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Studio Azzurro
ANDREAS GURSKY
Le opere che invece ancora funzionano con questo tipo di circuito museale (e sono comunque molte), sono quelle che non dimenticano di avere a che fare con un tipo di circuito completamente distaccato dal contesto reale. Inoltre esse rammentano che lo spettatore, se si parla in un linguaggio contemporaneo, ha comunque necessità di confrontarsi con la propria esperienza, e di recuperare la propria “realtà” e il proprio ambiente. A questo proposito è necessario citare l’artista tedesco Andreas Gursky, che ha fatto della fotografia di grande formato un sapiente mezzo di riporto della realtà per trasformarlo esteticamente in forma, in opera astratta.
Andreas Gursky nasce in Germania, a Lipsia, figlio di un fotografo commerciale. Studia all’Università delle Arti Folkwang, università a indirizzo artistico nella vicina Essen, dove ha come professore il fotografo Otto Steinert. Tra il 1981 e il 1987 all’accademia di belle arti di Düsseldorf (Kunstakademie Düsseldorf), Gursky riceve una forte influenza dai suoi professori Hilla e Bernd Becher, un team fotografico che si contraddistinse per il loro spassionato catalogare di macchinari industriali e architettura, tipicamente in bianco e nero. Gursky mostra un simile approccio metodico con le sue fotografie in grande scala. Altri autori che lo hanno influenzato sono probabilmente il fotografo di panorami inglese John Davies e l’americano Joel Sternfeld.
I primi successi tuttavia sono incentrati su panorami e luoghi di relax e hanno dimensioni medio-piccole, non oltre i 50x60 cm. Solo attorno ai 25 anni Gursky si dedica al grande formato e si converte alla fotografia a colori, spesso molto vivaci e vari, immortalando soggetti di grandi dimensioni come edifici, luoghi ordinatamente affollati come gli scaffali dei supermercati, affollate sale di contrattazione finanziaria, concerti etc.
L’artista usa sapientemente l’astrattezza delle stanze dei musei, anzi questa caratteristica non fa che rafforzare la qualità e la forza delle sue opere, che giocano magistralmente tra la forza dell’immagine reale e l’astrazione della forma rafforzata dalla decontestualizzazione, grazie al contesto artistico in cui vengono esposte. Il trucco usato è spesso il raddoppiamento dell’immagine, che trasforma l’aggancio al contesto reale convertendolo immediatamente in una forma astratta. Oppure l’artista adotta un altro espediente, elimina i bordi ad esempio di un’immagine lasciandola incompleta, coerente con la realtà a cui rimanda, ma a questo punto irreale perché priva di limiti contestualizzanti.
In sostanza quando le cose sono palesi e vi è una giusta consapevolezza di tutte le componenti in gioco, la qualità esiste e anche il coinvolgimento dello spettatore, finanche in un museo o in una galleria. La consapevolezza dei diversi fattori aiuterebbe sicuramente a eliminare quella diaspora tra pubblico e arte contemporanea che nel corso dell’ultimo trentennio si è diffusa e aggravata. Ricordando soprattutto che l’arte contemporanea ha portato e imposto un ridimensionamento dei valori, così come affermava Maurizio Calvesi nel 1963. Assunto magistrale che non è stato tuttavia accolto dal Sistema dell’Arte e dal circuito museale, che continua infatti a porre l’arte su un piedistallo dal quale l’arte stessa è discesa da tempo.
Insieme a Axel Hütte, Jörg Sasse, Thomas Struth, Candida Höfer e Thomas Ruff fa parte della Becher-Schüler.
Nel 2011 la sua opera Rhein II viene battuta all’asta da Christie’s per la somma record di 4.338.500 dollari. Lunga tre metri e mezzo, è una veduta del Reno scattata nel 1999. Tale primato era già stato suo precedentemente nel 2007 allorché fu venduta all’asta la sua opera 99 Cent II Diptychon da Sotheby ad un prezzo di 3.346.456 dollari. [6]