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Faenza Group e il buon bere di Lallier

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FAENZA GROUP INTERPRETA IL BUON BERE

DI CHAMPAGNE LALLIER CON LA BROCHURE COORDINATA ALLE ETICHETTE

Uno strumento di comunicazione semplice ma di estrema eleganza per un cliente importante. È la brochure che Faenza Group ha realizzato per il lancio della famiglia di Champagne Lallier, la maison di Aÿ recentemente entrata a far parte del Gruppo Campari, che così rafforza la propria presenza nel canale Ho.re.ca dell’alto di gamma. È proprio ai buyer nazionali e internazionali che è destinato questo prodotto editoriale studiato nei minimi dettagli per incarnare lo spirito del brand: realizzato con carte pregiate per copertina e interni, la tecnica di stampa offset ha previsto anche l’utilizzo di due diversi ori Pantone, oltre alla vernice di protezione e le serigrafie in copertina per ottenere una texture spessorata, il tutto impreziosito dalla legatura con filo Singer. Le scelte in fatto di carte, nobilitazioni e design mirano a restituire un’immagine coordinata con tutta la linea delle etichette, sia per quanto concerne i segni grafici distintivi sia per quanto riguarda le finiture. Dettagli che fanno la differenza e che si pongono al servizio di della missione di Lallier: condividere l’arte del bere bene. La brochure realizzata da Faenza Group per Lallier misura 23 x 29,7 cm chiusa e 46 x 29,7 cm aperta. La copertina con taglio al vivo è realizzata in carta tinta in pasta Ispira Nero Mistero da 360 g/m², con stampa in bianco serigrafico lucido per quanto concerne il logo centrale in prima e quarta di copertina, cui si aggiunge la stampa della texture in UV lucido. L’interno è composto da un quartino in carta GSK extra white da 90 g/m², stampato a 2/0 colori (nero + Pantone 4685 per la texture) e da 5 quartini (20 pagine) in carta Symbol Freelife Satin da 170 90 g/m² stampati 6/6 colori (quadricromia + 2 ori, Pantone 10356 C e Pantone 10340 C, uno leggero di fondo alle foto in bianco e nero e uno più pesante per i testi). Finitura in vernice acrilica neutra di protezione. Confezione: cucito a filo singer di colore nero in sella.

GIN, L'ALTERNATIVO

di MARILDE MOTTA

Packaging designer:

Matteo Lamacchia

Bottiglia:

Vetrispeciali

Materiale Etichetta:

Carta Super Pearl Opaque, Fasson

Stampa Etichetta:

Stampa serigrafica con rifiniture UV, La Commerciale Borgogno

Decorazione sulla bottoglia:

Verniciatura azzurra del vetro, Decor Glass

Sistema di apertura/chiusura:

Tappo a T in plexiglass e PVC Ha una storia lunga almeno 8 secoli, avventurosa quanto immaginifica.

Oggi il gin torna protagonista fra gli spirits grazie all’inventiva di distillatori e barman e all’energia creativa di packaging designer e art director: un successo corale e internazionale. Ne abbiamo parlato con Paolo Insinga e Lindsey Jones di Interbrand, per poi fare un viaggio virtuale nel mondo delle distillerie italiane, dal Trentino alla Sardegna, che ci svelano i segreti dei loro preziosi packaging.

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Packaging designer:

Paolo Bernabei per Più Blu

Bottiglia: Vetroelite Packaging designer:

Paolo Bernabei per Più Blu

Scatola: in legno con apertura

scorrevole, ReLegno Napoli

Il viaggio del gin (dal latino iuniperus, ovvero ginepro, suo ingrediente fondamentale) parte da Salerno. Il distillato nasce come “medicamento” nella Scuola Medica Salernitana dove, fin dal IX secolo, medici e speziali usavano le bacche di ginepro insieme ad altre varietà botaniche per scopo terapeutico. Poi qualcuno scoprì che la mistura non era niente male da bere in circostanze gioiose, o all’opposto perigliose. Nei Paesi Bassi e in Belgio, nel XVI secolo, oltre che a rincuorare in battaglia, il gin fu oggetto di rielaborazione per farne un prodotto autoctono, che da allora viene chiamato jenever e con questo nome è ancora oggi tutelato. Nell’epoca dei grandi traffici commerciali nelle rotte verso le Indie, il gin raggiunse lontani lidi. In Inghilterra questo aromatico super alcolico ebbe il suo apice di consumo nel ‘700, tanto da richiedere leggi che ne limitassero le libagioni, ma trovò anche ingegnosi funamboli della distillazione che diedero vita a “variazioni sul tema”: Plymouth gin, London gin, Old Tom. Nei primi del ‘900 il gin in USA fece alleanza con la letteratura e il cinema e la sua anima trasformista lo aiutò a rendersi indispensabile per i cocktail, iniziando una vertiginosa scalata verso l’high society. Compiuto il giro del mondo, il gin ora torna da dove era partito e, in Italia, c’è un fiorire di distillerie artigianali che lo stanno reinventando. Un risveglio di interesse che avviene parallelamente in altri Paesi, dove i progetti sono pervasi da grande creatività sia nella composizione del bouquet delle botaniche sia nel design delle bottiglie. Scompaiono vecchie idee su questo distillato a cominciare dal colore, non più solo crystal clear, ma anche rosa, giallo, azzurrino, verde, per proseguire con una combinazione sempre più ricca ed eterogenea di ingredienti, di accostamenti aromatichi, di sorprese per il palato.

Gin fra locale e globale

È uno dei distillati più diffusi al mondo, tanto radicato alle storiche origini geografiche quanto capace d’essere trasformista e persino irriverente verso la tradizione. Abbiamo chiesto a Paolo Insinga, executive creative director della sede italiana di Interbrand, di fare una panoramica delle principali tendenze nel total packaging design per il gin: «C’è stato un sostanziale cambiamento nell’arco dell’ultimo decennio, e le piccole distillerie artigianali hanno dato una spinta alla crescita del mercato del gin. In particolare in Italia, il packaging del gin è stato più libero da stilemi rispetto ad altri alcolici e ad altri Paesi che invece hanno una più lunga tradizione legata a questo distillato.

Il contenitore rappresenta una decisa rottura degli schemi, come nel caso dell’Engine gin dove si fa ricorso non solo a forme, ma anche a materiali presi da settori molto distanti. Concetti forti e la possibilità di sviluppare una narrazione attorno al prodotto sono cruciali, unitamente a una direzione artistica e realizzazione impeccabili».

Lindsey Jones, executive director e client partnerships di Interbrand a Londra aggiunge: «Il gin ha una lunga storia e un presente mol-

È uno dei distillati più diffusi al mondo, tanto radicato alle storiche origini geografiche quanto capace d’essere trasformista e persino irriverente verso la tradizione.

Concept: Roner Distillerie Stampa/decorazione sulla bottiglia:

stampa serigrafica

Sistema di apertura/chiusura:

tappo in vetro

Cartotecnica: scatola di carta

e piccolo libretto 4x4 cm sul collo della bottiglia

to creativo che si confronta con una molteplicità di varietà prodotto. La cura della componente botanica e degli altri ingredienti ne ha favorito l’affermazione e la preferenza da parte di un pubblico sempre più esteso. Lo storytelling ha contribuito, come nel caso del gin Hendricks, ad attrarre un pubblico più giovane. Monkey 47 ha altrettanto sconvolto i codici della tradizione presentando una scimmia in etichetta e sviluppando una comunicazione ironica e irriverente. Tanqueray si richiama invece alla tradizione e alla forma della propria bottiglia ispirata all’art déco, improntando la comunicazione su codici che evocano raffinatezza e fascino».

Jones si sofferma poi sulla varietà di prodotto e su come le identità si riflettano sul packaging: «Si potrebbero classificare i gin in tre aree: artigianali e con limitata produzione, quelli guidati dalle origini e quelli ispirati dall’aroma. La struttura del packaging e la grafica delle etichette interpretano queste tre classificazioni. Brooklyn gin è a produzione limitata, il messaggio che lancia è legato ad artigianalità e autenticità così la bottiglia in vetro ha una forma squadrata a cui si aggiunge un’etichetta in rame lavorato a sbalzo. La bottiglia di Ophir è all’opposto influenzata dall’aroma opulento con note speziate che riportano alla memoria l’Oriente e la via delle spezie. La componente aromatica del gin Bloom è decisamente floreale, così la bottiglia è slanciata con decorazioni dal tocco leggero che chiaramente posizionano questo distillato come delicato e adatto a un pubblico femminile». Sui trend del momento, Jones aggiunge: «Il design delle bottiglie è sempre più ispirato a quello della profumeria, giacché gin e profumi sono costruiti sull’alchimia degli aromi e sono liquidi preziosi. Per la chiusura si ricorre a diversi materiali, ognuno con una specifica identità, portando anche l’attenzione sull’esperienza di apertura. La ceramica è un altro materiale di tendenza e la forma non segue necessariamente la funzione della bottiglia da liquore, ma lascia aperta la possibilità di un riuso, per esempio come vaso da fiori. Infine, i packaging designer sono chiamati a pensare anche alla sostenibilità. Il gin Cantium propone contenitori riutilizzabili, mentre il gin Rock Rose fornisce delle ricariche con cui riempire nuovamente la bottiglia in ceramica».

Ancora uno spunto di riflessione a due voci su un aspetto particolare: l’identità geografica e le strategie di export. Secondo Paolo Insinga «l’Italia è nota per le numerosissime varietà di prodotti garantiti dai marchi UE di denominazione e tutela, ma è anche celebre per la ricchezza della biodiversità che, nel caso del gin, ha un ruolo determinante. Numerose etichette di gin fanno leva su questa opportunità e possono parlare della gente, del luogo, dello spirito che li animano, dell’artigianalità. I piccoli nuovi produttori hanno risorse economi-

«Il gin ha una lunga storia e un presente molto creativo che si confronta con una molteplicità di varietà prodotto»

Lindsey Jones, Interbrand

Packaging designer:

BJN creative design di Bijan Tehranian

Cartotecnica: vassoio con copertina

cartonato a 3 ante, stampato a 5 colori e nobilitato con embossing, Pozzoli

«Numerose etichette di gin possono parlare della gente, del luogo, dello spirito che li animano, dell’artigianalità»

Paolo Insinga, Interbrand

IL PACKAGING FIRMATO POZZOLI

che limitate, ma sviluppano una grande creatività nel loro approccio al mercato». Dal canto suo Lindsey Jones sottolinea: «Il Regno Unito è oggi il maggior produttore ed esportatore di gin a livello internazionale con marchi come Gordons, Beefeater e Hendricks che sono fra i sette più venduti al mondo.

Il Regno Unito è sinonimo di gin con marche molto apprezzate nelle aree geografiche dove tale origine ha ancora un ascendente. Comunque, non c’è solo l’origine geografica che conta, anche la creatività e l’originalità hanno un ruolo importante soprattutto considerando che il mercato si sta saturando e quindi le distillerie devono innalzare il livello del brand design e del packaging design».

Viaggio in distilleria

Una bottiglia per ogni distilleria e spesso una bottiglia per ogni etichetta di gin prodotta dalla stessa distilleria. In Italia si contano centinaia di etichette e tantissime distillerie artigianali che si muovono con disinvolta agilità fra multinazionali e grandi aziende, grazie a un’inventiva audace ed esuberante, espressa nel prodotto tanto quanto nel packaging e nel suo corredo di etichette, decorazioni, chiusure-gioiello, mini monografie e astucci appositamente costruiti per celebrare l’unboxing experience. Anna Boschi, che opera nel marketing della Distilleria Bertagnolli, ci spiega il concept che ha ispirato il packaging design del loro gin: «Nel 2019, con l’avvicinarsi del centocinquantesimo anno di attività della Distilleria Bertagnolli, è nata la necessità di rinnovare la linea celebrativa che rendeva omaggio alla fondatrice Giulia de Kreutzenberg che, assieme al marito Edoardo Bertagnolli, fondò la distilleria a Mezzocorona nel 1870. È nato così Gin 1870 – Raspberry Dry Gin, un gin al lampone, pepe, ovviamente ginepro e altre due botaniche segrete, custodito in una bottiglia dalla diamantatura fine

Packaging designer:

BJN creative design di Bijan Tehranian

Cartotecnica: astuccio

a base quadrata con patella fermacollo e fondo automatico, stampa a 5 colori con embossing e vernice protettiva, Pozzoli

Quella di Distilleria Bertagnolli è una storia lunga 150 anni caratterizzata da “spiriti” e grappe di qualità, senza compromessi. Così come i packaging ideati e prodotti da Pozzoli per celebrare l’importante anniversario dell’azienda dal cuore trentino. Una linea elegante ed essenziale costituita da un astuccio a base quadrata e fondo automatico e da un packaging speciale composto da un vassoio con copertina cartonata a 3 ante, realizzato totalmente in carta e cartone, che una volta aperto svela il prezioso contenuto: una bottiglia di gin e un elegante bicchiere per degustarlo. «È stato per noi un progetto molto interessante – sottolinea Fabio Pirovano, Sales Manager Wine&Spirits Pozzoli – sviluppato grazie a una interazione costante con il cliente atta a comprendere e dare forma a ciascuna delle sue esigenze. Un progetto nel quale abbiamo messo in campo tutta la nostra esperienza in termini di project management. Dalla costruzione del budget alla definizione delle tempistiche, dalla proposta delle strutture più pertinenti realizzate ad hoc dal nostro reparto R&D alla produzione e spedizione dei cofanetti: tutto il team Pozzoli ha lavorato di concerto per fare del progetto un ulteriore successo in un settore, quello del Wine&Spirits, che sempre più ci vede protagonisti». www.pozzolispa.com

«Era fondamentale che non solo il prodotto, ma anche il packaging richiamasse il nostro lago. La sfida è stata realizzarlo senza utilizzare cliché già visti. Da qui la scelta di astrarre elementi naturali con forme e illustrazioni nuove»

Marco Rivolta, co-fondatore di RIVO

Bottiglia:

Gutentag Hamburg

Sistema di apertura/chiusura:

tappo a T in legno

ed elegante, che richiama il periodo della Belle Époque. L’etichetta evocativa avvolge interamente la sezione centrale della bottiglia e riporta sul fronte una cornice circolare in cui è inserito il nome del prodotto e il logo Distilleria Bertagnolli 1870 accompagnato dal nuovo payoff “cuore trentino”, nato in occasione del restyling dell’intera rosa dei prodotti Bertagnolli. L’etichetta istoriata narra di come Giulia de Kreutzenberg sia venuta a conoscenza del prodotto gin; in stile litografico sono rappresentate alcune scene di questa felice storia, nonché la foto della nobildonna ritrovata negli archivi storici della distilleria. Il tratto distintivo è la verniciatura azzurra della bottiglia che si sposa con la cromia dell’etichetta e del tappo in plexiglass. Completa la vestizione della bottiglia un collarino che riporta l’anno di fondazione».

Percorriamo pochi chilometri e in Trentino troviamo un altro gin, un’altra identità, un’altra storia. Ce la racconta Simon Schweigkofler, responsabile marketing di Roner Distillerie: «Abbiamo affidato al design la narrazione della storia del nostro Alpine Gin Z44, la cui particolarità è il cirmolo (in tedesco Zirbel) raccolto sul Cono Bianco vicino alla nostra distilleria a un’altezza di 1850 metri. Il contenitore trasparente, infatti, mostra la montagna ricoperta di neve, riprodotta sul retro della bottiglia. L’illustrazione racconta le botaniche alpine tipiche dei boschi che ci circondano e che donano al gin un aroma inconfondibile. La natura, gli ingredienti genuini e il nostro forte legame con il territorio sono gli elementi identificativi del brand, che attraverso le illustrazioni sono stati sviluppati nella rappresentazione grafica». Sulle sponde del lago di Como, invece, nasce un gin che “strega” il palato. Marco Rivolta, co-fondatore di RIVO, traccia per noi il percorso che la mente ha fatto nella creazione di questo gin e della sua bottiglia: «Per secoli, le donne del posto hanno cercato nei prati attorno al Lago di Como erbe e fiori per preparare medicine e rimedi. La storia le chiamerebbe streghe. Noi le consideriamo pioniere di pozioni uniche. Ed è proprio l’elemento delle streghe e della magia che ha ispirato il packaging: linee geometriche si inseguono per creare figure astratte, che nei dettagli riprendono due elementi del territorio, le mon-

tagne e le onde del lago. L’idea era creare un design che richiamasse l’artigianalità italiana, ma che al contempo fosse moderno e capace di presentarsi a livello internazionale. Anche la bottiglia vuole richiamare l’elemento della magia con una forma unica ad ampolla. Oggi a esperte etno-botaniche è affidato il compito di raccogliere a mano e selezionare le 12 tipologie di botaniche proprie della flora locale, di certificarne la provenienza e di garantirne la qualità». Conclude Rivolta: «Era fondamentale che non solo il prodotto, ma anche il packaging richiamasse il nostro lago. La sfida è stata realizzarlo senza utilizzare cliché già visti. Da qui la scelta di astrarre elementi naturali con forme e illustrazioni nuove e originali. Abbiamo inoltre voluto dare alle forme una certa intimità, rendendole riconoscibili direttamente solo a chi conosce la nostra storia. In altre parole, un’etichetta da scoprire nei dettagli e poco per volta».

Dalla Lombardia passiamo all’Emilia, dove Lucia Palazzini, responsabile del marketing di Casoni Fabbricazione Liquori, ci affascina con una storia di nebbie e tabarri.

«Tabar gin viene distillato a Finale Emilia, nella Bassa Modenese, con una tecnica antica come è antica la storia dell’opificio Casoni, che dal 1814 produce liquori in questa terra, sempre av-

Packaging designer:

Labirinto

Stampa/decorazione su bottiglia:

serigrafia

Sistema di apertura/chiusura:

tappo a T con PVC nero

volta nella nebbia in inverno», racconta Palazzini. «Ecco, il nostro gin è deciso e avvolgente come un sorso di nebbia. Il simbolo di questa foschia è il tabarro, a cui il gin deve il nome, che è il mantello da uomo tipico della zona. Una fonte di ispirazione anche per la serigrafia sulla bottiglia che raffigura la zona della bassa modenese avvolta dalla nebbia, che mette al centro un uomo col tabarro. Il logo riporta graficamente la rappresentazione di questa figura nella seconda A del nome per far sì che essa stessa diventi rappresentazione del brand».

Potremmo passare di regione in regione lungo lo Stivale e trovare decine di produttori di gin, invece facciamo un gran balzo e approdiamo in Sardegna dove la Distilleria Silvio Carta, dopo anni di prove e studi approfonditi, ha creato Giniu, un gin che vuole raccontare la Sardegna e i suoi profumi. Elio Carta, amministratore delegato, ci introduce nel mondo del suo gin: «Per Giniu abbiamo pensato di utilizzare una bottiglia unica nel suo genere e altamente riconoscibile, con un netto rimando al packaging dei migliori profumi francesi. A impreziosirla ulteriormente, il tappo realizzato in sughero con la parte superiore in acciaio prodotta da un artigiano della forgia locale. Giniu 517 è per l’intenditore più esigente: la bottiglia, vestita di platino e luccicante, racchiude l’edizione Riserva del gin top di gamma della distilleria Silvio Carta. Un prodotto di altissima qualità rappresentato dal packaging tanto quanto dal nome 517, il numero identificativo dell’appezzamento, in Sardegna, dove il ginepro viene raccolto a oltre 1.500 metri d’altezza. Per cui può essere definito un Cru». E sugli elementi che contribuiscono all’unicità di Giniu prosegue Carta: «Abbiamo deciso di serigrafare l’etichetta direttamente sul vetro della bottiglia. Frontalmente, per scelta, non appare il nome del produttore, ma lo si trova solo nelle informazioni obbligatorie riportate nel retro-bottiglia. Gli elementi ai quali si è dato più peso sono il lettering del nome del prodotto e i netti rimandi alle sue origini sarde. Giniu 517 è privo di etichetta, tutte le informazioni vengono incise direttamente sul metallo».

L’unboxing experience del gin

Bottiglie così speciali diventano elementi preziosi che caratterizzano l’esposizione in bar e locali dove il buon bere diventa inscindibile dal bello e da un’esperienza estetica coinvolgente. Queste bottiglie sono anche elementi segnaletici di un gusto preciso e di uno stile di vita molto personale, così la bottiglia di gin sta diventando il regalo di moda. Conseguentemente, la creatività viene esercitata anche sul packaging secondario, che consente il delizioso percorso dell’unboxing experience. Sul packaging secondario Anna Boschi di Bertagnolli dice: «Per il nostro gin sono stati sviluppati due tipi di packaging secondario, un astuccio semplice, che riprende gli stilemi e i contenuti espressi in etichetta, e una confezione speciale da degustazione, contenente una bottiglia e un tumbler serigrafato con il logo e la cornice circolare in cui è inserito». Non diversamente da Bertagnolli, anche Marco Rivolta per il suo Rivo gin pensa all’imprescindibile ruolo del packaging secondario, che «dà un valore aggiunto come regalo, o se venduto nei negozi enogastronomici specializzati. Il packaging riprende gli elementi grafici dell’etichetta e permette di approfondire e arricchire lo storytelling già presente sulla bottiglia».

Elio Carta della Distilleria Silvio Carta è ancora più convinto del ruolo del packaging secondario nel creare l’effetto sorpresa: «Aprire la confezione in legno personalizzata con la stampa a fuoco che riprende il design dell’etichetta di Giniu è davvero un’esperienza di grande soddisfazione. Giniu 517, invece, viene commercializzato all’interno di una preziosa box nera di legno, con il logo inciso sul metallo e incastonato sul tappo. La scatola ha l’interno verniciato di rosso per far risaltare ancora di più la lucentezza del platino».

RELEGNO, PACKAGING E ALLESTIMENTI NEL SEGNO DELL’ECODESIGN

L’azienda campana, specializzata in produzione di scatole e arredi per il settore enogastronomico, ha scelto HP Latex R2000 Plus per personalizzare e diversificare l’offerta, senza perdere di vista gli obiettivi di sostenibilità.

Nella scatola di vino bella, c’è il vino buono. Passano gli anni e i packaging per il settore enologico si distaccano sempre più dalla mera funzione di contenitore, per trasformarsi a pieno titolo in oggetto di design. Per colpire nel segno, le confezioni devono essere impreziosite da personalizzazioni estreme, texture e coating metallizzati, da sfoggiare in ristoranti, enoteche e cantine private. La sperimentazione creativa non può prescindere, tuttavia, dalla necessità di proporre ai clienti prodotti sostenibili, progettati in una logica di economia circolare. Lo sa bene ReLegno, con sede in provincia di Avellino, specializzata nella produzione di packaging e allestimenti per il settore enogastronomico. Il suo portfolio comprende oggetti di ecodesign, scatole in legno per il mercato del food and beverage e complementi d’arredo. Le confezioni spaziano dalle cassette per imballaggio destinate alla GDO a astucci, cofanetti e scatole regalo personalizzate. Tutti i progetti sono rigorosamente realizzati con legno proveniente da foreste certificate. Uno dei punti di forza dell’azienda, del resto, è l’impegno a promuovere una cultura del riuso. L’obiettivo è incontrare la domanda di una clientela tanto variegata quanto esigente, realizzando progetti elaborati ed esclusivi. Per questo, il management dell’azienda è da sempre molto attento all’ampliamento e aggiornamento del proprio parco macchine. Da pochi mesi l’azienda ha dato il benvenuto alla tecnologia di stampa digitale di grande formato HP Latex R2000 Plus. Una soluzione flatbed progettata per garantire elevate prestazioni sotto il profilo della produttività, della qualità e della sostenibilità. Tratto caratterizzante di questa soluzione sono gli inchiostri Latex base acqua proprietari, in grado di stampare su una vasta gamma di supporti, sia rigidi che flessibili. Grazie a queste chimiche innovative, la macchina si presta a essere utilizzata in numerosi ambiti applicativi tra cui decorazione d’interni, allestimento del punto vendita, comunicazione indoor e outdoor, oltre che prototipazione per applicazioni industriali. «La nostra è un’azienda ispirata alla filosofia del riuso, con uno spiccato senso per il design e l’innovazione tecnologica» racconta Maurizio Romano, Managing Director dell’azienda. «I costanti investimenti in ricerca e sviluppo ci hanno permesso di distinguerci per il nostro servizio fatto su misura. Le nostre soluzioni sono studiate nel dettaglio per risultare accattivanti ma al contempo sostenibili, realizzato con supporti e processi green».

Oltre alla produzione di packaging di lusso, ReLegno ha attivato il servizio ReArredo. Una piattaforma web dedicata alla progettazione e vendita di soluzioni per l’allestimento nell’ambito dell’interior, del retail e del contract. «Cerchiamo di instaurare un rapporto one-to-one con i clienti, aiutandoli a individuare le soluzioni più indicate in base alle loro esigenze» spiega Romano. «La stampa digitale ci consente di farlo, grazie alla possibilità di stampare su numerosi materiali, personalizzando ogni singolo prodotto e creando applicazioni uniche e ad alto valore aggiunto». La scelta di investire nella tecnologia di stampa digitale HP Latex nasce dal desiderio di diversificare ulteriormente la propria offerta e garantire un servizio sempre più personalizzato e just-in-time. «Uno dei motivi per cui abbiamo scelto HP Latex R2000 Plus è la possibilità di cogliere nuove opportunità nell’ambito dell’interior decoration e del contract», prosegue Romano. «Al momento la macchina è impiegata prevalentemente per la realizzazione di stampe su legno, ma stiamo testando e apprezzando la flessibilità con cui si adatta a diversi tipi di superfici, come Forex, cartone e vetro. Passo dopo passo, stiamo maturando competenze tecniche che ci permetteranno di offrire una gamma di prodotti sempre più diversificata e completa». In aggiunta a ciò, la possibilità di creare prototipi e mockup su materiali diversi in tempi molto brevi rappresenta uno strumento di marketing indispensabile per fidelizzare i clienti e garantire un servizio bespoke. L’utilizzo di supporti innovativi e riutilizzabili, in abbinamento con gli inchiostri Latex, permette alla macchina di ottenere risultati uniformi. HP Latex R2000 Plus è anche l’unica soluzione digitale di grande formato certificata UL ECOLOGO, a garanzia del fatto che gli inchiostri non contengono sostanze nocive di alcun tipo. «Tra gli obiettivi a tendere, c’è quello di connettere la macchina al nostro sistema informatico, per operare secondo i principi dell’Industria 4.0, per rispondere in maniera efficiente e puntuale alle richieste dei clienti, anche quelle dell’ultimo minuto» aggiunge Romano. Guardando al futuro, ReLegno punta a implementare e promuovere l’uso della stampa digitale nell’ambito della personalizzazione di packaging e allestimenti. «Attraverso open house ed eventi dedicati – conclude Romano – vogliamo far comprendere ai nostri partner quanto il digitale sia indispensabile per progettare soluzioni al passo con i tempi, che rispecchino le nuove abitudini e i gusti dei consumatori».

L’OTTIMA ANNATA DEL VINO ONLINE

di ROBERTA RAGONA

ENGLISH VERSION C pg. 89

Dopo un 2020 segnato da circostanze eccezionali che hanno fatto esplodere il commercio online, le piattaforme di delivery del vino lavorano per consolidare la propria presenza nelle abitudini di consumo degli italiani, puntando sulla personalizzazione e su packaging che uniscano sicurezza, praticità e sostenibilità. Abbiamo chiesto a tre realtà del wine delivery B2C, Tannico, Glugulp! e Winelivery, come stanno vivendo questo momento.

IIl vino è un prodotto abituato a viaggiare da sempre. Dalle cassette in legno con impresso a fuoco lo stemma delle case vinicole alla paglia che proteggeva le bottiglie dagli urti peggiori, l’importanza dell’identità di marca e le necessità pratiche della logistica sono state da subito parte della storia e dell’immaginario del vino.

Il mondo enologico è stato tra i primi a individuare le possibilità del commercio online per l’export dei prodotti vitivinicoli italiani. Negli ultimi anni, tuttavia, si è verificato un cambiamento profondo nell’offerta del servizio, non più pensato solo per i grandi volumi e rivolto a grandi compratori del mercato wholesale, bensì per soddisfare le necessità quotidiane dei consumatori finali. Un cambio di mentalità che mette insieme la snellezza delle startup rivolte a un pubblico più giovane e aperto alla sperimentazione con il patrimonio di expertise e l’attenzione alla qualità propri del mondo del vino.

Parliamo di piattaforme nate nell’ultimo decennio, che hanno vissuto però nell’anno appena trascorso il passaggio da un’utenza di early adopters a una platea che ha scoperto la praticità dell’acquisto online rispetto ai canali del retail tradizionale. Secondo i maggiori analisti a livello internazionale, l’Italia nel 2020 ha recuperato in maniera inequivocabile il gap che la separava nell’acquisto di vino online da paesi come gli Stati Uniti o l’Inghilterra, in cui l’e-commerce contribuisce a circa il 10% del totale degli acquisti.

Marco Magnocavallo, fondatore di Tannico, conferma: «Il 2020 è stato un anno non solo di boom degli acquisti di vino online ma anche di cambiamenti dei comportamenti di consumo. All’inizio del primo lockdown abbiamo registrato un aumento del 100% dei volumi, del 10% della frequenza di acquisto e del 5% delle quantità di bottiglie per ordine effettuato».

Anche Andrea Antinori, co-fondatrice di Winelivery – piattaforma specializzata nella consegna in 30 minuti e a temperatura di vino, spirits e kit per cocktail ready-to-drink – conferma una crescita media di ordini sulla piattaforma del 350%, con un picco del 600% del 2020 rispetto all’anno precedente: numeri eccezionali raggiunti anche grazie alle modalità di consegna del servizio, che propone a domicilio singole bottiglie e kit per cocktail, permettendo ordini più frequenti legati al momento del consumo immediato. Proprio questa granularità dei singoli ordini ha permesso a Winelivery di rilevare anche un cambiamento nelle abitudini di consumo degli alcolici, con una crescita degli ordini in tutte le fasce orarie, non solo quella dell’aperitivo, con un aumento particolarmente marcato a pranzo e la domenica. Un cambiamento ribadito anche da Roberta Longhi, Marketing & Communication manager di Glugulp! – piattaforma specializzata nella vendita online di soli champagne – che ha visto una

Il mondo enologico è stato tra i primi a individuare le possibilità del commercio online per l’export dei prodotti vitivinicoli italiani.

crescita sia in termini di volumi che nell’abitudine al consumo di champagne, considerato non più solo un’eccezione per le occasioni speciali ma una presenza fissa per esperienze enogastronomiche di alto livello anche a casa.

Dallo scaffale virtuale all’unboxing personalizzato Con il cambiamento di abitudini e un customer journey in cui a guidare l’acquisto non è più l’esperienza a scaffale, cambiano anche le modalità di comunicazione del packaging. Andrea Antinori di Winelivery spiega quanto sia rilevante sapere dove si trova il consumatore nel suo percorso di acquisto: «La comunicazione della piattaforma attraverso diversi canali – fra cui ovviamente anche il nostro packaging – è fondamentale per portare dentro chi ancora non ci conosce o non ha provato in prima persona il nostro servizio: è un momento vitale di awareness. Poi, una volta che il consumatore è dentro, la comunicazione deve spostare il proprio focus da Winelivery stesso ai prodotti che offriamo e all’ampio ventaglio di scelte, perché è su questi due aspetti che si fidelizza il consumatore». Marco Magnocavallo di Tannico conferma come una comunicazione non scontata della piattaforma sia fondamentale a contribuire alla godibilità dell’intera esperienza: «I cartoni di Tannico si allontanano dai cliché che siamo abituati ad associare al mondo wine&spirits. Gli imballi di Tannico hanno un design che è più vicino al mondo della moda, a partire dalla scelta del blu come colore dominante al posto dell’ormai abusato rosso nelle sue diverse sfumature, tradizionalmente associato al vino. Nel momento di unboxing il cliente viene accolto da booklet realizzati in collaborazione con diversi illustratori internazionali, che danno il benvenuto ai nuovi clienti. Si dà valore al lavoro di chi è in vigna e produce il vino, con un linguaggio al fianco delle persone e mai in cattedra, esperto ma mai saccente». Particolarmente apprezzate dai consumatori sono le diverse possibilità dell’imballaggio o degli elementi interni, come le cartoline e altri prodotti stampati. Winelivery, oltre alla possibilità di inserire nel delivery un messaggio personalizzato per il destinatario, propone per i suoi clienti B2B delle possibilità

Lo champagne è considerato non più solo un’eccezione per le occasioni speciali, ma una presenza fissa per esperienze enogastronomiche di alto livello anche a casa.

di personalizzazione ancora più sofisticate, dalla livrea del packaging passando per la personalizzazione dei sacchetti sino ad arrivare alla bottiglia stessa.

Logistica, sostenibile leggerezza

Da un punto di vista del confezionamento e movimentazione, il vino è da sempre un prodotto dalle necessità specifiche in termini di facilità di trasporto, sicurezza e logistica. La sfida che affrontano i servizi di delivery è sostituire i materiali tradizionali, come il legno, con altri più leggeri ma altrettanto sostenibili e resistenti come il cartone ondulato: una riduzione significativa del peso trasportato a parità di sicurezza, quindi la possibilità di soddisfare un numero maggiore di ordini per spedizioni e minori emissioni di CO2 legate al trasporto e alla logistica. Ed è qui che vengono in aiuto design e cartotecnica,

che hanno sviluppato soluzioni innovative per rispondono a queste esigenze. Sempre Marco Magnocavallo: «Siamo fortunati, perché nel nostro settore l’imballo migliore dal punto di vista operativo (sicurezza e protezione del prodotto, facilità di stoccaggio e montaggio, velocità di approvvigionamento e costo) è anche il più sostenibile, ossia una confezione al 100% in cartone, facilmente compattabile e riciclabile. I nostri imballi sono certificati FSC, ci affidiamo a diversi fornitori – principalmente grandi gruppi della carta internazionali – a cui abbiamo concesso in licenza la produzione dei nostri imballi, che si avvalgono di una soluzione di protezione protetta da brevetto internazionale, il NakPack. Il tutto in un’ottica di minimizzazione delle rotture, riduzione del cartone impiegato, facilità e velocità di montaggio garantendo comunque la massima sicurezza nel trasporto del vino e dei distillati, superando i severi crash test necessari per ottenere le certificazioni dei principali corrieri internazionali».

Roberta Longhi di Glugulp! conferma che la ricerca di soluzioni maggiormente sostenibili è trasversale tra piattaforme e produttori, in una logica in cui la sostenibilità è anche leva importante nel processo di acquisto dei consumatori: «Molte Maison e Vigneron hanno rivisto le proprie scelte sul packaging: l’esempio più eclatante è la “second skin case”, l’imballaggio ecosostenibile realizzato dalla cartotecnica italiana Pusterla 1880, scelto dalla Maison Ruinart per lo Champagne Blanc de Blancs e Rosé in sostituzione dei tradizionali coffret. Si tratta di un involucro interamente riciclabile composto al 100% di fibre di legno, dalla superficie setosa, più leggero, resistente e impermeabile alla luce per preservare l’integrità del gusto del vino. Un altro esempio tra i nostri produttori sono Maxime e Anna Ullens del Domaine de Marzilly, che per le proprie etichette hanno scelto un inchiostro a base vegetale e optato per stampe a emissioni contenute di CO2. Per le spedizioni Glugulp! ci affidiamo a un packaging sostenibile, affidabile e sicuro: l’imballaggio interno WinePulp è di derivazione vegetale, in polpa di cellulosa recuperata al 100%, riciclabile e biodegradabile. In questo modo ogni bottiglia inviata è racchiusa da una coppia di involucri che la ripara e la mantiene stabile nel trasporto. La box esterna di spedizione – in cartone a doppia onda rinforzato per attenuare gli urti – è automontante con una chiusura studiata per evitare l’utilizzo di materiale plastico o collante. Inoltre tutti i box sono sigillati con reggie antieffrazione brandizzate per preservare il contenuto da eventuali tentativi di manomissione».

Futuro ibrido

Se nel corso del 2020, in conseguenza dei diversi lockdown, il mercato del delivery si è trovato ad assorbire e sostituire i consumi che tipicamente sarebbero stati soddisfatti dalla ristorazione e dall’intrattenimento fuori casa, il 2021 è il vero banco di prova per capire se questa nuova abitudine si sia radicata a sufficienza, tanto

Si è assistito a una crescita degli ordini in tutte le fasce orarie, non solo quella dell’aperitivo, con un aumento particolarmente marcato a pranzo e la domenica.

Tutti concordano sul fatto che il futuro del delivery sarà all’insegna delle esperienze ibride, in cui l’online e l’offline, i pop-up shop e le classi di degustazione online lavoreranno insieme in un unico ecosistema.

da diventare parte della routine quotidiana dei consumatori. Tutti concordano sul fatto che il futuro del delivery sarà, probabilmente, all’insegna delle esperienze ibride, in cui l’online e l’offline, i pop-up shop e le classi di degustazione online lavoreranno insieme armoniosamente come un unico ecosistema. In Tannico sono forti delle esperienze dell’anno passato: «Ci siamo adattati alle nuove esigenze accelerando nel 2020 i progetti di intrattenimento tra le mura di casa che già erano in fase di sviluppo, come i Tannico Wine Tasting online, che hanno dato la possibilità ai clienti di Tannico o ai semplici appassionati di degustare da casa in compagnia dei maggiori esponenti delle cantine italiane: Cantine Ferrari con la presenza di Marcello Lunelli, Antonio Rallo di Donnafugata e Klaus Gasser di Cantine Terlano. Abbiamo lanciato le Tannico Flying School Online, una piattaforma in stile Netflix fruibile dal divano di casa che dà accesso a un bacino in continuo refill mensile di video-corsi: degustazioni con ospiti, vignaioli, enologi e sommelier, e percorsi tematici intorno al mondo del vino. Abbiamo anche sperimentato nuove modalità di fare eventi, collaborando per esempio con Veuve Clicquot all’organizzazione di due master experience direttamente a casa».

Winelivery sta invece lavorando all’apertura di pop-up store, di cui il primo a Milano – città natale della piattaforma – in cui il servizio di mescita verrà affiancato a quello del delivery, per portare in seguito l’esperienza ibrida di delivery e degustazione in loco anche in altre città d’Italia.

Un fenomeno, quello del delivery di vino, che può solo crescere nel futuro: la società di consulenza strategica Nomisma stima che nel 2019 l’e-commerce di vino valesse per l’Italia 200 milioni di euro, e che nel primo semestre del 2020 i numeri siano raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un mercato spartito tra il 17% della GDO e l’83% di pure player come Tannico, Winelivery e Glugulp!, che si pongono anche come strumento in grado di mettere in rapporto diretto i piccoli produttori e chi vuole non solo bere bene, ma fare del vino un’esperienza. E perché queste esperienze siano memorabili, l’esperienza sensoriale del packaging sarà una componente più che mai fondamentale.

Perché certi siti chiedono di riconoscere lettere astruse, di selezionare semafori, strisce pedonali, biciclette e autobus o di cliccare su “Non sono un robot”? Non è solo per verificare che siate esseri umani e non computer con cattive intenzioni (i cosiddetti bot), ma anche per addestrare un’intelligenza artificiale.

I captcha (così si chiamano quei piccoli quiz, da “Caught you!”, Ti ho beccato!), infatti, basati

sul più classico test di Touring per distinguere computer dagli esseri umani, servono non solo per la sicurezza, ma soprattutto per insegnare alle macchine a leggere e a riconoscere oggetti specifici all’interno di una fotografia. Fantascienza da Matrix? Assolutamente no, come vedremo.

Nel 1997 i ricercatori di AltaVista, per impedire ai bot di aggiungere URL al loro motore di ricerca in modo fraudolento, ebbero l’idea di sfruttare al contrario le caratteristiche del programma di OCR dello scanner Brother che avevano in ufficio. Se un testo è confuso, si sovrappone a un altro, i caratteri cambiano o il fondo non è omogeneo, pensarono, la macchina non è più in grado di interpretarlo, ma un uomo sì. Questa intuizione venne sfruttata anche dall’Università Carnegie Mellon di Pittsburgh quando avviò la digitalizzazione della sua biblioteca ed ebbe l’idea di sottoporre agli utenti sotto forma di captcha le parole dubbie individuate dall’OCR: se una persona riesce a individuare correttamente una parola nota, allora individuerà anche quella ignota e quando tre persone daranno la stessa risposta, questa potrà essere archiviata dal sistema come corretta. Funzionò, tanto che nel settembre del 2009 questa tecnologia fu acquistata da Google.

Fare esperienza

Oggi l’intelligenza artificiale e il machine learning, ovvero il meccanismo per cui i sistemi apprendono e migliorano le loro performance e capacità di risposta in base ai dati che utilizzano, sono quasi ovunque. Da Siri che risponde in modo adeguato alle domande, imparando da cosa le si chiede e da quanto la sua risposta sia soddisfacente, fino alla bacchetta magica di Photoshop che riconosce un soggetto e sa isolarlo dal fondo (01), non solo in base alla differenza di colore, ma perché sa riconoscere e distinguere i singoli elementi. Ma l’intelligenza artificiale subentra anche quando interagiamo con le banche, acquistiamo online o utilizziamo i social media, leggiamo le notizie o scegliamo un film su Netflix, fino all’auto che riconosce cartelli stradali e corsie. Anche fuori dal contesto con il quale si sta interagendo in quel momento e in modo inaspettato, continuamente entrano in gioco meccanismi di machine learning per rendere la nostra esperienza efficiente, facile e sicura. Pensiamo alle immagini: il servizio gratuito di Google per la loro archiviazione, ad esempio, se da un lato offre spazio per immagazzinare le nostre foto, dall’altro le usa per imparare. Fedeli al patto faustiano per cui “se non paghi, il prodotto sei tu”, siamo noi che autorizziamo, in modo più o meno spontaneo e inconsapevole, l’uso

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delle nostre informazioni che non sono solo quelle che condividiamo sui social, ma sono soprattutto tutte le altre: dagli allegati delle mail ai documenti che storiamo nel cloud, fino alle immagini delle telecamere di sicurezza che passano e si archiviano nella rete. Al di là degli aspetti di privacy e di profilazione, che poi passano in secondo piano tra autorizzazioni capestro (vuoi il servizio? dammi accesso ai dati) o concesse con leggerezza, l’intelligenza artificiale scandaglia e apprende da tutto quello che le viene dato in pasto; la potenza computazionale e la bontà dell’algoritmo fanno il resto. In una sorta di nastro di Moebius, l’AI analizza i dati, li elabora, apprende e fornisce a sua volta dati che riutilizzati vengono analizzati, elaborati e così via. Un esempio sono i filtri di certe app, come FaceApp, che alterano l’aspetto dei nostri selfie. La foto va nei loro server, viene immagazzinata insieme a milioni di altre, elaborata in base ai filtri impostati e rimandata nell’app: già solo tenere la versione elaborata o eliminarla significa insegnare all’AI a far meglio. Lo stesso accade con i nuovi filtri neurali presenti nella versione 2021 di Photoshop che da questa release lavora sempre a stretto contatto con il cloud Adobe, tanto che il “Salva con nome” lo propone di default come destinazione predefinita. I filtri “pelle liscia” o “sostituzione cielo” sono estremamente realistici, ma a lasciare a bocca aperta per l’accuratezza sono il “trasferimento trucco”, per cui si applica un trucco da una foto target caricata, e il “ritratto intelligente”, che altera l’espressione di un viso in una gamma che va dalla felicità alla rabbia. E non è un caso che questi filtri chiedano all’utente, a effetto applicato, se sia soddisfatto o meno.

Imparare dai propri errori

Ma come fa un computer a imparare? Sintetizzando al massimo, lo fa classificando, elaborando e apprendendo dai feedback sul suo operato, secondo algoritmi più o meno supervisionati. La logica che sfrutta la continua correzione dei risultati sulla base di un modello dato, anche con l’intervento umano, è oggi la più usata. Come spiega Oracle, “come un bambino impara a identificare i frutti memorizzandoli da un libro illustrato, così l’algoritmo viene addestrato a partire da un set di dati che è già etichettato e classificato”. Al contrario, gli algoritmi non supervisionati “utilizzano un approccio indipendente, in cui il computer impara da solo a identificare processi e schemi senza nessuna guida: in questo caso, è come se un bambino imparasse a identificare i frutti osservando colori e modelli, senza memorizzare i nomi con l’aiuto di un insegnante: cercherà le somiglianze tra le immagini e le suddividerà in gruppi, assegnando a ciascun gruppo la nuova etichetta”. È così che funziona il Face ID di Apple: legge un viso, ne fa una mappa e la salva. Ogni volta che si vuole sbloccare il dispositivo, confronta il viso in quel momento con la mappa salvata. Il rating di riconoscimento fa il resto: se assomiglia al modello, il telefono si sblocca, e tutto quello che differiva viene salvato per perfezionare la mappa. Così, ad esempio, il telefono si sblocca che si indossino o meno occhiali.

È ovvio che i due metodi finiscono per migliorarsi l’un l’altro. Una volta che viene identificata una nuova etichetta, questa diventerà a sua volta un modello. Il processo è sintetizzato dalla formula proposta nel 2017 da Robin Bordol, CEO di Crowdflower:

+ + + L’intelligenza artificiale scandaglia e apprende da tutto quello che le viene dato in pasto; la potenza computazionale e la bontà dell’algoritmo fanno il resto.

AI = TD (Training Data) + ML (Machine Learning) + HITL (Human In The Loop)

L’Image Recognition

Oggi il panorama dell’AI sta decollando e i diversi motori di machine learning per l’analisi dei dati operano prevalentemente grazie a reti neurali per l’elaborazione di foto, video e testi che riescono a riconoscere forme, colori, fino addirittura a seguire oggetti in movimento. Secondo gli Osservatori del Politecnico di Milano le applicazioni più promettenti sono l’editing automatico dei file, la classificazione delle immagini, l’individuazione degli oggetti all’interno di foto e video, il monitoraggio di asset e prodotti, fino al riconoscimento di emozioni e azioni basati sulla Face Recognition. Innanzitutto, dall’immagine, composta da pixel, viene estratto un gran numero di caratteristiche (feature). Senza andare troppo nel dettaglio, una volta che ogni immagine è stata convertita in migliaia di caratteristiche (feature), si può iniziare ad addestrare un modello. Nel caso di foto che rappresentano, per esempio, dei prodotti integri e dei prodotti fallati, possiamo addestrare la macchina a riconoscere una delle due categorie. Più immagini si utilizzano per ogni categoria, meglio un modello può essere addestrato: una volta che ha imparato, può riconoscere un’immagine sconosciuta. Prendiamo l’immagine (02), se alla prima elaborazione non riconosce il logo Apple e lo scambia per la silhouette di mela morsicata (l’abbiamo testato e non succede), dopo che è stato istruito, lo riconoscerà correttamente.

Google Vision AI

Facciamo un esperimento. Alla pagina https://cloud.google.com/ vision Google mette a disposizione un simulatore del suo Vision AI. Nella foto, in pochi secondi, riconosce che c’è una persona, nello specifico una donna, e che indossa un cappello (addirittura riconosce che è una fedora), un cappotto e delle collane. A ciascun dettaglio individuato assegna un tasso di riconoscimento e così l’algoritmo ci dice che ci sono delle scarpe al 94%, degli occhiali da sole all’87%. Ma non si ferma qui, associa delle etichette (borsa, alberi, trench, fashion), classifica le espressioni facciali (joy), verifica quanto l’immagine sia sicura rispetto a contenuti sensibili (sesso, violenza, contenuti razziali), crea una mappa dei colori con i valori in RGB e la loro copertura in percentuali ed esclude i colori di fondo per evitare falsi positivi. Infine, isola le singole parti e ne mappa le coordinate. Già questo piccolo esperimento svela le potenzialità dello strumento. Dategli in pasto tutte le immagini dei vostri prodotti e insegnategli a riconoscere i dettagli che vi interessano, correggetelo quando sbaglia e vi ritroverete una moltitudine di dati da usare. Come? Prendiamo un e-commerce di moda: sfruttando questi dati, potrei costruire una gallery in base ai colori, distinguere foto indossate da still-life, spingere capi con il logo in determinati mercati o verso particolari utenti che apprezzano questi dettagli, aggregare in base al

Photo by Marcos Paulo Prado on Unsplash

+ + + Vision AI può lavorare in modo silente sulle immagini archiviate nei suoi server, materializzare i dati estratti e metterli a disposizione.

tipo di prodotto o di genere, e così via senza che nessuno abbia speso tempo a classificare le immagini e, cosa altrettanto importante, senza che nessuno abbia predeterminato cosa cercare. E questo equivale a esplorare aree di business nuove o non considerate.

Il sistema Google di base lavora ad ampio spettro e ha il vantaggio di offrire tutta la forza dell’ecosistema e dell’esperienza del gigante di Mountain View e la sua capacità di calcolo e di integrazione con gli altri suoi servizi in Cloud. Vision AI può lavorare in modo silente sulle immagini archiviate nei suoi server, materializzare i dati estratti e metterli a disposizione. Dopo di che si decide quale approccio avere, se supervisionato o meno, arrivando perfino a poter intervenire sull’algoritmo. Una volta estratti i dati si può procedere per inclusione o esclusione di certi risultati (per esempio un bikini non lo mostro nell’e-commerce di certi mercati) o sul best match, ovvero quanto un’immagine si avvicina a un esempio dato. Un esempio tangibile è il tool Reverse Ima-

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ge Search nella home di Google. Provate a dargli in pasto una foto e lui troverà all’istante tutte quelle simili, fino a trovare la stessa in altre varianti di dimensione. Su strumenti come questi posso basare in automatico i suggerimenti tipici come gli abbinamenti e gli You May Also Like.

Altri approcci

Un’alternativa altrettanto potente è Amazon Rekognition, attivabile direttamente in AWS, probabilmente il servizio di cloud computing e hosting di Amazon più diffuso, in grado di identificare oggetti, persone, testo, scenari e attività in foto e video e riconoscere i contenuti anche nei testi. Gli usi anche qui sono molteplici e dipendono dal business: si va dal riconoscimento facciale (per esempio personaggi famosi, persone autorizzate, dipendenti), di oggetti e scene, all’individuazione di contenuti vietati per effettuare moderazioni o verifiche umane, dal riconoscimento di testi all’individuazione dei propri prodotti tra le foto pubblicate sui social media o presenti sugli scaffali di un punto vendita per ricerche di mercato. Interessante l’esperimento fatto da Nike filmando a filo strada tutti i partecipanti alla maratona di Tokyo 2019 per identificare e classificare i marchi e modelli di scarpe usati dai partecipanti. Amazon Rekognition è direttamente integrata con Amazon Augmented AI (Amazon A2I) per poter implementare facilmente la revisione umana per un rilevamento di immagini inappropriate. Amazon A2I fornisce un flusso di lavoro di revisione umana integrato per la moderazione di immagini, che consente una facile revisione e validazione delle previsioni da Amazon Rekognition. Tra le piattaforme indipendenti, la principale è sicuramente Clarifai, che adotta un approccio supervisionabile con tanto di workflow per gestire l’apprendimento in base a specifiche esigenze dell’utente e adotta soluzioni particolarmente potenti per il riconoscimento di immagini, video e testi in contesti specifici come il food. Non solo è in grado di individuare singoli prodotti o ingredienti, ma anche preparazioni e piatti. Per il travel, invece, da una foto riesce a estrapolare anche il luogo, i servizi offerti o caratteristiche di location, hotel e residenze. La forza degli algoritmi di Clarifai è proprio il saper lavorare per ambiti circoscritti, con caratteristiche note e peculiari, alzando di conseguenza la precisione dei risultati. Un esempio è il riconoscimento automatico di capi e accessori o la classificazione delle texture e dei pattern per il fashion. Anche con i testi non se la cava male, OCR compreso: l’approccio in questo caso non è solo riconoscere e rendere il testo editabile, ma anche classificarlo in base al contenuto per la moderazione di contenuti indesiderati, cercare parole e concetti chiave o fare analisi di web reputation.

L’architettura dell’informazione

Passare dall’avere poco, magari estratto a fatica manualmente, a questa enorme messe di dati può disorientare. Prima di chiedersi cosa classificare, è opportuno chiedersi perché farlo, magari partendo da un’esigenza specifica. Il bello di queste soluzioni è che non seguono processi lineari: sono come delle reti e per di più scalabili. Ci si può muovere in ogni direzione e cambiare facilmente la profondità di analisi, basta modificare l’algoritmo e riprocessare i file. Potrei iniziare solo dal tagging per la classificazione e poi sfruttare l’identificazione degli oggetti cui legare delle azioni. È quello che succede per esempio con l’app di Ikea, dove nelle foto d’ambiente agli oggetti sono stati associati degli hot spot che rimandano alle scheda prodotto con le relative varianti colore e la possibilità di aggiungerli direttamente al carrello. Come si vede, questi strumenti, per quanto fortemente basati sulle macchine, richiedono sempre l’intervento umano per raffinare il risultato. È un cambio di paradigma: lascio alla macchina il lavoro più oneroso, lungo e a basso valore e mi concentro sull’addestramento dell’algoritmo.

Un valido approccio che può essere seguito è quello di procedere per step. Prendiamo i tag della foto (03) presa da Shutterstock: ha associate più di 200 parole chiave generiche che vanno dall’azzeccato “donna” all’incomprensibile “quadrante”, mancano del tutto non solo “giglio”, ma anche “fiore”, e ci sono anche “usura” e “vintage”. Se il mio

+ + + Quello che propone Adobe è un vero e proprio ecosistema, fatto di “piccole” funzionalità, come i filtri neurali di Photoshop, presenti nelle nuove release degli applicativi che semplificano il lavoro di grafici e creativi.

contesto è la moda, scremati gli errori, aggiunto i tag in base a una specifica semantica: quell’”usura” diventerà il “stone washed” del jeans, la trama della fascia sarà identificata come “losanga”; questo perché l’AI esamina i segni visivi (vettori, forme e colori) e li paragona con i modelli di riferimento ed è proprio sulle tassonomie, classificazioni e sulle localizzazioni che occorre lavorare.

AI a 360 gradi

Se sulle immagini questi automatismi risparmiano azioni ripetitive, pensate a cosa si può fare con un video, dove le immagini in movimento richiedono l’intervento quasi fotogramma per fotogramma. In questo caso Sensei, il motore di AI di Adobe, è davvero lo stato dell’arte. Abbiamo accennato sopra all’intelligenza artificiale applicata agli strumenti di Photoshop, ma è solo la punta di un iceberg. Quello che propone Adobe è un vero e proprio ecosistema, fatto di “piccole” funzionalità, come i filtri neurali di Photoshop, presenti nelle nuove release degli applicativi che semplificano il lavoro di grafici e creativi; ma soprattutto è fatto di potenti motori di elaborazione integrati nelle suite Experience Cloud e Marketing Cloud, la famiglia di prodotti per il business digitale, che consente di coprire end-to-end tutto il processo produttivo e distributivo riducendo i colli di bottiglia. Pensiamo a una libreria di immagini di prodotti archiviati sul DAM Adobe: Sensei può in automatico indentificare gli oggetti contenuti, isolarli, cropparli, ricavando dinamicamente foto per foto le coordinate di taglio, e poi creare altre rendition pronte alla distribuzione o preparate per un successivo riuso. Il vantaggio diventa esponenziale, ragionando sui video. Consideriamone uno editoriale per un sito e-commerce: Adobe copre le fasi dalla produzione – con l’editing e il montaggio del filmato, il riconoscimento dei dettagli (i prodotti), l’assegnazione di tag specifici per il CEO e il SEM del sito, l’applicazione di aree dinamiche che addirittura seguono i soggetti in movimento cui associare eventi – alla distribuzione, con la costruzione della pagina web che lo ospita e il CMS per l’erogazione del media in modo responsivo in base al device da cui si sta navigando indipendentemente dalle dimensioni e dalla forma dello schermo dell’utente (l’IA di Sensei arriva a rilevare il punto di fuoco e a operare i tagli di conseguenza, assicurando che il soggetto scelto sia sempre nitido e al centro della scena), e così via fino alla raccolta e all’analisi di tutti i dati classici degli analytics.

Oggi l’accesso ai dati si è molto semplificato, la consapevolezza del loro valore sta crescendo e sta portando a una trasformazione dei processi aziendali: occorre solo non lasciarsi spaventare dalla loro potenziale immensa vastità per imparare a navigare nel mare delle informazioni, senza trovarsi travolti o completamente all’asciutto.

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