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«Chi vuole bene ai giovani, non resta mai a mani vuote!»
from Stadium n. 5/2023
by Stadium
Verso la GMG di Lisbona, Stadium intervista don Michele Falabretti, responsabile per la Pastorale Giovanile della CEI
IL SACERDOTE BERGAMASCO: «IL CSI PER ME È STATO UNA FAMIGLIA. MI HA INSEGNATO A SEDERMI E AD AGIRE CON GLI ALTRI. PENSO CHE OFFRIRE ESPERIENZE SPORTIVE BUONE SIA UN MODO FELICE DI CONTINUARE A INCARNARE IL VANGELO E A PRATICARLO»
di Leonio Callioni e Alessio Franchina
La GMG di Lisbona ai primi di agosto del 2023 ha già migliaia di iscritti: un bel segno di rinascita e di ritorno alla vita. Che a tutti sta a cuore. Per la Chiesa italiana, a sostenere la partecipazione dei giovani e delle diocesi, aiutando i ragazzi a vivere una simile esperienza di vita, è il responsabile del Servizio nazionale per la Pastorale Giovanile della CEI, don Michele Falabretti, prete bergamasco, in passato Consulente orobico del CSI, che è sempre pronto ad incoraggiare i giovani sportivi.
Il suo rapporto con gli oratori e con i giovani è molto intenso e ha segnato gran parte della sua storia. Quando ha capito che la sua strada sarebbe stata nella vicinanza e nel sostegno dei giovani?
Qualche tempo fa mi è capitato di pensare che quest’anno sono trent’anni che sono prete: li ho spesi tutti lavorando per i giovani. In realtà non c’è un momento preciso in cui mi è capitato di deciderlo. Ricordo che, nei giorni vicini all’ordinazione, un prete a me caro mi disse: «Vorrei andare dal Vescovo a chiedergli di mandarti a studiare». Gli risposi: «No, voglio andare in oratorio». Mi disse: «Hai ragione, avrei risposto così anche io». In oratorio sono cresciuto e, vivendolo, ho capito la forza che ha nell’offrire una crescita, di una comunità, nel segno delle relazioni. Mi è sempre sembrata una cosa bella, che cresceva in me sempre di più; mi è capitato di non smettere mai di sognare un modo per stare accanto ai ragazzi che crescono attraverso l’avventura educativa: è qualcosa che non smette di stupirmi e che oggi penso che vorrei fare fino alla fine della vita. I giovani hanno la capacità di tenere viva la forza della vita e provocano in me, ormai adulto, il desiderio di onorarla, facendola crescere sempre di più. Penso che non esista niente di più affascinante.
Lei ha affermato, anche recentemente, che: «fare pastorale giovanile significa incrociare il desiderio profondo che abita ogni bambino, ragazzo, adolescente e giovane che incontriamo. Sapendo che il loro desiderio può placarsi soltanto attraverso la relazione con gli altri che in definitiva sanno mostrarci la possibilità di incontrare l’Eterno». Si tratta di un’intuizione molto significativa, che lega una fase importante dell’età di ogni persona, quella della gioventù, all’anelito che c’è in ognuno di noi di vivere l’eterno. Cosa può fare il CSI per aiutare ogni ragazzo a realizzare, nella vita di ogni giorno, questo desiderio?
Il CSI può fare tantissimo. Non ho impiegato molto tempo, in oratorio, a capire che non tutti i ragazzi avrebbero potuto crescere attraverso processi educativi più tradizionali e meno legati al gioco, come la catechesi e le esperienze di spiritualità. Lo sport, per loro, è stato davvero una dimensione di salvezza: hanno imparato a vivere accanto agli altri nel rispetto e nella collaborazione, hanno aperto il cuore a pensieri più profondi attraverso il gioco. Così ho capito che nello sport entrano dimensioni umane molto significative e importanti, ma ho capito anche che nelle cose che consideriamo più “serie” l’elemento del gioco non può mancare. Se il CSI continuerà ad accettare di praticare un’attività veramente educativa e lavorerà insieme a tutti gli altri, potrà soltanto fare del bene a tutta la comunità: uno sport che rimane fedele ai principi più veri è un grande aiuto per capire che, al di là della classifica e della gara, ci sono le persone e la vita.
Lei spesso usa un’espressione meravigliosa: «Vogliamo bene ai nostri ragazzi e vogliamo il loro bene». Pensa che i giovani sentano questa vicinanza dei sacerdoti e degli educatori?
Dipende dai preti e dagli educatori, ovviamente. Quando ci si vuol far sentire vicini, e non è una cosa difficile, i giovani capiscono. Sono molto sensibili alla cura e all’accompagnamento, perché, quando lo si fa con sincerità, percepiscono di avere a disposizione un appoggio importante per la vita. Quando sento un adulto che parla male dei giovani, mi domando sempre se si sia mai fatto due domande sul suo modo di stare accanto a loro. Chi vuole bene ai giovani, non resta mai a mani vuote.
Lei è stato Consulente Ecclesiastico del CSI di Bergamo (oggi sono Assistenti Ecclesiastici): cosa porta ancora nel cuore di quel tempo?
Anzitutto una grande accoglienza. Ogni volta che varcavo la soglia della sede, non c’era una persona che non mi sorridesse o non mi facesse capire che lì dentro ero il benvenuto: il CSI per me è stato una famiglia. Poi mi colpiva sempre il fatto che tutti quelli che erano lì erano continuamente indaffarati, al lavoro. Le cose belle non crescono da sole: la dedizione di molti portava ad un radicamento e ad un legame con il territorio che per il CSI è fondamentale. Questo permetteva sempre di superare le difficoltà: nello sport non mancano mai i momenti di contestazione ma, quando c’è fiducia reciproca, non c’è niente che non si possa superare. Ricordo che, quando c’era qualche attrito in oratorio, si faceva un gioco strano: io finivo per prendere le parti della società sportiva davanti al prete, il presidente teneva le parti del prete o della parrocchia davanti alla società sportiva. Funzionava, ed era un vero gioco di squadra. E poi il lavorare insieme: l’Associazione mi ha insegnato a sedermi e ad agire con gli altri. Le idee condivise sono sempre più belle e più forti: ascoltare mi aiutava ad allargare i miei orizzonti, a capire di più le situazioni. Non ricordo una riunione o un incontro dal quale sia uscito pensando di aver perso tempo.
Sento di dover aggiungere una parola per il Presidente nazionale; Vittorio per me è stato molte cose: un padre, quando mi sentivo in difficoltà; un fratello maggiore, quando dovevo progettare qualcosa; un amico, quando potevo condividere con lui aspetti di vita che non erano sempre legati all’attività sportiva. In quegli anni abbiamo fatto insieme davvero un lavoro bellissimo.
Pensa che il Centro Sportivo Italiano abbia un ruolo importante nella formazione dei giovani e che possa contribuire a formare una società più giusta, solidale e incentrata sui valori cristiani?
Credo che sia la ragione per cui il CSI è nato e queste cose stanno scritte nel suo statuto. La giustizia, la solidarietà, l’amore cristiano sono scritti dentro lo sport che, come una parabola, mette in scena la vita così come la vorremmo: con delle regole, perché tutti abbiano le stesse condizioni; affrontandosi da avversari, senza diventare nemici; facendo spazio a tutti, perché ciascuno possa mettersi alla prova e poter dire di avere un posto nel mondo. Quando una società sportiva riesce a far vivere in questo modo lo sport, sta creando un’oasi di pace, di giustizia, di fraternità dentro questo mondo. Sono semi importanti che possono crescere e produrre qualcosa che contamina in modo buono la vita di tutti. Nessuno di noi può fermare da solo la guerra e le ingiustizie del mondo, ma, se riusciamo a produrre spazi di vita buona, il bene comincia a respirare in tutta la società.
Ha ancora senso che gli oratori e le parrocchie facciano attività sportiva?
La Chiesa sta vivendo dentro un cambiamento radicale. Le domande su come deve essere e cosa dovrebbe fare sono all’ordine del giorno. Io penso che offrire esperienze sportive buone non sia soltanto un servizio a questo mondo e a questo tempo. Penso che sia un modo felice di continuare a incarnare il Vangelo e a praticarlo.