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Matthew Barney
STUDIO AZZURRO
Gli artisti europei che negli anni ‘90 hanno lavorato con il video sono un ampio numero, talmente ampio che occorrerebbe un testo completamente dedicato al video o meglio al medialismo. La maggior parte di questi artisti non si riconosce nella definizione “video”, vista la ricchezza dei mezzi e dei linguaggi che ogni artista mediale ormai usa, la definizione “video” risulta ormai ristretta e inadeguata. Senz’altro si può accennare però a un gruppo italiano particolarmente interessante, anche se non ha avuto molto riscontro all’estero, si tratta di Studio Azzurro.
Il gruppo ha origini negli anni ‘80 a Milano, nascendo da quelle esperienze cresciute intorno a Videobase. Studio Azzurro raccoglie diverse individualità: il fotografo Fabio Cirifino, il grafico Leonardo Sangiorgi, programmatore e fotografo Stefano Roveda e il mediale e scenografo Paolo Rosa. Lo sconfinamento continuo è la regola-non regola del gruppo, che ha lavorato in vari settori, a partire dallo spettacolo, il teatro, il cinema, l’arte, con particolari video-installazioni. Nei primi anni l’obbiettivo era rendere autonoma l’immagine dal vincolo della scatola video, far agire l’immagine direttamente nell’ambiente.
Con il tempo e una strumentazione più sofisticata, l’obbiettivo viene completamente raggiunto e annessa la caratteristica dell’interattività con lo spettatore. Come nelle video-ambientazioni Tavoli del 1995, dove lo spettatore era chiamato a toccare il tavolo sul quale era proiettata un’immagine, che opportunamente “toccata” cambiava in un’altra e un’altra ancora, producendo una narrazione di sole immagini. E ancora Il giardino delle anime del 1997 dove lo spettatore cammina realmente e fisicamente su un pavimento che appare come una superficie di acqua elettronica. E secondo lo scadenzare dei suoi passi emergono delle figure che lo inglobano in una narrazione, la quale accade e si svolge grazie alla sua attiva presenza. L’interattività è un chiaro rimando alle poetiche degli anni ‘60-‘70 e non fa che confermare la stretta relazione del gruppo con il suo passato e con la sua origine negli ambienti politicizzati milanesi.
Anche nelle prime videoinstallazioni, ancora non “tecnologicamente interattive”, è viva la capacità di meravigliare e di coinvolgere lo spettatore nel suo stupore. Come nell’opera Il nuotatore del 1984, presentata al palazzo Fortuny a Venezia, l’installazione (sincronizzata con 24 monitor e 13 programmi video) è stata realizzata con 12 videocamere poste sul bordo di una piscina a pelo d’acqua. Mostra un nuotatore che, con gesti ripetuti e affaticati, “attraversa” i singoli televisori accostati.
Negli anni ‘90 si ritorna in maniera preponderante allo sconfinamento dei linguaggi degli anni ‘60-‘70. Non solo, ma i primi anni del terzo millennio e tuttora, non fanno che confermare e consolidare questa tendenza. Che cosa manca quindi per recuperare il coinvolgimento di quel ventennio così caldo? In che modo l’attuale arte si presenta differentemente dal passato? La differenza sta nel contesto dove ormai l’opera si mostra allo spettatore. Ovvero mentre negli anni ‘60-‘70 l’arte scendeva dal suo piedistallo per andare incontro al mondo, dilagando negli spazi aperti, nei capannoni industriali, o nelle strade e nelle piazze, come negli Stati Uniti e in Europa; ora si vuole costringere lo spettatore a ritornare nel museo per dialogare con un’opera che a questo punto è comunque lontana dalla sua esperienza. Il museo e la galleria sono luoghi già avulsi di per sé dal contesto reale e dal mondo stesso. Non ci si rende conto che sia la galleria, che il museo portano con sé i segni del proprio tempo, che è rimasto quello enciclopedico e illuminista del 1700-1800, il periodo storico che li ha forgiati. E che di certo questo dato è preponderante, tanto che il Sistema dell’arte, relegato in questi contesti obsoleti, non può che essere avulso dal contesto reale, e dunque non può che divenire autoreferenziale, e per questo completamente distaccato dalla sua realtà contemporanea.
Per cui l’arte del terzo millennio sta parlando in un linguaggio contemporaneo, ma dentro in un contesto di due o tre secoli fa. È un vero e proprio paradosso. [6]