POLITECNICO DI MILANO
PRIMA FACOLTA’ DI ARCHITETTURA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ARCHITETTURA DEGLI INTERNI
PROGETTI POSSIBILI PER UNA NUOVA ATTIVAZIONE DELLA CENTRALE NUCLEARE DI CAORSO
Relatore: Prof. Arch. Pierluigi Salvadeo Correlatore: Arch. Davide Colaci Studenti: Lucia Frescaroli Stefano Leoni
Anno Accademico 2010/2011
Grazie, a coloro che ci hanno supportato nel corso degli studi, [Antonio e Emanuela, Ezio e Rita], a coloro che ci hanno sopportato durante il periodo di tesi [Annalisa], a coloro che ci hanno aiutato nell’ambito ingegneristico [Fabrizio]. + Grazie, alla fiducia e alla condivisione [Pierluigi e Davide].
INDICE
00 - Introduzione.........................................................................................................................................5 01 - Manuale d’uso......................................................................................................................................9 02 - Environment......................................................................................................................................13 03 - Contesto nucleare...............................................................................................................................30 04 - Walking Experience............................................................................................................................40 05 - Manifesto | Concept............................................................................................................................52 06 - Progetto | Processo............................................................................................................................74 07 - Conclusioni......................................................................................................................................120 08 - Bibliografia.......................................................................................................................................125
00 - INTRODUZIONE
00.00
Questo lavoro si fonda sulla processualità come convinzione profonda, ormai radicata nel nostro pensiero: spesso l’architettura viene indicata come risolutrice di problematiche che richiedono una risposta breve ed immediata. Molto spesso l’architettura costituisce al contrario uno strumento obsoleto, non in grado di ovviare hic et nunc a tali problematiche: l’incapacità di cambiare e mutare in tempi ristretti rivela un limite troppo consistente dell’architettura tout court. La processualità sviluppata in ambito progettuale costituisce l’embrione del nostro approccio architettonico e rappresenta il procedimento cardine che permette di pensare e produrre un progetto anticipatorio continuo [RE:CP Cedric Price, pag 140]. La processualità diventa la chiave di lettura del territorio, dell’ambiente e del contesto umano; la consapevolezza che nulla è eterno ha guidato le nostre riflessioni in modo tale che queste rispondessero a dei bisogni reali. Progettare il processo significa accettare la processualità come fatto oggettivo di un paesaggio più o meno antropometrico, considerandola come un vero e proprio elemento progettuale fondante del ragionamento architettonico, e di conseguenza mettendola a sistema con tutti i dati in precedenza considerati. L’architetto rilegge e interviene su una realtà che sembra essere un organismo muto e spento, ma che è invece potenzialmente illimitato nella sua forma e nella sua vita. Immaginiamo di avere a che fare con un substrato sempre presente di collegamenti, di reazioni chimiche che governano il corpo ed il cervello, e che inconsciamente permettono la sopravvivenza di questo paesaggio e delle vite che al suo interno si sviluppano. In questo luogo potenzialmente illimitato subentra violento il lavoro dell’architetto, il progetto di trasformazione di quel luogo. Progetto che, accendendo come dei flash le differenti potenzialità di cui tutto il territorio sinaptico è permeato, individua un ciclo di eventi incredibilmente ricchi e vari, ripetibili e riconducibili ad un processo-progetto comune. Le possibilità antropiche del paesaggio finora inespresse esplodono in un continuum di hot spots che continuano a riconfigurarlo in un modo nuovo e totalmente inaspettato. Il progetto architettonico basa così la propria dimensione su incessanti passaggi di stato che si formano sulle attività e sugli ambienti costituenti: non esistono scelte e giudizi assoluti, ma ad ogni tempo corrispondono persone, attività e paesaggi intrinsecamente collegati tra di loro, come tante, tantissime vite possibili. In questo turbinio di accadimenti abbiamo realizzato come sia fondamentale considerare
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il ritmo del cambiamento nella fase progettuale lasciando spazi di labilità e di auto-determinazione in
grado di liberare tutte le possibili energie latenti intrinseche ad ogni ambiente. Abbiamo definito il battere ed il levare del progetto, riscrivendolo come una nebulosa di punti in cui le possibilità di scelta risultano molteplici. La cristallizzazione di alcuni campi di essa verrà determinata non solo dalle necessità umane o antropiche e dal contesto attivo in quel dato tempo, ma anche dall’opportunità di variare nel tempo il cambiamento stesso. Troviamo fondamentale progettare alcune di queste possibili opportunità-possibilità temporali, e tale valutazione rimarrà una costante di tutto il processo architettonico, dal progetto alla realizzazione. La valutazione dovrà tenere in considerazione la possibile discrepanza tra il progetto e l’effettiva resa in opera, lasciando spazio ad eventuali rilasci energetici, ovvero il presentarsi di nuove necessità, possibilità non considerate, cambiamenti naturali, ambientali e di attività, impossibili da prevedere o pianificare in stato di progetto. Consideriamo quindi valido anche un approccio del tipo bottom-up, perché pensare al progetto significa anche considerare una possibile mutazione dal basso. Per rigor di logica e di comunicabilità siamo indotti a suddividerlo e sintetizzarlo in alcune fasi principali, definendo comunque dei termini di labilità; ogni singola fase ha una sua indipendenza ma è necessariamente connessa al continuum del progetto. Il progetto viene orgnizzato sulla base di una serie di step conclusi (7+2 fasi) ma si sviluppa in essi, e tra essi, con un approccio a “coda”, cioè rilevando il cambiamento della fase precedente già in quella successiva e quindi l’embrione del cambiamento nella primigenia. Questo ci riconduce ad una continuità ritmica e progettuale fondamentale per ciò che noi abbiamo definito progetto anticipatorio continuo. Se a volte l’architettura riconosce nel suo iter temporale riconosce solo l’inizio e mai la fine, questo progetto tenta di innervare già all’interno dei dispositivi ideati il germe del loro decadimento. Ogni ambito del progetto architettonico, assunto che provenga da una domanda d’utenza, terminerà nel momento stesso in cui l’utenza cambierà le proprie abitudini. In ultimo, la nostra attenzione si focalizza sulla rilettura dello stato di fatto, ovvero il sistema composto da elementi e dati paritetici ed equivalenti nell’immaginario del sistema stesso. Gli elementi vengono analizzati separando la loro forma (significante) dal loro significato così da poter essere ricomposti 7
seguendo nuovi ordini relazionali, senza inibizioni di alcun tipo. Tutto ciò avviene scansionando gli stessi
in una progressione di tempo in cui, in ogni attimo, gli elementi messi in gioco possono cambiare. Il ritmo di questo evolversi è fondamentale e costituisce la struttura primaria del processo. Il paessaggio è quindi rappresentabile non più come una forma conclusa, ma come una forma aperta. Ciò che rimane immutato è il ritmo temporale, quantizzato e riferito a regole antropiche e naturali ben precise. Al contrario, la forma invece si polverizza, si modifica e diviene il nuovo paesaggio intrinsecamente legato alla natura, esempio incredibile di temporalità. Il passaggio da uno stato ad un altro di questo processo non include nessun ordine di giudizio: ogni momento fa parte dell’identità stessa del progetto e del luogo. La mancanza di una forma sempiterna non sminuisce il valore del progetto ma, al contrario, arricchisce quella che è l’immagine del paesaggio, creando uno scenario in continuo mutamento. Inoltre, considerando la spontaneità e l’incontrollabilità come elementi progettuali, tutto si carica di un ulteriore grado di libertà. Lavorare sul punto di transizione è difficile: è necessario conoscere i tempi naturali e antropici, ma studiarli richiede tempo e dedizione proprio per il fatto stesso che essi sono in continuo e constante cambiamento. Trasversare i dati richiede uno sforzo notevole, rendendo necessaria una continua attenzione verso le eventuali esternalità e labilità che accompagnano i ritmi del progetto e del suo environment. In conclusione, il tentativo del progetto è quello di “temporalizzare il futuro” [RE:CP. Cedric Price, pag 140] più o meno prossimo, facendolo diventare parte attiva e fondante del progetto.
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01 - MANUALE D’USO
01.00
L’esperimento messo in atto prende luogo in uno spazio di dimensioni extralarge, l’Oasi de Pinedo, importante oasi faunistica in prossimità del fiume Po e della città di Piacenza. La zona interessata è quella del piccolo comune di Caorso, noto ai più per la Centrale Nucleare situata al suo interno. La proposta di progetto considera un sistema ambientale nella sua totalità, osservandolo ad un’ampia scala e nelle relazioni territoriali, scomponendolo nelle sue parti elementari, sempre facendo riferimento alla scala umana come punto di partenza. Si è osservato non con poca sorpresa ed interesse il perfetto equilibrio ambientale dell’area, la convivenza mite tra uomo e natura ha dato spazio a un esplosione di energie entropiche tali da generare un sistema ricco di feconde eterogeneità. All’interno di questo contesto ambientale e naturalistico, causa prima della possibilità evolutiva di questo territorio, si colloca la centrale di produzione elettronucleare, un invadente oggetto di enormi dimensioni, appartenente ad una scala extra-large. Il gruppo di fabbricati si staglia silenzioso all’interno dell’oasi e attira l’attenzione da chilometri di distanza. Questo pachiderma architettonico è fautore dell’immobilismo che ha preservato l’area da interventi antropici radicali, la sua presenza e la sua natura di target sensibile ha ghiacciato per circa cinquant’anni una notevole parte del bosco planiziale golenale in cui è collocato, permettendo alla natura di svilupparsi ed esibire un’area con una biodiversità unica nella pianura padana. Il caso che si pone ai nostri occhi è curioso e ricco di sfide: l’immobilità antropica ha permesso un lavorio quatto e silenzioso da parte della natura e ha creato e autonomamente salvaguardato un ambiente unico nel suo genere. Il cortocircuito che si è creato è sconcertante: la presenza della centrale nucleare ha permesso al territorio di tornare a sviluppare caratteri ormai scomparsi nel resto della pianura padana. L’esperimento in tale contesto non avrebbe luogo di svilupparsi se non considerassimo che attualmente la centrale è sotto processo, nel vero senso del termine, questo pachiderma in calcestruzzo armato sta subendo una trasformazione lenta ma inesorabile. Spenta nel 1986 dopo il primo referendum sul nucleare in Italia, oramai obsoleta e non utilizzata sta subendo un piano di smantellamento che prevede la sua totale eliminazione e la restituzione del sito alla cittadinanza in completa libertà da ogni emergenza verticale e radiologica. Pezzo per pezzo il gruppo di produzione verrà smantellato nelle sua parti impiantistiche e successivamente raso al suolo. Altro elemento ricco di fascino è il carattere borderline dell’area, non solo perché essa è considerabile come una natura ad uno stato primordiale (o quasi) ma poiché si incastona tra il tessuto agricolo tipico della pianura padana e l’ingombrante massa d’acqua del fiume Po. Si delinea quindi un carattere mutevole
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del territorio, in cui il la sua identità di spazio borderline stimola l’interazione di una quantità incredibile di
fattori. Per anni questa area ha vissuto di piccole e continue mutazioni diluite nell’arco di cinquant’anni, scandite dai ritmi naturali più che da quelli antropici. La prima domanda che ci poniamo è: può l’uomo osservare queste trasformazioni ed esse possono divenire il motore di progetto per protendere ad un utilizzo dell’area che non destabilizzi i suoi fecondi equilibri? Subito ci siamo accorti della necessità di entrare in punta di piedi in questo luogo: introdurre qualsiasi tipo di attività vuol dire necessariamente apportare una trasformazione. Queste per non essere penalizzanti devono perfettamente adagiarsi e integrarsi con un tessuto di trasformazioni continue coerenti con l’ambiente e dei suoi ritmi. Quindi la prima operazione da compiere è quella di sviscerare i ritmi umani e i ritmi naturali: per loro identità sono caratterizzati da una vita differente in rapporto ad una tempistica diametralmente opposta. Se nel caso degli agenti naturali le trasformazioni sono lente e costanti nel tempo, nel caso umano esse avvengono in uno spazio più condensato con ritmi più serrati. Un esempio interessante di congiunzione tra questi due opposti è l’essenzialità del modello agricolo che riesce a coniugare tempistiche naturali con tempistiche antropologiche. In questo ambito si riescono a coniugare logiche organizzative e ritmiche diverse, in modo sempre dinamico, compenetrandole e riadattandole costantemente. La seconda domanda, che a cascata si protende dalla prima, può il processo stesso farsi progetto e nell’organizzazione dei suoi cambiamenti in divenire trovare la motivazione fondante di determinate scelte? Ci siamo accorti che quello che ci interessa indagare non è tanto il prodotto delle scelte fatte, quanto il processo decisionale e metodologico che ha portato a compiere determinate scelte. Variando la frequenza del ritmo notiamo come cambiano le possibilità intrinseche al ritmo stesso e come il processo di architettura possa valorizzare o meno determinate aree in determinati periodi. Di conseguenza ci accorgiamo che a seconda delle stagioni, delle migrazioni, dei cambiamenti climatici questo luogo offre opportunità differenti di incredibile valore. Non è possibile escludere un momento o un determinato periodo per valorizzarne altri: questo luogo vive del suo valore nella continuità del suo divenire giorno per giorno sfruttando la ritmicità che ad esso appartiene. Differente invece è la situazione della mastodontica centrale nucleare: essa ha oggi valore solo per il fatto 11
di essere stata in grado di preservare il territorio circostante e renderlo inaccessibile. Di per se essa sta
morendo, spenta ormai da venticinque anni è prossima al suo smantellamento, ad oggi potrebbe essere considerata come un costosissimo vuoto a perdere, il costo stimato per lo il solo processo di smantellamento degli edifici è pari a 450 milioni di euro. Siamo però consci che essa possiede una grande potenzialità poichè è intrisa della storia stessa che essa racconta e che soprattutto è racchiusa nel suo futuro, un futuro temporalizzato. Per questo ‘mostro ‘di calcestruzzo è infatti previsto un rigoroso susseguirsi di step, di passaggi di stato, che in circa trent’anni lo dovrebbero portare ad uno smantellamento totale. La centrale acquisirà in ogni fase del decommisiong e quindi un volto nuovo prodotto dallo smantellamento, aggiungendo ulteriore identità all’idea stessa della centrale. L’ultima domanda allora nasce naturale: può essere questo ritmo embrione per una serie di attività ed esperienze che trasversino il mero smantellamento dell’edificio? Questo luogo è un racconto particolare e stimolante di una storia tutta italiana, con i suoi lati oscuri e non, esso stesso diventa tramite per raccontare la sua storia. Coscienti di tale valore, crediamo che possa ancora raccontare (in rewind) ciò che fu ma sopratutto, grazie alla sua archetipica potenzialità di comunicazione, può diventare veicolo portatore di una nuova propositiva creatività lungimirante. Ripensare lo smantellamento in un ottica temporale-processuale intrinsecamente legata alle ritmicità dell’oasi che lo circonda puo’ diventare realmente una risposta carismatica e propositiva per un area che fino ad oggi veniva totalmente trascurata o peggio, percepita come un luogo privo di alcuna potenzialità positiva. E’ lapalissiano che un approccio di questo genere, totalmente basato sulla temporalità e sui ritmi, non possa contemplare al suo interno progetti di architetture imperiture, o almeno, non imponendole dall’alto. Tale approccio svela una verità che spesso è difficile da accettare: il progetto architettonico acquista valore grazie alla sua finitezza temporale. E’ un approccio che implica un nomadismo di attività che esisteranno solo ed esclusivamente fino a quando la natura lo permetterà, e soprattutto fino a quando saranno ancora necessarie. Noi partiamo dall’idea di pianificare l’emivita di ogni molecola progettuale o almeno ci rendiamo conto che esse non sono eterne, quindi già all’interno dell’idea di ogni progetto inseriamo il germe della sua fine. Ogni progetto nasce per compiersi in un intervallo di tempo, più o meno lungo, talvolta non quantificabile, vivendo fino a quando sarà utilizzato, non solo dall’uomo, e finchè non sarà trasformato o forse distrutto. La nostra è una sinfonia spontanea, i musici sono gli attori del luogo e il risultato è il processo stesso degli eventi, una sinfonia che mai si puo’ ripetere uguale a se stessa, ma che ha un inizio e (forse) non ha una fine. 12
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02 - ENVIRONMENT
02.00
Il
territorio
fluviale
emiliano:
volo
d’uccello
(estetico-geometrico).
Dalla vista satellitare il territorio fluviale appare articolato da due elementi ordinatori preponderanti: la rigida suddivisione agricola -pezze di colore e corposità diverse si articolano parallelamente alla via Emilia (SS9) che corre da Milano a Bologna, antico tracciato, eco di un passato ormai lontano e assopito- e il fiume Po, un fluido nastro che taglia nettamente il net dei contorni e degli intorni agricoli. L’incontro di questi due maxi elementi determina una irregolarità, un’eccezione alla suddivisione agricola: i colori come cluster magnetizzati si adagiano lungo le direttrici degli argini maestri del fiume e abbandonano i parallelismi con la via Emilia. Sempre attorno al grande corso d’acqua si riscopre uno spazio del tutto diverso, che balza agli occhi per il suo verde scuro e per la spontaneità delle sue forme: come elementi di risulta le aree di golena danno luogo a componimenti boschivi e coltivazioni di pioppi. Percepito fino ad ora come un sottile filo azzurro, il Po si inspessisce e acquista una dimensione planare. Già nelle considerazione a scala XXL è necessario riconoscere il fiume non più come solo elemento lineare ma come un confine spesso e mutevole nel territorio. Un limite vivo che nel corso delle stagioni cambia drasticamente il suo spessore modificando la percezione del territorio circostante, fino a fagocitare tutto il territorio golenale in cui gran parte del nostro progetto è inserito.All’interno di questo panorama satellitare colorato e movimentato si adagia il layer delle connessioni: ogni tipo rete (stradale ferroviaria, elettrica e telefonica) perfora puntualmente o linearmente questo terriotorio. Come layer sovrapposti si adagiano sulla pianura e vanno a calamitare abitazioni e architetture di ogni genere. Agglomerati di case, frazioni e paesi puntellano il patchwork agricolo creando continuità grafica e comunicativa: merci, persone ed informazioni circolano in uno spazio completamente antropizzato e quasi mai lasciato al caso. Anche se totalmente differente dalla città diffusa lombarda, l’antropizzazione è evidente nella sua declinazione agricola. Costellazioni di cascine si appoggiano sulla ragnatela delle infrastrutture secondarie creando veri propri punti attrattori agricoli, elementi sostanziali per quella che è la vocazione tipica di questi territori. Molte delle attività presenti hanno ritmi aventi parabole lunghe e dilatate, distanti dai ritmi di produzione industriale più compressi e veloci. L’agricoltura in questi luoghi è ancora basata sui rigidi ritmi della natura che detta i battere e i levare del tempo e delle mutazioni. Movimento e mutevolezza. La visione satellitare dichiara solo parzialmente quella che è stata la centuriazione romana del territorio: la massiccia scomparsa degli assi centuriali è imputabile all’instabilità idrogeografica . La innumerevole presenza di torrenti che corrono verso il Po, il continuo mutamento del loro alveo e dei sedimenti è la causa della radicale trasformazione della limitatio
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romana. Ciò che incuriosisce e che ci porta a riflettere su alcuni modus operandi contemporanei è il valore
dell’infrastruttura e dei collegamenti, quali elementi disegnatori e organizzatori dello spazio; e in secondo luogo la riduzione a scale umane di questi astratti elementi extra-large in elementi materiali (come strade viottoli, cavedagne, canali e muretti). La trasformabilità del territorio padano deriva originariamente dalla sua stessa materia prima: la presenza fluviale non è solo un elemento al pari degli altri ma piuttosto un confine attorno a cui molteplici scale organizzative e territoriali si calamitano. Le caratteristiche prime di tale elemento risiedono nella sua non-stati suo movimento e nella sua mutevolezza constante. “La spina dorsale della Pianura Padana è rappresentata dal corso del fiume Po che, lungi dall’essere un sistema statico, costituisce un elemento in continua evoluzione geo-morfologica, benché l’uomo sia pesantemente intervenuto negli utlimi secoli, tentando
di congelare la situazione con vari sistemi di arginatura,
disboscamenti e regimazione delle acque” [UN PO DI NATURA, pag 10]. Il ritmo di trasformazione è dilatato, e, viceversa, i suoi cambiamenti metrici spaziali sono minimi e impercettibili. I ritmi dei tempi della natura si contrappongano ai ritmi dell’uomo. L’uomo agisce ed ha sempre agito stendendo sul territorio reti di ogni tipo che si accomunano per la loro densità e talvolta per il loro agire a larga scala. Il sistema di centuriazione romana, per esempio, si fondava sull’organizzazione del territorio attraverso l’utilizzo di cardi, decumani e sottoclassi di essi. Questi suddividendo il territorio in moduli, lo rendevano fertile all’insediamento di persone, merci e informazioni. Il paesaggio si delineava quindi come un insieme di cluster territoriali più o meno regolari (20x20 actus -circa 710 m di lato-). Osservando a volo d’uccello il territorio possiamo scoprire due possibili modalità di messa a fuoco: la prima raffigura il paesaggio come un insieme di interni agricoli definiti da confini stradali; la seconda è il negativo della prima, considera interno il territorio stradale, di connessione e intorno il paesaggio agricolo. L’accento viene posato su la strada considerata come elemento di link e come componente ordinatore del paesaggio, insomma un network primigenio. Spazi (vuoti). In questa concezione del paesaggio i paesi, le frazioni e le cascine appaiono come grumi scuri aggrappati a ragnatele sottili visibili e invisibili. Reti che posseggono una matericità differente e racchiudono servizi diversi: reti infrastrutturali per il trasporto su gomma, reti per il trasporto su rotaia e su acqua, reti invisibili, o quasi, come quelle dei servizi, telefono, gas, acqua e dell’elettricità. Ognuna di queste contamina il paesaggio, lo rende sostanzialmente più antropico rispetto quello che fu, ma non lo riempie di materia. Lo spazio agricolo rimane uno spazio prevalentemente “vuoto” costellato da elementi puntiforme agglutinati attorno a reti di servizio. Non si tratta di spazi frammentati, di sguardi negati e poi ritrovati su un altro angolo del paesaggio. Stiamo parlando di assenza continuativa, di fluidità di visione. Siamo in presenza di un paesaggio frattale che sia osservato a volo d’uccello sia visto 16
dagli occhi di un bambino, si delinea in un immagine organica e continuativa in cui non vi sono centralità
o periferie ma solo un grande mare costellato da arcipelaghi architettonici e elementi unici ambientali. Non vi è soluzione di continuità. L’immagine mantiene in se l’orizzonte, quella linea tanto cara che divide equamente cielo e terra, nel si giustappongono piccoli elementi antropici strutturati e aggrappati tra loro e universi ambientali con ancora un forte grado di libertà naturale ma ordinati da un forte sistema antropico umano. Territorio caldo-freddo. E’ possibile rileggere questo territorio in ottica di densità materica, separando lo spazio dei pieni da quello dei vuoti. Non esiste una forma realmente complessa, ciò che è evidente è la supremazia del vuoto sul pieno. E’ tutto un grande vuoto che va a scontrarsi con piccole o grandi emergenze a seconda delle tipologia di reti e di insediamento. Tale forma rimane più o meno costante nel tempo, se consideriamo i ritmi attuali dettati dalle trasformazioni umane (spostamenti, vita, lavoro, ecc). Il paesaggio rimane ritmato dalla natura, dalla ciclicità delle stagioni e da cambiamenti insediativi che coprono lunghi tempi di progettazione e realizzazione. Sembra come se i ritmi umani, ormai frenetici e compulsivi, siano qui diluiti con quelli della natura. “Gli ambienti fluviali sono caratterizzati da un intenso dinamismo, nel breve (erosione spondale, deposito, esondazioni), medio (interrimento e creazione di lanche), e lungo periodo (migrazione delle anse). […]gli ambienti golenali restano tra quelli più soggetti a variazioni di fisionomia e delle caratteristiche ambienti” [UN PO DI NATURA, pag 15]. Non si tratta di stasi, di immobilità, ma di trasformabilità debole e diffusa, spesso sostenuta da poche figure umane e da molta natura. Non possiamo considerarlo come un territorio “freddo” (Claude Levì Strauss) ma neanche azzardare sia un territorio “caldo”, caratteriszzazione spesso usata in zone suburbane i cui i paesaggi sono ridefiniti da ritmi incalzanti e impetuosi. [“Smithson si spinge invece a esplorare i territori caldi, i paesaggi industriali, i territori sconvolti dalla natura o dall’uomo, le zone abbandonate votate all’oblio del paesaggio entropico, un territorio in cui si percepisce il carattere transitorio della materia, del tempo e dello spazio, in cui la natura ritrova un nuovo wilderness, uno stato selvaggio ibrido e ambiguo, antropizzato e poi sfuggito al controllo del’uomo per essere riassorbito dalla natura”] [WALKSCAPES, pag 128]. Intermittenza Scalare. Questo tipo di paesaggio è definito da elementi legati alla grande dimensione (XL) e che rapportati alla dimensione umana e locale spesso creano un corto circuito che causa incomprensioni sociali ed ecologiche difficili da affrontare: non esiste né un metodo nè un catalogo di procedure condivise dagli organi di gestione territoriale. Questo territorio si è evoluto all’insegna di due grandi matrici economiche, la produzione agricola e la logistica, che hanno portato l’identità del paesaggio locale verso una dimensione di paesaggio intra-territoriale: grandi infrastrutture, caratterizzate da ogni tipo di dimensione a scala XL (per velocità di percorrenza, dimensione metrica, dimensione materica, tipo di abitanti e 17
utilizzatori) si sono trovate a coesistere con elementi di connessione locali aventi caratteristiche XS (si
pensi ai sistemi di connessione di piccoli centri abitati, cascine e gruppi agricoli). Questa intermittenza è presente anche nel sistema produttivo agricolo che ha visto la trasformazione da produzione agricola “da banco” a produzione agricola industriale. I dispositivi stessi legati al mondo dell’agricoltura sono cambiati radicalmente, creando un cortocircuito con il sistema infrastrutturale locale. La coesistenza di più dimensioni contemporaneamente è diventata ormai una caratteristica imprescindibile del territorio fluviale emiliano. Definito ciò si rileggo come nuove porte del territorio elementi come caselli autostradali e porti fluviali, che danno la possibilità di fare un salto di scala notevole tra realtà differenti, governate da mutazioni e ritmi differenti.
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ciclicitĂ delle coltivazioni
presenza stagionale dell’avifauna
Portata media annua del Po
Fasi speciale del Po
02.01
Scenari polverizzati. Il paesaggio fluviale emiliano è fortemente legato all’utilizzo agricolo, piuttosto che industriale ed artigianale. Tale attività deriva principalmente dall’essere un luogo con un alto potenziale di coltivabilità grazie ad un terreno pianeggiate e molto ricco. L’organizzazione di questo territorio è definibile debole e diffusa, composta principalmente da piccoli centri urbani che fanno da costellazione alle province cittadine. Tali assemblage abitativi presentano un forte legame con il territorio e vivono situazioni di crisi ogniqualvolta che devono far coincidere obiettivi a scala locale e obiettivi a scala regionale. La stessa produzione agricola ha notevolmente mutato la tipologia dei suoi prodotti e le rispettive quantità tentando di soddisfare le necessità produttive delle grandi industrie alimentari atte alla grande distribuzione nazionale. Questi profondi cambiamenti hanno trasformato completamente quella che è l’immagine del paesaggio fluviale: i modelli agricoli avendo come caratteristica peculiare quella di essere reversibili, leggeri e facilmente adattabili hanno mutato il loro assetto senza aver modificato radicalmente l’immagine del territorio. I sistemi agricoli sono semplici: una serie di appezzamenti di terreno vengono organizzati e sfruttati da una o più cascine. Le cascine sono sistemi complessi composti e organizzati secondo diversi sottosistemi. Questi sottosistemi sono via via andati a modificarsi nel tempo, seguendo le necessità di rinnovamento tecnologico per far fronte alla necessità di produzione e di mercato ma sostanzialmente mantenendo le proprie caratteristiche peculiari. Il modello agricolo, dunque, è conscio del continuo divenire e dei cambiamenti sempre in atto e per tale ragione è sempre aperto ad una mutazione possibile. Polverizzate sul territorio sono integralmente radicate al terreno e appaiono ai nostri occhi come scenari indipendenti legati tra loro dall’ambiente e dalla natura. “[…]un funzionoide che quindi risponde positivamente al mutare delle necessità, anche stagionali. Un’architettura nella quale torna la componente tempo, come variabile di un’equazione imperfetta e in completa che si adatta al cambiamento.” [MODERNITA’ DEBOLE E DIFFUSA, Andrea Branzi, p.132]. La polverizzazione richiama un’immagine rispettosa del territorio ma soprattutto non protagonista e non preponderante rispetto all’elemento naturale. La polverizzazione richiama alla mente la possibilità di muoversi inframente, tra un elemento e l’altro senza sovrastare o occultare. Stagionalità. Questo approccio nasce dalla convinzione ormai millenaria della dipendenza tra uomo e natura, nella comprensione delle reciproche identità. La caratteristica prima della vita agricola è la ritmicità dettata dal nascere e sorgere del sole ma soprattutto dalla ciclicità delle stagioni. L’uomo è da sempre in simbiosi con la natura e da essa dipende il suo sostentamento. La stessa possibilità
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di poter trovare ogni anno elementi naturali utili alla semina, alla coltivazione, alla vita ha permesso
all’uomo di instaurare un dialogo di fiducia con la natura conscio che nulla è per sempre ma che nel futuro risiede la possibilità di ricostruire la quotidianità. Natura e artificiale. Questo dialogo ha permesso di superare quella dicotomia che si è sviluppata negli anni del boom economico mondiale (1950-1970) tra città e campagna, uomo e natura, ecc. lasciando intravedere la possibilità di un cambiamento rispettoso e migliorativo per entrambi. Queste dicotomie hanno spesso portato alla luce approcci progettuali e procedure che consideravano il tutto diviso in due parti antitetiche, incapaci di convivere. L’ambiente agricolo, ci permette di osservare i paesaggi come scene descritte da elementi e attori complementari,coesistenti e co-produttivi e non incompatibili. Si tratta di un inframezzo tra natura e artificio al quale si sta sempre di più tendendo, lasciando intravedere la possibilità di superare quelle convinzioni cristallizzate che per anni hanno imperversato nell’immagine della città e campagna. “La civiltà agricola industriale realizza un paesaggio orizzontale, privo di cattedrali, attraversabile: il turnover delle coltivazioni permette di gestire il paesaggio agricolo secondo una logica transitoria, che si adegua all’equilibrio produttivo del terreno all’andamento delle stagioni e del mercato”. [MODERNITA’ DEBOLE E DIFFUSA, Andrea Branzi, p.132]. Prodotto agricolo. E’ facile comprendere come il paesaggio agricolo sia stato fortemente modificato e come la sua immagine sia oggi ben lontana da certe pubblicità legate alla produzione alimentare: la bassa padana è per antonomasia il territorio agricolo industriale in cui ogni anno vengono messi a punto nuovi sistemi idrici, di raccolta, di semina, ecc che vanno a modificare il paesaggio in modo dirompente. Arturo Lanzani individua solo quattro degli elementi che possono essere riletti: in primo luogo la diffusione di nuove forme di irrigazione (si è passati da una complessa rete di canalizzazioni, all’utilizzo di pompaggi automatici e getti d’acqua che caratterizzano il paesaggio durante il periodo estivo, da sistemi mobili di grandi dimensioni, fino ad un sistema goccia goccia). L’evoluzione del paesaggio antropico è anche il ripopolamento da parte di immigrati delle grandi cascine che riattivano la vita vissuta all’interno di esse riportandole alla loro vocazione originale di luogo sociale. L’evoluzione o la scomparsa di alcune colture a causa di incentivi statali o europei, l’abbandono della produzione foraggera dettata dalla diversa alimentazione delle bestie da allevamento, la trasformazione di campi da coltivazione in campi energetici, vere e proprio energy farm iper-sovvenzionate da alcune scelte politiche e in ultimo la ristrutturazione di edifici per uso vacanziero da parte di poche e facoltose famiglie. Le motivazioni possono essere tante altre (storico, sociali, ecc.) ma è “certo che nuovi usi e culture sempre più mutevoli nel tempo sviluppano particolari cornici paesaggistiche” e producono “ambienti ibridi sempre più ricchi dei fratture, scollamenti e rifiuti, […]configurando differenti quadri (stabili o momentanei) di vita, differenti orizzonti della nostra 22
esistenza” [I PAESAGGI ITALIANI, Arturo Lanzani, p.188]. Composizione agricola. Da ciò risulta che i
cambiamenti in atto sono fotografie istantanee che raccontano di tempi precisi e unici nel loro scorrere. Come i mobili di una stanza, gli elementi tecnologici e quelli naturali vengono reiterati, acquisiti o eliminati a seconda di precise scelte commerciali. Non vi è alcuna ricerca di ordine estetico oggettivo-assoluto, ciò che caratterizza il paesaggio agricolo è solo una risposta ad una necessità funzionale. Molto dell’appeal lo svolge lo sfondo naturale, sempre affascinante nel suo processo di divenire, anche se in realtà fortemente antropizzato. I dispositivi ed i macchinari tipici del lavoro agricolo, anche senza necessariamente un alto grado estetico, portano con la loro presenza un grande valore simbolico e immaginifico. Nel territorio è notevole la presenza di manufatti architettonici storici, legati indubbiamente a necessità funzionali ma che con il tempo hanno acquisito una indubbia qualità estetica. Prima di tutto, l’immagine del paesaggio è un’immagine fissata nella mente di coloro che appartengono ad esso e che lo vivono ogni giorno. Il territorio della “bassa” è sempre stato un misto tra la sensibilità naturale e la sensibilità tecnologica dei suoi abitanti, la sinergia tra luogo e strumenti di lavoro ha creato oggi quel paesaggio contemporaneamente plasmato e antropizzato ma ancora ricco di scorci naturali e caratteristici. In realtà non vi è una contrapposizione tra paesaggio, attività locali e società locali ma piuttosto una “esplorazione di possibilità inscritte in un dato quadro storico-geografico. […] il paesaggio come il farsi di una certa società in un certo territorio” [I PAESAGGI ITALIANI, Arturo Lanzani, pp.226-227].
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02.02
SIC (Wiki) Il sito di interesse comunitario o Sito di Importanza Comunitaria (SIC), in inglese Site of Community Importance, è un concetto definito dalla direttiva comunitaria n. 43 del 21 maggio 1992, (92/43/CEE) Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, della flora e della fauna selvatiche, nota anche come Direttiva “Habitat”, recepita in Italia a partire dal 1997. In ambito ambientalistico il termine è usato per definire un’area che contribuisce in modo significativo a mantenere o ripristinare una delle tipologie di habitat. o a mantenere in uno stato di conservazione soddisfacente una delle specie definite della Direttiva Habitat; un’area che può contribuire alla coerenza di Natura 2000 e/o che contribuisce in modo significativo al mantenimento della biodiversità della regione in cui si trova. Secondo quanto stabilito dalla direttiva, ogni Stato membro della Comunità Europea deve redigere un elenco di siti (i cosiddetti pSIC, proposte di Siti di Importanza Comunitaria) nei quali si trovano habitat naturali e specie animali (esclusi gli uccelli previsti nella Direttiva 79/409/CEE o Direttiva Uccelli) e vegetali. Sulla base di questi elenchi, e coordinandosi con gli Stati stessi, la Commissione redige un elenco di Siti d’Interesse Comunitario (SIC). Entro sei anni dalla dichiarazione di SIC l’area deve essere dichiarata dallo stato membro zona speciale di conservazione (ZCS). L’obiettivo è quello di creare una rete europea di ZSC e zone di protezione speciale (ZPS) destinate alla conservazione della biodiversità, denominata Natura 2000. In Italia la redazione degli elenchi SIC è stata effettuata a cura delle regioni e delle province, avvalendosi della consulenza di esperti e di associazioni scientifiche del settore. Tutti i piani o progetti che possano avere incidenze significative sui siti e che non siano direttamente connessi e necessari alla loro gestione devono essere assoggettati alla procedura di Valutazione di Incidenza Ambientale. [tratto da: http://it.wikipedia.org/wiki/Sito_di_importanza_comunitaria]. ZPS (Wiki). Le Zone di Protezione Speciale o ZPS, in Italia, ai sensi dell’art. 1 comma 5 della Legge n° 157/1992 sono zone di protezione scelte lungo le rotte di migrazione dell’avifauna, finalizzate al mantenimento ed alla sistemazione di idonei habitat per la conservazione e gestione delle popolazioni di uccelli selvatici migratori. Tali aree sono state individuate dagli stati membri dell’Unione Europea (Direttiva 79/409/CEE nota come Direttiva Uccelli) e assieme alle Zone Speciali di Conservazione costituiranno la Rete Natura 2000. Tutti i piani o progetti che possano avere incidenze significative sui siti e che non siano non direttamente connessi e necessari alla loro gestione devono essere assoggettati alla procedura di Valutazione di Incidenza ambientale. [tratto da: http://it.wikipedia.org/wiki/Zone_di_protezione_speciale]. ZCS (Wiki). Una zona
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speciale di conservazione o ZSC, ai sensi dell’art 3 del DPR n° 357/97, è un SIC ovvero una zona in
cui sono applicate le misure di conservazione necessarie al mantenimento o al ripristino degli habitat naturali e delle popolazioni delle specie per cui il sito è stato designato dalla Commissione Europea. Un SIC viene adottato come Zona Speciale di Conservazione dal Ministero dell’Ambiente entro 6 anni dalla formulazione dell’elenco dei siti. [tratto da: http://it.wikipedia.org/wiki/Zone_ speciale_di_conservazione]. Natura2000. In tutta Europa è entrato in vigore un sistema organizzato (“rete”) di aree (“siti”) destinate alla conservazione della biodiversità presente nel territorio dell’Unione Europea, ed in particolare alla tutela di una serie di habitat e di specie animali e vegetali rari e minacciati. L’individuazione dei siti è stata realizzata in Italia, per il proprio territorio, da ciascuna Regione con il coordinamento del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Insieme alle Aree protette (Parchi e Riserve naturali statali e regionali), i siti di Rete Natura 2000 costituiscono in Emilia-Romagna un vero e proprio sistema di tutela del patrimonio naturale - sviluppato secondo la disciplina della formazione e gestione regionale in materia (L.R. n.6/2005) ed esteso attualmente su oltre 325.000 corrispondenti al 14,5% del territorio regionale - destinato principalmente alla conservazione degli habitat (foreste, praterie, ambienti rocciosi, zone umide) e delle specie animali e vegetali classificati tra i più importanti e significativi per la natura emiliano-romagnola nel contesto nazionale ed europeo.
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02.03
|E C O|Sistema Il sistema fluviale è costituito da una vera e propria lista di elementi che lo compongono. Prima di descrivere quantitativamente e oggettivamente i dati che lo descrivono, definiamo una serie di parole chiave in grado di delineare il significato di questi Ecology Contents Organization. Accumulo. La forma del fiume è dettata principalmente dal tipo di terreno e dalla sua pendenza: nel primo tratto del fiume (fino all’altezza di Pavia circa) il fiume possiede un alveo stretto e profondo, incastonato in un territorio prettamente roccioso. Ciò conferisce al corso un aspetto rettilineo e impetuoso. Quando però il fiume incontra il terreno padano, largamente alluvionale e argilloso, esso si dilata e tende ad abbracciare una enorme quantità di metri quadri. La sua linea si inspessisce e fluidamente si delinea una sinusoide aventi spire strette ed estese. In questo tratto, tipicamente planiziale, il fiume svolge un’azione mista tra erosione ed accumulo. Il suo alveo si abbassa e proporzionalmente si allarga, la linearità del corso va a perdersi, formando rami variamente divaganti sempre più numerosi. Isoloni. Vengono così a delinearsi porzioni di greto affiorante che evolvono fino alla realizzazione di veri e propri habitat fluviali. Questi elementi territoriali sono possiedono per loro natura una ricca quantità di flora e fauna, la cui eterogeneità e tipicità le fa diventare effettive oasi fluviali. Meandri. La sinuosità del corso produce anse profonde, dette meandri, che rappresentano ambiti in continua trasformazione, solitamente nell’arco di pochi decenni. Il meandro è infatti soggetto a due movimenti fondamentali: l’ampliamento progressivo esercitato dall’erosione sulla sponda esterna - dove è maggiore la velocità della corrente - e la deposizione su quella interna - dove è minore la corrente - che determina la strozzatura del meandro. Lanca. Questo è il principio attraverso cui si formano aree lacustri di forma di forma semilunare, dette lanche. Anche questi elementi acquisiscono un’identità propria che ne fa un vero e proprio ecosistema fluviale molto ricco dal punto di vista biologico e dei biotipi. Questo è spesso accompagnato da un paesaggio particolare e affascinante. IT4010018 (Fiume Po da Rio Boriacco a Bosco Ospizio). Territorio confinante con IT20A0016 SIC “Spiaggioni di Spinadesco” della regione Lombardia, con IT2080703 ZPS “Po di Pieve Porto Morone” della regione Lombardia, con IT2080702 ZPS “Po di Monticelli Pavese e Chignolo Po” della regione Lombardia, con IT2090702 ZPS “Po di Corte S. Andrea” della regione Lombardia, con IT2090701 ZPS “Po di San Rocco al Porto” della regione Lombardia, con IT4010016 SIC-ZPS, con IT20A0501 ZPS “Spinadesco” della regione Lombardia, con IT2090503 ZPS “Castelnuovo Bocca d’Adda” della regione Lombardia, e con IT2090501 ZPS “Senna Lodigiana” della regione Lombardia.
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02.04
Oasi De Pinedo In questo paesaggio prende vita un’area naturale protetta e riconosciuta anche a livello regionale attraverso i SIC: questa oasi della biodiversità comprende l’isola De Pinedo, piccolo isolone situato a nord della sponda destra del fiume Po; un’area di golena costituita da un fitto bosco di salici che si estende in parte intorno ad una lanca di notevole valore naturalistico e in parte lungo una costa, affiancandosi direttamente sul fiume; una seconda area costituita da un importante filare di alberi tra i quali alcuni secolari (querce, ontani e olmi), che si unisce a un boschetto di salici situati intorno ad una lanca. L’oasi comprende anche l’area che si estende ai bordi del torrente Nure Vechio, la quale è ricca di una fitta vegetazione naturale costituita in prevalenza di salici e canneti. Tutta l’area ricade nella zona golenale, vale a dire che è soggetta, almeno in parte, a periodica sommersione da parte delle piene de Po. Ciò ha anche limitato gli insediamenti umani: sul territorio sono presenti alcune cascine e la centrale elettronucleare di Caorso che però è collocata su un terrapieno. La presenza antropica è comunque visibile: soprattutto nel paesaggio vegetale è possibile notare molte aree dedicate alle colture agricole (pioppeti e seminativi). Alcune di esse si spingono anche fino al fiume Po. Lungo il sinuoso snodarsi del fiume Po e sull’isola restano ampie superfici a saliceto, e soprattutto lungo le lanche si sviluppano tratti significativi di canneto. Importante è inoltre il sistema di stagni artificiali (cave di argilla in disuso) situato all’interno dell’area della centrale nucleare: abbandonati da decenni, si trovano ora in avanzato stato di rinaturalizzazione e costituiscono uno degli ambienti più interessanti dell’intera area. Composizione. Il volto di questa oasi è unico e ormai inimitabile lungo il corso del fiume: negli ultimi cento anni le aree paludose, considerate in passato insane, sono state tutte bonificate e completamente trasformate causando una enorme perdita di biodiversità a livello di flora e fauna. L’oasi presenta ancora quelle caratteristiche che stanno ormai scomparendo lungo il corso del fiume Po e per tale ragione necessita una particolare attenzione e conservazione. In generale il paesaggio presenta un forte carattere di variabilità causato dal mutamento più o meno accentuato del corso fluviale e dalla variazione del regime idrografico dovuto all’alternanza di periodi di piena e di magra, durante i quali si arricchisce di isole fluviali grandi e piccole, originatesi dall’accrescimento continuo di banchi subacquei e di larghe spiagge sabbiose. In quest’area ci sono più esempi di questo continuo mutamento del paesaggi: la presenza del tronco morto del torrente Nure che si snodava da ovest a est sfociando nel Po all’altezza circa della cascina America, a sud-est dell’isola De Pinedo; la stessa isola che muta stagionalmente il suo perimetro a seconda del livello idrico del fiume; la Lanca Mezzanone che, essendo in diretto contatto con
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il fiume, modifica le sue dimensioni e la qualità dell’acqua a seconda delle stagioni di secca o di piena;
l’area delle ex cave RDB collocate nella zona di proprietà SOGIN, che offre un habitat prettamente paludoso e ottimo per la nascita e la riproduzione di specie vegetali e animali acquatiche. In generale il resto dell’oasi si presenta ricca di area lande palustri alternate a spiaggette di deposito fluviale, canneti e aree boschive. Saliceti. Dal punto di vista botanico, oltre alla vegetazione più tipica delle aste fluviali in cui e’ presente la macchia spontanea, troviamo una zona caratterizzata da un fitto bosco di salici che si estende nelle zone a più stretto contatto con i corsi d’acqua. Queste specie legnose hanno elevato valore naturalistico proprio per la loro peculiarità di affacciarsi direttamente sul fiume. Lo strato erbaceo dei saliceti è costituito da piante che prediligono substrati freschi e ricchi di sostanze nutritive le quali gli permettono di addensarsi e crescere fino a superare il metro di altezza. Questa copertura vegetale si fa più fitta ed intricata con l’avanzare dell’estate e l’aumentare delle piante rampicanti. Alberi secolari. Un’altra emergenza che si accompagna ai saliceti lungo la zona ripale è costituita da un imponente filare di alberi (tra i quali alcuni secolari), che proprio per la loro caratterizzazione botanica (si tratta dei generi: quercus, ulmus, allanthus, etc.) risultano di per sé significativi e rari in quanto localizzati in ambiente fluviale. Piante acquatiche. In questi ultimi anni si è assistito ad un generale regresso della vegetazione acquatica, essendo la flora più sensibile ai cambiamenti degli stati di salute del fiume. In generale essa tende, dove le condizioni di luce lo consentono, a ricoprire completamente la superficie degli specchi d’acqua ferma, costituendo densi consorzi che raggiungono il massimo sviluppo durante l’estate. Queste piante si radicano in zone fangose, anche parzialmente sommerse, ed è facile vederle comparire nelle lanche, negli stagni, oppure in depressioni umide o spiaggette periodicamente inondate. Diciamo che si trovano in quella fase di transizione che va dagli specchi d’acqua ai consorzi vegetativi più stabili e consistenti, come appunto i saliceti. Un esempio esplicativo di questo paesaggio vegetativo sono i canneti. La peculiarità di questa flora è la continua necessità di acqua, che caratterizza anche la loro posizione spesso a diretto contatto con il fiume Po. Pioppeti artificiali. Uno dei paesaggi golenali più tipico è il pioppeto, che da sempre è considerato la cultura che meglio si adatta a queste aree, sia per la resistenza del pioppo a periodi anche prolungati di sommersione e falda superficiale, sia per il minor ostacolo che questa offre al deflusso delle acque di piena. Questi elementi vegetativi sono molto differenti da un bosco naturale: essendo colture agrarie sono sottoposte a lavorazioni continue e le loro chiome subiscono regolari trattamenti antiparassitari. Ciò causa una bassa presenza di flora a livello del terreno, rendendo sempre più rari i casi in cui si verificano interessanti situazioni floristiche. Siepi. Un ultimo ambiente di pregio presente nell’Oasi riguarda le siepi di pianura, che in particolare si sviluppano lungo gli arginelli 28
golenali. Questi ambienti sono composti da molteplici essenze legnose a seconda del terreno e
dell’assolamento, in generale però sono quasi tutti collocati come manto per le fasce boschive o nelle fasce di territorio tra gli ambienti forestali e gli spazi aperti. Tutti questi ambienti costituiscono un habitat favorevole alla selvaggina, sia stanziale che migratoria; in particolare è da rilevarsi la presenza di una ricca avifauna costituita prevalentemente da uccelli legati all’ambiente acquatico. Fauna. La ricchezza faunistica è certamente notevole: 25 specie di mammiferi, 73 specie di uccelli nidificanti, 6 specie di rettili e 8 specie di anfibi. Le presenze delle differenti specie sono dovute prevalentemente alle ritmicità stagionali che dettano i tempi delle migrazioni e delle presenze persistenti. La nidificazione degli aironi (rossi e cenerini) è ormai persistente nei saliceti arbustivi ed è possibile avvistare degli esemplari adulti già dai primi giorni di febbraio. Sempre in questo periodo i primi anfibi migratori tornano per deporre le loro uova. All’inizio di aprile l’Oasi tende a risvegliarsi: grazie ai primi arrivi del falco di palude. Con l’aumentare della temperatura, l’oasi si ripopola di vita: migliaia di uccelli migratori prendono spazio all’interno del territorio tornando a far parte dell’equilibrio ciclico dell’ecosistema. Agli inizi dell’autunno i primi uccelli lasciano l’Oasi per spostarsi a sud verso luoghi più caldi. Questi ambienti umidi sono caratterizzati da una fortissima dinamicità che si mantiene in uno stato di equilibrio perfetto. Questo stato è messo in crisi da una gestione sempre più invasiva, spesso attuata tramite piani del territorio, che non considera l’aspetto dinamico e complesso di questo ecosistema.
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03 - CONTESTO NUCLEARE
03.00
Il territorio nucleare: breefing italiano (Wiki) In Italia la produzione di energia elettrica da fonte nucleare risale ai primi anni sessanta (nel 1966 la nostra nazione figurava come il terzo produttore al mondo, dopo Stati Uniti d’America ed Inghilterra). Considerato che le tecnologie disponibili nelle prime fasi dello sfruttamento dell’energia nucleare erano molteplici e che non si conoscevano ancora tutti i vantaggi e le problematiche relative ad ognuna di loro, l’Italia si dotò di tre centrali con differenti metodologie produttive (anche se tutte di origine anglo-americana) che rappresentavano, per ciascuna di esse, dei modelli pressoché prototipali. Questi esperimenti servirono anche a Regno Unito e USA per sperimentare all’estero dei reattori capostipiti delle rispettive filiere. La prima centrale elettronucleare italiana venne realizzata a Latina, un impianto con un unico reattore di tipo Magnox da 160 MWatt lordi che, una volta ultimato il 12 maggio 1963, ne rappresentava l’esemplare più potente a livello europeo. Otto mesi più tardi fu approntata quella di Sessa Aurunca, alla quale seguì meno di un anno dopo l’installazione di Trino, che aveva a disposizione un reattore PWR Westinghouse da 270 MW lordi e che al momento della sua entrata in funzione costituiva la centrale elettronucleare più potente del mondo. L’energia prodotta da queste tre centrali era comunque ridotta rispetto al fabbisogno nazionale, a cui contribuivano mediamente per il 3-4%. Il 1º gennaio 1970 iniziò la costruzione della quarta centrale, quella di Caorso. Fino alla metà degli anni Settanta la situazione della generazione elettrica in Italia era piuttosto confusa, essendo indefinite le esigenze produttive e quindi il parco centrali necessario. PEN. Nel 1975 avvenne il varo del primo Piano Energetico Nazionale (PEN) che prevedeva, fra le altre cose, un forte sviluppo della componente elettronucleare. In aggiunta alle tre centrali già in funzione e a quella in via di realizzazione a Caorso, vennero proposti una serie di siti per nuove centrali elettronucleari oltre alla costruzione di alcuni prototipi di filiere di reattori innovativi. Il 1º luglio 1982 fu messa in cantiere la centrale con due reattori BWR da 982 MW di potenza elettrica netta ciascuno di Montalto di Castro. Venne anche delineata una seconda centrale a Trino (la prima basata sull’allora nascente “Progetto Unificato Nucleare”) con due reattori PWR da 950 MW di potenza elettrica netta ciascuno. (Dis)astri. L’incidente di Černobyl’ del 1986 (sulla scia di quello di Three Mile Island del 1979 che fece posticipare l’inizio dell’esercizio commerciale dell’impianto di Caorso al fine di provvedere ad alcuni aggiornamenti ai sistemi di sicurezza) portò l’Italia a indire l’anno successivo tre referendum nazionali sul settore nucleare. In tale consultazione popolare, circa l’80% dei votanti si espresse a favore delle istanze portate avanti dai promotori. È da notare come i tre referendum non vietavano in modo esplicito la costruzione di nuove centrali (e men che
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meno imponevano la chiusura di quelle esistenti o in fase di realizzazione) ma si limitavano ad abrogare
i cosiddetti “oneri compensativi” spettanti agli enti locali sedi dei siti individuati per la costruzione di nuovi impianti nucleari (nonché la norma che concedeva al CIPE la facoltà di scelta dei siti stessi in presenza di un mancato accordo in tal senso con i comuni interessati) e a impedire all’Enel di partecipare alla costruzione di centrali elettronucleari all’estero. Chiusura. Visto l’esito molto netto del voto, tra il 1988 e il 1990 i Governi Goria, De Mita e Andreotti posero termine all’esperienza elettronucleare italiana con l’abbandono del Progetto Unificato Nucleare e la chiusura delle tre centrali ancora funzionanti di Latina, Trino e Caorso (l’impianto di Sessa Aurunca era infatti già stato fermato per guasti nel 1982 e, a seguito di valutazioni sull’antieconomicità delle riparazioni, messo in decommissioning). Le due centrali di Latina e di Trino erano praticamente a fine vita (erano state progettate per poter funzionare per 25-30 anni dall’accensione del reattore) e dunque l’unica centrale che venne effettivamente chiusa con grande anticipo sul ciclo previsto fu quella di Caorso. Sogin. Dal 1999 tutti i siti di queste centrali sono di proprietà e gestiti da SOGIN S.p.A. e, assieme agli altri complessi nucleari presenti sul territorio italiano, sono in fase di decommissioning e programmati per essere rilasciati all’ambiente senza alcun vincolo radiologico entro il 2030. Rifiuti. Nel periodo di attività antecedente al 1987, le centrali elettronucleari italiane hanno prodotto scorie radioattive che, ad aprile 2010, si trovano quasi completamente negli impianti di ritrattamento di Areva a La Hague in Francia (da dove verranno restituite riprocessate nel 2025) e di BNFL a Sellafield nel Regno Unito (che saranno invece rese nel 2017). In precedenza, erano sistemate nelle piscine delle centrali stesse o in quella dell’impianto EUREX di Saluggia. Nel maggio 2006, quando ospitava ancora 52 barre di combustibile irraggiato provenienti dalla centrale di Trino, a causa di un trasudamento si sono verificati dei rilasci incontrollati di liquidi, ad oggi la piscina in questione risulta però completamente svuotata. Oggi. Il dibattito politico si è riaperto dopo l’impennata dei prezzi di gas naturale e petrolio negli anni tra il 2005 e il 2008 ed ha condotto alla decisione del Governo del 2008 di ripristinare in Italia una capacità nucleare a fini di elettro-generazione. Il ministro dello Sviluppo Economico, all’epoca nella persona di Claudio Scajola, ha proposto in tal senso di costruire dieci nuovi reattori con l’obiettivo di arrivare a una produzione di energia elettrica da nucleare in Italia pari al 25% del totale, cosa che insieme all’aumento fino al 25% di quella fornita da fonti rinnovabili, porterebbe conseguentemente a un ridimensionamento al 50% di quella di origine fossile. La nuova politica annunciata dal Governo Italiano vorrebbe in tal modo tagliare le emissioni di gas serra, ridurre la dipendenza energetica dall’estero e abbassare il costo dell’energia elettrica all’utente finale, anche se quest’ultimo punto non è accertato univocamente. L’intento di tornare alla produzione elettronucleare in Italia è stato dapprima postulato con 33
la definizione della “Strategia energetica nazionale” ai sensi dell’articolo 7 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 147 del 25 giugno 2008 (Supplemento Ordinario n. 152), entrato in vigore lo stesso giorno e convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 195 del 21 agosto 2008 (Supplemento Ordinario n. 196) ed entrata in vigore il 22 agosto 2008 e successivamente normato con gli articoli 25, 26 e 29 della legge 23 luglio 2009, n. 99 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 176 del 31 luglio 2009 (Supplemento Ordinario n. 136) ed entrata in vigore il 15 agosto 2009 e con il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana - Serie Generale n. 55 dell’8 marzo 2010 (Supplemento Ordinario n. 45) ed entrato in vigore il 23 marzo 2010. Ricorsi. Dieci Regioni italiane (Puglia, Toscana, Umbria, Liguria, Basilicata, Lazio, Calabria, Marche, Emilia-Romagna e Molise) hanno impugnato la legge 23 luglio 2009, n. 99 (nella sua parte che conferisce al Governo centrale la delega per la riapertura degli impianti nucleari in territorio nazionale) in quanto da loro ritenuta incostituzionale, ricorso poi rigettato dalla Consulta il 24 giugno 2010. Tre di queste Regioni (EmiliaRomagna, Puglia e Toscana) hanno anche fatto istanza contro il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31. Con la sentenza numero 33/2011 la Corte Costituzionale si è espressa in merito ai ricorsi, giudicando che prima di costruire un impianto nucleare è obbligatorio chiedere il parere alla Regione che dovrà ospitarlo, che non sarà però vincolante, stabilendo illegittimo l’articolo 4, «nella parte in cui non prevede che la Regione interessata, anteriormente all’intesa con la Conferenza unificata, esprima il proprio parere in ordine al rilascio dell’autorizzazione unica per la costruzione e l’esercizio degli impianti nucleari». Le stesse tre Regioni hanno impugnato la legittimità costituzionale di molte altre parti del Decreto, ma tutte le altre richieste sono state dichiarate inammissibili o non fondate. Il Governo ha a sua volta presentato ricorso alla Corte costituzionale chiedendo l’annullamento (in quanto in violazione del Titolo V della Costituzione) delle leggi regionali approvate da altrettante tre Regioni (Puglia, Basilicata e Campania) che vietano unilateralmente l’insediamento di impianti nucleari, ricorso accettato nei primi giorni di novembre 2010. Work in progress. L’Italia dei Valori ha presentato il 9 aprile 2010 un referendum sul nuovo programma elettronucleare italiano che mira ad abrogare parte del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 e alcuni articoli della legge 23 luglio 2009, n. 99 e del conseguente decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31. Dopo aver ricevuto il via libera dalla Corte Suprema di Cassazione il 7 dicembre 2010, il quesito referendario è stato dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale il 12 gennaio 2011. A seguito dell’incidente di Fukushima Daiichi dell’11 marzo 34
2011, il Consiglio del ministri, con un decreto legge che sospende gli effetti del D.Lgs. n. 31/2010 sulla
localizzazione dei siti nucleari, stabilisce una moratoria di 12 mesi del programma nucleare italiano. La moratoria non riguarda l’Agenzia per la sicurezza nucleare, né il deposito di scorie. Successivamente, il 24 aprile 2011, il Governo definisce la moratoria già stabilita tramite un articolo del cosiddetto decreto legge “Omnibus”, intitolato Abrogazione di disposizioni relative alla realizzazione di nuovi impianti nucleari, secondo il quale «Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare». Secondo alcuni commentatori, ciò avrebbe potuto portare alla sospensione del referendum nazionale già programmato. Tuttavia la Corte di Cassazione il 1º giugno decide di confermare la consultazione, formulando però il quesito sulla nuova normativa contenuta nel decreto Omnibus, e non sul testo originale su cui erano state raccolte le firme l’anno precedente, in particolare sul comma 1 e 8 dell’articolo 5. Si tratta dei commi che danno mandato al governo, pur annullando la costruzione delle nuove centrali, di attuare successivamente il programma di energia nucleare in base alle risultanze di una verifica condotta sia dall’agenzia italiana che dall’Unione europea sulla sicurezza degli impianti. Svoltosi regolarmente il referendum, all’esito il quesito viene validamente approvato con un quorum di circa il 54% di votanti e una maggioranza di oltre il 94%. Le norme inerenti il nucleare del cd.decreto Omnibus vengono quindi abrogate, determinando la chiusura del nuovo programma nucleare.[tratto da: http://it.wikipedia.org/wiki/Energia_nucleare_in_Italia#cite_note-0].
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03.01
Centrale Nucleare Gruppo 1 (di produzione). La centrale di Caorso è localizzata sulla sponda destra del fiume Po, in corrispondenza dell’ansa del Mezzanone, Comune di Caorso (2500 abitanti), in provincia di Piacenza, circa 25 km a valle dell’idrometro di Piacenza e circa 3 km a monte dello sbarramento di Isola Serafini, fra gli abitati di Zerbio (300 abitanti) a 1,2 km e S. Nazzaro (1000 abitanti - 1,7 km). Collocazione(x,y). Edificio Reattore a longitudine ovest |02°34’56’’| e latitudine nord |45°04’29’’| e del camino principale a longitudine ovest |02°34’55’’| e latitudine nord |45°04’25’’|. L’area del sito confina a nord con la sponda destra del fiume Po, ad est con il torrente Chiavenna, a sud con il canale di Bonifica di Zerbio (Consorzio di Bonifica Basso Piacentino), ad ovest con la strada carrabile che dalla Loc. Case Nuove si dirige verso il fiume Po. Le province limitrofe sono quelle di Cremona e Lodi. Collocazione(z). Il sito si trova a circa 41m s.l.m. in zona pianeggiante che si estende ad est per circa 160 km sino al Mare Adriatico, ad ovest per circa 70 km fino alle colline del Monferrato, a nord per circa 60 km fino alle Prealpi Lombarde, a sud per circa 20 km sino ai rilievi appenninici. L’impianto è stato collocato in area golenale su un terrapieno artificiale denominato “rilevato” a quota 48m s.l.m., 1m sopra quella dell’argine maestro. Ordine. La centrale è composta da un solo gruppo di produzione elettrica. Il suo ordine organizzativo è concentrico, avendo come centro di riferimento per misure e rapporti tra gli edifici il centro dell’Edificio Reattore. Tale attesta simbolicamente l’importanza dell’edificio che si staglia, anche visivamente, prepotentemente sugli altri elementi. Accessi (negati). Tale organizzazione prevede una serie di confini interni concentrici (scatola cinese) monitorati e controllati da filo spinato e sistema di videocamere a circuito chiuso. Il maggiore dei confini divide l’area di proprietà SOGIN dal resto del territorio agricolo; per accedere ad esso vi è un passaggio con posto di blocco attualmente non vigilato. Il secondo limite, concentrico a quello precedente, è delimitato da un cintura di filo spinato al quale si accede previo controllo di un vigilantes. Il terzo ordine è sempre delimitato da una cortina di filo spinato che si inspessisce creando uno spazio per il continuo turn-around di eventuali vedette o per semplice manutenzione del sistema a circuito chiuso di telecamere. Per accedere oltre tale limite bisogna possedere un badge, abbandonare qualsiasi oggetto metallico e lasciarsi ispezionare da un metal detector. Accessi (scala S,M,X,XL). La centrale rappresenta un vero e proprio landmark territoriale e sociale: non solo l’identità del luogo è fortemente legata alla sua presenza (“Caorso capitale nucleare”) ma il paesaggio stesso è stato modificato fortemente. Il grosso involucro bianco che racchiude il reattore è visibile da oltre 10 km di distanza. Fermandosi ad osservare
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l’orizzonte è facile notare come l’orizzontalità sia la dimensione preponderante e come questa sia puntellata
dalle alberature ordinate dei pioppi. Tale percezione si scontra però con la presenza dell’enorme cilindro bianco in cemento armato che si staglia sopra ogni altro elemento del paesaggio. Accedere alla centrale non è facile, la sorveglianza nei suoi perimetri è alta ma è possibile prendere coscienza di essa in altri modi: l’Autostrada 21, la Strada Statale (SS10) e la ferrovia Piacenza-Cremona possono essere ottime esperienze per osservare la presenza e la vastità del complesso sul territorio. Così bianca si staglia rispetto al terreno e al cielo: tra colori terrei e grigi pallidi (o azzurri soffocanti a seconda della stagione) il bianco cangia, attira l’attenzione e calamita lo sguardo. Avvicinandosi si ha l’impressione che la sua dimensione cresca e la afferrabilità aumenti, e solo incontrando il primo accesso ci si accorge della sua invalicabilità. Così vicina e presente, ma così lontana ed irraggiungibile. Impossibile accedervi. Tutto appare immobile e immutato rispetto a trent’anni fa, non si riesce immaginare come in tutta quella fissità di movimento possa sprigionarsi una potenza da 860 MWatt. Questo suo stato d’essere (tra il mistero e il silenzio del luogo) ha creato nell’immaginario collettivo una sorta di repulsione per l’oggetto invadente. La gente convive con essa ma la sua inaccessibilità ha praticamente cancellato quel luogo dalla mente collettiva. Non viene più considerata, è una sorta di relitto immobile ed inutile, è un luogo dove, percettivamente, il tempo si è fermato. Accessi (reti). Appare così come un’isola impiantistica, sorta lì per il puro caso vicino al fiume, fonte d’acqua continua per il raffreddamento dell’impianto. Questa isola è indipendente sia a livello energetico (è dotata di generatori in grado di far fronte alla mancata erogazione di energia dalla rete pubblica) che a livello fognario (nel sito è presente un sistema di stoccaggio e manipolazione dei reflui totalmente autonomo rispetto al servizio comunale). Ha però una fortissima radice territoriale legata alla presenza del Po, grandi quantità di acqua sono necessarie per il funzionamento dell’impianto e vengono incanalate dal Po e reimmesse successivamente attraverso il canale di scarico artificiale dopo aver attraversato l’opera di raffreddamento prevista. Inoltre si connette alla rete telefonica, internet ed alla rete elettrica per il proprio funzionamento e l’immissione di elettricità. Anche qui ci sono veri propri accessi che si identificano in server e router per il primo caso (anch’essi quotidianamente controllati) e nel secondo caso stazioni elettriche per l’ingresso e l’uscita dell’energia elettrica. Il Gruppo1 appare così un’isola indipendente ma allo stesso tempo dipendente dal territorio grazie al cordone ombelicale acquatico. Rilevato. L’area di proprietà SOGIN è di 0,12kmq ed è costituita da differenti identità territoriali: come specificato precedentemente è collocata a cavallo dell’argine maestro ed è composta da terreno agricolo verso sud e area golenale nella parte nord. Il Gruppo1 è collocato su terrapieno poco più alto dell’argine che permette di non subire danni durante i periodi di inondazione. Tutto il cuore del Gruppo 37
1 (Edificio Reattore, Edificio Turbina ed Edificio Ausiliari) è protetto dalla eventuale salita della falda da un
diaframma in bentonite e cemento e da un sistema di pompe in grado di allontanare dalle fondamenta l’acqua filtrante (Sistema di aggottamento del poroso). “Le difese consistono innanzi tutto in un diaframma plastico, ottenuto con miscela di betonite e cemento disposta tutto attarno alla centrale a distanza sufficiente per proteggere una’area quasi doppia di quella su cui possia l’impianto. […] il diaframma consente di mantenere bassa la falda tutt’attrono alla centrale utilizzando pomepe di aggottaggio permanente, senza richiedere la rimozione di quantitativi di acqua enorme.” [CAORSO: DAL SITO ALLA CENTRALE, documentazione a cura de AMN, p.144]. Sempre sottoterra è presente una fitta rete di cunicoli, tubazioni e sistemi elettrici molti dei quali ispezionabili attraverso pozzetti o botole di accesso. Tra questi elementi, aventi dimensione più rilevante sono i condotti di presa d’acqua che corrono dal fiume Po fino all’Edificio Turbina e quelli uscenti dallo stesso edificio che vengono convogliati al canale di scarico. Opera di presa. Per il funzionamento del condensatore della centrale viene utilizzata l’acqua direttamente presa dal fiume Po attraverso quella che viene definita opera di presa. Questo elemento appare come una grande bocca avente sei grandi aperture ritmate da pilastri di cemento armato direttamente a contatto con la superficie dell’acqua. Elementi meccanici come carroponti e argani compongono il profilo della struttura frastagliandolo nell’incontro con l’orizzonte. Questa isola artificiale sospesa sul Po e sull’area golenale (l’area dei terrazzi è a quota 48,70m s.l.m.) è direttamente connessa con il rilavato attraverso una sottile passerella pedonale metallica, ormai arrugginita, che attraversa tutta la golena. Canale di scarico. Similmente il canale di scarico presenta un sistema di chiuse facenti parte dell’opera di restituzione. Questo elemento è quasi invisibile dal rilevato ma si percepisce chiaramente percorrendo il canale artificiale (di scarico) con una piccola imbarcazione. Sempre all’interno del canale di scarico è presente una piccola darsena per natanti che connette direttamente il rilevato con il canale. Edifici. Gli edifici che compongono il Gruppo 1 non possiedono particolari qualità architettoniche, ma possiedono fascino per la loro estrema semplicità volumetrica e per il richiamo alla geometria euclidea. Parallelepipedi e cilindri animano il rilevato conferendo un senso di estraneità, accentuato dal fatto di essere un luogo radiologicamente critico. Come si è già detto in precedenza, tutto il complesso si erige attorno alla centralità dell’Edificio Reattore che, insieme a quello Turbina, rimane il più alto di tutto il complesso. L’edificio reattore si presenta come un grande cilindro bianco alto 60m ed aventi quattro grosse protuberanze rettangoli, segno delle travi di sostegno delle piscine interne del reattore. A questo elemento massiccio si affianca trasversalmente l’Edificio Turbina: un grosso parallelepipedo sdraiato avente un’altezza di circa 35m e composto da una parte in cemento armato color grigio chiaro e da una parte in prefabbricato di lamiera. I 38
segni del tempo sulla lamiera sono ben evidenti ed enfatizzano ulteriormente il senso di solitudine presente
nel luogo. La loro distanza è minima e vi è un angusto passaggio coperto che li connette solo visivamente (staticamente sono completamente indipendenti, per far fronte alle emergenze sismiche). Sono questi i due edifici che accompagnano il calare del sole all’imbrunire e caratterizzano particolarmente la percezione del paesaggio e del luogo. Questi grossi elementi si contrappongono ai sottili filamenti verticali dei due comignoli: uno appartiene all’Edificio Ausiliari e l’altro all’Edificio off-gas. Il primo è direttamente collocato vicino al reattore (è infatti sede del trattamento di rifiuti radioattivi e delle sale controllo) ed è forse l’unico ad avere un interessante elemento architettonico: la facciata posta a nord è in vetro, con sporgenze cilindriche raccordate da telai rossi per tutta l’altezza del volume. L’edificio off-gas, collocato a nord ovest rispetto il centro del reattore si staglia solitario con una forma a T rovesciata dal quale si erigeva un camino rosso e bianco, colori tipici di questi elementi industriali alti (attualmente dismesso ed eliminato). Nell’area nord rispetto al all’Edificio Reattore compaiono degli altri cilindri di piccola dimensione costituiti da materiale prefabbricato e aventi funzione di serbatoi. A questi elementi si affianca il cunicolo in cemento armato uscente dal reattore che veniva utilizzato in passato per portare il materiale fissile all’interno del reattore. Questo elemento è unito al grande cilindro (Edificio Reattore) e trasversalmente si affianca ai trasformatori di avviamento collocati ad altezza rilevato e completamente visibili dall’esterno. Altri elementi suggestivi (attualmente smantellati di cui rimangono solo i muri perimetrali e la pavimentazione) sono i trasformatori principali collocati a sud rispetto la l’Edificio Turbina. Tutti questi elementi (insieme all’Edificio Diesel e quello che era l’Edificio RHR) sono il fulcro del Gruppo 1 e da esso si aprono poi altre costruzioni relative alla manutenzione (Officina Nuova e Officina Vecchia) e i Depositi di Bassa e Media Attività. Sul rilevato sono presenti anche due Stazioni di differente voltaggio (132KV e 380KV) che articolano di fili sottili il cielo sopra gli edifici e dinamizzano lo spazio fissato tra i vari volumi. In passato sul rilevato era presente anche un ufficio informativo che al momento è stato completamente smantellato nella funzione, ma non nell’edificio stesso.
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04 - WALKING EXPERIENCE
04.00
Riappropriazione del luogo, l’immagine del paesaggio: Walking (esteticoesperienziale). Fino ad ora abbiamo osservato il paesaggio a volo d’uccello, come tecnici del mestiere, che osservano oggetti con una certa freddezza, cercando e definendo teorie assemblative o di forma. Questa immagine del paesaggio appare come una mappa costellata di dati e organizzata da logiche più o meno personali (più o meno condivisibili). Attraversando questi luoghi si riconoscono ulteriori immagini di questo paesaggio, lo si esperisce in prima persona, lo si percorre e “lo si cammina”. In presa diretta se ne osservano i comportamenti e i cambiamenti. Chi lo abita quotidianamente si rende attore di un paesaggio e di uno spettacolo, crea e percepisce immagini differenti grazie alla sua stessa azione di attraversamento. Il loro spostarsi e agire in esso lo mutano: solo per il semplice fatto di viverlo e di trovarvisi all’interno permette di captare aspetti differenti e azioni differenti nei diversi periodi. Prima si è parlato di mutevolezza relativa alle azioni naturali, adesso ci accorgiamo che tale caratteristica è ancor più arricchita da un’ulteriore complessità insita nella immagine elaborata dagli abitanti del paesaggio fluviale. Si pensi a questo paesaggio come ad un ambiente vissuto da un contadino e da un operaio, da una madre e da un figlio: ognuna di queste figure osserva in modo diverso, vede colori diversi e rielabora in modi diversi. L’esperire personale diventa mezzo per poter disegnare immagini sempre differenti e mutevoli. Queste nuove immagini si delineano attraverso quei circuiti quotidiani di spostamento che possono essere sintetizzati tra i luoghi casa, lavoro/scuola e aree ludiche. Careri riassume questa constatazione di modificabilità e mutevolezza del paesaggio nell’azione stessa del camminare, riconoscendo che questa non è prettamente un’azione costruttiva ma può diventare un vero e proprio dispositivo in grado di trasformare il paesaggio. “Il camminare si rileva allora uno strumento che, proprio per la sua intrinseca caratteristica di simultanea lettura e riscrittura dello spazio, si presta ad ascoltare e interagire nella mutevolezza di questi spazi, a intervenire nel loro continuo divenire con un’azione sul campo, nel qui e ora delle trasformazioni, condividendo dall’interno le mutazioni di quegli spazi che mettono in crisi il progetto contemporaneo.” [WALKSCAPES, pag 9]. Nuove mappe. La possibilità di entrare in contatto con gli spazi attraverso un percorso erratico non è un atteggiamento nuovo: già Charles Bodelaire nel 1860 coniò il termine Flâneur per definire quella tipologia di passeggiatore che vaga per la città senza meta precisa ma solo per il piacere di osservare (quasi come un presagio alla condizione del turista, termine coniato alla fine dell’Ottocento). Da qui si passa poi direttamente al ready made urbano sviluppato dai Dada, i quali trasformavano il
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peregrinare in un’operazione estetica da svolgere direttamente nello spazio urbano. Il tutto poi sfociò negli
anni Cinquanta nella dérive situazionista: un’attività ludica collettiva che mira a riattivare zone inconsce della città e soprattutto tende a costruire e sperimentare nuovi comportamenti nella vita reale aventi uno stile che si collochi fuori dalle regole della società borghese. Quest’ultima operazione è forse la più interessante per il nostro caso, perché fonda la propria coscienza su due importanti punti: la vita reale e il caso. “La costruzione della situazione e la pratica della deriva si fondono [invece] su un concreto controllo dei mezzi e dei comportamenti che si possono sperimentare direttamente nella città. I lettristi rifiutavano l’idea di una separazione tra la vita alienante e noiosa e una vita immaginaria meravigliosa: è la realtà stessa che doveva diventare meravigliosa”. [WALKSCAPES, pag .60]Careri continua: “La dérive è un’operazione costituita che accetta il caso, ma non si fonda sul caso, anzi ha alcune regole ben stabilite” [WALKSCAPES, pag .66]. Questo atteggiamento estetico mette in luce quello che a nostro parere può essere un approccio progettuale ispirato: trasversare in modo nuovo e autentico paesaggi quotidiani o nascosti ai più con azioni quotidiane, considerando come fattore imprescindibile il caso e l’errore. Si tratterebbe di partire da nuove mappe geografiche (o pscicogeografiche) prodotte dell’esperire diretto dello spazio, estrapolando nuovi dati più o meno noti e più o meno oggettivi (questa azione è fortemente vincolata alla nostra cultura) per ricomporli attraverso nuove e trasversali logiche progettuali. Re-immaginare. Il metodo è piuttosto analitico ma si basa in primo luogo sull’osservazione diretta del contesto e sull’analisi dati acquisiti da altro supporto. “Il camminare, pur non essendo la costruzione fisica di uno spazio, implica una trasformazione del luogo e dei suoi significati. La sola presenza fisica dell’uomo in uno spazio non mappato, e il variare delle percezioni che ne riceve attraversandolo, è una forma di trasformazione del paesaggio che, seppure non lasci segni tangibili, modifica culturalmente il significato dello spazio. […] camminare, un’azione che è simultaneamente atto percettivo e atto creativo, che è contemporaneamente lettura e scrittura del territorio.” [WALKSCAPES, pag .28] Sviscerati i dati, si ricompongono questi immaginando un nuovo profilo del paesaggio, agendo sulla ricomposizione degli stessi dati relazionati attraverso nuove modalità. Potrebbe sembrare uno di quei tipici giochi per bambini ma la logica (se vogliamo vagamente post-moderna) risiede nella disgiunzione tra significato e significante a cui spesso siamo legati e che limita immensamente il nostro approccio progettuale. Prima di tutto è necessario un reset del nostro metodo di raccolta dati e poi un reset del nostro metodo di componimento dell’immagine attraverso i dati. Si tratta di un vero e proprio re-immaginare l’immagine del paesaggio attraverso “un ordine aperto capace di un continuo sviluppo ulteriore” [L’IMMAGINE DELLA CITTA’ pag. 28]! Questo approccio basato sull’errare come esperienza estetica porta appresso due elementi davvero 43
interessanti: in primo luogo permette di ricomporre geografie personali basate sulle sensazioni e le
esplorazioni visive (ma non solo) provate durante l’erranza. Ciò permette di ricomporre immagini nuove del paesaggio e, successivamente, iniziare a progettare attraverso di esse. Inoltre queste immagini si compongono come assemblage di figure, sensazioni e incontri sempre in divenire quasi a descrivere la mutevolezza stessa del paesaggio. In secondo luogo vi è un particolare spazio che si delinea ed è quello che Careri definisce “spazio dello stare interamente attraversato dai territori dell’andare”: ciò significa mettere in luce la possibilità di acquisire una entità riconoscibile e di valore nel fatto degli spostamenti, divenendo così un elemento chiave non solo nella descrizione-narrazione del paesaggio ma anche nel farsi del progetto.
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04.01
Diario di un giorno. Il paesaggio appare modesto e semplice ai miei occhi: il suo silenzio e il suo verde pallido dei primi giorni di marzo invitano alla calma ed alla serenità. Superato l’argine maestro, segno e confine tra l’Oasi e la campagna più agricola, si apre un paesaggio ricco di verdi scuri e color ocra diversi in sfumatura e tonalità: antichi alberi ricoperti da rampicanti ci chiudono la vista verso il grande fiume; piccoli prati, alternati a boschetti artificiali di pioppi, animano il pianeggiante terreno articolandolo di tinte e matrici. Dall’alto dell’argine maestro ogni cosa appare piccola e solo lasciandolo alle nostre spalle e immergendoci nel sottobosco fitto e disordinato di sterpaglie è possibile capire l’eterogeneità delle specie vegetali. Il fango è dappertutto: lungo la strada si allungano le ombre lasciando inevitabilmente il fondo morbido e umido; orme di vario tipo costellano i bordi della carraia e delle pozzanghere. Il silenzio mi circonda ed ogni passo che faccio fa scricchiolare sotto i miei piedi foglie ed erba secca. Man mano che mi addentro nella boscaglia scorgo vecchie rovine di cascine completamente abbandonate e riassorbite dai rampicanti. La curiosità si fa forte e cerco di spingermi sempre verso di loro ma è impossibile raggiungerle: fango e rovi chiudono la strada e la vecchia carraia scompare lasciando solo foglie e un folto sottobosco impossibile da percorrere. Desidero ardentemente scoprire cosa ha vissuto là ma la natura non mi da risposta e solo l’immaginazione può provare a delineare scene e azioni passate. Superati i primi terreni coltivati, prevalentemente a maggese e paglia, mi addentro tra i gruppi regolari dei pioppeti: qua il terreno cambia colore, da un verde smeraldo chiaro e rassicurante si passa a marrone scuro secco. Nei pioppeti è raro che cresca qualcosa ad altezza sottobosco: le continue cure dei proprietari delle coltivazione mantengono ordine e pulizia! Il mio sguardo scorre allora verso la vegetazione naturale che segue la Veccia Nure, la quale si presenta acquitrinosa e densa: alcuni gruppi di nutrie vivono sul bordo del torrente creando non pochi disagi alle piccole arginature. Qui i canneti fischiano al passare del vento e mi lasciano sempre in allerta per guardare o girare di scatto la testa all’accenno del minimo rumore. Non vi è argine a dividermi dall’acqua ma solo canneti e salici: il dolce declino del terreno non lascia intravedere un limite netto tra questi due elementi naturali. Passeggiando con particolare tensione lungo i bordi di questo canale scorgo una coppia di aironi cenerini che alla mia vista spiccano il volo spaventati, verso una vecchia cascina abbandonata in lontananza. Afferro il binocolo che odora di cuoio e polvere e inizio ad osservarli: la loro agilità e leggerezza li rende affascinati e seducenti. Le loro zampe lunghe gli permettono di muoversi in acquitrini densi e fangosi conferendo loro un’andatura calma e regale. Il loro batter d’ali è vigoroso e
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rilassato: seguendo il vento freddo si adagiano alle correnti e si appoggiano con grazia centinaia di metri
lontano da me. Scorgo alcune nutrie nella Vecchia Nure ma evito fotografie e attenzioni, questi animali assomigliano a grossi topi di fogna con un pelo lucido e umido! Lontano, qualcosa ha già attirato il mio sguardo: su vecchi canneti piegati dal vento noto una Vanessa svolazzare qua e la. Leggera si appoggia e veloce riprende il volo con un batter d’ali scattante e colorato. Faccio appena in tempo avvicinarmi che una lepre sbuca improvvisamente e corre via velocissima spaventata. Sobbalzo e rido tra me di questa mia tensione verso questo ambiente sconosciuto. Questo luogo abbandonato al ritmo della natura trasuda di vita e di sorprese, lo sguardo si perde tra i suoi meandri e le sue ombre invernali. Rimango affascinata da ogni angolo di vegetazione. Acqua e terreno si mischiano e si confondono negli acquitrini; paesaggi meravigliosi si aprono dietro gruppi di alberi o di canne; scivola veloce l’occhio tra i color ocra chiara dei terreni arati a novembre e i verdoni scuri dei rampicanti. Ordinati pioppeti scheletrici vengono subito interrotti da appezzamenti di rovi densi. Questi in inverno si spogliano e appaiono come ammassi di fili intrecciati e irti di colore grigio fuliggine a proteggere le tane di lepri e fagiani. La mia presenza in questo luogo stona: camminare sulle carraie infangate mi permette di osservare che le mie orme sono le uniche orme umane presenti, il resto racconta di lepri e volatili. Questo luogo appare immutato e immobile ma osservando bene sotto la sua vegetazione intricata trasuda vita e trasformazione. La piena non è ancora arrivata quest’anno ma il terreno presenta pozze che al minimo cadere di pioggia si inzuppano e si gonfiano come risaie. Ci sono luoghi in questo paesaggio davvero curiosi. La commistione tra artificiale e naturale è difficile da definire: cascine ormai riassorbite dal terreno e dai vegetali; chiuse d’acqua che interrompono canali e delimitano stagni artificiali; acquitrini naturali costellati di piccoli ruderi; pioppeti artificiali perimetrati da un continuo avvicendarsi di rovi e canneti; tralicci dell’alta tensioni assediati da rampicanti. Una nuova forma di natura, non peggiore o migliore di quella che la memoria comune ricorda in immagini da cartolina, ma semplicemente una nuova forma ricca di paesaggi mutevoli e sempre differenti a seconda di dove si volge il capo e di dove si pone il piede.
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04.02
Racconto Raccontare le esperienze vissute attraverso un testo o un’immagine significa in primo luogo aver osservato e rielaborato attraverso un sentimento estetico l’immagine del luogo che abbiamo attraversato. Il racconto diventa quindi un mezzo di riedizione dei dati raccolti. Il primo atto di progetto è quindi quello di rivivere, attraversando il paesaggio, il valore intrinseco della natura: è necessario prendere coscienza dell’ambiente e del paesaggio per poter approfondire le caratteristiche e gli accenti che esso trasmette o mette in luce. Ovviamente tale processo di acquisizione è totalmente soggettivo ma permette di sviluppare un’educazione all’attenzione sensoriale che in un’area come la nostra è l’unico filtro in grado di valorizzarla. Si tratta in primo luogo di educare all’ascolto o la coscienza paesaggistica. Questo approccio permette all’osservatore di diventare il creatore del progetto durante ogni step in divenire. La processualità diviene una caratteristica intrinseca in ogni fase del progetto: consapevoli di ciò la intravediamo nella conoscenza del luogo, si compone nell’approccio del progettista/designer per definire il progetto teorico e “su carta” e, in ultimo, la ritroviamo nell’esperire direttamente il risultato. Quest’ultimo sarà sempre un risultato mutevole e in cambiamento in quanto basa la propria forza sulla legittimazione dell’esperienza soggettiva continua di ogni singolo passeggiatore. Quello che interessa non è esclusivamente la possibilità di vedere ma in primo luogo di permeare e poi di rielaborare (feedback) creando così infinite e differenti immagini del paesaggio. Estetica. Lo scopo è disvelare una nuova natura e una sempre più contemporanea estetica. La commistione dell’elemento artificiale con l’elemento naturale descrive un dialogo estetico contemporaneo del quale però dobbiamo ancora approfondire il grado di qualità. Questo dialogo è presente nei nostri paesaggi mentali legati spesso all’ordine urbano, si pensi alle aree industriali dismesse che costellano l’antico perimetro delle metropoli. In realtà tale commistione è caratteristica propria anche dell’ambito agricolo, in cui tecnica e natura si sono sempre fusi e integrati con sinergia. L’ordine estetico “popolare” ha sempre considerato nella visione del paesaggio anche il valore della tecnologia: nell’immagine iconografica della campagna gli utensili di lavorazione erano elemento caratterizzante intriso di valore sociale ed estetico. Questa sinergia è il carattere fondante di questi luoghi: attraverso una nuova rilettura è possibile raccontare un nuovo paesaggio. Risvegliare questo valore assopito è uno degli obiettivi affrontati nel processo di progetto. Giardino. Per fare ciò ci appoggiamo all’idea comune del giardino: se percepissimo queste aree come il nostro giardino, con la responsabilità che la nostra presenza andrà a modificare il disegno e l’eterogeneità dell’area potremmo sollecitare ognuno di noi ad osservare (vivere e far rivivere)
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in modo nuovo queste aree. Parlare di giardino implica un rapporto diverso rispetto queste “aree verdi”:
ne è ben consapevole Gilles Clément, il quale teorizza una nuova identificazione basata su un rapporto più diretto con la natura. Percependolo come giardino ci sentiamo più direttamente coinvolti. Questa approccio è un radicale cambiamento, definisce un nuovo ordine identitario attraverso un relazionarsi più diretto e responsabile, dove ognuno di noi potrebbe sentirsi “il giardiniere” stesso. Giardino in movimento (cit. GC). Partendo da questa semplice concezione G. Clément interpreta tutto il pianeta Terra come un enorme giardino (globale) in cui le specie migrano, si trasformano, mutano, spariscono ed evolvono da un continente all’altro. Questo approccio porta una relazione “ecologica” locale ad una scala globale, che direttamente ci coinvolge tutti e ci sensibilizza in prima persona. “Il giardino in movimento interpreta e sviluppa le energie presenti sul luogo e tenta di lavorare il più possibile insieme, e il meno possibile, contro alla natura. Deve il suo nome al movimento fisico delle specie vegetali sul terreno, che il giardiniere interpreta alla propria maniera.” [NOVE GIARDINI PLANETARI, pag 13] E’ un approccio che non mira a definire una forma precisa, un disegno sancito e imperituro, ma si concentra sul processo in divenire e sul continuo movimento. Il disegno si modificherà a seconda dei cambiamenti vegetali e stagionali, combinandosi con un rapporto sempre diverso con ogni singolo passeggiatore del luogo. Si introduce un nuovo rapporto con la natura: si torna a rielaborare le relazione come punto di partenza di un progetto dinamico e mutevole. Nuove dimensioni creative, di energia e libertà sovvertono le abitudine consolidate. “Lo spostamento, il vagabondaggio, la migrazione e la mescolanza sono gli agenti di base di un sistema incerto in cui il caso gioca un ruolo di primo piano, nella creazione di assetti in continuo mutamento. […]Il movimento di GC non si sviluppa lungo un itinerario, non mira a un punto di arrivo ma è nomadico e, nello stesso tempo, caotico, poiché si mantiene all’interno di un confine prefissato (giardino) che delimita uno spazio di libertà in cui segue percorsi non prevedibili, ricorrendo oppure estemporanei” .[NOVE GIARDINI PLANETARI, pag 16].
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04.03
Riserva. L’ambiente in questione appare come una sottrazione parziale di territorio agli usuali sfruttamenti antropici, agricoltura e arboricoltura si alternano a spazi residui come pezze di tessuto, queste aree posseggono una qualità intrinseca dettata dal fatto stesso di essere inutilizzate. Questa identità mancante di una specifica funzionalizzazione umana ci permette di considerare l’ambiente come uno spazio indeciso (cit. G. Clément), un disegno frammentato e assente da pianificazione, insomma un terzo paesaggio. Ciò porta a molte aree e lande dismesse o non sfruttate che sono un vero e proprio ricettacolo delle diversità. Questo insieme è prevalentemente protetto e allo stesso tempo modificato dagli attori agricoli che si occupano di mantenerne le specificità ma allo stesso tempo di organizzarlo secondo le logiche della coltivazione. Queste logiche non stravolgono la riserva ma la contaminano e la integrano pacatamente, rispettando l’idea di diversità che la natura sempre ri-costruisce. E’ un’antropizzazione coscienziosa che non vede l’uomo e le sue attività in opposizione alla natura ed ai suoi ritmi, ma valorizza la sinergia generata da questi due sistemi. Entrambi devono goderne e tranne profitto. Terzo Paesaggio. Questo stato d’essere permette di iscrivere l’area alla definizione che G. Clément coniò agli inizi degli anni duemila: Terzo Paesaggio. Parte di questo sito (zona Sogin e ex-cave RDB) è stato completamente abbandonato dopo uno sfruttamento vigoroso, varietà di flora e fauna hanno avuto una libertà di azione incredibile. L’assenza dell’uomo per quarant’anni ha permesso di costituire un paesaggio caratterizzato da una forte dinamicità naturale e conseguentemente eterogeneità e caos. Si tratta di un vero e proprio residuo: la necessità di circoscrivere l’area nucleare con adeguate distanze di sicurezza ha portato i bordi di questa territorio a non essere minimamente considerati se non esclusivamente per la loro specifica quantità metrica. Il residuo all’interno del perimetro nuclearizzato si presenta come un area compatta di dimensioni notevoli e ciò fa si che vi sia la possibilità di insediamento e sviluppo di un maggior numero di specie rispetto a una configurazione spaziale lineare (da G. Clément). Diverso invece appare nel resto dell’Oasi: frammenti di Terzo Paesaggio sono alternati con aree agricole più o meno sfruttate le quali però hanno in comune l’assenza quasi totale dell’uomo. Infatti queste aree non sono costellate da cascine abitate e la tipologia di coltura non necessita un assiduo trattamento da parte dell’uomo. Lo stesso disinteresse fino ad ora dimostrato da parte delle varie amministrazioni ed enti proprietari dell’area ha permesso di lasciare libertà d’azione ai cambiamenti naturali ed agli equilibri di flora e fauna. Questo carattere è tipico dell’entità del Terzo Paesaggio che rivede nel “caso” una valore intrinseco [rif. Manifesto del Terzo Paesaggio, Pag. 59]. In realtà questa casualità ha
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regole ben definite: segue la perenne ricerca dell’equilibrio e come tale si può ricollegare alle logiche stesse
del peregrinare del Flâneur, una passeggiata apparentemente casuale, ma in realtà avente anch’essa regole intrinseche. Insomma, un approccio di lettura e disegno del paesaggio consono e rispettoso delle regole stesse della natura e dello stato di essere del paesaggio stesso. Immobilità. Vi è però la possibilità di fraintendere l’idea del Terzo Paesaggio, esso nasce e si sviluppa lontano dagli occhi e dalle mani delle istituzioni e non avendo alcun valore produttivo non viene minimamente considerato utile, è dimenticato e gli è quindi permesso di diventare, crescere ed evolversi. Se ci avviciniamo al Terzo Paesaggio con la logica protezionista che spesso accompagna la formazione di aree protette sbagliamo, il rischia è quello di immobilizzare il dispiegamento di diversità in evoluzione che è la logica intrinseca del Terzo Paesaggio. Per tale ragione è necessario compiere un grande salto fuori dall’abituale logica architettonica: il progetto deve diventare temporale, svilupparsi in un dato tempo e considerare la possibilità di evoluzioni ulteriori o di morte. Se si ragiona sulla logica che il Terzo Paesaggio nasce dalla condizione residuale che ogni progettazione produce inevitabilmente come esternalità, è doveroso che il progetto contemporaneo possieda una sorta di labilità temporale e programmatica all’interno della quale la casualità (o meglio i refusi progettuali) sia in grado di stanziarsi e svilupparsi. Questa è l’evoluzione, questa è la processualità auspicata. Rifiuto. Considerare ciò significa dare spazio a tutte quelle esternalità che portano un oggetto ad essere in condizione di “rifiuto”. Ci si rende conto che il valore del progetto si ribalta, si organizza un processo per “produrre anche rifiuti”. La modificazione della materia inevitabilmente produce dei residui apparentemente assenti di valore produttivo, questo succede frequentemente anche nella progettazione: si pensi a tutti quegli spazi residuali o interstiziali presenti nelle aree periurbane o, per quel che ci riguarda direttamente, tutte quelle aree estrattive che circondano il rilevato della centrale di Caorso, sfruttate al massimo e poi semplicemente abbandonate. Questi paesaggi posseggono oggi un valore inestimabile a livello ambientale, storico, culturale ed estetico. Progettare avendo la lungimiranza di lasciare liberi l’evolversi e il cambiare, permette al territorio di modificarsi e riadattarsi in base ai cambiamenti antropici senza subire però drastici e inattesi capovolgimenti. Junkscapes. Si tratta d’invertire l’ordine delle cose a cui spesso siamo stati abituati. Non è più possibile esprimere giudizi semplicemente considerando solamente la qualità dei dati che ci vengono presentati, è necessario spostare il nostro sguardo sulla qualità delle relazioni fra i dati. Considerare oggi uno spazio definito da eventi in divenire può essere un possibile sguardo verso quella frammentarietà di paesaggi che compongono la nostra cultura. Questo richiede un grande sforzo verso una pro-positività alla diversità: si chiede di accettare lo spirito del non fare (da non confondere con l’indifferenza) come spirito positivo e avente una logica costruttiva verso il 50
futuro. Accettare che alcune dinamiche escano dal controllo progettuale è un atto di umiltà che spesso
esula dal carattere assolutistico che alcuni progettisti dimostrano. “Nello sguardo del Terzo paesaggio, cioè sul rovescio del mondo organizzato, vi sono spunti per una critica pertinente, originale e sottilmente sovversiva ad alcune tecniche di pianificazione” [Manifesto del Terzo Paesaggio, Pag. 85] Il metodo possibile per attuare ciò è organizzare il territorio con maglie larghe e permeabili, facilitando così processi al contorno non direttamente governabili attraverso il progetto. Anche in questa logica si creeranno spazi non direttamente identificabili, inscrivibili sotto il termine rifiuto, con la differenza però che tali spazi saranno spazi evolutivi in grado di acquisire valore attraverso equilibri locali dettati da ambiti differenti. Tali mutamenti saranno dettati da tempistiche non legate alla sole ed esclusive attività umane ma anche dal consolidato evolversi degli elementi naturali. “Il ricorso all’architettura sembra ancora l’unico modo di incidere in modo appropriato sul DISORDINE naturale. È un modo di dire che l’ORDINE biologico […]non è stato ancora percepito come nuova possibilità di concezione”. [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, Pag. 69] Questo nuovo rapporto con il tempo è un modello di approccio e di relazione tra uomo e natura: considerare l’evolversi della flora, della fauna, delle meteorologia e più in generale dell’ambiente significa centralizzare le “casualità naturali”.
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05 - MANIFESTO - CONCEPT
05.00
Origine del Manifesto La necessità di stabilire un nuovo ordine progettuale ha preso corpo durante l’approccio ad una particolarissima zona del paesaggio fluviale padano, una zona di interesse notevole dove ambiente artificiale e ambiente naturale si fondono, creando una sinergia alquanto atipica.
In questo luogo,
caratterizzato da limiti invalicabili dall’uomo, la natura ha trovato lo spazio e il tempo per tornare ad esprimere, in totale solitudine, le sue enormi potenzialità. Parliamo dell’Oasi de Pinedo, un paesaggio divenuto riserva naturale intorno alle acque del Po e noto ai più non tanto per i suoi incredibili contenuti biologico-faunistici che meritano una degna riscoperta, ma proprio perché all’interno di questo paradiso naturale alloggia oramai da quasi quarant’anni un elemento che esprime in toto le potenzialità umane di controllo della natura: la centrale elettronucleare Sogin. In questo contraddittorio contesto ci inseriamo a cavallo di un profondo limite invalicabile, di un’area militarizzata e super-controllata, che ha permesso alla natura di riappropriarsi di luoghi che fino ad allora venivano sfruttati dall’uomo per coltivare e sostentarsi. In questo contesto ambientale sono emerse diverse riflessioni, in principio, a partire dall’analisi ambientale e dei macro elementi in gioco. A volo d’uccello si sono osservate alcuni macro componenti come il fiume Po, il reticolo delle aree coltivate, lo spessore e la continuità degli argini, la ruvidità delle zone boschive. In modo molto spontaneo ci si è soffermati sul loro peso in questo equilibrio di colori e di forze. La grandezza del territorio ci ha subito portato a riflettere su questo disegno: pianificazione umana o natura libera? La stessa consulta degli archivi del catasto ha messo in luce un disegno originario e ancora riconoscibile nella maglia agricola ma assolutamente variata in quella fluviale e delle acque superficiali. Dove la mano dell’uomo? Dove invece la natura? Come si sono incontrati questi protagonisti del paesaggio? Il focus si è fatto sempre più approfondito e il sistema ha disvelato spessori e gradazioni di colori ulteriori: il volto di quel luogo è composto da molti equilibri interni frutto di azioni umane e naturali combinate. Questi equilibri racchiudono spazi senza nome e aree “di mezzo” sfuggite alla pianificazione antropologica. Incongruenze tra natura e uomo stridono non solo nei tempi ma anche nella forma. 53
Man mano che il nostro occhio si abbassava e prendeva dimensioni umane si rilevavano spazi sempre più frammentati e caratterizzati da una propria identità, la quale però riconduceva e sottostava ad equilibri e logiche maggiori. Come camaleonti, si adeguano a trasformazioni antropiche e naturali sempre in agguato. Abbiamo avuto un presentimento dopo la lunga indagine: questo luogo si presenta a noi con una molteplicità di visioni sempre in mutazione, ci confonde e tende a essere tante cose in continuo divenire. Ma così forse come tutte le realtà, ormai descritte non per la loro intrinseca essenza ma per le immagini sempre più aleatorie e lontane da essa. Forse però questa multidimensionalità parte da noi, che abbiamo sempre la tendenza a proiettare le nostre emozioni sulle immagini del paesaggio e riscoprirci in questa sovrapposizione di layer.
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05.01
Campi di indagine Per sua natura, il percorso di ricerca ci ha portato a definire dei campi in cui mettere a fuoco dinamiche umane e naturali, spesso risultato di equilibri globali molto complessi. Partendo dall’assunto della planetarietà delle azioni e della loro conseguente reazione a catena negli ambiti più locali e individuali, abbiamo definito dei campi di indagine in grado poi di dare struttura al nostro un progetto anticipatorio continuo.
Fluidità: Qualche anno fa il sociologo Bauman iniziava uno dei suoi testi più importanti citando l’Encyclopedia Britannica ed estrapolando la definizione di fluidità come chiave di lettura per la società attuale, i suoi ritmi e i suoi (dis)equilibri, utilizzando come parametro proprio questa similitudine fisica. “I liquidi non mantengono di norma la forma propria. I fluidi, per così dire, non fissano lo spazio, non legano il tempo. Laddove i corpi solidi hanno dimensioni spaziali ben definite ma neutralizzano l’impatto - e dunque riducono il significato -del tempo, i fluidi non conservano mai a lungo la propria forma e sono sempre pronti (e inclini) a cambiarla; cosicché ciò che conta per essi è il flusso temporale più che lo spazio che si trovano a occupare” [MODERNITA’ LIQUIDA, pag VI] In ambito architettonico tale cambiamento si è riflesso sulle metodologie progettuali, le quali sono sfociate in un uso sempre maggiore di programmi in grado di fluidificare, appunto, i passaggi computazionali e di realizzazione. La forma iconica di alcuni edifici ha lasciato spazio a stilizzazioni internazionali aventi tratti comuni in tutto il globo. La fluidificazione delle immagini e delle informazioni ha messo in moto uno scambio interculturale e interlocale che ha generato nuove energie effervescenti. A tale fluidità (che paradossalmente è stata convogliata anche nelle forme più becere) si è palesemente instaurato uno scollamento del significato primigenio della forma: la nostra esperienza architettonica si è trovata di fronte sempre nuove tecniche e materiali dai quali ripartire e riscoprire noi stessi nella loro messa in opera. In sostanza, una mutazione delle icone architettoniche e una rimessa in gioco totale dei significati.
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Processo: E’ sorta una sempre più stringente domanda di fluidificazione dei tempi: la necessità di sviluppare progetti e processi di realizzazione più brevi ha portato cambiamenti non solo in termini di
qualità ma anche di tecnologia. Paradossalmente però tali termini non hanno investito anche l’ambito di vita dell’oggetto architettonico, il quale rimane nella maggioranza dei casi immobile e vivo in una prospettiva infinita. L’architettura si propone come risolutore di necessità attuali e non future. L’architettura è autoreferenziale e non vive nel futuro. L’architettura non da spazio al tempo ed ai suoi ritmi. Il progetto attualmente non si occupa di processi in fase costruttiva conclusa. L’evoluzione è uno stato intrinseco alla natura e all’essere umano: tale stato è spesso tralasciato nella fase di progetto. La solidità dell’architettura è, attualmente, il limite più grosso dell’architettura stessa. Le sue trasformazioni implicano costi ingenti a livello progettuale e realizzativo. La fluidità ha liberato il cambiamento: la disgregazione del rapporto spazio tempo richiede capacità di adeguamento mai come prima d’ora. Trasformabilità è un aggettivo che accomuna molti prodotti umani. Il processo è l’ambito, la materia, che accomuna molti settori produttivi e richiama a dimensioni temporali infinite. “Processo, e non Prodotto, è il richiamo che sento.” [RE:CP. Cedric Price, pag 120] Labilità: La crescente antropizzazione del pianeta e la sua serrata programmazione produttiva porta ad un aumento organizzativo del territorio. Il programma prevede l’utilizzo più proficuo delle aree produttive a seconda delle possibilità delle stesse. Più organizzazioni si istallano e si contaminano producendo aree di risulta ed esternalità differenti. Tali risultati inattesi diventano sempre più gravanti sulla programmazione. la quale si fa serrata e univoca. Tali risultati diventano mine esplosive per una gestione programmatica serrata. “Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre una quantità di spazi indecisi, privi di funzione, sui quali è difficile posare un nome” [Manifesto del Terzo Paesaggio, Pag. 10] La programmazione, oggi, non è generosa di spazi nei suoi confronti. 56
Non è considerata valore.
Non è monetizzabile. Non è facile da considerare nell’organizzazione e nella gestione se non si conosce il territorio. “…accettando un elevato grado di indeterminatezza di un paesaggio sicuramente riqualificabile, ma nello stesso tempo inteso come costruttivamente frammentato e dinamico.” [I PAESAGGI ITALIANI, Arturo Lanzani, pp.234] Natura: Sempre percepita dall’uomo come contrapposizione al proprio agire ha da sempre stimolato una sfida continua tra abitabilità (uomo) e inabitabilità (natura). Noi lottiamo contro le sue manifestazioni e ciò che proviene dalla natura è considerato “naturale” cioè dato per vero, un’ovvietà, un fatto consolidato; ciò che, invece, viene dall’uomo viene considerato come un aggiunta uno scollamento produttivo rispetto il mondo della natura, viene definito artificiale. Uomo|Natura? Città|Campagna? L’uomo è natura. L’uomo produce attività e oggetti naturalmente artificiali. Il paesaggio ci mette in luce caratteri artificiali “naturalmente” presenti. Il paesaggio è il frutto dello sguardo umano sulla natura. Spesso il paesaggio è anche il frutto di sinergie naturali con attività umane. “se intendiamo il paesaggio come scenario naturale mediatizzato dalla cultura, come proiezione culturale della società in uno spazio concreto, dobbiamo ammettere che esso è intrisicamente dinamico e mutevole” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 313] Ambienti: Tutti i possibili habitat dell’uomo, comunemente ed erroneamente definiti e divisi tra naturali e artificiali. Dimensioni: Progettare architettura non è semplicemente creare spazi mono-bi-tri-dimensionali da occupare o da far occupare. E’ necessario considerare anche la quarta ed immateriale dimensione, il tempo. 57
Se ‘un diamante è per sempre’ l’architettura non lo è.
Dispositivi: Ciò che ci interessa è l’uso di un ambiente, il dispositivo rende possibile l’intromissione nello stesso e/o permette di utilizzare quell’ambiente incrementando le sue potenzialità percepite e percepibili. Il dispositivo non è un fine ma un mezzo per incrementare potenzialità di un ambiente. Il dispositivo è ambiente lui stesso, è ambiente aperto in continua mutazione, offre possibilità e utilizzi differenti, non riconducibili solo alle scelte dell’architetto. Il dispositivo è un sistema labile. Il dispositivo non è eterno, all’interno del suo progetto già contiene il seme della sua distruzione. Comunicazione: La comunicazione risiede all’interno del costruito e del costruibile, ciò che evidentemente esiste può essere dimenticato o ignorato, e ricordarlo è un sistema di comunicazione. La comunicazione non è solo verbale, scritta, pubblicitaria: il prodotto architettonico diventa esso stesso comunicazione, eccitando l’interesse dei fruitori. La fruizione esperienziale di un prodotto diventa lei stessa metodo di comunicazione, il ‘passaparola’ viene utilizzato come mezzo di promozione. Performance: La performatività è parte integrante del processo di costruzione-dismissione-uso di un ambiente. Tutti gli ambienti sono intrinsecamente performativi anche se non in maniera evidente, dipende dalla scala a cui ci si approccia. ‘The aim of the project’ è disvelare parte di ciò che è invisibile agli occhi. L’attore dello spazio è performativo, il palcoscenico stesso è performativo. Performance è quando qualcuno percepisce l’avvenimento. “penso che attualmente l’architettura non faccia abbastanza, che non arricchiscam né ravvivi la vita delle persone come può fare, ad esempio, Internet, o una bella storia o la musica. L’architettura non funziona come performer, ha una prestazione generalmente scarsa – nemmeno i progetti più attrattivi hanno funzionato. Come architetto cerco di migliorare la performance dell’architettura, cerco di trovare modi che indichino le lacune che non possono essere colmate da altri ma al momento non sono riconosciute come opportunità che l’architettura renda l’esistenza umana un po’ migliore” [Re: CP Cedric Price, pag 67] Tempo: Il rapporto che abbiamo con il tempo è legato fondamentalmente a scadenze e ritmicità produttive e di mercato, amministrative, politiche e di gestione del territorio. 58
La costante tempo aggiunge valore ad una qualsiasi attività di libero mercato quando il suo valore matematico tende a zero.
L’attimo è istantaneo. Adesso non è più. La dimensione futuro perde valore: ogni grandezza si riduce all’istantaneità. Il rapporto spazio-tempo è mutato: ad una forma non corrisponde più una specifica identità e una specifica tempistica. Sono cambiati quelli che sono i confini identitari. Non vi è più certezza attorno ad essi, si modificano continuamente e mutano a seconda dei singoli avvenimenti. Possiamo dire che il corpo è rimasto forse l’ultimo “limite-confine” definito ma ci si accorge che ci si sta preparando a oltrepassarlo, almeno aleatoriamente. “il rapporto spazio tempo sarebbe stato d’ora in poi mutevole e dinamico non fisso e preordinato. La conquista dello spazio finì col significare macchine più veloci; l’accelerazione del movimento significò spazi più ampi e accelerarlo ulteriormente divenne l’unico mezzo possibile per ampliare lo spazio” [MODERNITA’ LIQUIDA, pag 126] Lo scollamento tra tempi antropici e tempi stagionali o ambientali è totale. L’uomo ha reinventato una nuova ritmica: prodotta nei laboratori di genetica e tra le ore lavorative notturne. Scala: Non è più possibile suddividere la disciplina attraverso le scale. Per contrapposizione il sistema istituzionale disciplinale tende a specializzarsi e a suddividersi in ambiti scalari. La difficoltà che si incontra è una poca maestranza degli spazi borderline della disciplina. L’architettura si propone come un susseguirsi di informazioni raggruppabili e affrontabili per scala. La scala è un codice umano di comprensione. La scala è un linguaggio per dialogare con pertinenze e relazioni che sfuggono al controllo umano. La scala non deve essere un limite alla comprensione. Il paesaggio si compie in tutte le scale. “Ma la mia impressione è che la percezione e l’esperienza del paesaggio siano molto più “interscalari”, e molto più ricche e complesse di quello che rimane circoscritto a una scala media” ” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 206]
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Gli strumenti disponibile per la comprensione del paesaggio sono tanti e comprendono scala diverse, si passa dal microscopio al satellite.
Le relazioni sono il collante e l’essenza degli oggetti del paesaggio: esse si muovono trasversalmente alle scale, sono interscalari. Limiti: Si sfrange, perde spessore. O si inspessisce e perde la linearità. Diventa bidimensionale, tridimensionale, quadridimensionale. Noi|voi, là|qua, dentro|fuori. Il confine si liquefa, si distorce e muta morbidamente destabilizzando ulteriormente le micro scale. Non è possibile dimostrare matematicamente la loro differenza oggi. È chiaro come anche le logiche di potere e controllo erano legate a rispettive logiche di confine e di concetto tra “dentro” e “fuori”. Mantenere i confini attivi e sorvegliati permetteva di mantenere uno status controllato più o meno dichiarato. Ma tutto ciò cambiò con quella che viene definita modernità leggera: ovviamente il cambio non fu radicale, ed è tutt’ora in corso, perché in fondo, la nostra, è un’era di transizione. Sinteticamente il più grande ribaltamento risiede nel valore dello spazio: la sua irrilevanza è stata sancita dalla rispettiva forma di annullamento del tempo. Tendendo al valore zero del tempo, il valore stesso dello spazio tende a zero e così anche il significato di vicino e di lontano. E’ l’istantaneità il valore aggiunto alla leggerezza dell’essere (cit. Bauman) e non è tanto il luogo e il valore legato al suo spazio ma l’attraversabilità che ne è relativa. La virtualità (in senso di mancanza di fisicità) di determinate figure economi mette in luce la sovrapposizione di sistemi differenti consapevoli l’uno dell’altro ma giacenti su piani diversi. La definizione di confini e identità cambia a seconda dei vari layer e questo non aiuta il bisogno intrinseco che l’uomo ha di sicurezza e identità. Identità: Noi|voi, là|qua, dentro|fuori. L’idea di quello che siamo è fortemente legata al concetto di limite e soprattutto alla contrapposizione di ciò che non siamo. Per questo “noi siamo” in funzione di “loro sono”. La rottura dei limiti ha ribaltato il concetto di identità, o meglio ne ha cambiato il significato. Sono cadute le grandi ideologie.
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All’apertura verso “il resto del mondo”, alla conseguente rottura di limiti e confini culturali, economici, sociali, ci si aggrappa alla ri-creazione di identità ben definite. Ora nessuna forma è più sottomessa all’idea precisa e indissolubile che essa rappresenta. Per questo oggi il bisogno di riconoscersi in un luogo diventa l’obiettivo di molti designer dello spazio reale e virtuale. Lo smarrimento è un’esternalità provocata da un sistema in continuo cambiamento dovuto all’oggettivo evolversi di stato delle cose fino ad ora riconosciute e nominate.
Il passaggio è radicale e totalizzante nei confronti della nostra identità. “Descartes identificò l’esistenza con lapazialità, definendo tutto ciò che esiste materialmente res extensa. ([…] si portrebbe riformulare il famoso cogito di Descartes, senza distorcerne il significato, con <<Occupo spazio, dunque esisto>>). La modernità pesante fu l’epoca della conquista territoriale. Ricchezza e potere erano saldamente radicati nella terra: massiccia, ponderosa e inamovibile come miniere di ferro e depositi di carbone.” [MODERNITA’ LIQUIDA, pag 127-128] Comunità: Lo scollamento tra Comunità-Società-Stato è completo e quasi inevitabile allo stato di fatto attuale. Conseguentemente a quanto detto, anche il senso di appartenenza e di comunità stanno cambiando forma: il legame con il territorio si sfilaccia e l’equilibrio tra individuo e sicurezza tout court è sempre più labile. L’annullamento delle responsabilità politiche porta ad un livello di sicurezza sempre più basso e le responsabilità individuali acquistano volume. In termini semplici, è in atto un’azione di liquefazione delle comunità assodate negli anni ed una solidificazione di certezze attorno all’individuo: pura e semplice individualizzazione. Non deve sorprendere che la risposta a questo scardinamento di anziane certezze viene definito da Bauman “vangelo del comunitarismo” ovvero vere e proprie tendenze a formare comunità, ad accorparsi per darsi certezze, e soprattutto sicurezze. “Uomini e donne cercano gruppi di cui poter far parte, in modo certo e imperituro, in un mondo in cui ogni altra cosa si muove e cambia, in nell’altro è sicuro” [Eric Hobsbawn, MODERNITA’ LIQUIDA, pag 200] Comunità in cerca di identità. Identità individuali in cerca di comunità. Dissolvimento delle pratiche e delle abitudini accompagnano ad un mancato riconoscimento nei gruppi cardini della società.
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Nomadismo: I nomadi tradizionalmente studiati dagli etnologi hanno un forte senso del luogo e del territorio, al quale corrisponde un fortissimo senso del tempo inteso come processo e viaggio di avvicinamento alla nuova meta. Tale rapporto nel trend contemporaneo è completamente ribaltato. Non viene più considerata la dimensione (temporale) del viaggio, ma si tende infatti a conquistare l’immediatezza, l’istantaneità, la perdita di consistenza nel trasportarsi da un luogo all’altro. Insomma smaterializzarsi per poter tornare ad essere nel momento dell’apparizione. Il valore del tempo svanisce: i cambiamenti e gli spostamenti tendono ad azzerare il tempo, senza apportare nessun valore aggiunto al tempo investito nello spostamento. Più la funzione spostamento aumenta, più
la variabile tempo tende a zero, e questa paradossalmente acquista valore! Un vero e proprio tentativo di annullamento del tempo e quindi un contemporaneo svincolamento dal valore del luogo! Il caposaldo oggi è l’individuo: esso trova senso d’essere in funzione di se stesso e in funzione delle molteplici identità che lo caratterizzano nei differenti ambienti. Essere nomadi oggi significa non identificarsi in un territorio. Il luogo (reale e virtuale) è semplicemente una vasca in cui riversarsi e fondere relazioni con gli altri. E’ così che il territorio perde a poco a poco la sua identità sociale, sgretolando i baluardi storici che lo differenziavano da tutto il resto. Fino a pochi anni fa (si pensi alle rivoluzioni sociali degli anni ’60) il luogo e il territorio raccontavano l’identità della persona (il contadino e il terreno agricolo, l’operaio e la fabbrica, lo studente e l’università); oggi il legame bi-univoco tra l’attore agente e il suo locus originis si è totalmente sgretolato, impoverito, oseremmo dire polverizzato. Oggigiorno non ha più senso parlare di tradizione stanziaria. Individuo: “In nessun caso, tuttavia, si concepisce il paesaggio senza senza uno spettatore, senza un osservatore che lo contempli da un certo punto di vista, situato generalmente in una posizione strategica che goda di una prospettiva privilegiata” ” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 205] Nella percezione del luogo l’essere umano, con il suo punto di vista e la sua sensibilità, è l’elemento chiave. Ne sono testimoni molti scrittori, artisti e filosofi che hanno indagato il rapporto che il visitatore (l’abitante) instaura con il territorio. Quasi tutti hanno sviluppato teorie e pratiche del camminare in relazione al processo di riconoscimento dei luoghi da parte dell’individuo. L’attenzione si concentra su due particolari attività: passeggiare e contemplare. Il primo implica uno stato d’animo recettivo e rilassato, il secondo richiede attenzione e tranquillità. “il paesaggio non si potrà apprezzare né apprezzare né scoprire, quindi, senza quello stato d’animo ricettivo che genera il passeggio” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 32] “Contemplare non significa infatti solo guardare. È guardare con attenzione, non in modo obbligato o sforzato ma piuttosto con occhio rilassato e disteso, seppure non per questo meno vigile. Ha anche implicazioni estetiche, intellettuali, emozionali.” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 37] L’individuo è la chiave di lettura di un luogo. 62
L’individuo è la materia prima attorno a cui progettare.
L’individuo possiede delle capacità scalari precise. “Il camminare è un’arte che porta in grembo il menhir, la scultura, l’architettura e il paesaggio. Da questa semplice azione si sono sviluppate le più importanti relazioni che l’uomo intesse con il territorio” [WALKSCAPES, Francesco Careri, pag 119] L’individuo possiede come bisogno fondamentale quello di muoversi e di scegliere. L’individuo è lo scopritore e il disvelatore di energie intrise al territorio.
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05.02
Carattere del Manifesto Prima di iniziare il processo progettuale abbiamo sentito il dovere di definire questo stato di fatto degli elementi a sistema. Questo processo è stato lungo e faticoso, durato anni e messo a fuoco in pochi mesi. Il manifesto si fonda sulla processualità come Speranza Progettuale (Maldonado puntava piuttosto sulla fiducia da dare all’uomo, noi invece la diamo per scontata!). La convinzione profonda ormai radicata in noi è semplice: spesso l’architettura si propone come risolutore di problematiche alle quali è necessaria una risposta breve e immediata. L’architettura diviene uno strumento obsoleto e incapace di rispondere a tali problematiche: questa incapacità di cambiare e mutare in tempi ristretti rivela il limite più consistente dell’architettura tout court. La processualità sviluppata in ambito progettuale è l’embrione della risposta architettonica ed è il luogo per eccellenza per pensare e produrre un progetto anticipatorio continuo [RE:CP. Cedric Price, pag 140]. È la chiave di lettura attraverso cui poter rispondere alle domande reali, consapevoli che nulla è per sempre. Progettare il processo significa accettare la processualità come fatto oggettivo di un paesaggio più o meno antropometrico, considerarlo un vero e proprio dato progettuale e quindi metterlo a sistema con tutti i dati fino ad oggi considerati. Abbiamo immaginiamo un progetto di architettura, o di paesaggio, come una grande massa cerebrale informe, immobile, totalmente composta da sinapsi, collegamenti materiali o virtuali tra i differenti lobi cerebrali. La lettura della realtà su cui l’architetto va ad intervenire è come una sorta di essere muto, spento ma potenzialmente illimitato nella forma e nella vita. Immaginiamo di avere a che fare con un substrato sempre presente di collegamenti, di reazioni chimiche che governano il corpo e il cervello stesso; che anche se umanamente disinteressati permettono la sopravvivenza di questo paesaggio. In questo luogo potenzialmente illimitato subentra violento il lavoro dell’architetto, il progetto di trasformazione di quel luogo. Progetto che accendendo come dei flash le differenti potenzialità di cui è permeato tutto il territorio sinaptico, individua un ciclo di eventi incredibilmente ricchi e vari. Le possibilità antropiche finora inespresse del paesaggio esplodono in una continuum di hot spot che riconfigurano lo stesso in un modo nuovo, totalmente inaspettato Il progetto architettonico basa così la propria dimensione su passaggi di stato che si formano sulle attività
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e gli ambienti costituenti: non esistono scelte e giudizi assoluti, ad ogni tempo corrispondono persone,
attività e paesaggi intrinsecamente legati. Consapevoli di ciò abbiamo realizzato come sia fondamentale dimensionare il ritmo del cambiamento in fase progettuale e lasciare degli spazi di labilità e di auto progettazione in grado di liberare quelle energie intrinseche in ogni ambiente. In primo luogo abbiamo lavorato con il ritmo, definendo i battere e i levare del progetto, e riscritto poi come una nebulosa di punti in cui le possibilità di scelte possono essere molteplici. La cristallizzazione di alcune di esse sarà determinato non solo dalle necessità e dal contesto di quel dato tempo ma anche dalle opportunità del variare del tempo del cambiamento stesso. In secondo luogo quindi troviamo fondamentale progettare queste possibili opportunità temporali e tale valutazione continuerà per tutto il processo architettonico, dal progetto alla realizzazione. Tale valutazione dovrà tenere in considerazione la possibilità di discrepanza tra il progetto e l’effettiva resa in opera, per lasciare spazio ad eventuali rilasci energetici (nuove necessità, possibilità non considerate, cambiamenti naturali, ambientali e di attività impossibili da quantificare precisamente in stato di progetto).Un approccio così flessibile (definibile anche bottom-up) richiede un nuovo spirito progettuale: pensare al progetto come a una mutazione richiede la capacità di sintetizzare in fasi tali mutazioni, comporle nella loro struttura principale, definire dei termini di labilità e ricondurre ogni singola fase al tutto e continuum del progetto. Si organizza il progetto su una serie di step conclusi ma si progetta, in essi e tra essi, con un approccio che abbiamo definito a “coda”, cioè rilevando il cambiamento della fase precedente a quella interessata e scoprendo l’embrione del cambiamento della fase che seguirà. Questo permette di ricondurre ad una continuità progettuale e ritmica fondamentale del progetto anticipatorio continuo. L’architettura si propone troppe volte come qualcosa di eterno, di assoluto in un iter temporale che riconosce solo un inizio e mai una fine. Questa considerazione però si dimostra inesorabilmente errata: ogni ambito del progetto architettonico, assunto che provenga da una domanda d’utenza, terminerà nel momento stesso in cui l’utenza cambierà le sue abitudini. Questo è considerabile come lo stato embrionale della partecipazione attiva! In ultimo la nostra attenzione si pone sulla rilettura dello stato di fatto: esso viene riletto come un sistema dotato di elementi e dati aventi tutti lo stesso valore e peso nell’immagine del sistema stesso. Questi elementi vengono analizzati separando la loro forma (significante) dal loro significato per essere successivamente ricomposti in nuovi ordini relazionali. Tutto ciò avviene in una scansione in una progressione di tempo, dove in ogni attimo gli elementi messi in gioco possono essere differenti dall’attimo successivo. Il ritmo di questo evolversi è fondamentale, è la struttura primaria del processo. Da una forma conclusa ad 65
una forma aperta: il tempo è finito e stabilito da regole antropiche e naturali ma la forma si polverizza, si
modifica e diviene nuovo paesaggio intrinsecamente legato alla natura, proprio per questa sua peculiarità temporale. Il passaggio da uno stato ad un altro di questo processo non include nessun ordine di giudizio: ogni momento fa parte dell’identità stessa del progetto e del luogo. La mancanza di una forma “per sempre” non sminuisce il valore del progetto in un dato momento ma, al contrario, arricchisce quella che è l’immagine del paesaggio. Inoltre considerando come valore la spontaneità e l’incontrollabilità di alcuni dati progettuali si carica il progetto di un ulteriore grado di libertà. Lavorare sul punto di transizione è difficile: conoscere in primo luogo i tempi naturali e antropici richiede tempo e dedizione per il fatto stesso che essi sono in constante cambiamento. Trasversare poi i dati richiede uno sforzo notevole, sottolineando la continua attenzione a rispettare le eventuali esternalità e labilità che si accompagnano a questi ritmi. In conclusione l’obiettivo portato avanti nel progetto non è solo ripristinare una nuova metodologia progettuale ma anche ricercare una nuova lettura dell’ambiente e in ultimo “temporalizzare il futuro” [RE:CP. Cedric Price, pag 140], più o meno prossimo, facendolo diventare parte attiva del progetto.
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05.03
Attività del Manifesto Fluidità: La possibilità di cambiamento come valore. Educare ad una sensibilità collettiva: educare al cambiamento. Mutevolezza come stato intrinseco dell’uomo e della natura. La diversità come caratteristica riscontrabile solo nella dimensione non-finita. Assunto1: “Avvicinarsi alla diversità con stupore” [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, pp 59] Assunto2: Aggiornare con costanza le informazioni e i dati, tendendo ad una sempre più completa immagine del luogo. Non dare per scontato che se oggi è domani sarà. Riattivare la capacità intrinseca dei luoghi di adattarsi al contesto sociale e culturale. Non fissare un’identità del luogo in un progetto, ricercare sempre le molteplici identità del luogo nelle sue parti e nei sui tempi. Fluidificare le fasi di progetto, alleggerirle e rendere l’applicazione il più possibile reversibile e mutabile. “Insegnare i motori dell’evoluzione come si insegnano le lingue, le scienze, le arti”. [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, pp 60] Creare comunicazioni (porte) per favorire lo scambio tra le parti, sia in senso territoriale di luogo sia in senso temporale. Valorizzare le dinamiche di scambio tra gli ambienti. Abbandonare l’idea dell’architettura come pratica conclusa e autoreferenziale e mescolarla con le arti, la vita e l’impulsività sociale.
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Processo: Evitare di fissare in fase di progetto delle peculiarità che possano protrarsi per molto tempo senza dargli la minima possibilità di mutare vuol dire creare confini e racchiudere il progetto nell’oggi. Questo preclude ad un contesto in divenire ogni possibile cambiamento.
“Improntare alla progettazione anticipatoria continua” [RE:CP. Cedric Price, pag 140]. Redigere una proposta progettuale porosa nel tempo. La porosità è una caratteristica fondamentale per un progetto anticipatorio continuo: essa permette un continuo scambio di informazioni e una possibilità di interscambio temporale. La porosità non va solo intesa come accessibilità di un luogo ma anche come capacità di mutazione e trasformazione temporale intrinseca in una fase processuale. Ristabilire il valore architettonico attraverso la sua riconoscibile utilità nella relazione tempo-oggetto. Evitare vivamente che prenda sopravvento la “stagnazione dello spirito”, non temere quindi il cambiamento e prendere per dato inevitabile che qualsiasi sia il luogo creato non sarà mai per sempre abitabile e in grado di dare valore alla vita. Assunto1: “Congelare la storia indebolisce la memoria della sua stessa esistenza e richiede una gelatina mentale che ricopra tutto” [RE:CP. Cedric Price, pag 94]. Prendere in analisi i ritmi regolatori delle attività antropiche e naturali è il primo passo per svelare la struttura di un luogo. Le trasformazioni sono il motore di progetto per protendere ad un utilizzo dei luoghi che non destabilizzi i fecondi equilibri intrinsechi in essi. Un luogo vive del suo valore nella continuità del suo divenire giorno per giorno con la ritmicità che ad esso appartiene. Labilità: Educare alla labilità significa investire sull’individuo come essere pensante in grado di compiere opere di responsabilità. Attribuire valore all’apporto del singolo nell’equilibrio del tutto. “Considerare la non organizzazione come principio vitale grazie al quale ogni organizzazione si lascia attraversare dai lampi della vita” [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, pp 59]
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Riconosce che l’incertezza è una qualità benefica per tutti, in quanto rispettosa dello stato di libertà umana che caratterizza l’essere umano e la natura.
La labilità è un atto di fiducia verso l’umanità e la natura. Lasciare spazi labili significa lasciare spazio alla progettazione partecipata orizzontale. La labilità è forse la caratteristica più democratica risiedente nel progetto. Natura: Educare ad una nuova visione del rapporto natura-uomo. La convivenza è uno stato di essere inevitabile: l’uomo è natura. Uomo = solidità Natura = effimero La convivenza simbiotica tra natura e uomo dipende dalle capacità dell’uomo di farsi essere effimero. La natura è regolata da una logica transitoria, basata su ritmi ciclici. L’uomo, per suo stato d’essere, tende a definire attività con carattere assoluto. La relazione equilibrata si ottiene mettendo a sistema i ritmi di uno con i ritmi dell’altro. Agire come enzimi: facilitare le relazioni e attivare le reazioni Tecnologia come elemento ibridante e in grado di supportare il dialogo tra natura e uomo. Agricoltura come modello relazionale tra uomo e natura: sistema auto equilibrante regolato da cicli e attività umane ad essi polarizzati. Sistema ibrido di energie deboli e diffuse capaci di controllare le forze in gioco. Agricoltura modello di reversibilità e attraversibilità. Ambienti: Valutare tutti gli spazi come ambienti, cioè realmente e potenzialmente occupati e/o occupabili da vita umana, animale, vegetale, di qualsiasi tipo o dimensione. Dimenticarsi dello spazio come dimensione legata alla sola percezione tridimensionale, leggerlo sempre come ambiente, elemento visibilmente o invisibilmente in continuo divenire. La morte della materia -273,15°C non è ancora raggiungibile, e forse non lo sarà mai.
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Dimensioni: Le dimensione del progetto incorporano esse stesse il divenire. Il fattore tempo assume un’importanza fondamentale all’interno di una dimensione quadridimensionale, nulla è per sempre.
Dispositivi: Progettare dispositivi per aumentare e disvelare le potenzialità di un ambiente. Il dispositivo permette accessibilità e permeabilità. Il dispositivo non è un fine ma un mezzo per incrementare potenzialità di un ambiente, il dispositivo può essere comunemente inteso come architettura, oggetto, mobile o servizio. I dispositivi sono multi-user e multi-tasking, possono essere utilizzati in maniere contemporaneamente differenti e si adattano all’uso che l’utente immagina per quel dispositivo. Il dispositivo non deve essere eterno, non deve nemmeno tentare o sperare di esserlo. Comunicazione: Il progetto dei dispositivi o della modificazione naturale deve creare interesse e portare di per se alla comunicazione. La fruizione esperienziale di un prodotto diventa lei stessa metodo di comunicazione, il ‘passaparola’ viene utilizzato come mezzo di promozione. Performance: Gli accadimenti ipotizzati e presupposti dall’architetto e quelli congiuntamente con quelli che invece non erano stati pensati diventano loro stesse performance sul grande palcoscenico che è il progetto. La luce, il colore, l’errore diventano elementi di performance e di comunicazione del progetto. Tempo: Assunto1: “Ignorare le scadenza amministrative, politiche, di gestione del territorio.” [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, pp 63] Dare la possibilità al paesaggio di esprimersi nei suoi ritmi, solitamente incostanti, tendendo alla reinterpretazione quotidiana delle sue mutevoli condizioni dell’ambiente. Educare all’ascolto del ritmo. Variando la dimensione del ritmo notiamo come cambiano le possibilità intrinseche al ritmo stesso e come il processo di architettura possa valorizzare o meno determinate aree in determinati tempi. Il programma come graficizzazione dei dati temporali sincronizzati con le effettive necessità relazionali. 70
Il programma come obiettivo di progetto.
Assunto 1: L’architettura deve perdere il suo statuto classico di eternità. Assunto 2: L’architettura deve partecipare positivamente al tempo. “Dall’epoca delle grandi speranze siamo passati a un’epoca di incertezze permanenti, di trasizione stabile” [MODERNITA’ DEBOLE E DIFFUSA, Andrea Branzi, p.132] Percepire il tempo non come un andamento lineare ma come una ciclicità permette di fare previsioni in transizione e in perenne divenire. Scala: Educare all’interscalarità significa abituare ad uno sguardo fluido in grado osservare macro elementi e micro elementi, mettendoli in relazione senza inibizioni dettate dalle convenzioni. Trasversale le scale significa porre nuove relazioni tra tempo e dimensioni. Trasversale le scale è un atteggiamento fondamentale per una progettazione anticipatoria continua. La scala non considera le dimensioni sensoriali, le distanze e le vicinanze si misurano anche con la percezione e l’emozione. Assunto1: la cartografia legata a rapporti dimensionali fisici è limitante per la comprensione del luogo. “Penso alla possibilità – perché no? – di disporre un giorno o l’altro di mappe emozionali, in cui si illustri quello che realmente un determinato territorio risveglia dentro di noi; o di mappe simboliche, che rappresentino non tanto un certo accidente geografico ma quello che lo stesso evoca o suggerisce, dal punto di vista simbolico, alla comunità che lo contempla quotidianamente è […]” [ALTRI PAESAGGI, Joan Nogué, pp 73] Un programma basa la propria forza sulla rappresentazione delle relazioni a prescindere dalla scala di analisi. Limiti: Individuare i limite e le realtà adiacenti. Pensare al limite non come una linea ma come una nebulosa di punti in comune di due realtà a contatto. 71
Per tale ragione il mite raccoglie in se una ricchezza maggiore di dati.
Pensare al limite non come una linearità ma come uno spessore abitabile. Abitare il limite significa inclusività rispetto alla differenza. Nello spazio limite non esiste differenza: tale condizione è caratteristica prima! Abitare il limite vuol dire esser fuori dalle logiche esclusive di noi|altri e questo facilita un ragionamento democratico privo di giudizio rispetto ciò che non si conosce. Abitare il limite è una condizione sociale e culturale, prima di tutto. Identità: Educare alla differenza è in primo luogo scoperta di quello che si è. Scoprire un luogo è in primo luogo scoprire noi stessi nelle relazioni con gli altri e con gli oggetti. Assunto 1: L’identità di un luogo è il riflesso della nostra identità Educare alle cose significa conoscerle e darle un nome. Dare un nome alle cose significa non averne timore. Comunità: Il luogo è il riflesso dell’identità dell’individuo: il fare azioni, il contemplare sono attività che permettono all’individuo di sviluppare la propria identità. Assunto1: l’uomo non può non allacciare relazioni con il luogo. Assunto2: il luogo è la sede dello sviluppo delle relazioni tra gli individui. Riattivare relazioni sempre nuove e mutevoli in grado di stimolare relazioni interpersonali. Riattivare relazioni in grado di sviluppare memoria e riconoscimento all’interno dei singoli individui e tra gli individui. Nomadismo: Sensibilizzare la collettività al valore della relazione con il luogo. Educare alla creazione di ambienti sempre mutevoli ed in grado di attivare energie antropiche. 72
Sviluppare un programma in grado di fermentare il valore storico e il legame sociale tra cittadinanza e
luogo. Ritmare il programma in modo tale da mettere in luce sempre differenti luoghi e differenti energie intrinseche in essi. Nomadismo nelle attività, in relazione alle energie antropiche. “Proteggere i siti toccati da credenze come territorio indispensabile per l’errare dello spirito” [MANIFESTO DEL TERZO PAESAGGIO, pp 63] Individuo: Educare allo sguardo è componente fondamentale. Assunto1: l’individuo è il centro del progetto, attraverso le sue dimensioni sensoriali e le sue attività il paesaggio e l’architettura prende forma. Assunto2: solo dall’individuo possono nascere reazioni a catena con il luogo. Lui è l’epicentro in grado di riattivare energie assopite nei luoghi. Educare alla contemplazione come un ambito fondamentale della crescita dell’individuo. Contemplare un paesaggio significa sapere guardare se stessi in relazione ad esso. Educare a passeggiare come stato d’essere senza il quale non sia possibile contemplare. “Il camminare si rileva allora come strumento che, proprio per la sua intrinseca caratteristica di simultanea lettura e scrittura dello spazio, si presta ad ascoltare e interagire nella mutevolezza di questi spazi” [WALKSCAPES, pp 9]
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06 - PROGETTO-PROCESSO
06.00
Projecting/Processing È una svolta. Ricicliamo lo smantellamento. Ciò che sempre veniva pensato come una enorme spesa di energie e denaro per tornare alla condizione primigenia, diventa culla di nuove possibilità di uso, di riscoperta, di emozione. La de-antropizzazione della centrale e conseguentemente del territorio circostante ed il ritorno al cosiddetto green field, diventano luogo e tempo dell’esperire contemporaneo. Se territori analoghi come uso, ma fortunatamente differenti come storia nucleare (cfr. Chernobyl) diventano giorno per giorno itinerari turistici sempre più ricercati, ipotizziamo che l’italianissimo, anche se di costruzione americana, impianto di Caorso possa veramente tornare ad essere un fortissimo punto attrattore del centro Italia. L’interesse per la questione c’è, ed è stato evidente anche inoccasione dell’ultimo referendum sul nucleare di quest’anno; l’argomento è spinoso e conosciuto nella sua interezza da pochi, e la paura dopo le recenti tragedie di Fukushima e Chernobyl è ancora viva. Il processo di smantellamento di una centrale nucleare dura anni, anzi decenni. A maggior ragione se pensiamo che l’impianto di Caorso sarebbe il primo con tecnologia BWR ad essere smantellato, le tempistiche fissate a priori sono già state più volte diluite nel tempo a causa di imprevisti. La necessità di sicurezza e di protezione assoluta dell’ambiente e delle popolazioni prossime alla centrale durante lo smantellamento è veramente l’obbligo primo, a costo di allungare i tempi e i costi di rilascio del sito. In questo panorama, di nome e di fatto, artificial-naturale si inserisce la nostra idea di progetto. Un progetto aperto, che tenga conto delle labilità temporali del decommissioning, che abbia comunque come cuore fondante la liberazione totale del sito dalla radioattività dei combustibili nucleari e degli edifici contaminati o attivati. Sì, perché bisogna fare un preciso distinguo, tra ciò che è solamente contaminato ed è di possibile e immediato riutilizzo previa pulitura-sabbiatura delle superfici a stretto contatto con materiale radio-attivo, e ciò che invece è attivato e deve essere rimosso in toto poiché la radiazione ha modificato la sua struttura molecolare rendendolo instabile ed emettitore di particelle subatomiche e di raggi gamma, potenzialmente dannosi per la salute dell’uomo, degli animali e della vita in generale. Il progetto si adagia sulla superficie dello spazio-tempo, dando indicazioni, idee, suggerimenti a questo luogo quasi totalmente impenetrabile. Si lavora sul limite, si scavalca, si inspessisce, si conquista… e alla fine si consuma. Una grande rete, una serie di hot spot, che seguendo i layer dei ritmi si sovrappongono e si posizionano sempre in maniera
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differente sul territorio, a poco a poco si coagulano verso il rilevato e lo disvelano nella sua interezza.
06.01
Obiettivi Sogin. Attraverso lo di Studio di Impatto Ambientale (SIA) fornito dalla Società Sogin è stato possibile definire una tempistica di azione e modifica del complesso nucleare. Gli obiettivi imposti da alcuni decreti ministeriali e legislativi richiedono alla società il trattamento ed il ri-condizionamento di tutti i rifiuti radioattivi entro un decennio (a partire dal 1999), la realizzazione di un deposito nazionale definitivo in grado di accogliere rifiuti di seconda categoria (media e bassa attività) entro il 2009 ed infine lo smantellamento accelerato degli impianti nucleari, sino al rilascio incondizionato dei siti. Tali obiettivi sono rimasti in parte incompiuti e per questa ragione all’interno del progetto sono state dedotte alcune considerazioni prive di documentazioni tecniche e tempistiche precise. Inoltre lo slittamento dei termini, dovuto a ragioni che non ci è dato sapere, ha costretto la società a redigere una nuova Valutazione di Impatto ambientale (VIA) alla quale non ci è possibile avere accesso. Partendo comunque dall’intenzione di liberare da ogni vincolo radiologico il territorio (per arrivare al cosiddetto green field) abbiamo articolato sette fasi progettuali di cambiamento, che si evolvono nell’arco dei prossimi venticinque anni. Gli obiettivi della società sono così diventati i nostri paletti attorno a cui tessere ritmicamente questo processo in continuo divenire. Operativamente abbiamo definito alcune linee comuni trasversali alle fasi, come una sorta di attività metodologica, che si perpetua e struttura i cambiamenti fase per fase.
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06.02
Strategia ciclica In primo luogo si è considerato il valore dell’area all’interno del sistema Parco Fluviale del Po e ci si è accorti di come la continuità dell’asta del fiume sia un elemento fondamentale per la sussistenza dell’Oasi de Pinedo. L’Oasi infatti può essere scoperta e compresa solo se riuscisse a divenire parte integrante del sistema fluviale protetto. Tutto ciò genererebbe un turismo coscienzioso e permetterebbe all’area di implementare gli accessi e la possibilità di essere permeata. Accessi e percorsi. Si è deciso di lavorare inizialmente sul percorso ciclabile dell’argine maestro come grande accesso lineare, e successivamente valorizzare e implementare stagionalmente alcuni percorsi secondari, che possano irrorare l’oasi di piccole attività versatili e modificabili. Le poche aree boschive presenti nell’Oasi possiedono una rete di strade sterrate abbastanza estesa, concepita generalmente per l’attraversamento e il raggiungimento delle aree agricole circostanti e del gretto del fiume. Nonostante siano presenti piccoli boschi planiziali, l’area non è soggetta all’esbosco del legname ma è prevalentemente lasciata allo stato naturale senza nessun controllo antropico. In tutti i casi le strade, se gestite come sistemi lineari, rappresentano soluzioni di continuità nella copertura forestale, rivestendo perciò particolari funzioni faunistiche. L’esistenza di un buon numero di specie animali e vegetali in ambienti forestali è infatti condizionata dalla presenza di spazi aperti privi di copertura arborea. Nelle aree dove penetra la luce è sempre presente un numero di speci ed individui maggiore rispetto a quelle in ombra. I rettili prediligono luoghi baciati dai raggi solari, piccoli mammiferi e l’avifauna amano nidificare all’interno dei margini cespugliosi lungo i percorsi. Per l’avifauna le condizioni ottimali sono assicurate da un’ampiezza minima del margine cespuglioso di 5m, che diventa ottimale quando gli arbusti raggiungono 8-10 anni. Il sistema di gestione dei percorsi che si è adottato è semplice ed efficace: sfrutta la suddivisione in tre zone differenti di ceduazione, esaltando così le possibilità dell’ecotono. Nella prima zona, la striscia della carreggiata, il manto erboso è falciato una o due volte all’anno ed è bordato su due lati da due aree mantenute ad erba alta; questa seconda zona (appunto definita dalla presenza di erbe alte) può essere tagliata per piccole aree con rotazione di tre anni. L’ultima zona è composta invece da una fascia a ceduo con cespugli a rotazione di dieci o vent’anni (gestione Warren e Fuller). Lungo i sentieri sarà importante allestire degli spazi di seduta e di contemplazione della ricchezza faunistica e floreale, collocando dispositivi in grado di essere rimossi durante i periodi di manutenzione dell’area. Inoltre il controllo del ceduo e la stagionale potatura permetteranno di mantenere controllato anche lo stato di conservazione degli alberi e del legno morto. Quest’ultima questione non va
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sottovalutata, in quanto il legno morto e marcescente è un ricco substrato per le popolazioni di rari
organismi e per il mantenimento di struttura e fertilità del luogo. Inoltre le carcasse di alberi e rami diventano luogo di nidificazione e tane, per cui nel periodo di accoppiamento il fasciame non può essere ridotto o eliminato. Tutte queste attività si collocano nell’ambito golenale e per tale ragione si prevede una accessibilità esclusivamente ciclopedonale. Per usufruire dell’area saranno necessari dei parcheggi scambiatori lungo l’asse dell’argine, dotati non solo di area di sosta per le auto, ma anche di un servizio di bike sharing, al fine di potenziare le possibilità di scoperta e conoscenza dell’Oasi. Materiali di progetto. Presa consapevolezza dell’importanza degli elementi di attraversamento dell’Oasi, si sono considerate non solo le possibili attività da inserire ma anche i dispositivi attraverso cui esse possano essere relazionate con il territorio. Considerando l’idea espressa dal progetto aperto e in divenire si è reso necessario trovare modalità sostenibili all’ecosistema, ma soprattutto rispettose della ciclicità dei ritmi naturali. Si possono così individuare due modalità di azione, la prima per sottrazione e la seconda per giustapposizione. Con queste elementari azioni e con l’analisi degli elementi del territorio abbiamo individuato alcune aree in grado di accogliere attività antropiche. Come esempio di sottrazione si pensi a radure, tagli e potature di spazi cespugliosi o rasatura di prati con differenti altezze o disegni. Banalmente tali attività appartengono alla storia del territorio ma nell’attuale situazione dell’Oasi esse sono applicate solo per gli spazi agricoli. Lavorando sulla texture del territorio è possibile differenziare e personalizzare luoghi ed aree anche per le più semplici attività umane. Ogni sottrazione permette di ricavare materiale a perdere. In realtà tale materiale sarà giustapposto per costruire ulteriori luoghi o funzioni. Ad esempio, il taglio del foraggio dà luogo a suggestivi paesaggi di balle di fieno con differenti forme e colori. Altri materiali utilizzati sono anche il legname ottenuto dalle potature, e il materiale inerte legato al periodico dragaggio del fiume Po. Consci che ogni attività umana produce una risposta nel territorio, è possibile quantificare i risultati e il materiale ottenibile. Infatti, essendo materiale totalmente deperibile, esso è in grado di dare risposta anche visiva allo scorrimento del tempo e soprattutto di essere facilmente sostituito e restituito alla natura. In generale possiamo individuare quattro materiali principali utilizzati in maniera trasversale nelle varie fasi: paglia, ottenuta attraverso le attività agricole e la manutenzione delle aree boschive ed erbose; tessuto, in grado di racchiudere aree e limitare la circolazione in alcuni punti da parte di escursionisti e fruitori dell’area; fasciame, ricavato dalla potatura stagionale e organizzato e intrecciato per ottenere piccoli dispositivi di primo alloggio e recinzioni temporanee; sabbia, in grado di essere organizzata per mucchi e chiudere la vista e il peregrinare dei fruitori. Integrazione uomo natura. L’Oasi è parte del sistema fluviale del Po e come tale presenta caratteristiche varie per vegetazione e popolazione ittica e 80
di terra. Ciò si percepisce all’interno del paesaggio attraversando i vari ambienti e venendo in contatto con
fotografie e immagini del luogo sempre diverse e in mutamento. Il tessuto arboreo e i sistemi boschivi nell’area sono frammentati dalle colture agricole e dai percorsi sterrati, che ovviamente non facilitano il mantenimento e la riproduzione degli stessi manti forestali. Per tale ragione si è deciso innanzitutto di mantenere il più concluso possibile le macchie vegetative e sfruttare alcuni percorsi preesistenti per attivarle a livello fruitivo, ma non per attraversarle. In breve si è deciso di adottare lo schema di design di una biosfera mantenendo il core centrale inaccessibile fisicamente, ma lasciandone percepire le peculiarità solo visivamente o tramite un attraversamento aereo. La ragione di tale scelta è quella di preservare alcune aree per la riproduzione e lo sviluppo delle popolazioni faunistiche. Tale approccio unito all’utilizzo ciclico di aree diverse permette in modo equilibrato di monitorare, accrescere e sviluppare la varietà di habitat presenti nell’Oasi. Accessibilità. In quest’ottica il termine “accessibilità” è stato fortemente decostruito e ricomposto. Partendo dal presupposto che errare è in primo luogo un modo per conoscere, si è cercato di definire quali sono le modalità privilegiate attraverso cui ciò può avvenire: la prima modalità riguarda la possibilità di stanziare, sostare fisicamente in un luogo; la seconda via implica il contatto visivo, l’immagine del luogo stesso. Queste due modalità di conoscenza sono state ampiamente sfruttate grazie all’utilizzo di dispositivi architettonici e ambientali in grado di variarle e modificarle nel tempo, cosicché la conoscenza dell’area sia anch’essa sempre in divenire. Si è cercato di dare luogo a nuove esperienze: attraverso l’attraversamento in altezza di alcuni punti dell’Oasi si possono estrapolare nuovi scorci e nuove immagini. Questa nuova esperienza permette di attraversare aree in cui non sarebbe altrimenti possibile transitare; inoltre l’introduzione di percorsi sospesi consente di circoscrivere zone boschive non permeabili, integrando una conoscenza esclusivamente visiva con un nuovo esperire del luogo.
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06.03
Strategia programmatica Ritmi*2012|2013. **Access Denied** Il progetto prende atto nel momento stesso della sua approvazione, se non prima per iniziativa indipendente, si ipotizza comunque tra il 2012 e il 2013. La prima fase colpisce necessariamente solo l’Oasi del Pinedo, senza addentrarsi nel perimetro di sicurezza della centrale, se non con artefici architettonici che permettono contemporaneamente il superamento del limite militare garantendo la sicurezza dell’impianto. La prima fase esemplifica l’approccio tipo al progetto e alla conversione di parti dell’Oasi golenale rendo accessibile e utilizzabile l’Oasi, per la quasi totalità dimenticata e sfruttata solo parzialmente da coltivatori agricoli. Gli interventi sulla natura come disboscamenti, diradamenti, cerchi nel grano, sono coerenti con la stagionalità e la rotazione tipica dell’agricoltura del luogo e della coltivazione di pioppi e sono coadiuvati da dispositivi architettonici di diversa natura. Vengono progettati dispositivi con differenti gradi di labilità, riutilizzando materiali di scarto del luogo, materiali ex novo, materiali deperibili in una stagione e contemporaneamente materiali che subiscono la patina del tempo. Alcuni di essi sono rimovibili a stagione completata, mentre altri diventano parte del processo naturale del territorio, si fanno impadronire dalla natura o diventano rifugio per la fauna presente nel territorio. I limiti (relativi alla permeabilità fisica), sanciti attualmente attraverso la perimetrazione dell’aera Sogin e quello più interno attorno al rilevato, sono presenti e invalicabili se non previo controllo. Tali limiti sono superabili solo visivamente attraverso la perimetrazione via fiume e via percorso ciclopedonabile. Proprio attraverso il primo contatto (fiume) è possibile osservare uno scenario del tutto inedito: muovendosi sui confini è possibile permeare visivamente l’enorme complesso bianco candido della centrale e poi accedere alla sponda attraverso un attracco situato a pelo d’acqua (+43.00m slm). L’attracco è sua volta percepito come un punto attivatore del territorio adiacente. In questo paesaggio troviamo un susseguirsi di piani di permeabilità differenti: in primo luogo vi sono tutte le partizioni verticali della presa d’acqua che fanno da schermo verso il fiume, impedendo la vista ma facendosi permeare dall’acqua necessaria per raffreddare il processo nucleare della produzione dell’energia. Come quinte di una scena comunicano a diversa distanza e diversi punti di vista dal fiume. Poi ci sono gli ambienti della presa d’acqua: in generale possiamo trovarne di tre tipi. Il primo è quello a diretto contatto con il livello del fiume, dove è possibile attraccare; il secondo è quello sopraelevato delle terrazze, che permette di approcciarsi più direttamente
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con il rilevato posto sull’argine ed in ultimo, il terzo è rappresentato delle vasche interne al fabbricato. Gli
elementi ciclici sono prevalentemente tre: il verde, un folto pioppeto e saliceto completamente saturato al terreno di rovi e rampicanti; il fiume che presenta a seconda della stagione un livello differente (anche se la presenza della diga monte permette in generale di mantenere il livello a +41,10m slm) con permeabilità differenti; in ultimo la sabbia, che periodicamente deve essere dragata rispetto le sei chiuse della presa d’acqua. La zona di rispetto della centrale è ad oggi perimetrata da un confine artificiale fatto da reti e recinzioni ma oramai notevolmente compromesso, e da una selvaggia natura che, andandosi a sostituirsi al limite invalicabile umano, lo rende comunque altrettanto invalicabile. Tutta la zona di perimetro, e non solo, alla zona militarizzata soffre una difficoltà di attraversamento e di scoperta, per questo la proposta di costruire un percorso sospeso a diverse altezze che si insinui a cavallo del limite permette di collegare direttamente l’argine maestro al fiume. La passeggiata si configura contemporaneamente riscoperta del luogo ed entertainment, grazie alle proposte di relax, sport, soggiorno presenti sul percorso e contemporaneamente comprende attività economiche-produttive, serre, giardino dei bambini, toboga, città sospese, giardino delle farfalle, campeggio ad alta quota, piscina microfiltrata, giardino delle piante grasse, bagnasciuga in quota, villaggio di sabbia, etc.
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Ritmi*2013|2014. **Gaining Access** Il campo di interesse del progetto si approssima al rilevato della centrale, tenta l’accesso, permea e si insinua dai punti deboli, dai punti inizialmente liberati. Il processo di liberatio del sito inizia sfondando il muro dell’ingresso carrabile/lavorativo della centrale, si avvicina al rilevato, conquista la ‘retta via’ che un giorno condurrà al reattore. Si utilizzano i margini di questa via, arredandoli. La stazione meteorologica preesistente, attiva per tutto il processo di decommissiong per il controllo chimico dell’ambiente in prossimità della centrale, diventa pretesto per utilizzare container e riadattarli ad uso misto: punti visuali sul territorio paludoso delle ex cave di argilla, camere per soggiorni veloci, deposito-rimessaggio per biciclette e pattini, luoghi di pernottamento-appoggio per la protezione civile in caso di piena del Po. Costeggiando la strada di accesso alla centrale si sviluppa una potenziale attività tipica del luogo, la coltivazione di piante in vasi. Il paesaggio che ne consegue è il risultato di una animazione mista di utensili per la coltura, irrigazione a pioggia, luci soffuse, supporti multi-sfruttamento (sedute, supporti…) e un ricco manovrio di lavoratori. I supporti dell’alta tensione, elementi unici nel paesaggio per la loro leggerezza e altezza, vengono sfruttati ad uso riparatorio e visuale, ipotizziamo di creare nidi su elementi esistenti, di ri-viverli in altri modi, di sfruttare le loro qualità innate ma ancora non riconosciute. Seguiamo i loro desideri più reconditi. Sul rilevato continua il processo dello smantellamento, già iniziato con lo smontaggio del camino della torre off-gas e lo smantellamento di parte della quasi totalità delle torri RHR. Lo smantellamento va di pari passo con lo spostamento dei rifiuti radioattivi verso un unico ERSBA (Edificio Rifiuti Solidi Bassa Attività) e poi verso il deposito nazionale delle scorie italiane. L’edificio dell’ex centro informazioni, utilizzato ai tempi come luogo per l’informazione della popolazione sul problema della sicurezza nucleare e rinchiuso da una recinzione al cambio di società di gestione, viene liberato delle partizioni interne e del tetto, trasformandosi in una sorta di cattedrale medioevale, una rovina di ciò che un tempo è stato. Intanto il resto dell’oasi si muove, coprendo o ri-scoprendo paesaggi perduti, relitti dispersi, abitata da uomini e animali che si muovono all’unisono semplicemente seguendo il loro istinti.
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Ritmi*2014|2015. **Escalation privilege** Il sito di progetto viene trafitto e liberato a poco a poco. Partendo dalla presa d’acqua, punto di approdo e di intrattenimento lungo i percorsi di visita sul Po, il progetto si insinua nel territorio sfruttando la forza dei corsi d’acqua. Viene riaperto e reso navigabile il canale della vecchia Nure. Percorsi e tappe guidate permettono al territorio immediatamente intorno al canale di essere reso accessibile, si allestiscono punti di sosta, veri e propri spot per osservare in tranquillità la vita della natura, contemporaneamente a luoghi ricreativi e di sostegno per la notte. Il progetto comincia a coagularsi intorno alla zona del rilevato, sfruttando gli edifici di bassa attività, un tempo riempiti di barili radioattivi. Si permea ancora il limite, il primo ERSBA, quello più esterno viene smantellato nei suoi tamponamenti, viene asportata la superficie della pavimentazione e dei condotti di caduta, fino a liberare la terra, quindi trasformato in un giardino. Poggiato sopra di esso e sopra l’ex ufficio informazioni, un percorso permette l’accesso a questo giardino protetto scavalcando l’area deposito ancora liberata. L’edificio informazioni torna ad essere cio’ che un giorno è stato, la parete esterna muta in uno ‘muro parlante’ interattivo, schermo di visioni sul futuro e sul presente, che riprende e trasmette milioni di immagini sui lavori in corso di smantellamento e delle novantanove webcam collegate 24h al server e sparse per tutta l’oasi. Il secondo deposito, l’ultimo ad essere liberato dal materiale radioattivo, viene parimenti ripulito-sabbiato e trasformato in spazio flessibile per auditorium, concerti, danze, addestramento squadre cinofile. La doppia fila di recinzioni, un tempo utilizzata per le ronde militari, si trasforma anch’essa in una foresta, uno zoo a contatto con entrambi gli ambienti. Dei segni vengono lasciati all’interno di tutta l’oasi, vengono rese accessibili nuove zone, nuovi possibili paesaggi, trasformati in altro.
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Ritmi*2016|2017. **Condensation Process Pt.1** Il progetto comincia a condensarsi verso il rilevato, altri edifici della centrale vengono liberati dal loro uso ed a poco a poco riconsegnati alla natura. La passerella di collegamento tra il rilevato e la presa d’acqua diventa luogo di sosta e di intrattenimento, si connette agli alberi che la circondano grazie a passerelle sopraelevate, crea spazi al di sotto di essa come se fossero alveari. Tutta la parte nord del perimetro militarizzato viene liberata e riconnessa all’oasi, senza più limiti, tranne quelli che la natura si è auto-imposta e si auto-imporrà. Noi cercheremo solo di superarli senza sconfiggerli o manometterli totalmente. Una serie di percorsi a terra permettono un flaneur-ismo in tutta la zona appena riscoperta, e riconnettono il Po alla Nure e la Nure al rilevato. La corona del rilevato comincia a liberarsi grazie al lavoro sull’ex edificio RHR, totalmente ripulito dai camini e dalle pompe, ma talmente spesso e pesante che sembra quasi indistruttibile. Pensiamo infatti che l’RHR possa essere riconvertito a spazio ludico, di gioco, utilizzato come parete di arrampicata da un lato e trampolino dall’altro. Lì dove abbiamo pensato poterci essere una piscina, ad oggi, c’è un enorme buco a cielo aperto, dove passavano i gas diretti ai filtri dei camini. Riconnettiamo questo paesaggio ‘estivo’ agli eventi degli ERSBA e concludiamo con la liberazione delle ‘Vecchie Officine’, ora adibite a deposito. L’intervento sulle vecchie officine è a lungo termine, un parziale smantellamento delle partizioni perimetrali permette ad un cuneo di verde di subentrare come limite fisico all’accesso al nucleo della centrale, così da creare con le tempistiche naturali paesaggi diversi per il futuro del sito. Pensiamo infatti che il cosiddetto green field non possa limitarsi ad un semplice prato verde ma possa e debba diventare una culla di biodiversità.
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Ritmi*2017|2018. **Condensation Process Pt.2** La condensazione in prossimità del rilevato continua. Inizia il lavoro di smantellamento dell’ERSMA (Edificio Rifiuti Solidi Media Attività) che però rimane per forza blindato a causa della radioattività dei rifiuti posti al suo interno: ad oggi non sappiamo se sia realmente possibile smantellarlo, quindi ipotizziamo che resti lì per sempre. Vengono annessi i due campi dei trasformatori elettrici al progetto, enormi spianate di terra coltivate con alberi artificiali, tramuti in spazi per la coltivazione ad orti o per il gioco e l’intrattenimento. Vengono stesi teli per ripararsi e permettere pic-nic, vengono create zone a densità vegetativa differente. La prospettiva della dismissione cambia e si rende visibile da diversi punti di vista spaziali e ambientali. Finestre sul reattore e sugli edifici che lo attorniano disvelano attraverso una prospettiva verde ciò che sta accadendo, la terra di movimentazione dei vari cantieri in atto diventa collina da cui osservare lo spettacolo. La vecchia mensa, che un tempo sfamava tutti i dipendenti della centrale, decimati a poco a poco da quando è stata spenta, viene bonificata del tetto d’amianto e ridotta all’effettivo bisogno di uso odierno, come bar-ristorante sia per i dipendenti che per i visitatori. Scoperchiata, viene riempita con tre volumi autonomi adibiti a sala ristorante, sala bar e servizi igienici.
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Ritmi*2018|2022. **N ew Nature: Mixité** Il territorio sta tornando ad essere sempre più un miscuglio eterogeneo di differenti nature. Gran parte dell’asfalto posato sul rilevato viene rimosso, permettendo alla vegetazione di re-impadronirsi di ciò che un tempo l’uomo gli ha tolto. Non è naturismo e nemmeno un tentativo di tornare alla natura originaria, evidentemente compromessa e soprattutto in continua evoluzione, ma cioè che ci interessa è creare una nuova natura, un’equilibrata compresenza tra l’uomo e ‘gli altri’. Restano alcuni edifici, diventano sinapsi ricettive, punti accentratori di attività che si svolgono all’intorno. Ciò che resta delle torri RHR, cioè solo l’edificio di testa (il resto è già stato smantellato da anni), diventa il centro di supporto tecnico-logistico-formativo per attività di canottaggio che possono stabilmente occupare il canale di scarico delle acque di raffreddamento. Una notevole fetta del rilevato viene liberata, mentre ritorna ad essere rinchiuso e in via di smantellamento l’edificio magazzino prossimo al reattore. E’ in progress il definitivo lavoro di smantellamento di tutto ciò che è ancora radiologicamente pericoloso. Il reattore viene svuotato totalmente delle partizioni interne, dei solai del pavimento, rimangono solo le due travi che da fuori escono come due grandi occhi, una volta sorreggevano le vasche di combustibile, ora a loro si appoggeranno gli elementi sospesi a mezz’aria, gli alberi, i bachi da seta, tutto ciò che un giorno era in terra. Il turbine diventa altro da se, Come ogni anno ed in questa fase ancora più prepotentemente, i fiori ricoprono tutta la base del rilevato permettendo alle colture del miele di nutrire le proprie api.
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Ritmi*2022|2024. **Administrator Mode: ON** La fine. No, un nuovo inizio. Alcuni edifici restano, ma non sono più ciò che erano un tempo. Non ipotizziamo che restino per sempre, sono dei Landmark, hanno fatto la storia di un paesaggio, sono cattedrali nel deserto, senza più la loro originaria motivazione, sono contenitori vuoti che noi riempiamo ogni giorno in maniera diversa. Ipotizziamo di creare una vasca da sub, un acquario e un museo nel turbine ma rimane uno spazio amplissimo, sfruttabile per qualsiasi cosa. Al di fuori di esso, i muri in cemento armato dove un tempo c’erano i trasformatori diventano quinte per spettacoli, concerti, giochi, arrampicate, rappresentazioni. Immaginiamo il reattore, centro nevralgico e cuore energetico di tutta la zona, cilindro in cemento armato bianco alto settanta metri, punto di riferimento visibile a quindici chilometri di distanza, simbolo della ‘paura nucleare’: svuotato, zen, silenzio, solo bachi da seta, pioggia e cielo. Città container nascono dove una volta si ammassavano container in ricordo alle vecchie abitudini. Finalmente tutta l’area viene liberata, vengono rese accessibili le ex cave di argilla dell’RDB, passerelle vengono appoggiate tra i boschi e le cave riempite d’acqua, riconnettendo le vecchie cascine abbandonate con la via che porta al rilevato. Il progetto non si conclude, volutamente, ma apre a tutti gli scenari possibili: una riconversione del costruito, uno smantellamento totale.
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Ritmo*Speciale. **Super Nature** In alcuni momenti dell’anno il fiume esonda arrivando a occupare tutta l’area golenale e ad ingrossarsi fino ad arrivare a una quota di sette metri maggiore rispetto alla normalità. La centrale nucleare è stata costruita su un terrapieno proprio per evitare problemi di questo genere. I dispositivi ipotizzati nelle varie fasi sono progettati per rispondere a questa emergenza: alcuni sono appesi ad una quota maggiore di sette metri, altri sono talmente massivi da non poter essere spostati neanche dalla furia delle acque, altri ancora custodiscono dentro di essi già il germe della loro distruzione per ciclo naturale. Durante questa fase di ‘supernatura’, che dura pochi giorni ( 4/5 giorni) si disegna un paesaggio lagunare di estrema emergenza naturale. Durante questo periodo prendono vita una serie di attività in ambito di pronto intervento per salvaguardare l’area dalle eventuali esondazioni e dalle falle dell’argine maestro. Queste attività straordinarie (rifugio sfollati, cordinazione protezione civile, fontanazzi, copertura argine) trovano luogo negli spazi a cavallo delle varie fasi. Al rientro dell’emergenza piena si prevede un sistema di dispositivi atti a risolvere il problema della moria delle carpe.
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07 - CONCLUSIONE
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Questo processo non approda ad una vera e propria conclusione, rimane permeato da una sorta di proliferazione di attività nel tempo, una polverizzazione del progetto sul territorio. Oggi possiamo solo immaginare alcuni scenari possibili, programmarli ma non progettarli. Nella logica di questo processo è doveroso lasciare una porta aperta, o forse più di una, infatti se seguissimo le indicazioni dateci dalla Società di Gestione degli Impianti Nucleari (Sogin) dovremmo ipotizzare in conclusione un green field: uno spazio neutro, un ground zero in cui ciò che è stato non ha più alcuna proiezione nel futuro e nel presente stesso. Oggi possiamo permetterci di esagerare e di immaginare visioni futuristiche al limite della fantascienza, spazi iper-ludici, spazi industriali e di ricerca tecnologica, aree riconvertite a produzione elettrica, aree di pesca e coltivazione oppure nuove centrali nucleari o ancora forse un nuovo centro di stoccaggio per materiale radioattivo. Ciò che per noi conta non è tanto il futuro dell’area, non ci è dato saperlo e forse non ci importa neppure, quanto i principi generativi che hanno messo in atto il processo di progetto lungamente enunciato in questo scritto. In fondo, ogni fase si compone di ramificazioni e costellazioni di elementi che interagiscono tra loro che talvolta possono anche non prendere vita integralmente a causa delle labilità contestuali e temporali del luogo, che ad oggi non ci è dato sapere. Si delinea così un immagine delle fasi aperta e continua tra una fase e l’altra e che contemporaneamente possa riadattarsi ad eventuali ‘stiramenti temporali’ dettati da qualsiasi tipo di problematica (pensiamo soprattutto a problematiche tecniche di dismissione). Questa labilità intriseca ad un progetto-processo pensato in una tempistica di questo genere già intrinsecamente include l’idea di labilità. Ogni fase in realtà non deve per forza ottemperare a tutte le indicazioni che abbiamo dato, non è necessario, ciò che reputiamo importante risiede nei criteri insediativi e nella continuità che essi acquistano lungo i quindici (o più…) anni di processo. La conclusione non è quindi una fine, non possiamo parlare di ultima fase ma possiamo aprire possibilità molteplici e immaginare che qualunque sia il risultato in divenire esso si collochi nella continuità delle logiche enunciate.
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08 - BIBLIOGRAFIA
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