Daemon Hirst

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Damien Hirst


Chiedersi da dove arriva Damien Hirst è come interrogarsi sulla provenienza interpolata di Bill Gates, Pablo Picasso, William Blake, Imgvar Kamprad e Leo Burnett. Il più sconvolgente, innovatore e bastardo dell’arte contemporanea è un mix letale di questi cinque personaggi, una creazione del mondo contemporaneo datata Bristol 1965.

“I do what other people only dream. I make art until someone dies. (giggles) I am the world’s first fully-functioning homicidal artist.” The Joker, Batman (1989 Film) Penso che ripetero’ troppe volte la parola contemporaneo, quindi tralasciate le consuetudini sintattiche per passare immediatamente al concetto, potrebbe essere un buon metodo per capire il modus operandi del signore di cui stiamo parlando. Dopo non esser stato ammesso al St.Martins College appena finita la scuola superiore e aver passato due anni della sua vita a “guardarsi in giro, fare dei lavoretti” decide di iscriversi al Goldsmith College, unico luogo, secondo suo dire, trasversale rispetto alle arti della scultura e della pittura. Resta indubbiamente bislacco all’alba degli anni ‘90 ipotizzare una imperitura divisione tra questi due “rami” delle facoltà artistiche, probabilmente per qualcuno Duchamp non è mai esistito. Ma per Damien Hirst è esistito eccome e forse lui più di tutti ha osservato e messo in pratica quello che potremmo definire Arte 2.0.

“[...] io ho sempre pensato che essere un artista, fare qualcosa nel tuo studio e aspettare che qualcuno venga a vedere e se lo porti via...non abbia senso. Quindi ho sempre...ad esempio agli inizi, trovavo uno spazio, facevo una mostra e poi... già allora pensavo che l’aspetto economico facesse parte del lavoro. Se l’arte riguarda la vita, ed è inevitabile che sia così, e riesce a rimanere tale anche se la gente la compra e ci investe dei soldi fino a farla diventare un bene di consumo, beh, per me è emozionante.” E’ evidente che un approccio che parte considera anche la mera figura del soldo come ingrediente fondamentale del fenomo artistico e si sposta attualizzando l’opera d’arte come un oggetto capace di portare e lasciare esperienze. DH ha una precisa idea del ruolo dell’artista contemporaneo e non lo posiziona in cima all’olimpo degli uomini. La consapevolezza totipotenza di qualsiasi uomo lo portano a tentare la strada dell’artista che utilizza il suo genio creativo, o meglio, la sua esperienza maturata nel mondo dell’arte, come un metodo di innovazione e scardinamento del consolidato posto e atteggiamento che la società ha dato al creativo.


“non penso che gli artisti siano persone speciali. Secondo me sono delle persone normali che riescono a mettere a fuoco delle cose importanti per tutti” Si ritrova quindi ad essere un personaggio capace di contemporaneamente di pensare e costruire / far costruire opere d’arte shockanti, essere curatore di una mostra di altri artisti, sedere al tavolo delle contrattazioni con i grandi del mercato dell’arte, vicendo sempre, superare il sistema consolidato dell’arte contemporanea inventandosi una asta senza gallerie come intermediari (con un profitto quindi maggiorato del 100%), organizzare contemporaneamente una esposizione tradizionale alla Tate Modern a Londra e aprire un ristorante che sembra essere la copia “viva” dell’esposizione, brandizzare una Mini e un paio di scarpe Manolo con i suoi puntini colorati, collaborare con la Levi’s, con Harley Davidson e creare un sito on-line dove si vendono coperte e t-shirt. Dimenticavo il video dei Blur Country House. E la produzione dell’album dei The Hours.

Tra il 1986 e il 1989 mentre studia al Goldsmith College organizza Freeze allestita in un magazzino in disuso di Canary Wharf, comprendente molti suoi lavori e quelli di alcuni studenti del College, tra cui Angela Bulloch, Gary Hume e Sarah Lucas. La mostra si rivela un grande evento e suscita l’attenzione di personaggi di rilievo come Norman Rosenthal della Royal Academy e Charles Saatchi. E’ proprio il potente magnate della pubblicità a dare il più importante contributo a questi giovani artisti emergenti. Nel 1990 Saatchi compra A Thousand Years, una vetrina contenente uno sciame di mosche e una testa in decomposizione di una mucca. Quest’opera viene presentata nell’ambito della mostra Gambler, organizzata da Hirst insieme al giovane mercante Karsten Schubert e a Jay Jopling, che più tardi avrebbe aperto la galleria White Cube. In quel periodo Saatchi inizia a collezionare la giovane arte britannica su larga scala e a esibire le opere di Hirst e dei suoi compagni in una serie di mostre itineranti dal titolo Young British Artists alla Saatchi Gallery.

“Voglio che la gente pensi in anticipo, pensi più di quanto possa fare. Voglio che arrivi al limite, ma non voglio andare oltre. O meglio, non voglio utilizzare un linguaggio che non si capisce. Voglio parlare una lingua che possano capire, comunicare cose che non pensano di essere in grado di ricevere, a meno che non facciano un piccolo sforzo. Cose che a loro non interessano, ma che interessano a me. Cose che per me sono importanti, ma che magari per loro non lo sono.”


Parla una lingua internazionale DH, non solo perchè è inglese, ma sopratutto perchè è nel suo tempo, completamente immerso nel suo tempo come i suoi animali sono immersi nelle vasche di formalina. Probabilmente The Physical Impossibility od Death in the Mind of Someone Living poteva chiamarlo Charles Saatchi 18 november 1991 oppure Damien Hirst want to fu*k you in the ass, ma essendo un artista e avendo un sottovalutato (dalla critica / gente comune ma non da lui stesso) senso della vita e dell’arte l’ha voluto chiamare con un nome che ricorda e parla della morte, argomento che indaga in quasi tutti i suoi lavori. Un fotogramma di vita, una fotografia 3dimensionale di un essere vivente. Oserei dire uno stereotipo, un archetipo della paura, uno squalo immobile, congelato in una soluzione clinica verdastra. Un continuo rimando alla vita e forse anche al volersi tenere in vita per l’eterno, una specie di patto con il diavolo. Sicuramente un idea forte, fortissima, maledettamente affascinante. La fantascienza degli anni 70-80 in cui è vissuto è stata trasformata in arte, le macchine del tempo e un futuristico collegamento alle scene di matrix, la possibilità di immobilizzare una porzione di spazio. Il fatto tecnico del solo rallentamento del processo di scomposizione della formalina passa in secondo piano, in primis c’è l’idea che passa Violentemente. Sento un ribaltamento tra l’esperienze degli anni ‘60 e Hirst. Il tema della performance, Shark is watching you, viene ribaltato, You’re watching the Shark [poor beast], Damien congela, ti mette davanti a una realtà già decisa, conclusa, paradossalmente nulla di così shockante come si poteva trovare nella Body Art, nessuna sua opere chiede un proiettile nel cuore, estrazioni vaginali, masturbazioni o morsi infiniti, piuttosto immobilizza in una teca da museo un procedimento naturale, un delitto già compiuto. A Thuosand Years comprato da Saatchi nel 1990 è a sua detta una delle sue opere migliori, Damien dice addirittura di aver “iniziato dalla fine”. La testa (finta tra l’altro ma ripiena di pancetta, ketchup assolutamente commestibili) rimane in un dado di vetro sovrastata da una resistenza elettrica che comunemente viene utilizzata per uccidere gli insetti. Nell’altro dado c’è un cubo bianco da dove escono delle mosce, i due cubi sono collegati con dei buchi fatti nel vetro. Si potrebbe parlare per giorni solo di questa opera: è il ciclo della vita, è un continuum, un equilibrio anche dopo una morte violenta (il vitello decapitato), è un bivio continuo tra la sopravvivenza (l’animale morto) e la morte (il fuzz), prendi la via sbagliata e zakk! sei fottuto. E’ divertente come Hirst combatta con se stesso la voglia di realtà: lui vorrebbe una testa vera, in decomposizione, vorrebbe addobbare Pharmacy con delle medicine vere invece che con pillole fatte ad hoc in gesso. Non puo’, se ne rende conto, la testa puzza da morire, ci aveva provato in precedenza ma nessuno poi osava entrare nella mostra, le pillole dopo due settimane si sfaldano. Preferisce allora scegliere il


compromesso, fare finta che, far sembrare che, rappresentare qualcosa in maniera talmente reale che nessuno dubiti. Quello che gli interessa è far passare il messaggio, non fare l’eroe inutile di una storia criptica. Non è delirante come David Lynch, non scombussola le battute dei Rabbits per far assistere la gente a uno spettacolo delirante. Vuole trasmettere. Anche la sua personalità ne parla è “un provocatore, un buffone uno che ti fa morir dal ridere”, non me lo vedrei mai a costruire un opera come quelle di Kittiwat Unarrom, il “panificatore umano” tailandese. Ha avuto un’infanzia difficile, a proposito, quanti artisti non hanno avuto un infanzia difficile? Nella mia piccola esperienza non ne ho ancora trovato uno con un infanzia facile1. Il padre, quando aveva 12 anni, è stato buttato fuori di casa da sua madre per aver avuto relazioni extraconiugali con la baby-sitter. Ha utilizzato e probabilmente utilizza ancora, droghe e alcool senza ritegno, ma probabilmente le sue esperienze di vita l’hanno portato a ragionare sempre sulla morte, ma con una esaltazione transgiocosa della vita. Internal Affairs all’istituto delle Arti Contemporanee a Londra propone I Want to Spend the Rest of My Life Everywhere, with Everyone, One to One, Always, Forever, Now come masterpiece della mostra. Due lastre di vetro incollate con un soffiatore applicato nell’incastro tra le due lame. Una pallina che fluttua sopra questa aria soffiata e gli angoli delle lastre sbeccati. Caducità della vita. Idem un opera più tarda, del 1999, The History of Pain, un landscape di lame di coltello posizionati su una base minimal con un pallone gonfiato sorretto dal solito getto d’aria. Cio’ che è maledettamente geniale è la calma con cui vengono presentati i lavori, niente splatter, niente scene alla Quentin Tarantino ma solo una base o una gabbia strutturale minimal-chic. Anche nel periodo in cui più osa con il sangue, opere come An Unresonable Fear of Death and Dyng del 2000 quello che riesce a creare è tensione e non rigetto per il truce. Non inserisce uomini, mai. Dell’uomo al massimo utilizza lo scheletro e la sua primordiale paura che fin da bambini ci incute. Un opera di questo genere è Death is Irrelevant del 2000 dove crocifigge uno scheletro trapassandolo con una croce fatta da due lame di vetro perpendicolari. Lo scheletro rimane sospeso e incollato tra i vetri, fluttua sdraiato quasi fosse un fantasma. Lo stacca da terra come alcuni suoi animali in formalina, li solleva da questa esistenza. Il contenitore patinato di molte sue opere, che talvolta si trasforma pure in acquario, prepara la vista dell’opera, ruba uno spazion alla realtà. In realtà talvolta non si rimane neanche così tanto sbigottiti, fino a quando non ci si accorge del particolare. Il particolare! Hirst costruisce il suo universo perfetto, armonico e fantastico e poi ci inserisce l’uomo. In altre parole ci inserisce l’errore, quello che rompe tutto, il piccolo insignificante gesto che sbigottisce. Ciò che ricongiunge l’arte al reale.


“[...] le cose al posto sbagliato sono incredibilmente stimolanti. Un posacenere pieno ci cicche nel frigorifero. Non c’entra un cazzo! Ma il difficile non è metterlo nel frigorifero, una volta che ce l’hai messo, la gente inizia a guardarlo in maniera diversa. Forse è troppo scioccante metterlo nel frigorifero. Forse lo puoi mettere nel lavandino. Ma mentre lo fai ti capitano una serie di cose molto divertenti che non c’entrano niente con quello che vuoi dire. L’umorismo è quasi una conseguenza. Ci pensi? Il cetriolo e il barattolo di vaselina, sai già che centinaia di migliaia di persone, guardandolo, penseranno la stessa cosa. Se ti abbandoni a questa logica, non puoi andare alla cassa del supermarket solo con un barattolo di vaselina e un cetriolo. “Ti fai una serata in casa? E dai, ti fai una serata in casa?”. Basta pensare a come funziona il linguaggio visivo e il risultato sono migliaia di buffe combinazioni.” In Adam and Eve Together at Last opera del 2004 ciò che sconvolge non sono tanto i due lettini ospedalieri con tanto di scheletro quasi completamente coperto da un telo bianco, né tanto meno gli aggeggi per le operazioni chirurgiche. Ciò che sconvolge veramente è il panino al formaggio. La morte è un elemento che dobbiamo considerare secondo Hirst come un processo obbligato, un divenire imprescindibile, un traguardo.

“Si riduce tutto alla morte. Voglio dire, stiamo morendo. È una carneficina, una carneficina, cazzo. Che stiamo facendo, moriamo?è delizioso, è bellissimo, è favoloso. Non devi comprare un microscopio per renderti conto di quanto sia meraviglioso. La forza motrice, la roba in cui viviamo, si decompone. E le cose in decomposizione sono coloratissime, è incredibile, a qualsiasi livello. E stiamo morendo. Non ha senso. Si riduce tutto a celebrare la vita. […] Non puoi farci niente. Pero’, ascolta gli uccellini, esci e strappa l’erba, comprati un microscopio e guardala. Prendi il microscopio più potente che c’è e guardala...è vera. Esiste. Davanti a te hai tutto quello che hai sempre desiderato”.

Morte e vita sono collegati. Una esiste perchè c’è l’altra, il lungo viaggio della vita culmina nella morte, lo ricorda bene l’opera Waiting di Robert Gligorov del 1997, una rivisitazione in chiave umana del significato di A Thuosand Years di DH. Tra i due artisti c’è però una notevole differenza, se Gligorov mette in gioco sempre l’uomo come stimolatore di un processo empatico, DH lo fa sempre con simboli, in maniera meno schietta molto più poetica e legata alla memoria collettiva. L’utilizzo dell’agnello in Away from the Flock e del vitello in The Golden Calf hanno una potentissima impronta biblica. Qualcuno li definisce come una specie di autoritratto, l’agnello lontano dal gregge rappresenta uno dei suoi modi di interpretare il viaggio dell’arte, un non uniformarsi alle regole consolidate e ai voleri dei galleristi, ciò che gli ha permesso di fare un arte poco gradevole o compiacente, non provinciale e poco inglese. Il vitello sacro è la nuova legge, la nuova religione, il nuovo modo di pensare la vita come un opera d’arte totale e l’arte come una sinergia di economia, significati, marketing, design, personalità e società. Questo MerzBau Schwittersiano nel momento della nascita della sua arte globalmente


riconosciuta è coinciso non con il lavoro d’artista, ma con quello del curatore. Genio. Ha esperito le tecniche della luce lavorando da semplice “aiutante-muratore-fac-totum” in galleria e le ha messe a frutto in Freeze. Ha miscelato come un perfetto farmacista le opere d’arte altrui, ha creato una composizione armonica e perfetta che è riuscita a smuovere gli animi (ed i portafogli) di Saatchi e Gagosian.

“Quando ero da Jacob Kramer a Leeds facevo dei quadri astratti, ed erano come delle masse di colore, tipo i Visual Candy. Facevo dei quadri così incollandoci dei pezzi di stoffa. Pensavo di essere come, che cazzo ne so, de Kooning. E c’era un tizio che si chiamava John, che era il mio insegnante, che li guardò e davanti a tutti disse: “Stai facendo delle tendine?”. Ero distrutto, ma non lo feci vedere. “Belli questi motivi per tende”. E io: “Credi davvero? Sai cosa, forse hai ragione. Sì, proverò a stamparli”. E andò a vedere il lavoro di qualcun’altro. Mia madre aveva un negozio di fiori. E mi ricordo di un altro insegnante che appena mi vide il mio lavoro al Goldsmiths disse “Ehi Damien, quante cose a fiori”. Erano cose dall’impatto negativo, capisci cosa voglio dire? Le tende, i fiori. E quindi: “Cosa succederebbe se? Cosa succederebbe se? Cosa?”. All’improvviso iniziai a...sai, se vuoi essere un pittore famoso devi fare come de Kooning. Devi fare dei quadri importanti, che cambino la vita della gente. E finchè ti dicono che sembrano motivi delle tende o i fiori ti incazzi. Mi chiesi: “Perchè?”. E capii che non c’era un perchè. Cosa c’è di sbagliato in un bel paio di tende del cazzo? Cosa c’è che non va con i fiori? […] e pensi: “Posso fare tutto. Cazzo, posso fare tutto”. Tutte le cose che ho scoperto in arte erano già accadute prima, in grande scala, da qualche altra parte. […] E’ già stato fatto tutto prima. E’ tutto lì.”

E’ tutto lì, pronto per essere utilizzato, reinterpretato, assemblato. Proprio il lavoro da curatore. Ma ad un certo punto succede qualcosa, manca qualcosa. L’arte di Hirst si evolve.

“Credevo in ciò che facevo quando ero al college. Ma era difficile conservare quell’idea e portarla avanti. Tutte le volte che ci provavo finivo con delle scatole di cartone del cazzo sul muro. Facevano cagare. Tony Cragg le aveva fatte anni prima. La situazione era questa. Poi ho fatto i puntini, solo allora le cose si sono stabilizzate. Ma quell’idea non so da dove cazzo sia venuta.”

DH disegna su due pareti i primi suoi due quadri puntinati. L’approccio che ha poi dato il nome al suo studio, Science ltd., comincia a materializzarsi. I quadri puntinati sono come la composizione della materia, l’alchimia della vita e, quindi anche della morte fisica intesa come decomposizione e trasformazione. Ma in fondo sono belli e affascinanti, li ha utilizzati anche la BMW per la versione Damien Hirst della Mini e Manolo per dei Boots.


“Se guardi il mondo reale con un microscopio scopri che è fatto di cellule. A volte mi immagino che i quadri puntinati siano il mio lavoro visto sotto le lenti del microscopio. […] Vedo ogni puntino in ogni quadro come una presenza solitaria anche se è insieme agli altri. Riesco a trovare i pezzi tristi, quelli felici e anche quelli stupidi.”

La composizione chimica di DH si chiama anche Pharmacy ed è contemporaneamente esposizione alla Tate e ristorante vicino a Notthing Hill. I suoi puntini colorati si trasformano in pillole. Infinity sono 1600 pillole messe in ordine su uno scaffale cromato e riflettente. Evolvono dalla bidimensionalità, mutano e catturano la terza dimensione, diventano reali. Ti permettono di specchiarti in questa nuova realtà fatta di uomini e medicine. Una ricerca di una infinita immortalità. Se le pillole sono finte, perchè quelle vere sono tossiche e si disgregano, non importa. Quello che importa è l’idea.

“La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire: “Cazzo! Cos’è?”. E’ quando ti trovi davanti a un oggetto con cui hai un rapporto personale, fondamentale, stretto, e capisci qualcosa sull’essere vivi che non avevi capito prima.”

La vita di Damien è un teatro. Conosce i ragionamenti delle persone, il divenire delle cose e la psicologia della massa. Finge pazzia e successivamente razionalità, capisce che ciò che è fondamentale per una celebrità è far parlare di se, sia in positivo che in negativo. È un P.R. Prima della popolarità si inventa un agenzia di stampa fasulla per accedere a tutti gli eventi della Londra-Bene artistica. Basta rispondere a qualsiasi ora della mattina con una voce convincente, anche se la notte prima ci si è scassati di droga e alcool. Cio’ che resta subito impresso di tutte le sue opere sono i titoli. Fanno sempre parte di quel processo di produzione-promozione pubblicitaria che contraddistingue quello che molti hanno definito il brand Damien Hirst. Don Thompson che ha scritto un libro con un titolo abbastanza legato a DH (Lo squalo da dodici milioni di dollari, Mondadori 2004)dice che il concetto di branding è di solito associato a prodotti di consumo e consente di acquisire affidabilità. “Una Mercedes offre la rassicurazione del prestigio, Prada quella dell’eleganza. Anche l’arte brandizzata funziona così. Può capitare che gli amici sgranino gli occhi se dite loro: “Ho pagato quella statua di ceramica 5,6 milioni di dollari”. Ma nessuno obietterà nulla se dite “L’ho presa da Sotheby’s”, oppure “E’il mio nuovo Jeff Koons”. Il branding di successo ha avuto una influenza notevole nel far salire le quotazioni


delle opere e continuerà a esercitarla ancora a lungo”. A giudizio di Thompson tra i galleristi il mago del “brand” è Larry Gagosian, che riesce a collocare gran parte delle opere ancor prima dell’apertura di una mostra e ai prezzi che lui stesso decide. Scrive Thompson: «Le mostre di Gagosian vanno esaurite perché un paio di giorni prima dell’inaugurazione un impiegato della galleria chiama i clienti abituali e dice loro: “Larry dice che hai bisogno di questo per la tua collezione”. Un collaboratore sostiene che circa in un quarto dei casi i clienti rispondono “Lo prendo” senza neppure chiedersi di che opera si tratta o quanto costa. Vendere in questo modo è una delle più importanti caratteristiche di un gallerista superstar. E Gagosian lo è». Secondo Thompson i prezzi dell’arte sono alimentati da quello che in termini economici si definisce “effetto di irreversibilità”: funziona come una ruota dentata che gira solo in un senso e si blocca nella posizione raggiunta. I “prezzi irreversibili” non scendono ma progrediscono verso l’alto. Peccato che è notizia dei primi giorni del 2010 che le quotazioni di due degli artisti contemporanei più quotati, Jeff Koons e il nostro Damien Hirst si sono dimezzate del 50% quest’anno...

Il povero Damien che tutti dipingono come un mangiasoldi forse aveva ragione, l’arte non è l’economia, all’alba del 2010 deve servirsi di essa ma ha un fine sostanzialmente diverso. Stefano Leoni


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