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2. Perché la sinistra non ha capito il digitale?
Di Biagio Carrano
Tanti sono i traumi che hanno destabilizzato le convinzioni della sinistra liberal/riformista, ma uno risulta più sconfortante perché originato dall’illusione più recente: che internet, i social media, la digitalizzazione in genere potessero inverare per via tecnologica tanti valori e ideali progressisti.
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Il conseguente disorientamento emerge di frequente nelle pagine de L’epoca del Capitalismo della Sorveglianza di Shoshana Zuboff (pubblicato in Italia da Luiss University Press), libro dalle grandi ambizioni ma dai risultati alquanto modesti: in esso troverete citati studi, analisi, ricerche, come anche riflessioni, indignazioni, financo nostalgie e poesie, ma non una nuova chiave di lettura del processo di digitalizzazione e dataficazione della società, dell’economia e delle singole esistenze che stiamo attraversando.
Insomma, se ancora pensate che Google e Facebook siano organizzazioni filantropiche dedite a diffondere l’informazione e a creare relazioni tra le persone per un afflato umanitario, allora il libro della Zuboff potrebbe anche aprirvi gli occhi. Se invece seguite il dibattito sul capitalismo cognitivo che in Europa è iniziato almeno dalla pubblicazione de Il posto dei calzini di Christian Marazzi (1994) e da L’immateriale di Andrè Gorz (2003), vi domanderete se fossero necessarie oltre 600 pagine per raccontare che Google e Facebook estraggono costantemente informazioni dalle vite dei loro utenti per prevederne e indirizzarne le scelte.
Stiamo attraversando un periodo in cui al capitalismo moderno, centrato sulla valorizzazione di grandi masse di capitale fisso materiale, si sostituisce sempre più rapidamente un capitalismo postmoderno centrato sulla valorizzazione di capitale immateriale, o «capitale umano», come si dice. Questa mutazione nel senso di un «capitalismo cognitivo» e di una «società della conoscenza», accuratamente indagata dall’autore nei primi due capitoli del libro, si accompagna a nuove metamorfosi del lavoro di cui gli ultimi due capitoli esplorano le prospettive: verso una società dell’intelligenza o verso una civiltà postumana? Centrale in questa discussione è il rapporto tra capitale e scienza che si servono l’uno dell’altra nel perseguimento di scopi che hanno molto in comune (ricerca della pura potenza, ricorso alle tecniche del calcolo astratto) ma la cui alleanza presenta da qualche tempo delle crepe, nel senso che, se è escluso che il capitale possa emanciparsi dalla scienza, quest’ultima potrebbe emanciparsi dal capitalismo. La Zuboff definisce questo “nuovo” capitalismo della sorveglianza come “la trasformazione dell’esperienza umana in un gratuito materiale grezzo da trasformare in dati comportamentali. (…) L’interesse dei capitalisti della sorveglianza è passato dall’usare processi automatici per conoscere i comportamenti umani a usare i processi automatici per modificare il nostro comportamento in funzione dei loro interessi (…) ovvero “dall’automatizzazione dei flussi di informazione su di te alla tua automatizzazione”.
Chiunque faccia marketing è ben conscio che la tracciatura dei comportamenti dei consumatori consente di predire le loro scelte future, ma la giurista di Harvard è restata talmente sconvolta da questa scoperta da lanciare una “lotta per un futuro umano alla nuova frontiera dei poteri”, come recita il sottotitolo dell’edizione originale.
In maniera meno pomposa: che ne è della libertà umana in un mondo in cui l’automazione dei processi e delle scelte finirà per mettere le vite delle persone su un tapis roulant con la direzione e la velocità già decise dagli algoritmi?
Per affrontare questo ragionamento il testo propone un’analisi abbastanza dettagliata delle strategie generali di raccolta (abusiva) e processamento delle informazioni da parte di Google e Facebook secondo lo schema Incursion-Habituation-Adaption-Redirection, in sostanza l’attacco non autorizzato a un’area (fisica o no) di estrazione dell’informazione e la successiva strategia di adattamento sociale e giuridico, facendo 183
passare quell’attività come innocua o naturale. Piaccia o no, si tratta dell’ordinaria amministrazione per qualsiasi impresa data-driven.
Naturalmente anche il corpo è oggetto della mappatura digitale (su questo ho scritto qualche nota nel lontano 2013) e ovviamente come anche le città e le singole abitazioni “smart”. Quale ambito resta avulso alla pervasività del digitale? E cosa resta della capacità di scelta dell’individuo se l’ideale del marketing è l’anticipazione delle attese del cliente e oggi la digitalizzazione ha reso questa aspirazione non solo attuabile, ma addirittura indistinguibile dai desideri delle persone, per cui non si sa se i desideri sono stati anticipati oppure l’anticipazione ha fatto esplicitare il desiderio? La posizione della liberal Shoshana Zuboff è una esaltazione dell’individualismo contro quello che definisce il “potere strumentale” che nasce dai modelli di previsione, nell’impresa come nella società in generale, generati dalla raccolta dei dati e dal potere di computazione. Il grande obiettivo polemico è la social physics* di Alex Pentland, la proposta teorizzata nell’omonimo libro del 2015 di usare i big data per predire le scelte individuali e collettive e dunque l’evoluzione delle società. Inorridita da queste prospettive, la Zuboff le compara alle vecchie teorie comportamentaliste di Burrhus Skinner, dimenticando che studi molto più recenti hanno dimostrato la possibilità di modificare gli stessi circuiti neuronali e non solamente i comportamenti.
La conclusione angosciata della Zuboff suona così: “Le pretese del capitalismo della sorveglianza verso la libertà e la conoscenza, la sua strutturale indipendenza dalle persone, le sue ambizioni collettiviste, e la radicale indifferenza resa inevitabile, attivata e sostenuta da tutte e tre queste dimensioni ci spinge ora verso una società in cui il capitalismo non funziona come uno strumento per una economia inclusiva e per istituzioni politiche. Al contrario, il capitalismo della sorveglianza deve essere riconosciuto come una forza sociale profondamente antidemocratica”. Insomma, secondo la Zuboff avremmo vissuto finora una virtuosa intesa tra capitalismo di mercato e democrazia, anzi il primo garantiva la seconda; il cittadino elettore era libero, grazie a un quadro abbastanza chiaro di norme che lo tutelava, di fare le scelte che riteneva più opportune sul mercato elettorale come quando sceglieva i prodotti da consumatore; il mercato era uno spazio pubblico che non arrivava a violare il privato e la proprietà privata dei cittadini. Questo paradiso in terra di libertà creato dal buon vecchio capitalismo di mercato (in cui vivono, forse, solo gli amici affluenti e liberal della Zuboff) verrebbe ora divorato dal capitalismo della sorveglianza di cui sono alfieri Google e Facebook. Una ricostruzione talmente irrealistica del prima e dell’oggi che ci fa sospettare che anche le conclusioni tetre della Zuboff siano parziali perché basate su assunti infondati.
E tuttavia il testo può essere interpretato come parte di una presa di coscienza che un’area politica culturale, che definiamo liberal/riformista, inizia a sviluppare verso gli esiti più inquietanti del capitalismo attuale. La comprensione che certe illusioni sulla digitalizzazione sono venute meno e al contempo il rischio opposto di cadere in una visione distopica, frutto soprattutto di una sguarnitezza intellettuale per capire le dinamiche tecniche della digitalizzazione.
Dal messianismo tecnologico al pensiero magico digitale.
Gli strali della Zuboff, privi di una qualsiasi piattaforma politica di contrasto al capitalismo della sorveglianza, suscitano domande più ampie dell’ambito di questo testo: • Perché la sinistra liberal/riformista ha subìto per anni in maniera talmente acritica l’avvento della digitalizzazione?
• Perché la sinistra liberal/riformista non ha colto, se non con estremo ritardo e spesso in forma parziale, l’impatto negativo sul lavoro, sul controllo degli individui, sui rapporti sociali in genere, soprattutto il legame stretto delle modalità di digitalizzazione del mondo con l’ideologia della globalizzazione neoliberista? 184
• Quale è l’insieme di idee, valori e retoriche con le quali la digitalizzazione ha giustificato anche a sinistra la sua inevitabilità, nelle modalità con cui essa è avvenuta, ovvero oltre la logica statuale, nella forma datacentrica e artatamente gratuita?
La Zuboff sottolinea l’aspetto più immediato di questa fascinazione di cui i liberal sono stati vittime, ovvero il fatto che la digitalizzazione si rappresenta come un grande diffusore di empowerment degli individui, termine centrale nell’ideologia liberal, definito proprio dal dizionario di Google come “the process of becoming stronger and more confident, expecially in controlling one’s life and claiming one’s rights”. Internet e la digitalizzazione sono ovviamente capaci di dare agli individui più controllo e diritti sulle loro vite, di consentire l’accesso a un sapere sterminato, di rendere gli individui più connessi e così arricchirne il loro mondo interiore, di creare nuovi lavori, di consentire a soggetti fuori dal mainstream di far conoscere le loro qualità.
Ma si tratta di una visione parziale, frutto di una storica tendenza della sinistra a vedere in ogni nuova tecnologia un’alleata per realizzare la sua agenda politica. Lo stesso messianismo tecnologico che faceva credere al Marx del 1853 che la diffusione dell’industria moderna tramite le reti ferroviarie avrebbe dissolto il sistema delle caste in India.
Per la Zuboff non esiste tutta una serie di testi che da tempo hanno messo in questione con dati e analisi l’ottimismo ingenuo dei cantori di internet e dei social media come nuova alba dell’umanità. Quando evoca inorridita un nuovo collettivismo sostenuto dai social media non cita “Digital Maoism: The Hazards of the New Online Collectivism“di Jaron Lanier risalente al lontano 2006. 291
Quando evidenzia il potere di Google non rimanda alla Google Doctrine come Evgeny Morozov la descriveva nel 2011 in The Net Delusion. Quando si interroga sui deleteri effetti sull’agone politico dei social media non si degna di fare alcun riferimento al recente e meglio documentato Antisocial Media di Siva Vaidhyanathan. Spocchia accademica o scarso approfondimento?
Vi può essere anche una terza interpretazione, che è quella che attribuisco alla sinistra liberal/riformista: lo scandalo Cambridge Analytica e l’elezione di Donald Trump hanno provocato un effetto stordente tra i liberal, una presa angosciata di consapevolezza, un’urgenza di reazione tra gli intellettuali di quell’area politica, gli stessi che fino ad allora aveva considerato le riflessioni critiche della digitalizzazione come troppo radicali oppure inficiate da luddismo digitale.
La Zuboff cita gli studi di Kosinski, Stillwell e altri che dal 2011 lavorano alla predizione dei tratti di personalità degli individui usando come proxy i loro profili Twitter e Facebook. Si tratta degli studi alla base del modello di business di Cambridge Analytica, il cui celebre “scandalo” è stato per tanti intellettuali liberal/riformisti una sveglia rispetto alle loro ingenue rappresentazioni della trasformazione digitale.
Per quanto non vi sia alcuna dimostrazione scientifica che il gioco “This is your digital life” sviluppato da Cambridge Analytica per profilare in profondità circa 260000 utenti di Facebook abbia avuto un impatto decisivo sull’elezione di Trump, questo shock ha fatto uscire la sinistra liberal dalla fascinazione acritica verso il digitale in cui i successi di Barack Obama, fortemente sostenuti da Google, l’avevano rinchiusa tra il 2009 e il 2017.
Obama ha usato tecniche di profilazione estremamente profonde e invasive, ma al contrario di Trump ha ricevuto elogi e articoli accademici. Per quanto la politica di Trump si caratterizzi per un uso spregiudicato di fake news, le strategie elettorali di Obama sono state quanto di più prossimo agli esiti del capitalismo della sorveglianza paventati dalla Zuboff.
291 La dittatura della mediocrità: maoismo digitale, pensieri e testi di Jaron Lanier https://bit.ly/3q0jQhT 185
Ma non basta un esito politico a spiegare le persuasioni e le scelte di decine di migliaia di intellettuali e politici liberal in tutto il mondo. Il messianismo tecnologico di una certa sinistra ha fatto sembrare molte imprese per quel che non erano, oppure non ha fatto cogliere la loro radicale trasformazione verso la data extraction.
Google al suo apparire è sembrata la faccia benigna e altruista del web. Non solo un’efficienza inusitata, ma la gratuità, la filosofia vagamente umanista dello slogan “don’t be evil”, l’origine californiana e i brillanti colori arcobaleno, il rapido successo, la giovinezza e la genialità dei suoi creatori: un enorme patrimonio di reputazione da sfruttare per poter poi anche accedere liberamente alle e-mail e ai documenti di decine di milioni di persone nel mondo. Facebook e il suo mondo di amici sembrava poter allargare la rete di relazioni in un’ambiente dove tutti erano amici e si gratificavano con un Like. La forte componente narcisistica del social media (come Instagram, come Twitter, come TikTok, come tutti essi) è stata interpretata (solo) come una grande opportunità di far esprimere liberamente le persone, non cogliendo che questa libertà avrebbe significato (anche) una marea di contenuti insignificanti, fasulli o conflittuali. Non cogliendo soprattutto che la logica delle reti prescinde dalla qualità dei contenuti e ha come unico obiettivo la crescita dei nodi mediante omofilia: che un nodo della rete cresca grazie ai gattini, alle tette al vento, l’hate speech o le fake news per la rete è indifferente. Il disorientamento liberal ha una motivazione anche di ordine squisitamente politico: caduto il muro di Berlino, i riformisti si sono trovati con una piattaforma politica fragile e a volte quasi indistinguibile da quella dei liberali. L’avvento della digitalizzazione ha rappresentato per essi l’illusione che la tecnologia potesse incrementare il benessere degli individui senza porre più la questione della redistribuzione in una fase di crescita lenta e di crisi fiscale degli Stati. Ecco perché questo entusiasmo acritico, almeno in una prima fase, per la digitalizzazione e internet: ancora una volta il messianesimo tecnologico per superare i limiti della visione e dell’azione politica. Quando poi lo strapotere degli Big 5 Tech (Google Amazon, Facebook, Microsoft e Apple) è diventato senso comune e la data extraction il nuovo paradigma del valore aziendale, la formazione umanistica di tanti intellettuali riformisti non ha permesso loro di comprendere gli aspetti tecnici del coding, del deep machine learning o, in generale, le logiche insite degli algoritmi e si è preferito polemizzare in maniera ideologica contro l’Algoritmo, traslando su questa astrazione tutte le contraddizioni della trasformazione digitale così come negli anni Settanta ogni nefandezza era attribuita al Capitale, senza spesso andare oltre gli slogan e senza studiare i processi concreti di sfruttamento. Si è arrivati così a quel che chiamo pensiero magico digitale: un’astrazione generica che spiega tutto, ma non consente di capire nessun processo concreto della trasformazione digitale.
Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo capitalismo?
La Zuboff annuncia di aver scoperto un nuovo tipo di capitalismo che si distanzia radicalmente dal capitalismo di mercato “garante” della democrazia, ma non si accorge che è proprio il naturale esito del capitalismo di mercato a mettere in crisi la democrazia liberale. Se ieri la battaglia era contro la tendenza “totalitaria” di ogni impresa a essere monopolista nel suo settore, oggi a questa tendenza “naturale” dell’impresa si aggiunge il volume enorme di informazione sulle vite di ciascuno. Ma anche questo è un esito proprio della competizione di mercato: meglio si conosceranno i propri clienti, utenti o elettori, meglio performerà l’organizzazione. Insomma: dall’economia dei beni a quella dei servizi per arrivare oggi a quella dei dati, l’approccio totalitario verso le fonti del suo valore (siano essi dati o materie prime fisiche) non è che l’attitudine naturale dell’impresa capitalistica verso il suo mercato. L’evoluzione del capitalismo in base a una nuova definizione del valore e alla capacità di estrarlo grazie alla potenza di calcolo, la datificazione del mondo, computabilità e predizione come assi di interpretazione dei
fenomeni, sono di certo un salto concettuale radicale ma lungo l’asse usuale del capitalismo. Ogni forma di capitalismo si basa sulla sua capacità di astrazione e di estrazione di valore. L’operaio fordista rappresentato per autonomasia da Charlot non era tenuto a sapere per cosa stesse avvitando bulloni, al contrario del modello toyotista elaborato cinquant’anni dopo. La differenza tra un artigiano che ripara scarpe o crea liuti e un operaio è che l’operaio da solo non saprebbe realizzare un frigorifero o una pressa industriale.
Un’industria mineraria, quanto di più materiale si può forse immaginare, non è fatta di raccoglitori di pepite, ma di un apparato di saperi scientifici, di tecnologie e di macchinari appositi per scoprire ed estrarre quello che ad occhio nudo non si vede. E questo vale per ogni modello capitalistico. Senza la logica di astrazione/estrazione non si avrebbe l’idea stessa di capitalismo. Un geologo vede litio e milioni di dollari dove io vedo solo montagne e pietre. Le imprese del capitalismo informazionale, biocognitivo, relazionale vedono dati dove noi vediamo pagine web e milioni di dollari dove noi vediamo solo allenamenti registrati da Fitbit. Cambia l’apparato di estrazione, non la logica capitalistica. La giurista di Harward non coglie la sostanziale continuità delle forme del capitalismo che si sono storicamente succedute. Certo, che il capitalismo dei dati o della sorveglianza o cognitivo abbia caratteristiche uniche grazie alla potenza di calcolo e alla datificazione e alla riduzione dei fenomeni sociali ed esistenziali a computabilità e predittività è pacifico per tutti gli studiosi. L’errore della Zuboff sta nell’idealizzare un’epoca capitalistica che semplicemente non è mai esistita: se pure nel Novecento ci sono state legislazioni antitrust e a tutela dei consumatori più efficaci, esse venivano dopo decenni di tentativi falliti, quando l’apparato giuridico non si era ancora dotato di concetti capaci di cogliere gli effetti di quel capitalismo. L’accelerazione capitalistica dovuta alla digitalizzazione pone enormi problemi, di certo più grandi ma in qualche modo simili a quelli che a inizio Novecento affliggevano chi contestava lo strapotere dei robber barons.
Il capitalismo della sorveglianza non è dunque una nuova forma o un tradimento del capitalismo di mercato, ma non è che l’aspetto più evoluto della logica capitalistica. La sfida alle piattaforme è politica
La trattazione della Zuboff è tutta incentrata sul conflitto tra i diritti dei singoli individui e la invasività delle grandi piattaforme del capitalismo dei dati. E l’esito non può che risultare inane e frustrante. Manca del tutto la dimensione collettiva, di persone che usano la rete per fare rete e per sviluppare e diffondere messaggi e modelli alternativi a quelli indotti dagli algoritmi delle piattaforme. Manca la dimensione politica, dove persone si aggregano per rivendicare i loro diritti non ciascuno per conto suo, ma in funzione di valori e possibilità più ampi dell’orizzonte dei singoli. La politica come possibilità e non come mera amministrazione del presente. E l’angoscia che manifesta la Zuboff per i rischi che corre la libertà dei singoli nasce proprio dal non comprendere che algoritmi e piattaforme ci capiscono in base ai nostri comportamenti passati e non in base alle nostre future possibilità, come dice Ramesh Srinivasan in Beyond the Valley. Così come la studiosa americana non capisce che solo la politica può tentare di sfidare la riduzione delle esistenze a dato predicibile e monetizzabile. Certo, idealizzare una sorta di buon capitalismo pre-digitale è di certo più semplice che inoltrarsi nella critica politica della digitalizzazione. Ma questa è la vera sfida intellettuale e politica dei nostri tempi.