gennaio 1991. Condanna confermata in appello nel 1998, quando era ormai condonata o prescritta. 1990 9 dicembre Un barbone di 73 anni, Olimpio

Vianello detto «Crea», colpito alla nuca con un corpo contundente, viene trovato in fin di vita nel cortile dell’ex tribunale, dove era solito dormire. Muore in ospedale. Solo nel settembre 1999 si scopre che l’omicidio era maturato nell’ambito di una tragica bravata di alcuni ragazzi di buona famiglia. Viene processato e condannato dieci anni e mezzo di carcere Nicola Murari, un veronese, di 27 anni che nel frattempo si era fatto la sua brava vita. «Eravamo usciti per bere a buso e dopo andare a caccia di neri e barboni», disse, «è stato un incidente». 1991 25 luglio A Villafranca sono scagliate bombe molotov contro il campo nomadi.

GLI ANNI DEL CONTROLLO DEL TERRITORIO (1994-2009) 1994 4 ottobre Sette skinheads vengono arrestati dalla Digos su ordine del procuratore Guido Papalia. Arriva così ad una svolta l’indagine avviata nei primi giorni del 1993 sul Veneto Fronte Skinheads che a Verona ha un nutrito numero di giovani simpatizzanti che si aggregano attraverso iniziative come concerti e raduni. Nel corso dei mesi, l’inchiesta si arricchisce di prove per sostenere che l’associazione, regolarmente fondata a Roma da Piero Puschiavo, opera in violazione della legge Mancino e incita all’odio e alla discriminazione razziale. 1995 21 gennaio Con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista il Gip del tribunale di Verona Carmine Pagliuca rinvia a giudizio l’ editore padovano Franco Freda, 54 anni, e altre 49 persone delle 75 coinvolte, nell’ estate del 1993 , nell’inchiesta promossa dalla Procura della Repubblica di Verona sul “Fronte nazionale”. Il 25 ottobre la Corte d’Assise emette 45 condanne, tra quella di 6 anni a Freda. Il 21 novembre 2000, il governo, con decreto del ministro dell’Interno immediatamente esecutivo, scioglie il ‘Fronte nazionale’, a seguito della

sentenza definitiva della Cassazione del 1999 che ha condannato Freda per violazione della legge Mancino e ha definito il suo movimento “un’organizzazione avente tra gli scopi l’incitamento all’odio razziale”. 28 agosto Nei pressi dello stadio a uno sharp, una testa rasata antirazzista, viene imposto da alcuni skinheads del Veneto Fronte Skinheads di non entrare ad assistere alle partite del Verona 1996 15 ottobre A Verona, quattro giovani skineads, Fabio Bazzerla, Francesco Guglielmo Mancini, Andrea Miglioranzi (oggi capogruppo della Lista Tosi in Consiglio comunale) e Alessandro Castorina sono tratti in arresto su ordine del gip Sandro Sperandio per violenza e istigazione all’odio razziale; sarebbero stati protagonisti delle due aggressioni, del 28 agosto 1995 e del 13 luglio 1996 in un bar. Il loro processo finirà nel giugno 2002 con la conferma della condanna, con l’aggravante della legge Mancino, da parte della Cassazione. In quella occasione il Pm Antonino Condorelli lanciò per primo l’allarme sull’idea distorta di “controllo del territorio”che li animava. 28 ottobre Un manichino nero viene fatto penzolare come se fosse impiccato dalla Curva Sud dell’Hellas prima del derby con il Chievo. Per la vergognosa messinscena di intolleranza razziale finiscono sotto processo Yari Chiavenato e Alberto Lomastro, che saranno assolti dopo anni, perché nessuno dirà davanti ai magistrati di aver visto qualcosa. “Un clima di omertà”, sottolinearono i giudici di primo grado Isabella Cesari, Marco Zenatelli ed Enrico Sandrini, “con i gruppi di tifosi ultras che godono di privilegi assolutamente ingiustificati e che hanno sicuramente facilitato la commissione del reato”. 1998 23 aprile Inizia il processo al Veneto Fronte Skinheads. Ma dopo numerose udienze il presidente del collegio, Guglielmo Ascione, lascia la magi-

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Violenza a Verona stratura. Il processo deve ricominciare daccapo. 1999 17 aprile Attentati dinamitardi e incendiari contro una sezione e la sede del comitato cittadino dei Ds. Saranno rivendicati dalla sigla Nuclei territoriali antimperialisti. 13 luglio Il procuratore capo Guido Papalia ordina una serie di perquisizioni a Roma, Milano e Torino nelle abitazioni di ex appartenenti alle Brigate rosse o sospetti tali, nell’ambito di un’inchiesta collegata all’omicidio D’Antona. 2000 Maggio Massimiliano Stancanelli, consigliere di Circoscrizione di An e ultrà (già implicato in incidenti allo stadio) e altri quattro giovani di destra tifosi dell’Hellas vanno sotto processo dopo una rissa in via Nizza. Saranno assolti. 28 giugno Riprende il processo al Veneto Fronte Skinheads con il giudice Dario Bertezzolo a presiedere il nuovo collegio, che conserva gran parte del lavoro svolto dal predecessore Guglielmo Ascione. 15 settembre Un incendio doloso distrugge la vecchia stazione delle corriere di piazza Isolo, divenuta il rifugio di molti senza casa e nella quale l’editore Bertani teneva il suo magazzino. Nell’incendio muore un immigrato polacco, Cesar Karabowski, e altri due sono in gravi condizioni. L’edificio stava per essere sgomberato in vista della costruzione del parcheggio. Nei giorni successivi vengono fermati tre algerini. 19 settembre Luis Marsiglia, professore al liceo Scipione Maffei, insegnante di religione di origine ebraica e che, per questa ragione, avrebbe già subito in precedenza insulti e minacce, dichiara di essere stato aggredito da ignoti. Risulterà che si era inventato tutto e sarà condannato a 8 mesi per simulazione di reato.

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2001 13 febbraio Ultima udienza del processo al Veneto Fronte Skinheads. Il pubblico ministero Antonino Condorelli chiede condanne per promotori e aderenti e alcune assoluzioni per imputati contro i quali non sono emerse prove. Chiede anche le pene accessorie, come l’obbligo per gli skinheads di andare a lavorare gratis nelle strutture sociali che assistono gli emarginati. Il tribunale, invece di emettere la sentenza, accoglie le richieste della difesa e ordina la trasmissione degli atti alla Procura di Vicenza. Due anni e mezzo dopo saranno tutti assolti. 5 maggio Giovani militanti di Forza Nuova assaltano a Porta Leona il banchetto di Rifondazione e del Circolo Pink durante la campagna elettorale. A processo finiscono in sei: cinque di Forza Nuova e un giovane della sinistra radicale. Il 28 ottobre 2005 la sentenza pronunciata dal giudice Marco Zenatelli: tre condanne e tre assoluzioni. 27 ottobre Il procuratore della repubblica Guido Papalia indizia di reato 6 esponenti locali della Lega nord, per “incitamento ad atti discriminatori per motivi etnici e razziali”, dopo che avevano promosso una raccolta di firme per allontanare alcuni zingari da tempo presente sul territorio comunale. Tra essi il futuro sindaco Flavio Tosi. 2002 19 luglio Un volantino delle Brigate Rosse viene fatto rinvenire negli stabilimenti grafici Mondadori. 2003 10 gennaio Irruzione nello studio di Telenuovo in via Orti Manara contro Adel Smith, rappresentante della Unione mussulmani d’Italia, e il suo collaboratore Massimo Zucchi. 24 esponenti di Forza Nuova vengono da tutto il Veneto per tappare la bocca al polemista islamico. Condannati nel 2008. Tra essi Yari Chiavenato, uno dei leader dell’estrema destra scaligera e del tifo organizzato dell’Hellas, all’epoca segretario provinciale di Forza

Nuova (pena di due anni e due mesi condonata), e i camerati Stefano Armigliato, Luca Castellini e Massimiliano Fiorini. 17 aprile Un’auto con a bordo dei neofascisti lancia alcune molotov contro il centro sociale La Chimica. Il fuoco si ferma all’esterno. 26 aprile Al negozio “Black brain” di Francesco Guglielmo Mancini, esponente del Veneto Fronte Skinheads, in corso Milano, viene sfondata la vetrina. Il gesto viene ripetuto qualche giorno dopo. E anche il Camelot di Alessandro Castorina, tra via Isonzo e via IV Novembre, viene colpito. 2004 2 gennaio Irruzione all’Osteria ai Preti in Interrato dell’Acqua Morta. Zuffa da saloon in un bar solitamente frequentato da giovani della sinistra. Sedie e tavoli distrutti. La Digos denuncia quattro estremisti di destra per incendio e rissa. 25 aprile Due molotov inesplose vengono lasciate davanti allo studio dell’avvocato Roberto Bussinello, difensore storico dei militanti di estrema destra, e davanti alla sede di Forza Nuova in via Filopanti. 2 dicembre A Verona, il Tribunale condanna a 6 mesi di reclusione, con la sospensione condizionale della pena, e al divieto di propaganda elettorale per 3 anni, oltre al risarcimento dei danni, 6 esponenti leghisti responsabili di una violenta campagna contro la comunità dei Sinti sfociata in uno sgombero forzoso. Sono Matteo Bragantini, Luca Coletto, Enrico Corsi, Maurizio Filippi, Barbara e Flavio Tosi. Il ministro della Giustizia Roberto Castelli attacca i magistrati esprimendo la sua solidarietà ai condannati. 2005 13 febbraio A Verona, confluiscono 10.000 leghisti per reclamare contro il giudice Guido Papalia, pesantemente attaccato per aver condannato 6 militanti veronesi (a 6 mesi, con

sospensione di pena) per ‘incitamento all’odio razziale’. Il ministro Roberto Calderoli infiamma la platea: «in nome del popolo padano condanno a ritornare sui banchi di scuola chi conosce i codici e i codicilli ma non sa cos’è il buon senso…». Su un’aiuola dei giardini di piazza Bra viene deposta una lapide tombale con il nome di Guido Papalia. Reagiscono i magistrati con una dura presa di posizione. 17 luglio Un gruppo di una trentina di ultras dell’Hellas, di estrema destra aggredisce a volto San Luca, con cinghie, coltelli e catene, alcuni simpatizzanti del centro sociale La Chimica e ferisce due ragazzi. Arrestati cinque militanti di estrema destra con l’accusa di lesioni gravi (un sesto era all’epoca minorenne). I veronesi Marco Battaglini, Alessandro Brentaro, il bolzanino Marco Cleva e i perugini Filippo Peducci e Alessio Sguilla, scontati 3 mesi di carcere di custodia cautelare, patteggeranno nel 2007. 23 luglio Durante una manifestazione organizzata dai Centri sociali per protestare contro l’aggressione di una settimana prima, un centinaio di giovani incappucciati, giunti da province limitrofe e contrastati fortemente dagli organizzatori, provoca danni ad alcuni negozi. Viene lanciata una bomba carta contro un negozio in via Roma. 31 luglio Viene compiuto un attentato incendiario alla sede de La Chimica in via Zapata. Fortunatamente le fiamme sono spente prima di compromettere la struttura. 12 settembre Un mese e mezzo di relativa calma, poi un ordigno viene fatto esplodere davanti al negozio di Alessandro Castorina, segretario provinciale di Fiamma Tricolore. 22 ottobre Aggressione di un giovane antifascista da parte di cinque neofascisti, uno dei quali da poco scarcerato per l’aggressione del 17 luglio. 23 ottobre Un simpatizzante del centro socia-

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Cronistoria le si azzuffa per strada e ferisce lievemente il proprietario del Black Brain, lo skinhead Francesco Guglielmo Mancini. 2006 28 gennaio Il Centro sociale La Chimica denuncia il lancio di una bottiglia incendiaria contro la sede. 30 gennaio Un appartenente al Csoa denuncia di essere stato aggredito al termine del concerto di Massimo Bubola da 5 giovani di destra. 4 febbraio Un ordigno rudimentale danneggia l’infisso della vetrina del negozio di Francesco Guglielmo Mancini. 22 ottobre La sede di Forza Nuova in via Filopanti viene salvata dalla pendenza verso l’esterno. Qualcuno aveva versato benzina davanti all’ingresso e appiccato il fuoco. Fosse penetrata sarebbe stato il disastro. 2007 29 giugno Una perquisizione a casa di 17 giovani veronesi è l’atto conclusivo di un’indagine della Digos iniziata mesi prima che prendeva le mosse da molti episodi che si ripetevano con modalità simili. Vengono accertati 12 pestaggi compiuti per lo più nei fine settimana in centro storico. Le tecniche di aggressione e il tipo di linguaggio porta gli investigatori a trovare una matrice comune: l’appartenenza alla tifoseria dell’Hellas e alla destra più estrema. Inoltre emerge che che vi era una sorta di leadership all’interno del gruppo, ovvero chi istigava alla violenza. A questi “bravi ragazzi insospettabili” è contestata l’associazione per delinquere finalizzata alle lesioni oltre che la violazione della legge Mancino (contro la discriminazione razziale). 18 luglio Un ordigno deflagrante è fatto esplodere contro il bar in via XX Settembre del consigliere comunale Giampaolo Beschin.

in VERONA

29 luglio Il sindaco Flavio Tosi è condannato in appello per incitamento all’odio razziale in conseguenza della campagna contro i nomadi svolta dalla Lega. 8 novembre Catene e coltelli all’uscita del Circolo Malacarne in via San Vitale a Veronetta. Il figlio del consigliere comunale Pdci Graziano Perini viene assalito e ferito da estremisti di destra, alcuni dei quali impugnano catene. Sono indagati sette giovani. 12 novembre Un nuovo attentato colpisce il negozio di abbigliamento Camelot in via Isonzo, a Borgo Trento.Una saracinesca divelta e una vetrina in frantumi, oltre a vetri sparsi un po’ ovunque sono i danni materiali. 10 dicembre Per “vendetta” dell’aggressione a Luca Perini in via Portici, nei pressi di piazza delle Erbe, viene ferito un militante di Fiamma Tricolore, noto frequentatore della curva sud allo stadio. Un’aggressione rimasta ancora senza responsabili anche se un fascicolo è stato regolarmente aperto dalla Procura scaligera. È appena salito in auto quando uno sconosciuto con una spranga gli manda in frantumi il cristallo della macchina. Lui scende ed è in quel frangente che il gruppo lo aggredisce: una coltellata lo ferisce alla gamba, sulla coscia, e poi viene colpito alla testa. 16 dicembre Tre militari, parà della Folgore, picchiati perché meridionali e tifosi del Lecce, dopo uno scambio verbale all’interno di un bar di via Mazzini «Andate via perché questa è casa nostra, questa è la mia zona... Voi siete italiani, io sono di Verona». E giù botte. Quattro i veronesi processati e condannati. Negli stessi giorni sui muri della città compaiono scritte di minaccia al segretario del Pdci Graziano Perini. 2008 8 marzo Intervenuto per invitare a desistere dei ragazzi che ne avevano ag-

gredito un altro e lo stavano brutalmente colpendo a calci e pugni, un trentaduenne della provincia viene a sua volta selvaggiamente picchiato. Si allunga così la serie di aggressioni “senza movente” sistematicamente effettuate da un gruppetto di giovani. 1 maggio Cinque giovani, successivamente individuati come Nicolò Veneri, Federico Perini, Raffaele Dalle Donne, Guglielmo Corsi e Andrea Vesentini, aggrediscono per futili motivi (una sigaretta negata) tre giovani. Nel tafferuglio resta a terra, in gravi condizioni, Nicola Tommasoli, 29 anni, di Santa Maria di Negrar. Morirà qualche giorno dopo, senza riprendere conoscere. Il processo per omicidio preterintenzionale è in corso in Corte d’Assise. 18 settembre La macelleria equina di via Ponte Pietra di cui è titolare Giuseppe Veneri, il padre di Nicolò, in carcere dal maggio 2008 per l’omicidio preterintenzionale di Nicola Tommasoli, viene semidistrutta da un incendio doloso nella notte. Pare quasi una vendetta. 20 ottobre Tre militanti della galassia anarcoinsurrezionalista, Giuseppe Sciacca, noto col nome di battaglia “Sucamorvo 22”, di 29 anni, originario di Catania, ultrà della curva nord del locale squadra di calcio (già interdetto dallo stadio), la sua compagna Nora Gattiglia, 24 anni, di Genova e la studentessa padovana Maddalena Calore 20 anni, sono fermati dalle volanti della questura di Verona che li attendevano al varco nelle zone solitamente frequentate dai simpatizzanti della sinistra più estrema. Il fermo avviene dopo che era stata individuata come “veronese” l’auto usata per fuggire dagli attentatori che avevano lanciato due bombe carta contro il comando dei vigili urbani a Parma, per vendicarsi di un atto di violenza razzista ai danni di un giovane di colore di un mese prima. 20 ottobre Il sindaco Flavio Tosi condannato nel secondo processo d’appello per

razzismo. Il giudice Maurizio Gianesini conferma la condanna a due mesi di arresto per propaganda di idee razziste a Flavio Tosi, al deputato del Carroccio Matteo Bragantini, alla sorella del primo cittadino Barbara Tosi, all’assessore provinciale Luca Coletto, all’assessore comunale Enrico Corsi e a Maurizio Filippi. I sei leghisti dovranno rifondere alle parti civili 12 mila euro per le spese di giudizio in Cassazione, che aveva rispedito a Venezia la prima sentenza di condanna. All’origine del procedimento i toni – giudicati razzisti – di una raccolta di firme per lo sgombero dei campi nomadi indetta dal Carroccio nel 2001. 2009 4 gennaio Francesca Ambrosi, 30 anni, e due amici, vengono aggrediti in Piazza Viviani da un branco di giovani di estrema destra, tifosi dell’Hellas, con cui avevano polemizzato per i cori razzisti, nazisti e inneggianti alla violenza sulle donne che intonavano. Viene colpita con un posacenere al volto. 20 gennaio Alle tre di notte ignoti sistemano un ordigno esplosivo davanti alla vetrina del circoloo culturale di estrema Destra Casapound, tra galleria Marconi e via Poloni, sfondando una vetrina. 5 febbraio Otto ultràs dell’Hellas vengono arrestati per l’aggressione a Francesca Ambrosi. Sono Federico Bonomi, 20 anni; Luca Cugola, 25 anni; Gabriele Girardi, 23 anni; Andrea Iacona, 26 anni, detto “Gomma”, militare dell’Esercito; Giovanni Nale, 20 anni; Claudio Pellegrini, 45 anni; Andrea Sanson, 20 anni ed Enrico Stizzoli, 22 anni. Nella maggior parte dei casi si tratta di studenti. Uno è impiegato statale. Gran parte di loro ha precedenti per episodi simili, in qualche caso si tratta di tifosi dell’Hellas che hanno già avuto e “scontato” un divieto di recarsi allo stadio, altri ce l’hanno in atto. Nelle settimane successive il Tribunale del riesame alleggerisce la posizione di alcuni di loro. Giancarlo Beltrame

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L’intervista mancata

Violenza a Verona

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Mercoledì 25 marzo il direttore di questo giornale ha richiesto al dott. Roberto Bolis, portavoce del Sindaco, un’intervista con Flavio Tosi, presentando in una lettera l’iniziativa del numero speciale di Verona In. Sentire il parere del primo cittadino era importante, soprattutto in riferimento al filone “politico” della violenza, anche per rispondere ad alcuni contributi giunti in redazione. Ci pareva corretto rivolgere alcune domande dirette al Sindaco, senza tanto girare intorno ai problemi, usandogli però la cortesia di fornire in anticipo i quesiti, in modo da consentire dichiarazioni meditate. Così abbiamo fatto. Qualche giorno dopo il portavoce ha detto che non avremmo potuto incontrare di persona Flavio Tosi, ma che l’Ufficio stampa del Comune avrebbe comunque provveduto ad inviarci delle risposte scritte. Da mercoledì 25 marzo a giovedì 16 aprile (sono 23 giorni), abbiamo più volte spostato la consegna del giornale in tipografia per dare il tempo di rispondere ma, nonostante i numerosi solleciti, nulla è arrivato dal Comune. Il giorno 18 aprile è stato stampato il giornale, dopo aver informato gli interessati che qualche spiegazione a chi ci legge l’avremmo comunque dovuta dare. Non vogliamo fornire interpretazioni sul perché non si sia potuta realizzare l’intervista e lasciamo che siano i lettori a farsi una loro opinione in merito. Possiamo però dire che al Sindaco erano state dedicate le primissime pagine della rivista, per il ruolo che spetta al primo cittadino; che le altre tre interviste ci sono state concesse nel giro di 24-48 ore con un incontro faccia a faccia; che i 18 giornalisti che hanno aderito all’iniziativa forse meritavano un po’ di considerazione, per quello che hanno cercato di dirci e per il fatto che si tratta di firme provenienti da mondi eterogenei e non sconosciuti, come Verona Fedele, DNews, L’Arena, Il Verona, Telearena, Radioadige, Telepace, Corriere della Sera, Il Gazzettino, Nigrizia, Combonifem... Ecco infine le domande rivolte al sindaco: – Violenza a Verona. Che idea si è fatto riguardo le cause di episo-

di come quelli di Porta Leoni e Piazza Viviani? – Esiste anche una violenza di matrice politica. Penso agli skeanheads, a Forza Nuova: ci sono stati dei reati e delle condanne. Come si pone nei confronti di queste formazioni? – Esiste una strategia destabilizzante da parte della destra estrema che mira al controllo del territorio? – Uno degli skeanheads condannati nel 2002 è Andrea Miglioranzi. Quali sono i motivi per cui lo ha scelto come capogruppo per la sua lista? – Lei stesso è stato condannato per incitamento ad atti discriminatori per motivi etnici e razziali, in seguito alla raccolta di firme per lo sgombero dei Rom. Il Flavio Tosi di oggi prende un po’ le distanze dal Flavio Tosi di ieri? Potrebbe permetterselo… – Lei è cattolico? Quali sono i valori del cattolicesimo che più le stanno a cuore? – Non pensa che una manifesta “insofferenza” verso i deboli, gli emarginati, gli extracomunitari possa generare violenza nelle persone fragili e negli esaltati? Sente questa responsabilità come sindaco? – Il solidarismo cattolico è fatto di attenzione e di accoglienza verso i poveri. Però lei passerà alla storia come il sindaco che ha fatto piazza pulita di rom, vucumprà, poveri accampati per le vie del centro... Si riconosce in questo ruolo o pensa che ci sia una strategia nel dipingerla così? – Cosa fa o pensa di fare il sindaco per gli emarginati? Forse Flavio Tosi non è solo uno sceriffo intransigente e inflessibile… – L’anno scorso ai pacifisti di Beati i Costruttori di pace non è stato concesso l’utilizzo della Gran Guardia. Non pensa che il ruolo di sindaco le imponga una considerazione diversa nei confronti di persone con le quali evidentemente non si identifica, ma che comunque si impegnano per dei valori importanti? – Il Comune ha annullato il premio Enzo Melegari... guardi che era una brava persona.

– Esiste una violenza delle parole? Penso alle frasi che spesso la Lega ha utilizzato per raccogliere il consenso. Anche qui non vede il pericolo di una degenerazione? C’è sempre qualche stupido che crede a quanto viene detto e che si lascia andare... – Dalla società civile emerge una domanda non solo di sicurezza, ma anche di pace. Come coniugare insieme le due cose e quali sono le forze che Verona può utilizzare per prevenire la violenza? – Ci sono iniziative concrete dell’Amministrazione in proposito?

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Croma Verona Registrazione al Tribunale di Verona n° 1557 del 29 settembre 2003

N° 21/aprile 2009 Progetto editoriale Proporre temi di attualità e cultura. Stili di vita per la crescita della persona. Il giornale è distribuito gratuitamente nelle librerie di Verona

www.verona-in.it

Aprile 2009




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