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Le difficili promesse sociali dello sport

Dall’ONU all’Unione Europea sono in tanti a ritenere che lo sport sia decisivo per costruire una società migliore. Ma lo sport è in grado di incidere effettivamente sulla realtà o le sue potenzialità sociali sono solo un’illusione?

di Andrea De Pascalis

Qualche tempo fa un’organizzazione educativa francese, la Ligue de l’ensegnement, ha lanciato un interrogativo pesante: lo sport è davvero in grado di mantenere le sue promesse sociali? Domanda di senso, visto che sono sempre più numerose le istituzioni nazionali e internazionali che dicono di fare affidamento sullo sport per costruire civiltà.

Cosa promette lo sport?

Prima di parlare di promesse mantenute o tradite, occorre focalizzare quali siano queste promesse. Senza generalizzare, guardiamo a ciò che è scritto nel famoso

“Libro bianco dello sport europeo” (2007). Lo sport è uno strumento da cui ci si attende che promuova: - democrazia e partecipazione (cittadinanza attiva); - formazione e istruzione; - integrazione e coesione sociale; - educazione e salute (prevenzione delle tossicodipendenze, contrasto dell’obesità..); - rispetto per gli altri, in primis le minoranze; - pari opportunità; - cooperazione tra individui e tra gruppi; - rispetto delle regole (delle leggi); - volontariato e senso della solidarietà; - contrasto a violenza, razzismo e xenofobia.

Cosa ci regala lo sport?

Per rispondere a questa domanda è possibile attingere a diverse ricerche che hanno prodotto verifiche sperimentali dei benefici che lo sport apporta alla collettività in questo o quel settore. Su tutte vi sono le valutazioni dell’impatto dello sport sulla spesa sanitaria. Si prenda la cosiddetta emergenza obesità. L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) osserva: “La spesa sanitaria per una persona obesa è superiore del 25% a quella per una persona con peso normale, e i costi crescono in maniera esponenziale con l’aumentare dei chili di troppo... Nella maggior parte dei paesi OCSE, l’obesità è responsabile di circa l’1-3% della spesa sanitaria totale (5-10% negli Stati Uniti)”. È dimostrato che l’attività fisica e sportiva, unitamente a un’alimentazione corretta, abbassando l’incidenza dell’obesità, allunga l’attesa di vita e taglia la spesa sanitaria. Altrettanto avviene per altre 5 malattie che si riflettono pesantemente sui bilanci sanitari: malattie cardiovascolari, ictus, cancro al seno, cancro al colon, diabete tipo II. Il CONI ha calcolato che l’attuale livello di pratica sportiva tra i cittadini italiani consente già al S.S.N. un risparmio, tra costi diretti e indiretti per le 5 patologie, di circa 1,5 miliardi di euro. Ricordiamo che finora lo Stato italiano ha finanziato il sistema sportivo con poco più di 400 milioni annui. Lo sport restituisce quindi alle finanze pubbliche, e solo in termini di risparmi sanitari, il 400% di ciò che gli viene dato.

Non solo prevenzione sanitaria

Vediamo qualche altro dato fornito dal rapporto What sport can do, stilato dal movimento canadese “True Sport”. Il settore sportivo canadese vale l’1,2% del PIL, e assicura il 2% dei posti di lavoro. Tra i lavoratori dipendenti l’attività sportiva riduce l’assenteismo, consentendo un risparmio per le buste paga dell’1,1% annuo. E ancora, si è constatato che le abilità apprese e mantenute con l’esperienza sportiva incidono positivamente sul rendimento dei lavoratori, migliorandone la produttività, fruttando un beneficio di circa l’1% del costo del lavoro. Altre valutazioni sperimentali pubblicate da “True Sport” evidenziano che l’attività fisico-sportiva riduce l’incidenza di disordini mentali derivanti da ansia e depressione. Rispetto ai sedentari, i giovani impegnati nello sport delinquono meno, aderiscono più difficilmente alle gang, sono meno inclini all’abuso di sostanze proibite, mostrano minori comportamenti antisociali. Una ricerca effettuata in Gran Bretagna sulla relazione tra partecipazione sportiva e costruzione del capitale sociale ha dimostrato come le due cose siano effettivamente connesse. La pratica sportiva produce fiducia sociale, impegno civile, visione costruttiva dell’impatto dell’immigrazione sulla vita sociale. Un’altra ricerca condotta nelle comunità rurali dell’Australia ha evidenziato l’impatto effettivo dello sport sulla coesione sociale.

Le ragazze e lo sport

Uno studio pubblicato dalla Women’s Sport Foundation ed effettuato su oltre 30.000 ragazze comparando atlete e non atlete fornisce importante materia di riflessione. Rispetto alle non atlete, le ragazze che praticano lo sport: - ottengono punteggi migliorati nei test scolastici; - si sentono più “popolari” tra i loro pari; - si coinvolgono più facilmente nelle attività extracurricolari; - conseguono il diploma di scuola superiore in misura tre volte maggiore;

- frequentano l’Università e ottengono la laurea in maggiore misura;

- aspirano ad assumere ruoli di responsabilità nella comunità;

- non sono coinvolte nell’assunzione di droghe (il 92% in meno delle non atlete);

- non restano incinte prematuramente (80% in meno).

Cosa chiede la società allo sport?

Dai documenti proposti dai decisori politici e sportivi sul ruolo dello sport nella società emerge il loro disegno delle funzioni dello sport di domani. Poco si sa di cosa chiedono allo sport i potenziali fruitori, i cittadini, che in ogni Paese sono anche coloro che, pagando le tasse, finanziano il sistema e che, fornendo volontariato, fanno funzionare la macchina. The sport we want (Lo sport che vogliamo), è il nome di un’inchiesta a largo raggio effettuata qualche tempo fa tra i cittadini canadesi dal CCES (Centro Canadese per l’Etica dello Sport) per individuare cosa essi si aspettavano dallo sport. Si è constatato che se il divertimento e la fruizione del tempo libero non sono ritenuti poi così determinanti, ancor meno lo è l’aspirazione a diventare un campione. Nella scala dei benefici individuali si richiede uno sport che assicuri in ordine decrescente: sviluppo personale, autostima, fiducia in se stessi, abilità sociali, consuetudine all’inclusione e alla democrazia,

divertimento, rispetto, fair-play, salute e benessere, modelli di ruolo positivi, capacità di saper vincere e saper perdere. Nella scala dei benefici collettivi (sociali) dello sport, in ordine di priorità i cittadini chiedono: educazione ambientale, tutela della salute, promozione dell’inclusione, uguaglianza di possibilità di accesso (apertura a tutti), sviluppo di comportamenti sociali positivi, incremento della tolleranza e del mutuo rispetto, coesione sociale.

Per realizzare uno “sport che vale”

C’è, dunque, una buona coincidenza tra i benefici che i cittadini e le istituzioni si attendono dallo sport e ciò che lo sport promette ed è in grado di mantenere. Ma se le mete coincidono, perché finora non si è riusciti a rispondere in pieno alle attese? Perché questo “sport che vale”, che incide, non si afferma e anzi lascia spesso campo a uno “sport che non vale”? L’elenco dei motivi individuati dall’inchiesta canadese chiama in causa questioni come: la scarsa comprensione degli obiettivi sociali da parte dei decisori sportivi; insufficiente disponibilità di risorse, di impianti e/o di volontariato; sclerotizzazione delle forme di sport tradizionali; un’immagine del senso dello sport persistentemente centrata sulla figura e sui bisogni dell’atleta vincente piuttosto che su quelli dei ragazzi e dei cittadini “normali”; difficoltà di accesso per motivi economi-

ci, culturali o razziali. Le conclusioni del report canadese sono chiare. Le prove dimostrano che lo sport possiede un potenziale unico quanto a benefici sociali, ma mostrano anche che realizzare tale potenziale è cosa profondamente legata alla qualità dell’esperienza sportiva stessa. «Studio dopo studio si è dimostrato che il pieno valore sociale dello sport si concretizza quando lo sport è condotto in un certo modo – quando è inclusivo,

bello, divertente e adotta una genuina eccellenza. Lo sport che i cittadini ritengono un “buono sport” - quello che essi cercano - è infatti lo sport che consegna i più grandi benefici alle loro famiglie e alla comunità... Essi sono preoccupati, tuttavia, che lo sport diventi eccessivamente focalizzato sulla competizione e credono sia necessaria un’azione correttiva in proposito». Che servano correttivi ai modelli sportivi

in auge lo crede anche Paul Melia, presidente del CCES: se non ci curiamo di immettere i giusti valori nello sport, come possiamo pretendere che dallo sport derivino i giusti valori ai suoi praticanti? La questione, in altri termini, è che dobbiamo costruire e tutelare un giusto modello di sport se vogliamo che poi lo sport modelli nel modo giusto la vita delle persone.

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