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1. Il manifesto di Mark Zuckerberg: Facebook come nuovo modello di politica
Per fortuna ci soccorrono uomini di mare (digitale) esperti, innamorato della tecnologia, ma in possesso di tutti gli anticorpi etici, professionali e strumentali per aiutarci ad immaginare e predisporci ad una navigazione con mappe mentali e del territorio utili ad evitarci scogli, incomprensioni, delusioni.
A due di essi cedo la parola virtuale, estraendo dai loro blog e siti online alcuni articoli e testi che ci consentono di focalizzare i rischi e le potenzialità di una rivoluzione tecnologica tutta da giocare con un’inedita conoscenza e competenza della sua adattabilità-funzionalità per l’empowerment di una cittadinanza democratica.
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Di Biagio Carrano
In principio fu Face Mash, niente più che una versione di Hot or Not per gli studenti di Harvard. Ma sin dall’inizio Mark Zuckerberg ha voluto dilatare gli ambiti del suo progetto a dimensioni esistenziali sempre più ampie, prima con Thefacebook per le Università e poi con Facebook per tutti. E da qui in poi è storia.
Dunque, chi considera il manifesto “Building Global Community” un indizio della volontà di Zuckerberg di darsi alla politica attiva, magari in funzione anti Trump, semplicemente ne sottovaluta le ambizioni.
Il documento è totalmente politico, ma in un senso ancora più radicale, e pone implicitamente delle domande su cosa ne sarà della politica nell’epoca del superamento dei partiti di massa novecenteschi, dell’indebolimento degli stati-nazione, della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e dell’automatizzazione delle funzioni cognitive.
I cinque obiettivi ideali di sviluppo delle communities che propone Zuckerberg (supportive, safe, informed, civically-engaged, inclusive) intendono proporre il social network come una metacomunità, al tempo stesso sovraordinata e coordinata con le altre comunità che, idealmente, dovrebbe sostenere e alimentare. Questi obiettivi sono eminentemente politici, e alcuni risultati di coinvolgimento politico ed elettorale raggiunti in varie parti del mondo vengono esplicitamente citati.
Nel Manifesto, Facebook si propone dunque non come un elemento corrosivo delle istituzioni pubbliche tradizionali ma come un loro puntello. Ma qui emerge la prima contraddizione, ovvero come un’ambiente relazionale digitale, i cui algoritmi puntano a massimizzare il coinvolgimento degli utenti e a gratificarli per il tempo speso in esso, possa spingere verso l’impegno civico diretto nel mondo reale, che richiede tempo, attenzione e continuità di impegno a quegli stessi utenti cui chiede spasmodicamente attenzione per ricavarne il suo fatturato.
Si torna dunque a chiedersi che cosa è Facebook. Il successo di Facebook sta proprio nella sua estrema plasticità, che ha posto a tanti il problema della sua definizione, se fosse la società una media company, o una tech company o una entertainment company o una utility.
Facebook può proporsi e può essere fruito per informare e disinformare, per offrire e cercare collaborazione, per autopromuoversi e vendere, per divertirsi e fare nuove amicizie, per raccontarsi e cercare conforto, per dibattere e litigare, per ritrovare o indugiare in vite altrui e lascio ai lettori allungare l’elenco.
Di fronte a questa estrema variegatezza di opzioni, Zuckerberg per 14 volte chiama la sua creatura “infrastruttura sociale”, senza definire in dettaglio cosa con questo intenda e semmai rifugiandosi in una definizione riduttiva, che lo esonera dal prendere una posizione chiara rispetto a tutta una serie di problematiche, dalle fake news alle filter bubbles, che pure tocca nel testo. Infrastruttura è un termine che in prima battuta potrebbe sembrare neutro e che rimanda a servizi che in italiano definiremmo di pubblica utilità, quali autostrade, energia elettrica, acqua e banda larga.
Ma la decisione su allacciare o no una comunità o un singolo a questi servizi è puramente politica, come politica fu la scelta di far passare l’autostrada del Sole da Arezzo o di nazionalizzare l’energia elettrica per poterla garantire a tutti a prescindere dal ritorno economico. Così come garantire l’acqua potabile tramite condotta o tramite autobotti non è la stessa cosa.
Questa scelta di rifugiarsi nel corner delle utilities consente a Zuckerberg di proporsi al contempo come la neutra infrastruttura relazionale di base del nostro tempo e di sostenere la information diversity come principio guida di molte scelte presenti e soprattutto future di content curation. Tuttavia come questa strategia di information diversity vorrà plasmare, o almeno modificare, la dieta informativa di quasi due miliardi di persone? Se io ho idee di sinistra (per quel che possa significare oggi), finiranno per apparirmi in Home notizie e opinioni neoliberiste o addirittura esplicitamente di destra per promuovere il common understanding? Si useranno gli interessi comuni, lo sport, per spingere persone diverse a incrociarsi?
Lo stesso Zuckerberg sembra temere un’ulteriore polarizzazione delle posizioni. Ma poi perché io, con le mie convinzioni, giuste o meno che siano ma costruite in decenni di letture, studio ed esperienze, devo essere disciplinato al “common understanding” come lo ha in testa Zuckerberg? Ecco, dunque, un’altra contraddizione: i Community Standards, lungi dall’essere mera netiquette e buona fede nelle relazioni che si instaurano, finiscono per diventare i principi ideologici da accettare tout court per fruire di una rete di quasi due miliardi di persone.
In una stesura precedente del testo alcune scelte fondamentali in tema di individuazione e analisi di post controversi o signals di pericoli venivano devolute ai sistemi di intelligenza artificiale: “The long term promise of AI is that in addition to identifying risks more quickly and accurately than would have already happened, it may also identify risks that nobody would have flagged at all — including terrorists planning attacks using private channels, people bullying someone too afraid to report it themselves, and other issues both local and global. It will take many years to develop these systems.”. La versione finale invece è molto più vaga e meno inquietante: “Looking ahead, one of our greatest opportunities to keep people safe is building artificial intelligence to understand more quickly and accurately what is happening across our community “ .
Già prima che scoppiasse il tormentone delle fake news, Facebook aveva già provato a scaricare sugli algoritmi la questione dell’arbitrarietà della selezione delle notizie, ma di certo negli ultimi mesi anche un pubblico meno esperto inizia a essere consapevole che gli algoritmi sono un prodotto di programmatori umani e come tale soggetto a scelte arbitrarie ed errori di natura umana. Tuttavia, quando ambisci a proporti come l’infrastruttura globale di base per produrre e alimentare comunità, ovvero senso di appartenenza, il ricorso all’intelligenza artificiale per indirizzare o censurare dei flussi di comunicazione suscita inquietudine, perché si tende a rendere le responsabilità opache e meno verificabili.
Preferisco da sempre definire Facebook un ambiente relazionale proprio perché ambiente è un termine molto più complesso, plastico e dinamico di infrastruttura e perché il social network mette a valore i processi cognitivi e relazionali dei suoi utenti.
In questo contesto discutibile per quanto riguarda la tutela e il riconoscimento del lavoro cognitivo di un ambiente tutto basato sugli users’ generated contents, il Manifesto di Zuckerberg prova ad evocare alcune tematiche dell’etica comunicativa di Jurgen Habermas quando definisce Facebook una “source of news and
public discourse” con l’obiettivo di “creating a large-scale democratic process to determine standards with AI to help enforce them (the Community Standards)”. In certi passaggi Zuckerberg sembra immaginare una comunità dialogica e razionale (qualcosa di molto distante dalle risse digitali cui assistiamo quasi tutti i giorni, specialmente su temi politici), un processo dunque intersoggettivo dove, in assenza di orientamenti espliciti dei singoli, prevarrà la maggioranza dei rispondenti nel contesto di riferimento del singolo utente “like a referendum”, scrive esplicitamente il cofondatore.
Eppure, questo meccanismo potrebbe aggravare le filter bubbles, perché, ad esempio, se io, irritato per le scelte del momento di un partito o di un’associazione o di una persona, decido di disattivare le notifiche relative ad essi, rischio di vederli sparire per sempre dal mio orizzonte informativo, data l’improbabilità che ogni qualche mese io i metta a rivedere le impostazioni del mio profilo. Quanti saranno i rispondenti a questi simil-referendum? E questi rispondenti saranno i più saggi e olimpici tra gli utenti?
E se alla fine i risultati di qualche simil-referendum contrastassero i Community Standards cosa prevarrà, in una community che aspira a promuovere un processo democratico su larga scala (senza definirne forme e contenuti, per ora)?
E infine, quale idea di democrazia digitale ha in testa Facebook, quando si propone su scala globale tanto in paesi dalla cultura democratica e dal confronto civico avanzatissimi quanto in paesi dove vige solo un principio di autorità che si diffonde verticalmente dal capo del governo al villaggio? Da quanto si intuisce l’approccio sarà glocale, una visione globale che a livello di singoli paesi o regioni interverrà sempre di più per promuovere campagne, idee e orientamenti definiti dal vertice della società. Che ruolo e che peso andranno ad avere le culture, e i poteri locali, eletti o riconosciuti come legittimi dalla maggioranza della popolazione di un dato paese, di fronte alle possibili interferenze o a candidati sostenuti da Facebook?
Di fronte alle ambizioni di Facebook e Google di inglobare e indirizzare il mondo delle informazioni e quello delle relazioni grazie ai loro algoritmi, sembra riemergere, in versione digitale, il classico conflitto dell’epoca moderna tra totalità e libertà.
L’uomo moderno borghese come lo conosciamo nel suo individualismo è il risultato della rottura della totalità che si fondava su un principio ultramondano. I traumi soggettivi e i conflitti sociali che attraversano la modernità sono la conseguenza e la nostalgia di quella totalità. Ma Google e Facebook sembrano puntare a promuovere una nuova totalità (o almeno destinata alla totalità dei soggetti connessi), assorbendo e omogeneizzando ogni differenza nell’irenico “common understanding”, in cui si dissolve l’alterità e l’idea di pensare diversamente dai “Community Standards”. Si può davvero escludere che queste tendenze dei due giganti del web relazionale non implichino delle tendenze totalitarie, almeno rispetto a certi ambiti per essi essenziali come il controllo delle informazioni e delle relazioni, ovvero gran parte del web come lo conosciamo oggi?
In questo orizzonte cosa resterà della libertà degli individui? Una politica dominata da Facebook e Google sarà ancora capace di pensare categorie radicalmente diverse e alternative al presente?