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F. CARDINI, Cristiani perseguitati e persecutori, Roma, Salerno Editrice, 2011, pp. 188. «Non possiamo contare i martiri». La frase con la quale Tertulliano, nel 197 d. C., ricordava la morte dei tanti cristiani, uccisi dagli Imperatori romani per non aver voluto abiurare alla loro fede, è tornata a risuonare nei nostri tempi. Nel giorno di Natale del 2010 Benedetto XVI, durante la preghiera dell’Angelus, denunciava che contro i suoi fedeli si stavano commettendo nuove stragi in Nigeria, nelle Filippine, in Pakistan, in Sudan. Soltanto una settimana più tardi il Pontefice fu costretto a tornare sullo stesso doloroso tema perché, nella notte di Capodanno, un attentato aveva fatto decine di morti tra la comunità copta di Alessandria d’Egitto. Di altri martiri oggi ci parlano quotidianamente le notizie che giungono dall’Africa settentrionale, sconvolta da quel presunto «risorgimento arabo» dove accanto a incerti aneliti di modernizzazione si agitano le pulsioni aggressive dell’integralismo islamico. L’Europa, abituata da molte generazioni a considerare che quella religiosa non fosse più una delle principali ragioni per la quale si potesse morire e soprattutto uccidere, ha dovuto prendere coscienza di questa nefasta involuzione che ha portato alla ricomparsa dell’antica «guerra santa». Dall’immenso mondo mussulmano al subcontinente indiano, all’Africa, religiosi e semplici credenti sono stati uccisi e in quasi tutti i casi si è trattato non tanto di cristiani vittime della violenza ma di vittime della violenza tali proprio in quanto cristiani. In un’epoca che conosce il «ritorno selvaggio di Dio», fatte salve alcune eccezioni, i seguaci di Cristo, al contrario, non solo non hanno mai ricoperto il ruolo dei carnefici ma, restando fedeli alla consegna di pace del Vangelo, hanno persino rinunciato a difendersi. Eppure non fu sempre così, come ci dimostra il volume di Franco Cardini, Cristiani perseguitati e persecutori. Prima ancora che il Cristianesimo divenisse, con Costantino e Teodosio, una religione di Stato, provvista di privilegi e intrisa di una forte carica di intolleranza, proprio Tertulliano aveva sostenuto il diritto d’impugnare la spada contro ebrei, gentili, eretici. Tra IV e V secolo, l’eccidio della filosofa neoplatonica Ipazia, la distruzione di templi pagani e di sinagoghe, il rogo dei libri dei grandi autori classici, le bande di monaci armati
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che, in Siria e Mesopotamia, infierirono sulle comunità contadine per obbligarle alla conversione, furono i primi episodi di questa inversione di tendenza che portò la fede cristiana a compromettersi con l’uso e l’abuso della violenza. Poi vennero i massacri dei Sassoni in età carolingia, le violenze durante le crociate in Terrasanta e la reconquista della Spagna, l’annientamento delle sette ereticali nella Francia meridionale e la lunga serie dei conflitti religiosi, tra cattolici, luterani, calvinisti che insanguinarono l’Europa fino al 1648. Nulla da eccepire a questa ricostruzione attenta, coraggiosa e tanto più coraggiosa perché ci viene da uno studioso che non può non definirsi cristiano. Resta però qualche domanda sulla collocazione di questo volume in una collana (diretta da Alessandro Barbero) che si chiama «Aculei», proprio per sottolinearne, pur nel massimo rispetto del rigore scientifico, il carattere se non provocatorio almeno controcorrente. Perché, per dirla tutta, insomma, Cristiani perseguitati e persecutori, al di là delle intenzioni di Cardini. corre, invece, il rischio di assecondare il conformismo dello spirito della nostra epoca un po’ (molto) laicista dalle nostre parti e anticristiano nei Paesi islamici. E allora, qui, s’impongono due domande scomode. Cosa sarebbe successo a uno storico che ci avesse parlato della setta ebraica degli Zeloti che, secondo le testimonianze di Flavio Giuseppe e dell’evangelista Luca, durante la rivolta antiromana del 66-70 d. C, furono gli inventori della prima forma di terrorismo non solo verso le forze occupanti ma contro gli stessi correligionari che non condividevano il loro fanatismo? Cosa sarebbe accaduto, poi, a chi ci avesse ricordato che non ieri, ma proprio oggi, nell’Islam, troppo spesso e sempre più spesso, ha ancora pieno vigore quel versetto del Corano che impone ai mussulmani «di essere nemici di ebrei e cristiani che sono amici gli uni degli altri»? Al primo, credo, non sarebbe stata risparmiata l’accusa di antisemitismo. All’altro, poi, sarebbe toccata una ben confezionata gogna mediatica per castigare la sua xenofobia e magari una condanna a morte comminata da qualche gruppo jihadista. Eppure le operazioni dei due fantomatici autori, se sviluppate correttamente, come quella di Cardini, non si sarebbero allontanate dal dovere di ogni storico e cioè quello di avvicinarsi alla verità. Solo le prime due, però, avrebbero ricevuto la sanzione dal tribunale del politicamente corretto a conferma del fatto che, almeno in Occidente, l’unico pregiudizio religioso sopravvissuto è quello contro il cristianesimo. Ogni analista del passato ha, invece, il dovere di riconoscere che tutte le religioni, e soprattutto le tre grandi religioni monoteistiche, custodiscono nel loro codice genetico un rapporto inscindibile tra sacro e violenza, senza però dimenticare di aggiungere che quel rapporto è stato differentemente declinato da alcune di esse nel loro sviluppo storico. Dal XVI secolo in poi alcuni intel-
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lettuali cattolici, come il domenicano di origine ebraica, Francisco de Vitoria, elaborarono un modello di conversione dolce che escludeva, in linea di principio, il ricorso alla forza e alla costrizione. Da questa interpretazione “umanitaria” dei diritti della fede è possibile tracciare, lungo un percorso lento, difficile, accidentato, una linea di continuità protesa fino ai nostri giorni. In occasione del Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II sostenne, infatti, che, solo ammettendo gli errori commessi nel passato e chiedendone perdono di fronte al mondo, la Chiesa avrebbe potuto affrontare la sfida dell’annuncio evangelico del Terzo Millennio. EUGENIO DI RIENZO
Mezzogiorno Rurale. Olio vino e cereali nel medioevo, a cura di P. Dalena, Bari, Mario Adda Editore, 2010, pp. 400. Gli studi di storia dell’agricoltura italiana medievale hanno registrato negli ultimi decenni un significativo avanzamento delle conoscenze. A partire dalla XIII Settimana di Studio dedicata al tema Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell’Alto Medioevo – promossa nel 1965 dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo di Spoleto – fino alla LIV Settimana dedicata a Olio e vino nell’alto medioevo, si può notare come cospicua sia la letteratura che privilegia vistosamente le aree centrosettentrionali della penisola. È quanto segnalava nel 2002 Alfio Cortonesi Agricoltura e tecniche nell’Italia medievale: I cereali, la vite, l’olivo, in A. CORTONESI, G. PASQUALI, G. PICCINNI, Uomini e campagne nell’Italia medievale, a cura di A. Cortonesi, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 191-270 che, nel tracciare un quadro di sintesi, ha valorizzato i dati acquisiti nei vari ambiti cronologici e territoriali. Poiché a tutt’oggi la distribuzione delle ricerche e degli studi non copre in modo omogeneo le regioni e subregioni italiane, risulta particolarmente significativo il contributo recato dalla pubblicazione del volume Mezzogiorno Rurale. Olio vino e cereali nel medioevo a cura di Pietro Dalena, Bari 2010. I tre settori della produzione agricola: olivicoltura, viticoltura, cerealicoltura sono approfonditi in suggestivi e ben documentati saggi. Si tratta infatti di un’opera a più mani che si avvale della collaborazione di una équipe di giovani e ben integrati studiosi, impegnati nell’Università della Calabria e guidati da Pietro Dalena. Di fatto, la storiografia territoriale sull’attività economica dei monasteri, sulla ricostruzione del paesaggio agrario e sul ruolo delle comunità rurali inse-
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diate negli abitati rupestri, ha fornito negli ultimi due decenni dati significativi, che hanno permesso un evidente avanzamento delle conoscenze oltre che sulle tecniche di coltivazione e di produzione, sui mezzi e gli strumenti di lavoro, i rapporti sociali di produzione, i trasporti e i mercati, i produttori e le clientele, i problemi delle reti di approvvigionamento. «E del Mezzogiorno questa ricerca a più mani che non può essere esaustiva per la complessità della materia e la mancanza di fonti seriali, cerca di individuare le specificità colturali, le estensioni dei terreni coltivati a vigneti, oliveti e a cereali, le tipologie produttive, le dinamiche commerciali e gli impianti di trasformazione dei prodotti – come palmenti, frantoi e mulini – che dalla fine del Quattrocento costituiranno i capitali di base dell’economia del regno». Nel saggio Olivo e olio Pietro Dalena traccia un ampio panorama della olivicoltura tra tardo antico e altomedioevo nella Campania, Basilicata, Bruzio (denominato Calabria a partire dall’VIII secolo), Puglia. Il sapiente uso integrato delle scarse fonti documentarie pervenute, consente di ricostruire un andamento che, differenziato nelle singole subregioni, si lascia ben seguire. A partire dal tardo antico, l’elemento di rottura nella tradizione colturale e nel paesaggio agrario del mezzogiorno è individuato nella sistematica distruzione degli olivi e conseguente desolazione delle campagne, esito della guerra greco-gotica (535-553). Segnali di ripresa si individuano a partire dalla metà del X secolo a seguito delle attività di dissodamento promosse dal monachesimo italo-greco, il quale avvia la trasformazione di terre incolte o boschive in coltivi arborei. Negli ultimi decenni dell’XI secolo, dopo le distruzioni degli oliveti a opera dei conquistatori normanni, il monachesimo latino, destinatario di privilegi e concessioni delle autorità normanne, fornirà un decisivo impulso alla coltivazione di piante fruttifere. Se l’alto medioevo si segnala per la scarsa produzione di olio e per la sua importazione dall’Africa, dalla metà dell’XI secolo si registra un traffico di scarsa rilevanza tra la Puglia centrale e l’Oriente (come evidenzia l’episodio della nave carica di olio incendiata nel porto di Bari). La produzione di olio, in età sveva, conosce invece una significativa tenuta, come dimostrano le transazioni e il pagamento dei debiti in olio. Pertanto l’olio, anche in momenti di flessione economica, continua a essere un bene di largo consumo e di riferimento fiscale e la Puglia risulta la maggior produttrice. È un prodotto prezioso, il cui mercato è controllato capillarmente dalla monarchia sveva e angioina, ma è anche un elemento di identità sociale e di ricchezza comune utilizzato per pagare gabelle e come bene dotale. L’agricoltura, dopo il 1280, registra una fase di stagnazione seguita da una
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sensibile depressione economica. Le operazioni militari della guerra del Vespro determinano la crisi dell’olivicoltura. La scarsa produzione è appannaggio di alcuni monasteri legati ai sovrani (in particolare Carlo II d’Angiò) che godono di protezioni e privilegi fiscali come l’esenzione dal pagamento della decima sull’olio prodotto e del dazio sull’olio in entrata e in uscita dai luoghi di produzione. Se non si conosce lo stato dell’olivicoltura a metà del XIV secolo, quando la peste seguita dalle carestie decima la popolazione europea, mentre nelle aree pugliesi si può ipotizzare ancora un relativo reddito, evidenti segni di crisi interessano la Campania e la Basilicata e si manifestano nel brigantaggio rurale In particolare la Calabria conserva, sino al XVIII secolo, tecniche desuete di propagazione dell’olivo con formazioni incolte e disomogenee. Solo nel Settecento, con l’insediamento tra Rosarno e Seminara della nuova feudalità ligure, si cominciano a sperimentare metodi razionali di coltivazione con regolari potature e concimazioni. Roberto d’Angiò (1309-1343) sollecitato dalle universitates riduce la tassazione sulla vendita dell’olio per incentivare il commercio e l’economia del Regno. I benefici fiscali concorrono ad accrescere e migliorare la produzione che viene apprezzata dai mercati ove la richiesta è in aumento per soddisfare le molteplici necessità quotidiane. A L’olivicoltura nelle fonti agiografiche italo-greche (secc. IX-XI) è dedicato il saggio di Paola Carnevale, a testimonianza di quanto questa particolare tipologia di fonti, le Vite dei Santi, sia importante per la conoscenza dei quadri ambientali. Le Vite dei santi monaci prese in considerazione – vissuti in aree differenziate della Calabria dal settentrione alle propaggini meridionali – forniscono notizie relative alle diverse realtà produttive; il lessico evidenzia l’assenza del termine olivetum fino all’XI secolo quando la coltura è reintrodotta per iniziativa di alcune comunità monastiche benedettine. La vite è la coltura antropica per eccellenza che modella un paesaggio caratterizzato da fenomeni strutturali di lunga durata e dalla fragilità intrinseca del tipo di coltivazione. La vite è infatti la coltura arbustiva che si adatta a ogni realtà pedologica del Mezzogiorno, ma è altresì suscettibile di forme di degrado dovute a eventi catastrofici come fenomeni climatici (siccità, grandinate, nevicate) o eventi bellici Alla viticoltura e alla produzione del vino è dedicata l’ampia analisi di Alessandro Di Muro, La vite e il vino che dopo aver tracciato un ampio affresco della pratica tra tardo antico e altomedioevo e, successivamente tra X e XIII secolo, esamina con dovizia di particolari le peculiarità delle diverse aree di produzione, soffermandosi con particolare attenzione sulle varie fasi della
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produzione, dalla vendemmia alla descrizione delle varie tipologie dei palmenti, agli strumenti e ai metodi di vinificazione, alle tecniche di conservazione e al trasporto. Se la Campania appare per tutto il medioevo l’area ove si sperimentano e si adottano le più svariate tecniche della viticoltura, la qualità della produzione enologica sembra trovare – a partire dal XIII secolo – aree privilegiate nella Calabria tirrenica, in Basilicata e in Puglia, oltre che in Campania, con una pratica di differenziazione dell’offerta che, anche per il tramite dei mercanti forestieri, conquista il mercato internazionale come ben testimoniano le carte geografiche che corredano lo studio. Il vino nella trattatistica, tra medicina e cucina, conclude l’ampia trattazione «Così nel Mezzogiorno medievale tra avanzate di vigneti e devastazioni cicliche, produzione di massa e consumi elitari, precetti dietetici e disagi esistenziali, rumori di taverna e fasti di corte si perpetuò incessante il miracolo discreto dell’acqua che attraverso le radici della vite si trasforma in vino. Concetto mirabilmente sintetizzato nell’espressione “frutto della vite e del lavoro dell’uomo” della preghiera eucaristica». Le linee principali di sviluppo delle problematiche relative alla produzione cerealicola e alla sua rete di distribuzione nell’ambito del Mezzogiorno peninsulare sono indicate da Francesco La Manna nel saggio dedicato a I cereali. La nascita della monarchia normanna significherà il controllo del mercato del grano considerato risorsa commerciale di importanza strategica da parte dei sovrani normanni. Ma con il regno normanno si assiste a una continua sottrazione del grano ai mercati interni, allo scopo di ottenere maggiori introiti con la vendita nei mercati esteri. Pertanto si inaugura per il Mezzogiorno un lungo periodo in cui la mancanza di grano nei mercati interni non corrisponderà necessariamente a carestie, ma a una scelta ben precisa da parte del governo. La creazione di masserie regie evidenzia la considerazione che grano e derrate alimentari avevano per l’economia del Regno e l’attenzione dei sovrani svevi prima e ancor più degli Angioini poi, alla produzione cerealicola. Con la dinastia aragonese si inaugura una nuova strategia economica rivolta ai mercati orientali. a seguito del venir meno dei mercati settentrionali in conseguenza di un miglior sfruttamento cerealicolo della Pianura Padana. Se il controllo del mercato del grano da parte delle autorità statali, dalla produzione alla vendita, determinò lauti guadagni per l’erario delle amministrazioni che governarono il Mezzogiorno, in un prosieguo di tempo rappresentò anche un limite per la sua economia. Si impedì, infatti, lo sviluppo di una classe mercantile locale, incapace di essere concorrenziale rispetto ai mercanti forestieri avvantaggiati da concessioni ed esclusivi accordi commerciali.
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Inoltre il grano e i prodotti agricoli del Regno furono al centro di iniziative di deprezzamento a vantaggio dei manufatti che i mercanti stranieri importavano e avevano interesse a valorizzare. Se gli autori dei contributi sono unanimi nell’auspicare nuovi studi che, condotti alla scala locale e in una prospettiva multidisciplinare, permettano di completare la conoscenza delle subregioni meridionali, è pur vero che molto è stato già realizzato da una illuminata politica di gestione del territorio. Penso alle iniziative scientifiche promosse negli ultimi quaranta anni dalle università di Lecce, Bari Potenza, in particolare per l’iniziativa lungimirante di Cosimo Damiano Fonseca. I numerosi, ragguardevoli incontri di studio, hanno fornito informazioni originali e dati esemplari che hanno reso i tempi maturi per intraprendere studi a livello comparativo quali quelli organizzati, per citarne solo alcuni, dal Centro di studi di San Giovanni in fiore o dalla Fondazione S. Domenico, istituita nell’anno 2001, che promuove studi e ricerche per il recupero e la salvaguardia del patrimonio ambientale e iconografico della civiltà rupestre, come testimonia il volume che pubblica gli Atti del Convegno Dall’habitat rupestre all’organizzazione insediativa del territorio pugliese (secoli X-XV), Atti del III Convegno internazionale sulla civiltà rupestre, Savelletri di Fasano (Br) 22-24 novembre 2007, a cura di E. Menestò, (Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo. 3), Spoleto 2009. Se una difficoltà oggettiva poteva risiedere nella vastità del Mezzogiorno e nella peculiarità dei diversi territori che lo compongono, il presente volume, grazie a un sapiente, integrato lavoro degli autori, offre alla riflessione storiografica materiali e dati che collocano, su basi metodologiche sicure, le prospettive di avanzamento e completamento delle conoscenze degli assetti produttivi, anche in alcune microaree marginali del Meridione. ORSOLA AMORE
M. ASCHERI, Giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (secoli XIXVIII), nella collana «Bibliotheca Eruditorum», n. 36, Stockstadt am Main, Keip Verlag, 2009, pp. XXIV, 706. La prestigiosa casa editrice Keip, nell’altrettanto prestigiosa collana «Bibliotheca Eruditorum», ospita un monumentale volume costituito da una raccolta di saggi di Mario Ascheri, su di uno dei temi che ha maggiormente catalizzato la sua attenzione in un quarantennio di ricerca, quello cioè del ruolo dei giuristi nelle istituzioni europee.
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Diciamo subito che ci vuole un certo coraggio ad affrontare una sorta di bilancio complessivo di un così lungo periodo di attività, come risulta da una raccolta di saggi, e non è infatti cosa che sia universalmente diffusa, neppure fra i più grandi maestri. È chiaro che i singoli saggi mantengono la loro personalità e il loro vigore, magari perdendo parte delle motivazioni che li hanno prodotti, dato che sono sempre in qualche misura legati a un periodo dell’autore (e talvolta a specifiche occasioni). Riproporli insieme e a distanza di anni vuole innanzitutto dire la propria disponibilità non solo a ripensarne la coerenza, ma anche a fornire una chiave di lettura per quanto possibile unitaria. È un’operazione che riesce solo a patto di operare una scelta metodologica, che sia in grado di preservare una serie di percorsi interni a una vita di ricerca, cosa che a nostro avviso riesce all’autore. I 34 saggi sono in effetti raggruppati in tre grandi partizioni, che costituiscono la prima interpretazione grossolana della loro lettura, accanto alla quale l’autore fornisce nell’introduzione altre ripartizioni e chiavi di lettura. Non potendo ovviamente seguire da vicino tutte le sfumature del “sistema” offerto dal ricchissimo volume, ci limiteremo a dare qualche cenno di un contenuto quanto mai vario e dalla lettura assai piacevole, rimandando il lettore a un approccio personale. Uno dei punti indubbiamente forti del volume è dato dal ruolo dei giuristi nella nascita e nel consolidamento delle istituzioni comunali, al quale Ascheri ha dedicato molte pagine, alcune entrate fra i testi fondamentali della storiografia giuridica sul Medioevo. Per quanto i singoli saggi siano generalmente ordinati in un tragitto dal generale al particolare, in tutto il volume si osserva una particolare attenzione al mantenimento di uno stretto legame fra singole vicende e problemi generali, che permette di non perdere mai di vista l’orizzonte più vasto anche nelle vicende più minute. Così accade appunto anche per la prima sezione del volume che propone nei primi quattro saggi un percorso per certi versi unitario, fatto da una riflessione centrata prima sui tempi precomunali, poi sulla maturità della città stato, il tutto naturalmente visto attraverso il contributo dei giuristi. Se quindi il ruolo dei tecnici del diritto può essere presentato come essenziale per lo sviluppo tanto della consuetudine, intesa come “buon diritto” e quindi base concettuale dei futuri statuti (come inteso anche nella pace di Costanza, per esempio), quanto della condizione di cittadino, anch’essa base di fronte al contado del futuro privilegio urbano (ma i saggi chiariscono quanto di questi “futuri” fosse presente già nel periodo comunale), al tempo stesso lo sviluppo dell’identità cittadina come base per una teorizzazione della piena sovranità comunale (ovviamente nell’accezione medievale del termine), deve molto alla pre-
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senza di professionisti del diritto, in grado non solo di teorizzare le nuove situazioni, ma anche di fornirne i fondamenti legali. Si tratta di pagine molto ricche, che sono entrate di prepotenza nella storiografia comunale, prendendo posizione senza esitazione in un dibattito tuttora molto vivo, che verte soprattutto intorno alle specificità dell’esperienza comunale italiana. Per proseguire l’analisi di questo ceto, che si rivela il filo conduttore di questa prima parte del volume, sono presenti altri quattro saggi che si soffermano sul ruolo dei giuristi nel funzionamento della macchina comunale durante la sua maturità. In questa parte, lasciata a margine la teorizzazione e la sistematizzazione del complesso normativo comunale, l’autore si concentra sull’effettiva presenza dei tecnici del diritto nell’amministrazione urbana, che di loro non poteva fare a meno. Presentandosi come gruppo, ma senza rinnegare le loro origini sociali, giudici e notai, formarono una parte essenziale dell’organico comunale, irrinunciabile, come mostra il caso delle città a regime popolare nei confronti dei ceti magnatizi, dai quali i giuristi spesso provenivano. D’altronde, più in generale, il processo di selezione delle magistrature nei comuni scampati a un governo signorile, necessitava dell’elaborazione di un sistema complesso che assicurasse una certa rappresentatività a tutte le componenti dominanti della società, e anche qui i professionisti del diritto seppero non solo fornire le proprie competenze per la formazione del modello, ma anche partecipare appieno alla spartizione delle cariche, in quanto componente di peso e capace di assicurare una più ampia partecipazione alla cittadinanza. La seconda sezione del volume in effetti approfondisce il problema, affrontando singole figure di giuristi, ma soprattutto proponendo l’analisi di una particolare forma di espressione degli stessi, costituita dalla letteratura consiliare (di cui si offrono anche preziose edizioni). Oltre che nella gestione della cosa pubblica, infatti, per avere un quadro a tutto tondo del ceto formato dai professionisti del diritto bisogna indugiare anche nell’attività loro propria e che più li contraddistinse, l’offerta cioè di pareri qualificati, che sotto forma di consilia sapientum o anche di glosse a testi più o meno autorevoli (dal codice agli statuti urbani), furono spesso richiesti da una variegata clientela. Molte delle figure analizzate in questa parte furono all’epoca note per questa attività, che spesso si affiancava all’insegnamento universitario, costituendo un corpus ampio e molto vario, a sua volta diventato presto altrettanto autoritativo quanto i testi a cui era ispirato. L’esame di Ascheri prende di petto proprio il problema dell’autorità che certi nomi si guadagnarono ancora in vita o anche dopo la loro morte, dando origine a tutta una serie di apocrifi che circolarono a lungo sotto mentite spoglie. Anche quando tali consilia e pareri
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furono effettivamente pronunciati dai dottori in questione per occasioni reali (e non dunque esercitazioni di scuola), la validità che essi si conquistarono fu indubbiamente molto più ampia di quanto previsto in origine nel singolo caso che li aveva motivati. È d’altronde impossibile sottovalutare questa componente dell’attività dei giuristi, che proprio dal fatto di essere gli interpreti naturali del diritto traevano una caratteristica essenziale del loro essere gruppo. Merito quindi di questa sezione del volume è di affiancare l’attività consiliare ai compiti più marcatamente amministrativi svolti dai tecnici del diritto nella realtà comunale, per restituire un quadro più completo del loro ruolo nel mondo tardo medievale. Ma vi è di più: proprio perché potenzialmente svincolata dall’attività politica, questa forma di intervento sopravvisse più a lungo, finendo per caratterizzare in maniera più duratura il ceto dei giuristi. In questo senso dunque si può vedere il ruolo del dottore in legge come uno specchio dell’evoluzione sociale – oltre che politica – dell’Italia fra Medioevo e Rinascimento. Questo aspetto è poi affrontato nella terza parte del volume, programmaticamente intitolata «Verso l’età Moderna». I saggi di questa sezione aiutano infatti a capire un ulteriore ruolo dei giuristi nella costruzione di un sistema, quello dello ius commune, dalla lunga vigenza e dagli influssi ancor più estesi. Tramontato il mondo comunale e ridimensionati i compiti in esso riservati ai tecnici del diritto, la trasformazione delle istituzioni vide ancora protagonisti i giuristi, ancorché in un ruolo meno appariscente. Lo stato di ancién régime ebbe una sua componente essenziale nel sistema del diritto fino all’imporsi delle codificazioni di epoca contemporanea. Ma, come sottolinea l’autore negli ultimi due saggi, il sistema medievale, a dispetto delle dichiarazioni di principio, non potè essere cancellato con un colpo di spugna e la sua attualità appare ancora adesso. La sua stessa diffusione, favorita dal precoce uso della stampa, influenzò il sorgente diritto nazionale in molti paesi, anche laddove lo ius commune non aveva formalmente cittadinanza. Questo percorso di ampio respiro rende dunque giustizia a una figura talvolta sottovalutata e spesso ridotta a ruoli marginali, dopo la fiorente stagione comunale. Come ampiamente dimostrato nel volume, l’interpretazione della legge fu una funzione di cui virtualmente nessun ordinamento politico fu in grado di fare a meno. Se un ruolo completamente attivo potè essere rivendicato solo in alcune circostanze, la costruzione del sistema non procedette se non con il fondamentale apporto dei giuristi. In questa rivendicazione, diffusamente giustificata, sta a nostro giudizio il primo (e non ultimo) merito del volume che presentiamo. GIAN PAOLO G. SCHARF
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«Brighe, affanni, volgimenti di Stato». Le ricordanze quattrocentesche di Luca di Matteo di messer Luca dei Firidolfi da Panzano, a cura di A. Molho e F. Sznura, Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 2010 (Memoria scripturarum, 5 – Testi storici e documentari in volgare, 2), pp. CIII-579, con 6 tavv. Un uomo, un fiorentino vissuto nel XV secolo, e le sue ricordanze: una situazione nota e un genere assai diffuso in area toscana, ma con una variante che ha complicato il lavoro degli editori e che lascia tuttora un alone di mistero. Come spiegano sino dall’Avvertenza, i Curatori erano ormai pronti a licenziare il testo, quando, in modo del tutto casuale, si sono imbattuti in un secondo e più breve libro di ricordi. Fino a questo momento – nel pur ricchissimo panorama di ricordanze che impreziosisce la documentazione fiorentina – si tratta di una situazione unica. Attraverso l’edizione integrale dei due libri e di alcuni altri documenti allegati ai manoscritti, sulla cui natura avremo modo di tornare, gli Autori ci guidano alla scoperta di un mondo di affetti domestici, di interessi familiari, di strategie politiche, mettendo in evidenza solo alcune delle molteplici chiavi di lettura che ciascuno studioso potrà poi individuare, in base ai propri interessi e alla propria sensibilità. Protagonista indiscusso è il setaiolo fiorentino Luca di Matteo da Panzano, nato tra 1389 e 1396 e morto nel 1461. È Anthony Molho, estensore del Profilo biografico (pp. XI-XXX), a farcelo conoscere, mentre Franek Sznura ci introduce più a fondo nei suoi «ricordi» (pp. XXXI-XCVIII), aprendoci letteralmente la porta di casa per mostrarcene gli interni e le suppellettili, e tentando perfino di schiudere l’animo del Nostro, per carpirne le motivazioni più intime, quelle rimaste inespresse. Grazie alla fonte – edita nel rispetto dell’originale e corredata da un agile apparato filologico – e all’acuta e sapida analisi condotta dai due studiosi, il lettore può quasi immaginarsi di entrare nello «schrittoio» della camera di Luca, coglierlo chino a studiare i documenti antichi tramandatigli e a compilare con tanta cura, quasi maniacale si direbbe, le sue ricordanze. Tra monili, suppellettili e attrezzi da lavoro come forbici e tenaglie, egli elenca alcune lucerne, un sigillo grande con l’arme della famiglia, tre calamai di piombo, «un temperatoio da penne d’avorio con ghiera d’ariento», e poi libri e carte in quantitativo tale da non essere nemmeno specificate (pp. 275-77). Alcuni erano documenti appartenuti al padre Matteo e al bisnonno Totto; altri li aveva chiesti e se li era fatti riprodurre in copia presso notai e magistrature. A questa mole di carte, che possiamo immaginare conoscesse a memoria e compulsasse sovente e con attenzione, aggiunse nel tempo un’altrettanto copiosa massa di documenti personali. Oltre infatti alla documentazione che riguardava la gestione del patrimonio immobiliare (contratti di acquisto, compra-
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vendita, divisioni dei beni, lodi arbitrali etc.) e a quella relativa alle sue attività economiche, Luca aveva allestito una sorta di “schedario”. Alcuni fogli, incredibilmente conservati ed editi nell’Appendice I (pp. 451-460), sono infatti da considerarsi alla stregua di appunti, noterelle di corredo che Luca predispose come scrittura intermedia tra la visione della ‘fonte maestra’ (Catasti, Monte delle doti, Notarile, …) e la stesura delle sue ricordanze. Secondo Sznura “la ricordanza svolge, nell’interpretazione di Luca, […] il ruolo di ‘archivio degli archivi’, di sancta sanctorum della documentazione più delicata e significativa» (p. XLIX). Lo scrupolo con cui il Fiorentino appuntò le note, creando una sorta di «sistema alfanumerico» (p. LXVII) utile a ritrovare le citazioni con estrema precisione, faceva del suo libro di ricordi un pezzo tanto importante da non rendere nemmeno necessaria la conservazione delle copie nell’archivio domestico (p. LIX). Un esempio assai significativo, evidenziato dagli Editori, è rappresentato dalla copia dei patti di liquidazione di una società commerciale che Luca aveva stretto con Benedetto Gini. Il 15 marzo 1437, quando la compagnia era stata sciolta, il Nostro non si era accontentato del documento originale in suo possesso; il giorno seguente aveva trascritto i patti nel suo libro e ottenuto che sia l’ex socio sia l’estensore della «ischritta», Alessandro di Filippo Machiavelli, li sottoscrivessero (pp. 191-93). Casi simili ricorrono spesso nelle ricordanze: oltre a quella di Luca, gli Editori hanno infatti individuato 13 mani diverse, riconoscendone 12 (si ipotizza che la grafia non identificata appartenga a un figlio). Le ricordanze coprono un arco cronologico che parte dal 1406 e arriva al 7 agosto 1461, si arresta cioè poche settimane prima della morte di Luca, avvenuta il 12 ottobre. Il libro di dimensioni maggiori – indicato come A ed edito alle pp. 3-448 – subito dopo l’intestazione e la dedica, si apre con quello che Sznura ha brillantemente definito «una sorta di big bang iniziale della sua vita, che attiva la selezione dei ricordi meritevoli» (p. XXXIV). Luca annota infatti il momento in cui, tra i 10 e i 15 anni, iniziò a lavorare e guadagnò il suo primo ‘stipendio’. Nelle oltre duecento carte di cui si compone il manoscritto, la memoria del protagonista e della sua famiglia procede poi «’a strappi’, con riprese improvvise e altrettanto repentini abbandoni dei temi affrontati» (p. XXXVII). Con un ampio ricorso al flashback, Luca continua a spostarsi tra passato e presente, trascinando anche il lettore in un viaggio virtuale attraverso sei generazioni della famiglia Firidolfi e portandolo fino al secolo XII. Un albero genealogico (l’albero di nostra disciendenzia) e le memorie scritte del bisnonno Totto, assieme ad alcune tradizioni orali raccolte direttamente dalla bocca dello zio Antonio – anche lui compilatore di un libruccio stracciato di ricordi (p. 34) –, gli permettono di elaborare un’articolata memoria familiare. Tanto Sznura quanto Molho sottolineano come la ricerca delle ori-
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gini e del passato dei Firidolfi sia un filo rosso che attraversa la narrazione (pp. XVI e LXVIII). Secondo gli stessi Editori, tra le numerose ricordanze fiorentine coeve, le memorie di Luca da Panzano sono l’unico caso finora noto in cui il recupero della storia familiare sia così marcatamente accentuato. La rievocazione del passato non occupa uno spazio a sé stante, le notizie affiorano qua e là in modo imprevedibile e spesso sono legate al patrimonio immobiliare della famiglia. Desideroso di riaccorpare per quanto possibile le proprietà che erano state dei suoi avi, Luca le aveva cercate, ne aveva studiato la consistenza e il modo di rientrarne in possesso e le aveva descritte. Una prima relazione è quella risalente al 1393, anno in cui si procedette a una divisione dei beni tra il padre e lo zio del Nostro; quindi Luca in persona compilò due elenchi (1421 e 1455) che a distanza di trent’anni uno dall’altro ci consentono di vedere quali fossero stati i suoi progressi (un terzo elenco risale al 1466). I luoghi cui è legata la narrazione sono in particolare tre. Il primo è il castrum di Panzano, sul confine tra le province di Siena e Firenze. Esso era la culla della famiglia, il luogo nel quale 300 anni prima era nata quella consorteria che poi si era divisa in tre rami: i Firidolfi da Panzano, i loro congiunti di Radda in Chianti e il ramo di Vertine (p. XIX). Il legame emotivo con quel luogo emerge proprio attraverso una parentesi in cui Luca rievoca i sogni di gloria del nonno. Dopo essersi arricchito e aver consolidato la propria posizione, lavorando come tesoriere presso alcune signorie dell’Italia settentrionale, Totto aveva manifestato l’intenzione di fortificare il cassero con opere in muratura e aveva esplicato il progetto attraverso uno schizzo di cui abbiamo notizia, ma che purtroppo fino a ora non è stato rinvenuto. Benché si rendesse conto che la stessa Firenze non avrebbe mai consentito che una località strategica fosse controllata da una sola famiglia, Luca riteneva che a ostacolare il nonno nella sua idea di trasformare il castello di Panzano nel castello dei Firidolfi fosse stata l’invidia del fratello Guccio. Quando si era inurbata, la vecchia famiglia di magnati prima radicata nel contado aveva scelto l’Oltrarno come quartiere di residenza. Fino all’inizio del Quattrocento la parrocchia di appartenenza era stata quella di S. Niccolò poi, inspiegabilmente, la famiglia da Panzano se ne era allontanata e nemmeno le ricordanze aiutano a chiarire il perché di una scelta dolorosa (anche da rievocare) e quasi sicuramente obbligata. Il terzo e ultimo luogo che ritorna insistentemente nella fonte è «la chasa grande» in cui Luca trascorse parte della sua vita. Tra 1414 e 1415 l’abitazione sita in Via dell’Anguillara, nel quartiere di S. Croce, era divenuta per Luca un simbolo e un’ossessione al contempo. Riacquistarla – dopo che lo zio Antonio l’aveva ceduta alla figlia e questa l’aveva venduta – significava recuperare prestigio e mostrarsi presenti; perderla, al contrario, avrebbe confermato il fallimento dei da Panzano. Luca vi riuscì, mostrando
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il suo ‘saper fare’, contrapposto al modus operandi dello zio che invece aveva liquidato troppo sbrigativamente alcuni affari di famiglia. Fu solo alla fine della sua vita e delle sue ricordanze, evidentemente in un momento di bilanci (il ricordo è del 2 luglio 1461 e Luca morì il 12 ottobre), che espresse in modo velato il disappunto per la conduzione degli affari curata da Antonio (p. 445). Fino al 1423, quando era morto, lo zio paterno era stato per Luca la figura maschile di riferimento. Suo padre era infatti stato ucciso a tradimento nel 1399 e questo evento drammatico ne aveva segnato profondamente l’esistenza. Il ‘riscatto’ era avvenuto 21 anni più tardi: scoperto che l’assassino si trovava a Napoli, Luca e alcuni membri della famiglia avevano arruolato dei tagliagola con cui raggiunsero la città partenopea ed eseguirono la vendetta. La descrizione dell’episodio (pp. 29-30 e 472-75) ha un ritmo incalzante, dal quale emergono i sentimenti contrastanti di risentimento, trepidazione, paura e infine sollievo. In quest’occasione il peso della consorteria si era fatto sentire: come in un gioco di specchi, Luca aveva ricordato un caso analogo avvenuto quasi un secolo prima, sempre a Napoli, nel 1346, quando alcuni membri dei da Panzano avevano vendicato un congiunto ucciso dai Gherardini (pp. 467-68). L’assenza del padre e la forte unione con la madre sono dunque un altro dei temi trasversali alle ricordanze (p. XV). Benché Mattea di Andrea del Benino si fosse risposata (dandogli un fratellastro e rimanendo vedova una seconda volta), il legame con essa e con la famiglia materna per Luca fu di fondamentale importanza. La donna – che verso la fine dei suoi giorni lo nominò amministratore del suo patrimonio – in precedenza aveva dato al figlio il sostegno economico necessario per muovere i primi passi, formarsi nell’arte della lavorazione della seta e avviare la prima attività commerciale. Partendo da una condizione non propriamente vantaggiosa, Luca riuscì a inserirsi nella vita economica e politica cittadina e a creare basi solide per sé e per i numerosi figli avuti dalla consorte, Lucrezia di Salvatore del Caccia, sposata nel 1425. Era con vanto che nel 1432 annotava nelle ricordanze l’ammissione alla Mercanzia: l’onore era duplice perché, oltre al prestigio dell’incarico, «mai fu niuno di chaxa nostra de’ Firidolfi da Panzano di detto huficio, per non esser merchatanti» (p. 140). Come ha rilevato Molho, Luca non era un mercante, ma mercantile fu il suo modo di registrare transazioni e prestiti (p. XXII) e in questa direzione furono intessute le alleanze matrimoniali e le reti di appoggio. Invece che guardare a famiglie magnatizie, per i figli scelse giovani provenienti da consorterie imprenditoriali e artigiane e in molti casi furono proprio le donne sposate a consentire ai rispettivi mariti di ‘riposizionarsi’ (p. XXIV). L’apice fu raggiunto nel 1458, quando il sensale delle nozze del primogenito fu nientemeno che Cosimo de’ Medici. I figli – verso i quali Luca cercherà di essere molto presente, a compensare il vuoto che egli aveva vis-
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suto per l’assenza del padre – hanno ruolo vivace, coinvolti precocemente sia nelle attività e nelle operazioni della famiglia, sia nella vita politica cittadina. Il patrimonio, la famiglia, l’attività politica ed economica, le relazioni sociali: questi i grandi temi messi in luce nelle ricordanze di Luca di Matteo da Panzano. Tra le righe fanno poi capolino tecniche finanziarie, strumenti giuridici, scorci di interni, oggetti di uso quotidiano e no, testimonianza di un continuo oscillare tra tradizioni signorili e cittadine. Rimane, come detto inizialmente, il forte interrogativo sulle motivazioni che lo indussero a registrare due distinti livelli di memoria, laddove il manoscritto ‘minore’ (conta una trentina di carte ed è edito nell’Appendice II, pp. 461-490) è anche quello emozionalmente più ricco. Sznura ipotizza che Luca si sentisse in qualche modo minacciato e che la doppia redazione fosse un modo per mettersi al riparo e, forse, minacciare terzi dell’esistenza di «un nucleo riservatissimo di memorie e meditazioni» (p. XLII) che volevano e potevano spiegare una trama terribile e oscura, volta a eliminare il ramo della famiglia cui il Nostro apparteneva. ELISABETTA SCARTON
JUAN GINÉS DE SEPÚLVEDA, Democrate secondo, ovvero sulle giuste cause di guerra. Testo latino e traduzione italiana, a cura e con un saggio introduttivo di Domenico Taranto, Roma-Macerata, Quodlibet, 2009, pp. 202. Il volume, che inaugura presso l’editore Quodlibet l’interessante collana Societas hominum. Materiali sulla guerra, il diritto e i rapporti tra le civiltà (direttori Vincenzo Lavenia e Luca Scuccimarra), ben si colloca all’interno di quella che oramai può essere definita “svolta internazionalistica” delle scienze storico-sociali, con l’abbandono della prospettiva Stato-centrica, e la “rivalutazione” o “riscoperta” di autori e temi molto spesso dimenticati o marginalizzati nel “canone” della storia del pensiero politico occidentale. È questo il caso di Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573), noto agli studiosi soprattutto per essere stato l’avversario intellettuale di Bartolomé de Las Casas in occasione della disputa di Valladolid sulla natura degli indios. Umanista e critico di umanisti, fine conoscitore dei Classici, della tradizione giuridica romano-canonica e, col passare del tempo, anche della Scolastica, Sepúlveda appare pensatore complesso e dalle argomentazioni non sempre lineari, e la sua vicenda umana e intellettuale risulta di grande utilità alla comprensione di alcune questioni centrali della storia della prima età moderna, sia sul versante della diplomazia europea (rapporto tra la Spagna di Carlo V e la Roma papale) che su quello del-
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l’amministrazione della composita “monarchia ispanica” (rapporto tra governo centrale e conquistadores). È dunque merito di Domenico Taranto aver messo a disposizione del lettore italiano l’edizione critica dell’opera più famosa (e controversa) di Sepúlveda, il Democrates alter, sive de iustis belli causis apud Indios, completato nel 1544, rivisto nel 1548 e rimasto manoscritto fino al 1892. L’edizione di Taranto vede la luce simultaneamente a quella (lievemente inferiore dal punto di vista filologico ed ermeneutico) curata da Giuseppe Patisso per l’editore Congedo di Galatina. La struttura del volume presenta una densa e puntuale Introduzione (pp. XI-LV), cui segue il testo latino con traduzione italiana a fronte e indicazione delle fonti a piè di pagina (pp. 1-187). Completano e impreziosiscono l’opera un indice dei nomi e dei luoghi citati da Sepúlveda (pp. 189-191), un indice degli autori e delle opere (pp. 193197) e infine le indicazioni bibliografiche (pp. 199-202). L’edizione utilizzata per il testo latino, tra le quattro disponibili a partire da quella di Menéndez Pelayo del 1892, è quella tratta dal III volume delle Obras Completas di Sepúlveda, frutto del lavoro di Angel Losada e Alejandro Coroleu (Pozoblanco, 1997), che dà conto delle diverse fasi della stesura del manoscritto a partire dai codici attualmente esistenti. Nel saggio introduttivo Taranto si muove con disinvoltura tra le fonti primarie e la più accreditata storiografia sull’autore del Democrates e il suo tempo (Méchoulan, Losada, Hanke, Lupher, Pagden, Fernandez-Santamaria), ricostruendone il percorso di scrittore e intellettuale militante al servizio della Spagna e del “vero” cristianesimo, che per lui sarebbe altra cosa rispetto sia a Lutero che a Erasmo. Trasferitosi in Italia dal 1515, Sepúlveda subì l’influenza della polemica anti-erasmiana di Alberto Pio da Carpi, e grazie a Pietro Pomponazzi si avvicinò alle opere di Aristotele, che in seguito tradusse. Sin dai suoi primi scritti, il Gonsalus seu de appetenda gloria del 1523 o forse successivo (V. Lavenia, Glorie antiche e moderne. Il Democrates di Juan Ginés de Sepúlveda, “Storica”, nn. 41-42, 2008, pp. 19-20) e la Cohortatio ad Carolum V del 1529, emerge chiaramente il tentativo di respingere la tesi dell’inconciliabilità tra cristianesimo e guerra, così come il rifiuto di considerare i valori “mondani” della gloria, della virtù militare e dell’onore, tanto cari ai Classici, come incompatibili con il messaggio di Cristo. Un tentativo, questo, che lo porterà a cercare una sintesi non sempre riuscita tra “retorica antica” e Scolastica. Nel 1535 esce a Roma il Democrates primus, un dialogo, anch’esso centrato sul tema della conciliabilità tra cristianesimo e guerra, nel quale Sepúlveda, al di là di alcuni riferimenti polemici a Lutero (e, più velati, a Machiavelli), si rivolge in realtà contro l’irenismo pacifista di Erasmo, Vives e Valdés. In questi scritti l’autore spagnolo costruisce le fondamenta del suo pen-
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siero attorno al concetto di guerra e di missione imperiale, poi sistematizzate nel Democrate secondo. Vi si ritrova, ad esempio, l’analogia tra lo straniero e il barbaro, e l’insistenza sul dovere dei sovrani di preservare anche con la violenza l’ordine naturale, ovunque esso venga violato. Al ritorno in patria (1536) Sepúlveda, nominato cronista di corte di Carlo V, cominciò a interessarsi alle discussioni sulla conquista e l’amministrazione spagnola del Nuovo Mondo, assai accese dopo le denunce di Las Casas. Lavorò al Democrate secondo a partire dal 1544, e di certo una prima versione del dialogo era pronta alla metà del 1545, ma il Consiglio delle Indie, seguito dalle università di Salamanca e Alcalà, non diede la sua approvazione per la stampa «como doctrina no sana», pertanto il testo, rielaborato nel 1548 e forse oltre, circolò manoscritto, a quanto pare in maniera abbastanza capillare se nel 1550 il suo autore sentì di dover pubblicare una Apologia pro libro de iustis belli causis, il cui linguaggio, più aderente alle esigenze della teologia morale scolastica rispetto ai lavori giovanili, non lo mise tuttavia al riparo dall’emarginazione culturale di cui era vittima in Spagna. Il problema era essenzialmente di natura politica, e per comprenderlo occorre partire dalle tesi contenute nel Democrate secondo. L’opera si compone di due libri, il primo dedicato al concetto di guerra giusta (bellum iustum), il secondo alle “colpe” degli indios e alle relative sanzioni applicabili nei loro confronti. Come nel Democrates primus, il dialogo ha due interlocutori: Leopoldo, il pacifista, e Democrate, il teorico dell’impero, che esprime il punto di vista dell’autore. Nell’introduzione Taranto individua e discute alcune problematiche interne al testo, che appaiono particolarmente rilevanti per afferrarne la complessità e comprenderne l’evoluzione anche sotto il profilo delle strategie retoriche adottate: la nozione di guerra giusta, la natura degli indios, la schiavitù naturale, la coazione a difendere Dio e la legge di natura, la coazione in nome della caritas. Un primo problema era rappresentato dal significato da attribuire al celebre passo del Nuovo Testamento nel quale si legge l’esortazione a «porgere l’altra guancia» (Matteo, 5, 29). Dichiarando (p. 15) che quel versetto costituiva un consiglio, e non un precetto, Sepúlveda era ben conscio del fatto che la cogenza del monito “pacifista” di Cristo era stata già ampiamente discussa e messa in dubbio nella riflessione teologica e politica medievale, non solo in quel monumento di diritto canonico che è il Decretum Gratiani (II, c. XXIII), sulla cui rilevanza per le argomentazioni di Sepúlveda insiste giustamente Taranto, ma anche, assai prima, nei testi immensamente influenti di s.Agostino, a partire dal Contra Faustum e dalla lettera a Bonifacio, che costituiranno dei veri e propri “pilastri” dell’edificio ideologico costruito per legittimare la guerra nel Medioevo e oltre. Del resto, non era forse possibile leggere nel
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Vangelo stesso (Luca, 14, 23) il comando compelle intrare? Il discorso teologico si fonde poi con quello giuridico, ad esempio sulla giustificazione dell’uso della violenza per legittima difesa (vim vi repellere licet), affermata da Cicerone e confermata dalla tradizione romano-canonica. Altrettanto importante era la sistematizzazione dell’intera questione de bello fatta da s. Tommaso nella quaestio 40 della Secunda Secundae, che menzionava tra le giuste cause di guerra non solo la legittima difesa, ma anche la riparazione di un torto subìto. Ma proprio qui stava la difficoltà: gli spagnoli, infatti, non avevano ricevuto alcuna offesa da parte degli indios, e pertanto non potevano invocare né la legittima difesa, né la soddisfazione di un danno arrecato. Occorreva, allora, trovare altre motivazioni per giustificare la conquista. Motivazioni che Sepúlveda cercherà nel “suo” autore, Aristotele, al quale si appellerà (passando dal riferimento alla schiavitù “naturale” a quella “civile”) anche nel momento in cui proverà, con un certo opportunismo, ad aderire maggiormente al linguaggio della Scolastica in voga nel mondo culturale spagnolo, operando quello che Giuseppe Tosi, nella recensione al Democrates di Taranto, ha definito «rimedio maldestro» («Il Pensiero Politico», 1/2010, p. 113). Riassumendo, secondo Sepúlveda la sottomissione degli indios sarebbe legittima 1) per la loro condizione di “schiavi per natura” ed esseri inferiori (homunculi); 2) per la necessità di portare loro la Parola del Signore, annunciando il Vangelo; 3) per i loro peccati contro natura, come il cannibalismo, l’idolatria e la sodomia e 4) per difendere le potenziali vittime delle loro violazioni ai principi del diritto naturale e del diritto delle genti, con particolare riferimento ai sacrifici umani. Ma queste giustificazioni della conquista non sono sempre coerenti l’una con l’altra, né sempre chiaramente argomentate. Il problema era rappresentato sia dalla nozione di “schiavitù per natura”, già posta in discussione dallo stesso s. Tommaso (che riserva a tutti gli esseri umani l’accesso al diritto naturale), sia dalla conseguente affermazione che gli indios non sarebbero proprietari legittimi delle cose e delle terre che possiedono (tesi che si appoggiava sull’autorità di Agostino, ribadita agli inizi del Cinquecento da John Major, ma nello stesso momento criticata dal cardinale Gaetano e da Francisco de Vitoria, nonché smentita dalla bolla pontificia Sublimis Deus del 1537). Posto di fronte a tali difficoltà, amplificate anche grazie all’abile propaganda di Las Casas, Sepúlveda fu dunque costretto ad «aggiornare i propri assunti e miscelarli con altre ragioni», trasformando una guerra di dominio in una guerra “umanitaria”, incrinando la perfetta adesione allo schema aristotelico (p. XLI). Ma la “doppiezza” del Democrates, come osserva Taranto, è percepibile anche nella seconda parte, quella dedicata alle colpe degli indios nel resistere agli spagnoli, e alle relative pene da imporre nei loro confronti. Dietro la soluzione «di compromesso» proposta da Sepúlveda, una via di mezzo tra la servitù e il lavoro
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stipendiato (gli indios dovevano per due terzi lavorare per l’ecomendero, e per il restante tempo coltivare i propri campi ricevendo uno stipendio), si cela infatti la particolarissima natura giuridica dell’encomienda, un istituto difficilmente decifrabile con gli strumenti del diritto all’epoca vigente (p. LI). A questo punto risulta più agevole spiegare l’insuccesso e la mancata pubblicazione di un’opera che pure era stata ben accolta da numerose personalità del mondo culturale iberico, da Diego de Vitoria, fratello di Francisco, allo stesso inquisitore generale Fernando de Valdés. Accanto al fatto che Sepúlveda non aveva compiuto studi di diritto e teologia, e non apparteneva ad alcun ordine religioso (mentre la questione dei rapporti con gli indios veniva considerata essenzialmente un problema di natura giuridico-religiosa), e il linguaggio del suo Democrate non rispettava pienamente i canoni della “Scuola di Salamanca”, allora dominante nel mondo culturale spagnolo, Taranto riconduce la “sconfitta” intellettuale di Sepulveda soprattutto all’atteggiamento ostile degli ambienti politici (p. LIII). Le tesi contenute nel Democrate, infatti, furono assai ben accolte dai nuovi proprietari terrieri delle Indie, gli encomenderos, ai quali premeva considerare i nativi come schiavi, ma proprio per questo risultavano fortemente sospette agli ambienti di corte madrileni, che vedevano con preoccupazione l’aumento di potere, ricchezze e prestigio dei governatori e dei signori delle terre appena colonizzate. ALBERTO CLERICI
C. S. MAFFIOLI, La via delle acque (1500-1700). Appropriazione delle arti e trasformazione delle matematiche, Firenze, Leo S. Olschki, 2010, pp. 394. Il volume illustra con chiarezza le diverse problematiche collegate alla fisica e in particolare alla scienza delle acque nel periodo tra il 1500 e il 1700. Questa scienza studia il moto e la distribuzione delle acque, i flussi delle correnti e la costituzione dei fluidi; cerca inoltre di risolvere questioni specifiche come, ad esempio, il deposito di materiale negli alvei, la realizzazione di condotti, canali e di macchine funzionanti ad acqua. È quindi un settore del sapere in cui si intrecciano problemi matematici, tecnici, ingegneristici, geografici e naturalistici e in cui si realizza l’incontro tra diverse professioni e diverse conoscenze. L’originalità del libro di Maffioli consiste nel mettere in risalto «l’appropriazione intellettuale delle arti meccaniche» avvenuta durante la rivoluzione scientifica. Che cosa l’Autore intenda per appropriazione intellettuale ci viene esemplificato dal caso dell’anatomista Andrea Vesalio, appunto “appropriatosi”
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delle arti chirurgiche: ci viene mostrato nel frontespizio del De humanis corporis fabrica, dove è finalmente il medico a tenere in mano gli strumenti chirurgici e i praticoni empirici sono cacciati sotto il tavolo della dissezione. Ma La via delle acque ha anche il pregio di mostrarci la complessità di questo processo: l’appropriazione intellettuale delle arti meccaniche è al contempo lettura di testi tecnici e contatto diretto con tecnici. Per fare un altro esempio, Cardano legge Erone e Vitruvio e, allo stesso tempo, incontra e conosce il fabbro ferraio milanese Galeazzo de Rubeis, geniale inventore di congegni meccanici. Parallelamente a questa appropriazione, che è quindi un «vasto movimento sociale e disciplinare» (p. X), le matematiche si trasformano. Maffioli non intende soffermarsi né sull’algebra né sugli sviluppi del calcolo infinitesimale ma vuole mostrare l’«ampliamento» e la «ridefinizione» delle matematiche: esse mutano il proprio oggetto, non si occupano più solo di astratte quantità, ma anche di aspetti qualitativi del mondo naturale difficilmente quantificabili. Maffioli chiama questo processo «recupero delle naturalità delle matematiche» e lo intende come convergente e complementare alla matematizzazione della natura pensata da Koyré: «...la matematizzazione della natura non si può scindere dal recupero della naturalità delle matematiche, e non solo perché queste ultime tornavano a occuparsi a pieno titolo di soggetti filosofici quali la materia e il moto. I matematici, trasformatisi in filosofi, dovettero anche considerare aspetti del mondo sensibile e qualitativo difficili se non impossibili da quantificare» (pp. XI-XII). L’acquisizione intellettuale delle arti e le trasformazioni delle matematiche, così efficacemente messe in luce nel volume, indicano il reale carattere della rivoluzione scientifica, che non consisterebbe semplicemente in un ritorno alla matematica e alle scienze d’età alessandrina e ellenistica come ritiene Lucio Russo in La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Milano 1996. Maffioli ritiene piuttosto che tale ritorno «non avrebbe costituito una base sufficiente per l’invenzione delle scienze galileiane e più in generale delle nuove concezioni matematiche e filosofiche del Seicento. L’appropriazione e il recupero non riguardarono solo l’antico ma anche il medievale e il moderno, e in particolare il tumultuoso mondo delle arti rinascimentali» (p. 340). In estrema sintesi, le matematiche dialogano con le arti e cementano il carattere della nuova scienza che è matematizzazione della natura e recupero della naturalità delle matematiche (p. XXI). Nello specifico, il testo si divide in sei capitoli e ruota principalmente intorno a tre autori: Girolamo Cardano (1501-1576), il medico e filosofo naturale che descrive macchine funzionanti ad acqua e riconduce i moti aristotelicamente violenti a moti naturali, ampliandone la classe e ponendo in crisi la
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distinzione tra fisica e meccanica; Benedetto Castelli (1577-1643), discepolo di Galileo, che operando una drastica riduzione geometrica dei fenomeni naturali descrive il fiume come «l’unione di infiniti parallelepipedi rettangoli di uguali volumi ma di diverse basi» (p. 83); Domenico Guglielmini (1655-1710), lettore d’idrometria allo Studio di Bologna, sostenitore della non riducibilità di alcuni fenomeni a un sostrato matematico e promotore – nel tentativo di rendere conto della loro complessità – di un recupero, oltre che della sapienza ippocratica e aristotelica all’interno di un quadro galileiano, anche della fondamentale analogia micro-macrocosmo che intende il mondo come un grande uomo e l’uomo come un piccolo universo. Maffioli intreccia le opere e le attività di questi tre protagonisti con i nomi di Leonardo da Vinci e Galileo Galilei e con quelli di autori generalmente considerati minori ma di grande interesse, come, ad esempio, Jacques Besson, matematico attento alle questioni della distillazione. Nelle vicende di questi autori, dei loro scritti e dei loro propositi, quello che è in gioco non è la metamorfosi del filosofo in ingegnere e, viceversa, dell’architetto in intellettuale, bensì il reciproco scambio e il confronto tra le diverse professioni e le differenti competenze. Il primo merito del volume consiste sicuramente nell’impostazione metodologica: ovvero nel considerare un problema nella determinatezza di un oggetto specifico riuscendo a bilanciare osservazioni specifiche (senza mai scadere nel tecnicismo) e osservazioni complessive che leggono efficacemente un lungo periodo. L’analisi di un oggetto determinato permette conclusioni di carattere più generale, come abbiamo visto, sulla fondamentale questione dei rapporti tra matematiche e scienze a partire dal Rinascimento. All’interno di un arco temporale vasto (1500-1700), Maffioli compie ulteriori delimitazioni oltre a quella tematica: si considerano le attività e gli scritti dei geometri-filosofi (delimitazione professionale), nel centro-nord dell’Italia (delimitazione politicogeografica). L’Autore inoltre apre prospettive nuove agli studiosi con il mostrare direzioni d’indagine originali, come, ad esempio, quella dei rapporti tra fisica delle acque e sapere medico-naturalistico-alchemico. In particolare, si appoggia al Promethean ambition di William Newman e discute la tripartizione ivi proposta tra conquering nature with mechanics, mimetic arts (pittura, scultura, architettura) e perfective arts (alchimia, medicina, agricoltura), dove le prime sono arti “contronatura”, le seconde imitano e non modificano la natura, le ultime ne indirizzano e sviluppano le potenzialità. Newman riconosce che la tripartizione non è rigida e Maffioli precisa: «Che la tripartizione di Newman fosse molto fluida è ancor più chiaramente messo in evidenza dell’architettura delle acque. La distinzione con la meccanica allargata non era meglio definita in
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campo idraulico che negli altri campi dell’architettura» (p. 45). Maffioli dialoga ancora con Newman quando afferma che la «scienza matematica delle acque, con Benedetto Castelli, Domenico Guglielmini e altri, finì in ogni caso col pretendere di indirizzare se non addirittura di guidare l’arte. Ci si potrebbe chiedere se questa via fosse già da tempo stata aperta in altre discipline e in altre arti. Tra i possibili esempi vengono subito in mente [...] quelli della prospettiva e dell’arte del disegno, della chimica/alchimia e dell’arte delle manipolazioni e trasformazioni della materia, della fisiologia e dell’arte medica» (p. 280). L’opera di Maffioli si conclude infatti con l’interessante approfondimento di questioni medico-alchemiche, con riferimenti alla dottrina paracelsiana dei tria prima e alla tesi di Guglielmini relativa alla formazione dei sali nei cristalli. Già nell’Introduzione l’Autore aveva sottolineato un aspetto “olistico”, intimamente legato a questo sapere medico-naturalistico, della scienza delle acque, e cioé la «...concezione del territorio e del globo terracqueo come un sistema di parti interconnesse che non vanno studiate separatamente ma nella loro integralità» (p. XIII). L’unico appunto che muoviamo a Maffioli riguarda alcune considerazioni poco convincenti su Girolamo Cardano, di certo l’autore di maggior rilievo storico e filosofico tra quelli considerati nel volume. Maffioli, seppur con molta cautela e consapevole del problema del precorrimento, cerca di legarne il nome a quello di Francesco Bacone. Ma l’appropriazione intellettuale delle arti, da parte di Cardano, avviene in accordo e non in contrasto con una visione del mondo neoplatonica, magica e panteistica. Quindi, con una battuta, si potrebbe forse dire che l’unico Bacone con il quale Cardano intrattiene legami storicamente rilevanti non si chiama Francesco ma Ruggero, frate francescano della scientia experimentalis. DAVIDE GIAVINA
R. DE FELICE, L’Idea di Europa e l’Unità d’Italia. Conversazioni radiofoniche, a cura di L. Cella e E. Malantrucco. Con un saggio introduttivo di P. Simoncelli, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 170. Mentre dall’estate del 2009 si iniziava a discutere sull’attività del Comitato dei garanti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, che in breve si sarebbe dimostrata tanto ricca di buone intenzioni quanto scarsa di risultati, un gruppo di lavoro denominato «Radioscrigno» era già impegnato nel recupero di un importante materiale praticamente sepolto nell’Audioteca della Rai. Per una fortunata ma non fortuita coincidenza, proprio ora, nel pieno delle celebra-
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zioni dedicate alla nascita della nostra nazione, questo lavoro di scavo ha dato un primo importante risultato con la pubblicazione di alcune preziose conversazioni radiofoniche di Renzo De Felice trasmesse nel 1960, dedicate all’Idea di Europa e l’Unità d’Italia. Il volume ci offre un’inedita testimonianza sulla formazione intellettuale del giovane De Felice. Un De Felice ormai lontano dalla militanza politica nelle file del Pci e dai dogmi della vulgata gramsciana che, a partire dall’immediato dopoguerra, aveva egemonizzato la riflessione sul Risorgimento, demonizzando il significato di questo processo storico. Con Gramsci, infatti, il processo di formazione unitaria dell’Italia venne sottoposto a una critica spietata basata su alcuni slogan che poi sarebbero stati ripetuti dai suoi epigoni con la monotonia di un mantra tibetano. La borghesia italiana, ostinata nel rifiutare la riforma agraria e incapace di costruire un blocco nazional-popolare. Il moto unitario, rimasto estraneo agli interessi delle masse popolari e quindi divenuto uno strumento unicamente funzionale all’affermazione del ceto imprenditoriale del Settentrione. La costruzione del Regno d’Italia, infine, come genesi dello Stato borghese che avrebbe prodotto storture politico-sociali d’ogni tipo fino all’età giolittiana per poi partorire il fascismo. Da tutto questo si arrivò non soltanto a una revisione storiografica del Risorgimento ma alla ricerca di una sua alternativa, tutta giocata in chiave ideologica, che puntava sulla soluzione democratico-radicale o addirittura socialista della questione italiana, fantasticata da Mazzini e da Pisacane, opposta a quella liberale e moderata realizzata da Cavour. La pochezza di questa interpretazione, assolutamente inconsapevole del contesto sopranazionale in cui si inseriva il nostro processo unitario, era stata paragonata da Federico Chabod (maestro di De Felice) a una narrazione favolistica «in cui l’Italia appare un po’ come una nuova Luna, mondo a sé, perfettamente isolato, capace di regolare da sé solo la sua vita». Questo stesso richiamo all’ordine era rilanciato da De Felice nella parte più interessante delle sue lezioni radiofoniche centrate sui sentimenti di ostilità e di simpatia che il nostro Risorgimento suscitò nell’opinione pubblica e nei ceti dirigenti di Francia, Inghilterra, Prussia, Russia. Sentimenti di ostilità e di simpatia mai del tutto disinteressati, ma sempre ispirati a una rigorosa Realpolitik. Nel 1821, il ministro degli Esteri britannico Castlereagh aveva dichiarato al Parlamento che l’unico, concreto obiettivo del suo governo riguardo allo sviluppo della politica italiana era quello di assicurarsi il controllo diretto o indiretto della Sicilia che avrebbe potuto costituire un avamposto militare per rafforzare il controllo strategico sul Mediterraneo. Quasi identiche parole utilizzava il suo successore, Palmerston il 10 gennaio 1861. Pur restando convinto che l’interesse britannico sarebbe stato quello «di far sì che l’Italia meridionale restasse una Monarchia autonoma piuttosto che divenire parte di un’Italia unita,
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perché un Regno separato delle Due Sicilie si schiererebbe sempre a favore della potenza navale più forte e cioè con l’Inghilterra», Palmerston concludeva che, di fronte all’inaspettato successo dell’impresa dei Mille e considerando «la generale bilancia dei poteri in Europa», uno Stato italiano esteso da Torino a Palermo, posto sotto l’influenza del Regno Unito, risultava «il miglior adattamento possibile». Nel sottolineare fortemente la dimensione europea dell’avventura risorgimentale, le pagine di De Felice forniscono un contributo importante a evitare il consistente rischio di provincialismo che aleggia, in questi mesi, sulla sua rievocazione. Per riprendere la lezione di un altro grande analista del passato, come Gioacchino Volpe, solo la capacità di mettere in luce il «grande gioco» delle forze internazionali che ci portò a essere nazione può rendere possibile, infatti, ieri come oggi, che «la storia del Risorgimento sia trattata con spirito non da “risorgimentista”, che è una sottospecie, spesso scadente, dello storico, ma da “storico” senza epiteti». EUGENIO DI RIENZO
V. DANIELE-P. MALANIMA, Il divario Nord Sud nella storia d’Italia, 18612011, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 243. Nel dibattito della Camera dei Comuni del maggio 1863, gran parte dei parlamentari presenti nell’aula arrivarono alla conclusione che il Regno Unito appoggiando l’unificazione italiana aveva commesso un gigantesco errore politico, acquistando un malcerto alleato e perdendo, allo stesso tempo, un importante partner commerciale. I dati forniti dal Consiglio del Commercio estero annunciavano un secco decremento dell’importazioni e delle esportazioni tra Inghilterra e Mezzogiorno che si erano praticamente dimezzate dal 1861 al 1862, a causa della rarefazione dei capitali circolanti taglieggiati dall’incremento della pressione fiscale e dalla repentina flessione della produzione agricola e industriale. Prima ancora di essere introdotta nella Penisola l’espressione «questione meridionale» assumeva un preciso diritto di cittadinanza fuori dai nostri confini, per indicare l’esistenza di due Italie: la prima proiettata a raggiungere i livelli di crescita dell’Europa industrializzata, la seconda destinata a permanere in una situazione di regresso, stagnazione, sottosviluppo. A distanza di 150 anni questi temi ritornano nell’importante saggio di Vittorio Daniele e Paolo Malanima, dedicato al divario Nord Sud dopo l’unificazione. Per i due autori i divari regionali del nostro Paese, assai contenuti fino al 1861, si allargarono drammaticamente nel corso del quarantennio successivo. Fino a quel momento in alcune regioni dell’Italia nord-occidentale, come Liguria e Lombardia, il prodotto
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interno era significativamente superiore alla media nazionale, ma anche nel Mezzogiorno esistevano aree di relativa prosperità. In Campania era di poco inferiore a quello lombardo, mentre in Puglia e Sicilia era analogo alla media nazionale. Una situazione di arretratezza caratterizzava certamente alcune regioni del Sud (Abruzzi, Calabria, Basilicata) ma non era superiore a quella del Veneto. La gerarchia regionale del prodotto pro capite non evidenziava ancora, dunque, la spaccatura Nord-Sud che avrebbe contraddistinto i decenni successivi. Fino al 1871, il Triangolo manifatturiero, compreso tra Torino, Genova, Milano, non si era ancora costituito. Se nel Settentrione, la Lombardia deteneva un livello d’industrializzazione nettamente superiore al resto del Paese, al Sud, quello del vasto hinterland napoletano era analogo alla media nazionale. Solo all’alba del nuovo secolo, il decollo produttivo innescò cambiamenti radicali. L’integrazione commerciale in un unico mercato nazionale e la competizione estera causarono la chiusura di molte imprese meridionali escluse da quel processo di crescita di cui approfittarono le regioni nord-occidentali meglio collegate geograficamente alla prima «comunità economica europea» che comprendeva Francia, Belgio, Germania. Il divario Nord-Sud nacque, dunque, sull’onda lunga del processo di «globalizzazione», che interessò tutto il Vecchio Continente, e non certo, come spesso ancora oggi si continua a sostenere, solo in virtù di un processo di sfruttamento volutamente promosso dal capitalismo industriale e finanziario nordista che, servendosi delle tariffe proibizionistiche del 1897, tagliò fuori il Mezzogiorno dai circuiti commerciali esteri, obbligandolo a comprare le sue attrezzature e i suoi beni di consumo. Non è possibile negare, però, che l’unificazione economica italiana, se meglio guidata politicamente, avrebbe potuto non provocare quello squilibrio strutturale che, come sostenne Nitti nel 1900, comportò «un grandissimo esodo di ricchezza dal Sud al Nord». Quel processo necessario si sarebbe potuto realizzare, infatti, in un modo diverso, così come avvenne nella Germania di Bismarck, dove un altro Paese arrivato, con ritardo e da posizioni economicamente svantaggiate, a costituirsi in Stato Nazione riuscì ad armonizzare la sua crescita, rispettando, in virtù di una Costituzione federale, le differenti peculiarità economiche e produttive di tutti gli organismi politici preesistenti. Il risultato di questo vizio genetico è sotto gli occhi di tutti. Il divario Nord Sud, che né l’età giolittiana né quella fascista riuscì a colmare, si ridusse, in modo significativo, solo durante il miracolo economico degli anni Cinquanta per riallargarsi a forbice proprio in questi ultimi decenni, compromettendo lo sviluppo globale del nostro Paese, ormai incapace di tenere testa alla velocità di marcia della scattante locomotiva tedesca e persino della traballante vaporiera francese. EUGENIO DI RIENZO
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G. PREZZOLINI, La Dalmazia, saggio introduttivo e cura di G. Brancaccio, Milano, Biblion, 2010, pp. 144. Nel suo saggio La Dalmazia, scritto e pubblicato per la prima volta nel 1915 dalla «Libreria della Voce», la Casa editrice fiorentina fondata nel 1911, Giuseppe Prezzolini, esponente di primo piano della cultura italiana del primo Novecento, tentava di chiarire i termini cruciali della questione adriatica, al cospetto della quale appariva il diretto coinvolgimento del nostro Paese: si era, infatti, nel pieno dispiegamento della storia europea del primo quindicennio del XX secolo. Il tema si presenta di particolare importanza, soprattutto per quanto concerne le oscillazioni e gli esiti incerti della politica estera italiana del tempo, al volgere di una fase intensa e in rapida evoluzione delle relazioni internazionali proprio alla vigilia della Grande Guerra. La questione viene ora opportunamente ripresa e riproposta in questa nuova edizione del libro di Prezzolini, curata da Giovanni Brancaccio, professore ordinario di Storia moderna all’Università di Chieti-Pescara. Secondo la prospettiva rilanciata dal curatore, tali problematiche hanno offerto una traiettoria peculiare della vita nazionale che, proprio nello scorcio di fine-inizio secolo, ha incrociato i destini del nostro Paese, proiettandoli verso sviluppi imprevisti della sua vicenda europea. A conclusione, infatti, dell’esperienza in chiaroscuro di Giolitti nel crepuscolo dell’età liberale, l’Italia viene posta di fronte all’emergere prepotente del problema balcanico, che tra il 1912 e il 1913 aveva assunto caratteri incendiari per l’esplosione del nazionalismo adriatico, in aperta opposizione all’imperialismo turco presente nell’Europa orientale. Da questo punto di vista, il 1915 rappresenta una svolta nella politica internazionale dell’Italia e il Patto di Londra del 26 aprile ne costituisce un solido strumento a suo sostegno. Annullando, difatti, le prerogative della Triplice Alleanza, siglata nel 1882 con Austria e Germania in un contesto internazionale che aveva visto, tra l’altro, l’Italia fronteggiare la Francia sul piano degli interessi coloniali nell’Africa settentrionale, l’Intesa, interrompendo una fase lacerante nella quale era prevalsa la neutralità rispetto all’enuclearsi repentino del conflitto, univa ora il nostro Paese proprio all’Inghilterra e alla Francia, nazioni belligeranti, e consentiva al governo italiano di entrare nel vivo della lotta agli Imperi centrali e di ottenere, a conclusione della guerra e in caso di vittoria del fronte alleato, l’attribuzione di rilevanti compensazioni territoriali, frutto di rivendicazioni risorgimentali, come poteva ben dirsi l’acquisizione delle terre irredente: la Tridentina, le due Venezie e la Giulia. Inoltre, veniva pure stabilito di assegnare all’Italia la fascia istriana, le coste settentrionali della
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Dalmazia, i porti di Zara e di Sebenico e di riconoscere diritti di natura geopolitica sull’Albania. Come ha osservato Brancaccio nel suo saggio introduttivo, la partecipazione dell’Italia alla vicenda bellica, se da un lato consentì alle due potenze dell’Intesa di neutralizzare le mire austriache sul fronte orientale della guerra, dall’altro avrebbe pure permesso al nostro Paese, a conflitto terminato, di conseguire una certa egemonia nel bacino adriatico-balcanico, nonostante le aspettative del nazionalismo serbo per il controllo geostrategico dell’intera area. Del resto, il Patto di Londra aveva previsto che la fascia costiera, comprendente i porti di Spalato, Ragusa, Cattaro, Antivari, Dulcigno e San Giovanni, fosse assegnata a Serbia e Montenegro. L’incombenza del peso panserbista su una vasta zona di influenza, dove la conflittualità con la possibile concorrenza italiana avrebbe costituito un problema politico serio e inevitabile, amplificava le riserve del moderato Prezzolini, il quale aveva duramente ammonito il movimento nazionalista interno a non esasperare una situazione già di per sé incandescente, invitandolo ad abbassare i toni nei riguardi del minaccioso autonomismo serbo. Sostenitore dell’opzione interventista dell’Italia, l’intellettuale umbro non era, tuttavia, il solo a scagliarsi contro le manifestazioni più becere dell’onda imperialistica italiana, proprio lui che si era tempestivamente dissociato da iniziali simpatie per il nazionalismo più spinto. Brancaccio ricorda, infatti, come pure Salvemini, dal versante dell’interventismo democratico, sostenesse l’esigenza di mantenere relazioni di pace stabili e durature con la Serbia e gli Slavi del Sud, nell’assoluto rispetto di una conquistata indipendenza nazionale, che faceva il paio con l’analoga tradizione del Risorgimento italiano, e allo scopo di non alterare nei Balcani equilibri ancora precari e non del tutto definiti. Salvemini era inoltre convinto che una Dalmazia tutta italiana avrebbe significato l’aggravarsi delle fratture all’interno del mondo etnico-religioso slavo, in particolare tra la Croazia cattolica e la Serbia ortodossa, rendendo i Balcani una temibile polveriera. In questa ottica, al pari di Salvemini e di Gentile, Prezzolini, memore della lezione mazziniana auspicando un Adriatico pacificato e neutralizzato, esortava la nazione italiana a ritrovare nella partecipazione al conflitto le ragioni della propria rigenerazione morale e politica, naturale prosecuzione della battaglia del Risorgimento, interrottasi bruscamente sulla strada angusta del trasformismo liberale. D’altra parte, era questa una posizione che confermava quanto fosse diffuso tra non pochi protagonisti della vita politica e culturale del tempo un certo spirito antigiolittiano. Ma in particolare per Prezzolini la questione dalmata si poneva come uno dei nodi centrali del problema adriatico e continuava a mettere in luce la persistenza degli interessi italiani sul fronte dei Balcani. La sua preoccupazione,
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in realtà, era quella di evitare che la Dalmazia, oggetto delle interferenze italiane, potesse trasformarsi in un ennesimo insuccesso per la nostra già fragile politica estera, dopo la cocente delusione della conquista libica nel 1911, dove “un immenso patrimonio di denaro e di energie, che oggi farebbe gran gioco” (p. 119) era stato sprecato senza incamerare alcun «vantaggio, economico, sociale, strategico, diplomatico» (p. 118). E qui aggiungeva: «Sotto certi aspetti, militare e diplomatico, ci ha anzi reso più difficile il cammino» (ibidem). Il fatto di porre sullo stesso piano la vicenda della Libia e la questione dalmata voleva dire, per Prezzolini, sottolineare non solo un’errata visione della strategia internazionale del nostro apparato diplomatico, ma anche la ferma denuncia della proposta aerea e astratta del nostro nazionalismo; quella, cioè, di una Dalmazia storicamente dipendente da Venezia e sottoposta per un lungo periodo alla sua influenza culturale e sociale, con una consistente presenza italiana e con la diffusione del bilinguismo soprattutto sulla costa. Alla luce di simili diritti attribuiti da una storia plurisecolare, le terre dalmate, secondo l’ostinata opinione dei nazionalisti italiani, dovevano essere rivendicate dall’Italia. Il Patto di Londra sembrava avviare il nostro Paese verso questa via. Ma, pur riconoscendo alla Dalmazia – come ricorda lo stesso Brancaccio – un valore geostrategico fondamentale per il controllo dell’Adriatico (Introduzione, p. 32), Prezzolini si poneva, a ogni modo, a strenua difesa della completa autonomia politica di quel territorio, basata sulla creazione di un Parlamento libero, di una propria legislazione e di un bilancio nazionale. In altri termini, emergeva l’obiettivo di fondo per la fine risolutiva della questione adriatico-balcanica: la ricerca, cioè, di una politica di pace con la Serbia e la Croazia, ambedue depositarie di una grande civiltà, il cui ruolo era servito non solo da volano dell’identità nazionale, ma pure come modello per una borghesia colta, protagonista di una produzione letteraria di respiro internazionale. Al di là, quindi, di pertinenti motivi di carattere politico-strategico, che inducevano Prezzolini a rivendicare una sostanziale indipendenza della Dalmazia nei confronti dei propositi egemonici e aggressivi del nazionalismo italiano, anche ragioni di carattere strutturale intervennero a tenere in debito conto gli aspetti orografici di quella regione, non peraltro particolarmente favorevoli, data la natura carsica del territorio e la scarsità d’acqua, che – a suo avviso – rendevano la Dalmazia assai poco attraente nell’eventualità di flussi migratori provenienti dall’Italia. Naturalmente, i trattati firmati immediatamente dopo la fine della Grande Guerra, che avevano registrato per l’Italia un’evidente insoddisfazione, poi sfociata nel mito in parte giustificato della vittoria mutilata, contribuirono a segnare la sorte dell’area balcanico-adriatica. Il Trattato di Rapallo, siglato il 12 novembre del 1920, che stabiliva per l’Italia e la Jugoslavia l’obbligo di
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uniformarsi alle clausole di Versailles e del Trianon, riconosceva al nostro Paese, anche in relazione a quanto previsto dal Patto di Londra e ai relativi compensi nella penisola balcanica, la città di Zara e le isole di Cherso, Lagosta, Lussino e Pelagosa, mentre alla Jugoslavia era toccato il resto della Dalmazia. Con la chiusura di tale accordo, che comunque lasciava nuovamente all’asciutto gli ambienti agguerriti dell’estremismo nazionalista italiano, nel primo ventennio del Novecento poteva dirsi senz’altro conclusa la vicenda della politica estera italiana nell’Adriatico. La profonda crisi sociale, che tra il repentino crollo dello Stato liberale e l’avvento del fascismo tenne stretta in una morsa l’Italia del dopoguerra, contribuì ad accantonare le premesse italiane per la soluzione della questione adriatica, quantunque lo smacco della vittoria tradita a Versailles continuasse ad agitare il nostro mondo politico. Nel 1964 Prezzolini tornò a occuparsi della questione dalmata in un saggio pubblicato in due riprese su «Il Borghese», dal titolo Tommaseo panslavista, facendo riecheggiare qui il nome di uno dei più grandi scrittori dalmati, tra i più tenaci sostenitori del movimento panslavista. Nello scritto Prezzolini ricordava come il Tommaseo si servisse della lingua italiana perché fortemente attratto dalla cultura italiana, senza per questo risultare fautore dell’assorbimento della Dalmazia da parte dell’Italia. Anzi, sotto tale profilo questi rimase un assertore convinto della suprema valenza del popolo dalmata, a cui finì per attribuire l’importante missione intellettuale e civile di mediare fra le genti slave e di opporre alla civiltà corrotta degli europei occidentali quella sana e primitiva dei popoli slavi. MARCO TROTTA
P. RUGAFIORI, Rockfeller d’Italia. Gerolamo Gaslini imprenditore e filantropo, Roma, Donzelli, 2009, pp. 206. Il libro di Rugafiori rappresenta un paradossale caso di rifiuto, da parte del committente, di un’opera di studio e ricerca di prim’ordine, che ha giustamente suscitato commenti molto favorevoli non soltanto all’interno della ristretta comunità degli storici. In esso l’Autore traccia la biografia di Gerolamo Gaslini, significativa figura d’imprenditore del settore oleario nota soprattutto per la fondazione del grande ospedale pediatrico genovese, con una prosa la cui sintetica limpidezza si accompagna a una notevolissima profondità di analisi. Di fronte alla deprecabile tendenza a considerare la chiarezza espositiva e la cura del testo qualcosa di non intrinsecamente legato al mestiere dello storico – per voler tacere di certa logorroica incapacità a comprendere che il
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valore di una ricerca non viene segnato sulla bilancia – questo libro merita senz’altro una lode particolare. Le ragioni per cui esso sia stato rifiutato dal committente non mi riguardano, sebbene temo di dover supporre che fosse troppo scientificamente rigoroso per poter davvero servire a un malinteso intento celebrativo. Rugafiori dice pochissimo della vicenda umana di Gaslini, evidenziando come manchino gli essenziali riferimenti documentali affinché uno storico ne possa parlare. Inoltre, nel perseguire una biografia incentrata sull’idea che la corretta chiave interpretativa sia quella di una sostanziale continuità e complementarietà fra l’attività imprenditoriale e quella filantropica, l’Autore mette in evidenza aspetti che un’ottica semplicisticamente encomiastica vedrebbe come lati oscuri in contraddizione con la figura di un paladino della salute dell’infanzia. Mi affretto ad affermare che è una fortuna che il libro non si presti a essere usato come strenna d’occasione. L’ampiezza e l’accuratezza della ricerca archivistica, che non si limita al pur importante contenuto delle carte Gaslini, ma che abbraccia numerosi altri archivi (specialmente quelli delle banche e delle camere di commercio, oltre a fonti più note come l’Archivio Centrale dello Stato o quello dell’arcidiocesi di Genova), offre risultati importanti e precisi grazie al rigore metodologico con cui è stata condotta. Se è vero che le note, a volte, sono fin troppo “leggere”, non vi è nulla che non sia solidamente ancorato al documento, è sempre percepibile il grado di sicurezza con cui viene tratta una data conclusione e vi è un certosino lavoro di correlazione d’informazioni spesso molto frammentarie, come nel caso della ricostruzione dell’andamento e dell’evoluzione delle società di Gaslini, dove l’Autore si giova di un’importante appendice statistica elaborata da Roberto Tolaini e mostra la propria padronanza delle nozioni di tecnica bancaria e scienza delle finanze. Rugafiori riesce così a ricostruire l’azione imprenditoriale di Gaslini, che – dalla fine degli anni Venti alla Seconda guerra mondiale – evidenzia una forte tendenza alla crescita e all’espansione anche fuori dal settore oleario (in particolare le attività bancarie e immobiliari). Viene individuato pertanto un consistente gruppo conglomerale, secondo il concetto mutuato da Enzo Rullani, formato da società formalmente autonome ma nei fatti totalmente dipendenti da un piccolo vertice informale costituito da Gaslini e i suoi fiduciari. Un gruppo, quindi, sfuggente, privo di quella struttura piramidale atta a minimizzare la partecipazione diretta da parte della proprietà e la cui evoluzione mal si presta a interpretazioni di tipo monocausale. Le chiavi di questo successo vengono individuate nell’investimento in tecnologia di processo proprio durante gli anni della crisi, nella razionalizzazione della base produttiva, nella solidità della struttura commerciale e nell’abilità di Gaslini di stabilire rapporti positivi e favorevoli con le autorità fasciste nel contesto del vincolismo economico degli anni Trenta.
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Le relazioni col fascismo e il rapporto personale con lo stesso Mussolini sono il primo “lato oscuro” di Gaslini. Si tratta innanzitutto di attività lobbistiche funzionali agli obiettivi imprenditoriali, che passano attraverso il sostegno alle istituzioni dello stato e del regime e la capacità di argomentare le proprie ragioni in sintonia con la politica del fascismo. Vi è poi una dimensione più profonda: Gaslini trova nell’immagine che Mussolini proietta di sé la conferma del proprio profilo imprenditoriale, ovvero capo d’azienda autocratico il cui potere ha giustificazione nella capacità personale e nella totale dedizione a un’impresa con le cui sorti vi è totale identificazione, vissuta come responsabilità e dovere. Questo profilo non era così raro fra gli industriali dell’epoca e Rugafiori avverte che non è possibile affermare che tale consonanza si traducesse in scelte imprenditoriali basate su suggestioni fasciste. L’altro “lato oscuro” è quello di un’evasione fiscale praticata con sistematicità. L’Autore stima che gli utili realizzati fra 1927 e 1942 ammontino a circa 535 milioni di lire a valore costante a fronte dei 37 dichiarati a fini fiscali. Gaslini non avvertiva la contraddizione fra una pratica di affari spregiudicata e un agire filantropico dalle forti motivazioni etiche? La risposta sembra negativa. Innanzitutto perché tali pratiche erano comuni e ampiamente tollerate: Gaslini può permettersi nel 1936 di consegnare di sua iniziativa all’amministratore delegato della COMIT, Michelangelo Facconi, i propri bilanci “neri” perché tutti sanno, a partire dalla Banca d’Italia, e il suo credito è fondato sulle cifre reali e non su quelle ufficiali; il mondo imprenditoriale cui Gaslini appartiene tende a vedere nell’evasione fiscale una sorta di meccanismo di autodifesa, del resto consentito da una normativa che permette le manomissioni ai bilanci non stabilendo criteri stringenti; infine le attività discutibili come l’evasione vengono “redente” dal fatto che i proventi non sono sperperati nel lusso, bensì reinvestiti nelle imprese e in attività che vanno a favore della società. Se insomma Gaslini è figlio del suo tempo, il suo caso è importante perché permette allo storico di analizzare in ragionevole dettaglio pratiche elusive di cui, per ragioni ovvie, difficilmente si dispone di documentazione. Gaslini non fu la versione italiana di Rockfeller, come sostenne la stampa contemporanea: egli donò in vita il suo intero patrimonio non allo scopo di migliorare in tarda età la propria immagine, ma per realizzare con criteri di efficienza imprenditoriale la propria decisione, risalente già probabilmente al 1921, di creare un grande centro pediatrico polifunzionale che, oltre alla cura, garantisse anche l’attività di ricerca e di formazione del personale. Di fronte alla farragine e alle inadempienze del settore pubblico, Gaslini decide di donare le sue sostanze a una fondazione ibrida, ente di diritto pubblico che dirige aziende private, di cui è presidente in perpetuo. In questo modo si troverà a capo del “suo” ospedale e a presiedere ad attività industriali non più
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sue, i cui profitti sarebbero serviti a garantire la vita di una istituzione no profit. Un modello unico nel panorama italiano dell’epoca per rendere funzionale e redditizio un ente pubblico di assistenza, le cui ragioni vanno ricondotte all’etica e alle convinzioni del donatore e non a motivazioni di tipo strumentale. Mentre Gaslini si dedica a questo obiettivo, la situazione delle sue imprese va aggravandosi proprio quando l’Italia vive la crescita e il boom industriale. Se questo andamento accomuna anche altre società alimentari, Rugafiori individua la ragione principale in un disarmo imprenditoriale che va ben oltre le nuove esigenze imposte dalla Fondazione. Il fatto è che in Italia si sta affermando un mercato di massa dove grande importanza assumono la pubblicità e il marketing del prodotto e Gaslini questo non lo intuisce. In un sistema di governo dell’impresa fortemente accentrato, privo di ricambio al vertice, ciò determina effetti molto gravi. Infine, il libro ci spinge a credere che anche per un Gaslini ormai anziano e malato l’ospedale non fu un modo per guadagnarsi un posto in Paradiso, ma una nuova sfida che si pose prima che la sua vita avesse termine. Rugafiori parla di influsso non lineare della Chiesa su un Gaslini comunque sempre geloso della propria autonomia, di un uomo il cui sentire religioso non lo porta a essere un praticante più assiduo e che non intendeva la sanità come un atto di beneficenza, bensì come diritto alla salute nell’interesse della società. Semmai l’impressione che si ricava è che fosse la Chiesa, in particolare il cardinal Siri, ad avere uno speciale interesse per la famiglia Gaslini, in modo da poter entrare in un ente che operava in un suo tradizionale ambito d’intervento. Dubito che l’Autore possa aver preso “sportivamente” la decisione della Fondazione Gerolamo Gaslini di non promuovere la pubblicazione della sua ricerca e il conseguente ritardo di tre anni: penso però gli sia stata di sostegno la consapevolezza di aver prodotto un’opera di storiografia di alto livello, che offre importanti risultati scientifici senza per nulla sminuire la figura dell’uomo di cui si occupa. MAURO ELLI
G. ZAZZARA, La storia a sinistra. Ricerca e impegno politico dopo il fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 208. Il volume di Gilda Zazzara sostiene una tesi difficilmente condivisibile e anzi del tutto erronea. Secondo l’Autrice, solo dopo il 1945 e grazie all’opera d’intellettuali e politici del Pci e del movimento azionista «gli studiosi italiani riuscirono a sviluppare con la politica un rapporto peculiare e complesso, che accompagnò la gestazione di una nuova e autonoma disciplina storiografica:
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la Storia contemporanea». Nulla di più inesatto di questa ricostruzione, se si pensa che fin dal 1917 la «Nuova Rivista Storica», fondata da Corrado Barbagallo, iniziava le sue pubblicazioni con una serie di articoli dedicati a esaminare le conseguenze politiche, economiche e sociali della Grande Guerra e che, anche prima di quella data, altri grandi maestri, compreso lo stesso Croce, si cimentarono con l’analisi della «storia recente e recentissima». Il 16 gennaio 1906, infatti, Gioacchino Volpe proponeva a Salvemini di creare una rivista destinata ad allontanarsi «dai lavori in cui l’erudizione sia scopo a se stessa, per agitare invece questioni larghe e vitali che riguardino i problemi della epoca nostra». Il 30 aprile 1918, poi, Volpe presentava a Croce il suo progetto di una storia della Grande Guerra da intendersi come primo esperimento di una Storia dell’Italia contemporanea che poi avrebbe dato luogo alle grandi sintesi dell’Italia in cammino. L’ultimo cinquantennio (1927) e di Italia moderna (1949-1952). Penso che tutto, in fondo, dipenderà dal trovare un manipolo di studiosi seri, un po’ affiatati spiritualmente, persuasi dell’utilità di conoscere e far conoscere bene, studiando la guerra e i precedenti e i connessi e annessi suoi, l’Italia moderna. L’Italia di oggi, appunto, che, in questo sforzo di guerra, si rivela in ogni sua parte, mette allo scoperto ciò che era nascosto, ci presenta vivo e frammentario ciò che noi sapevamo per sentito dire o per intuizione approssimativa, ci permette di intender meglio tutta la storia d’Italia del XX secolo. Se questo manipolo di studiosi si troverà, se da ognuno di essi uscirà fuori uno studio coscienzioso sopra taluni aspetti dell’Italia contemporanea (poiché nella guerra italiana c’è tutta l’Italia), noi non diremo di aver la storia della guerra, che deve essere opera unitariamente concepita e scritta, ma avremo dei saggi storici: e non saranno inutili per la coltura e la educazione nazionale nostra e per una miglior conoscenza dell’Italia fra gli stranieri. Non vi dirò qui tutto il piano del lavoro, come io lo concepirei. Vedo uno studio su Italia e Francia nell’ultimo cinquantennio (rapporti politici, rapporti di coltura, francofilia italiana, legami di partito, nostra accettazione di ideologie francesi, ecc., ecc.); altri di egual numero, su Germania e Italia, Inghilterra e Italia; su I problemi balcanici e adriatici dell’Italia nell’ultimo cinquantennio; su la Formazione e sviluppo della coscienza nazionale italiana nei paesi politicamente non italiani; su Il papato, la chiesa e il clero italiano di fronte alla guerra italiana; su La guerra e le maestranze operaie; su L’opinione pubblica dei paesi amici, neutrali, nemici su l’Italia durante la guerra; su Gli Italiani all’estero (gli emigranti) e la guerra nostra, ecc. ecc. E poi una ricostruzione degli avvenimenti ottobre-novembre 1917 (non come storia militare ma come crisi italiana, dell’esercito e del paese, come reazione dell’opinione italiana ecc.), una serie di profili o medaglioni degli uomini che meglio hanno rappresentato in questi tre anni l’Italia in guerra, che meglio hanno operato, che meglio incarnavano certe capacità nuove
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o riaffiorate ora del nostro popolo. Nessuno si illude di poter dar giudizio storicamente esatto in ogni sua parte su questi avvenimenti che ora ai nostri occhi si presentano più o meno grandi o più piccoli di quello che non sono in realtà, di quello, cioè, che non si presenteranno di qui a 10 o 20 o 50 anni, a svolgimento compiuto o avanzato. Ma intanto si raccoglieranno e si sistemeranno materiali storici (per quel tanto che le due operazioni del raccogliere e dell’elaborare sono distinte e possono farsi da distinte persone) e si darà una prima valutazione dei fatti: la quale per un verso sarà più imperfetta di quella che sarà data fra 50 anni, ma per un altro avrà certe condizioni di superiorità…
Questo progetto di public history interessava, non solo Volpe e la sua scuola, ma l’intera generazione storiografica della prima metà del Novecento, senza distinzioni di partito e d’ideologia: da Salvemini a Salvatorelli a molti altri. In tutti loro era forte il senso di una mission: fare della storia lo strumento dell’apprendistato politico-civile della nazione. Di qui l’attenzione a dibattere temi d’interesse generale e di attualità contemporanea e a realizzare nuove forme di comunicazione storica estese a un pubblico sempre più ampio. Nella primavera del 1941, nasceva la rivista «Popoli» diretta da due allievi di Volpe, Federico Chabod e Carlo Morandi: un periodico di alta divulgazione che, nell’editoriale di apertura, si rivolgeva direttamente al lettore, dichiarando di voler contraddire il luogo comune, secondo il quale «le persone, pur intelligenti e colte, ma non specializzate in questa o quella branca del sapere, devono starsene fuor dalla porta del tempio, dove i sacerdoti – cioè gli specialisti – celebrano in gran segreto i loro riti misteriosi». Per raggiungere tale obiettivo, la storia doveva trasformarsi in indagine del presente, in grado di dare conto della situazione economica e strategica dei grandi sistemi geopolitici (i Balcani, il Medio Oriente, il Pacifico) investiti, assieme all’Europa occidentale, dalla tempesta del secondo conflitto mondiale. Tutto questo doveva avvenire, comunque, senza tradire il primo dovere del mestiere di storico e cioè l’obbligo di impegnarsi in un lento e faticoso approssimarsi alla verità dei fatti, senza lasciarsi condizionare dai pregiudizi dello sciovinismo nazionale o da quelli di classe. Si trattava di una lezione del tutto opposta a quella di Gramsci che, nei suoi Quaderni, intendeva fare dello studio del passato uno strumento di immediati interessi pratici destinato a eliminare ogni diaframma tra coscienza storica e azione di partito. «La storia» – aveva scritto Gramsci – «ci interessa per ragioni “politiche” non oggettive sia pure nel senso di scientifiche», perché la conoscenza di un fenomeno storico deve essere soprattutto funzionale all’analisi del presente e limitarsi a fornire «una certa verosimiglianza alle nostre previsioni politiche». Considerate queste premesse, il lavoro storiografico, nel suo complesso, doveva fatalmente
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ridursi, quindi, a costruzione del «mito politico», a ortodossia interamente dominata dal settarismo ideologico. Di questa inclinazione che avrebbe caratterizzato la sinistra storiografica fino ai nostri giorni, il volume della Zazzara ci offre un panorama ricco, articolato, ma in fin dei conti tendenzioso e sviante. Secondo l’Autrice de La storia a sinistra lo stesso Togliatti avrebbe posto fine a tale orientamento, già nel 1954, censurando quelle posizioni culturali oltranziste che potevano avvalorare «la calunniosa opinione che per noi non esiste verità scientifica ma solo il comodo politico». In realtà il dettagliato rapporto presentato da Gastone Manacorda (allora direttore della rivista «Studi Storici» edita dall’Istituto Gramsci) alla Commissione cultura del Pci nel 1962 dimostrava come quella forza politica non avesse rinunciato alle sue tradizionali tendenze dopo l’intervento del «compagno Ercoli». Gli Appunti per una discussione sulle tendenze della storiografia italiana costituivano, infatti, una violenta requisitoria contro la corrente «tradizionalista» della storiografia italiana del secondo dopoguerra accusata di essersi arroccata nella difesa di «un eclettismo ideologico teorizzato come garanzia di “scientificità”», per difendere il vecchio feticcio dell’autonomia del sapere storico. Significativamente, nel memoriale di Manacorda non mancavo attacchi ad personam contro esponenti della storiografia liberale come Rosario Romeo, nei cui lavori, si affermava, «il legame ideologico col neocapitalismo è evidente e perfino ingenuamente scoperto, tanto che vi si può riconoscere un caso esemplare di subalternità all’assetto economico dominante». Con quella frase, Romeo era sbrigativamente etichettato come “nemico di classe”, soltanto perché capofila del «blocco culturale moderato» responsabile di ostacolare il «movimento a tendenza egemonica portato avanti dalla giovane guardia della storiografia progressista». Questa politicizzazione dell’analisi del passato arrivò al punto di pretendere di riservare lo studio della Resistenza ai soli militanti antifascisti. Il “Comitato centrale” dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia, egemonizzato dal Pci, teorizzò, infatti, che «questa storia può farla solo chi l’abbia vissuta: uno studioso che pretenda di scriverla dall’esterno può portare il severo abito mentale del clinico, ma non l’attenta e comprensiva intelligenza di chi solo per averle vissute può intendere le condizioni di pressione e di temperatura nelle quali i fatti si sono prodotti». Contro questo zdanovismo storiografico, che oggi è ancora lontano dall’essere scomparso (si pensi alle maramaldesche aggressioni, verbali e non solo verbali, contro i volumi di Giampaolo Pansa), reagì con forza Leo Valiani in una lettera a Renzo De Felice, inviata nel giugno del 1967, dove si riconosceva l’impossibilità di analizzare il recente passato, basandosi sulla memoria auto-
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biografica dei protagonisti ai quali mancava il necessario distacco critico. «Tutto quello che possiamo fare noi che abbiamo necessariamente ancora una certa posizione passionale nei confronti del fascismo», sosteneva il vecchio oppositore di Mussolini, «è invece segnalare agli studiosi quel che sappiamo per esperienza sofferta», mettendoli in guardia dalle testimonianze dei reduci della guerra civile che «sono troppo spesso ingannevoli e anzi costruite ad arte allo scopo di trarre in inganno». Recensendo il volume acerbo e spesso molto pretenzioso della Zazzara – la quale dimostra di ignorare completamente le recenti, importanti biografie di «maestri» come Volpe, Cantimori, Romeo, De Felice – Paolo Mieli sul «Corriere della Sera» ha parlato di una meritoria opera di disvelamento di quella che fu l’operazione egemonica del Pci e del suo Apparatnik culturale in questo campo di studi. La mia opinione è, invece, nettamente contraria. La storia a sinistra rappresenta al contrario una subdola e acritica operazione di apologia e di mascheramento di quell’egemonia, ormai sul punto di tracollare definitivamente, alla quale, dispiace, che una giovane studiosa si sia supinamente prestata al tentativo di costruire una nuova vulgata aggiornata allo spirito dei tempi. EUGENIO DI RIENZO