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VACCINI. Nessuno è salvo finché non sono tutti salvi

Con quasi 250 milioni di dosi di vaccino somministrate nel Mondo, ad aver della popolazione mondiale. Oltre i 3/4 delle dosi somministrate finora sono registrate in soli 10 Paesi allarme lanciato da Unicef e Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia accesso al vaccino contro il Questa strategia autolesionista che costerà vite e mezzi di sostentamento e darà al virus ulteriore opportunità di mutare, eludere i vaccini e minacciare la ripresa economica globale”, come dichia-

Noah, con Patrizia, mostra felice il permesso di soggiorno accaparramento delle dosi è “l’apartheid dei , come avvertono scienziati e attivisti di tutto il mondo. Viene stimato Africa Subsahariana, non potranno vaccinarsi fino al 2024. Inoltre, i Paesi più poveri pagheranno il Uganda, ad esempio, pagherà il vac-

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Se non si cambia strategia, oltre alla questione etica, le conseguenze econoaccaparramento saranno disastrose anche per gli stessi Il costo della mancata copertura vaccinale globale è stimata da un think tank americano, la Rand corporation, a 1,2 trilioni di dollari l’anno. “I Paesi ricchi hanno legami commerciali globali, il rallentamento economico nelle nazioni più povere causato dalla pandemia avrà un effetto a catena in tutto il Le nazioni ad alto reddito perderebbero 119 miliardi l’anno 2

Uno studio della Northwestern University (Usa) ha calcolato gli effetti sanitari se i primi 2 miliardi di dosi di vaccini Covid fossero distribuiti proporzionalmente in base alla numerosità della popolazione di ogni nazione, le morti nel mondo diminuirebbero del 61%. Ma se le dosi sono monopolizzate da 47 dei Paesi più ricchi, i decessi si riducono solo del 33%. Nessuno è salvo finché non sono tutti salvi: è il mantra che ripetono da mesi umanità sta correndo passa sotto silenzio: solo 25 ha dichiarato Alberto Mantovani, diIstituto Clinico Humanitas di Milano, in un’intervista ad

In Guatemala al 2 marzo 2021 nessuno è stato ancora vaccinato!3

Escludere i Paesi poveri è scandaloso: il virus non si ferma ai confini e le due

Se il virus non viene combattuto globalmente continuerà a circolare sviluppando nuove varianti, forse più letali e resistenti ai vaccini, che torneranno ai Paesi

19 ha mostrato che i nostri destini sono fortemente connessi.

Lavoro Minorile

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha dichiarato che, in America Latina, sono oltre 5 milioni e mezzo i bambini, di entrambi i sessi, che lavorano senza aver compiuto l’età minima di ammissione al mondo del lavoro o che sono impegnati in attività illegali. In Guatemala, i bambini lavoratori tra i 5 e i 14 anni sono 1 milione (ma secondo il Ministero del Lavoro del Paese sono “solo” 850.000), il 70% dei quali vive nelle aree rurali e il 43% non frequenta la scuola. Il Guatemala registra il più alto indice di lavoro infantile dell’America Latina, soprattutto tra i bambini indigeni che rappresentano il 56% rispetto al 44% di non indigeni.

Gli ambiti maggiori di lavoro/sfruttamento minorile sono: Discariche di rifiuti: i bambini quotidianamente selezionano e dividono tonnellate di immondizia per poi rivenderla agli impianti di riciclaggio della zona. Si tratta di una delle peggiori forme di sfruttamento infantile perché si svolge in condizioni di estrema insalubrità e comporta rischi elevati di contrarre infezioni e malattie. Inoltre, provoca gravi ripercussioni sulla psiche dei bambini.

Produzione di fuochi d’artificio: il lavoro nella produzione di fuochi d’artificio, petardi e miccette avviene per il 98% fra le mura domestiche e coinvolge ogni membro della famiglia. Le mani e le dita dei bambini sono perfette per maneggiare le micce perché sono piccole e veloci. La maggior parte dei giochi pirotecnici è costituito da polvere con clorato di potassio, un agente chimico altamente pericoloso che può generare esplosioni e incidenti.

Piantagioni di caffè: la raccolta del caffè e il trasporto dei grani viene svolto manualmente, i bambini lavoratori sono pagati meno tre euro ogni cento chili di caffè e vivono ammassati con gli adulti in baracche collettive, chiamate galeras, in condizione igienico-sanitarie molto precarie.

Lavoro domestico: in Guatemala il tempo dedicato ai lavori domestici copre un lasso di tempo significativo nell’orario giornaliero dei minori, specialmente per le bambine: lo svolgimento di questi lavori e l’accudimento dei fratellini più piccoli interferisce spesso con il tempo dedicato alla scuola e ai momenti ricreativi.

A questi lavori si aggiungono altre e più gravi forme di sfruttamento minorile, dai lavori che si svolgono in strada (come lustrare scarpe nelle aree urbane) allo sfruttamento sessuale e traffico di stupefacenti.

DONNE. Diritti negati

È come se ogni giorno venissero celebrati 1.500 matrimoni di giovani ragazze adolescenti: in Guatemala nel 2015 più di 550.000 ragazze si sono sposate prima dei 18 anni. Il 13% delle donne di età compresa tra 20-24 anni si sono sposate prima dei 15 anni. L’età legale per il matrimonio con il consenso dei genitori è di 14 anni e molte adolescenti si ritrovano a sposare, già incinte, uomini molto più grandi, diventando di fatto le loro schiave sessuali e domestiche. Spesso, poi, queste gravidanze sono il frutto di violenza e le ragazze si ritrovano costrette a sposare i propri aguzzini.

San Benito, nel Petén (regione del nord del Guatemala), vanta il triste primato mondiale di essere la città con il numero maggiore di madri sotto i 14 anni. Secondo i dati delle Nazioni Unite, il 26% delle nascite in Guatemala sono di ragazze madri di età compresa tra i 10 e i 19 anni: bambine e ragazze in condizioni di estrema vulnerabilità, che si ritrovano madri prima del tempo: mancano di esperienza e consapevolezza, ma soprattutto non sono pronte anche dal punto di vista fisico. I loro corpicini sono ancora troppo immaturi per dare alla luce un bambino e questo comporta un tasso di mortalità materna altissimo, con 172 decessi ogni 100 mila nascite.

Il fenomeno delle gravidanze premature porta con sé innumerevoli fattori di rischio per le giovani donne: per la salute, data la totale assenza di assistenza medica, e per la povertà estrema in cui si ritrovano a vivere, per il rapporto conflittuale con i mariti, che le abusano o le abbandonano a loro stesse, per il tasso altissimo di abbandono scolastico e, quindi, per la mancanza di visione del futuro.

Questa situazione disperata si evidenzia anche in un'emergenza profonda che si staglia sul confine fra Messico e gli Stati Uniti. Un reportage del The New York Times ha portato alla luce una drammatica realtà: è la storia di tante donne guatemalteche che fuggono dal loro Paese per sottrarsi alla violenza e alla morte. Fuggono soprattutto dalla violenza domestica che, nel Paese, è un fenomeno in espansione e pressoché impunito.

Micro-criminalità, cartelli del narcotraffico e bande criminali alimentano contesti sempre più violenti, dove spesso sono le donne a pagare il prezzo più alto: in America Latina e nei Caraibi si concentrano 14 delle 25 nazioni col più alto tasso di femminicidi. Epicentro di tali violenze è proprio l'America Centrale: in Guatemala, il tasso di omicidi per le donne supera di tre volte la media globale; nel Salvador lo supera di sei volte; in Honduras addirittura di dodici. In tutta la regione, la violenza sulle donne è così diffusa che 18 Paesi di Centro e Sud America hanno approvato un pac- chetto di leggi per proteggerle, istituendo una classe di omicidi ad hoc, nota col nome di “femminicidio”, allo scopo di inserire sanzioni più severe.

Eppure sono sempre le donne a prendersi cura della comunità, in ogni Paese del Mondo! Così come sta accadendo in Italia, anche nel resto del mondo l’emergenza causata dal Covid-19 sta pesando sulle donne e sta evidenziando le disuguaglianze di genere esistenti. Ma il lavoro domestico e di cura di cui le donne si stanno facendo carico, nelle case e nelle famiglie, costituisce la base per affrontare questa crisi sanitaria ed economica.

A causa della pandemia, oggi, le persone che hanno bisogno di aiuti alimentari d’emergenza sono 570 mila in più rispetto all’inizio del 2020. La fame e la denutrizione, come effetti indiretti del Covid-19, sono aumentate esponenzialmente soprattutto nelle aree rurali dei Paesi a basso e medio reddito. In quanto responsabili dell’acquisto e della preparazione del cibo all’interno del nucleo famigliare, le donne sono in prima linea nell’affrontare la crisi alimentare e si preoccupano della disponibilità, del prezzo e dell’accesso agli alimenti della loro dieta.

La pandemia, infine, ha generato una crisi economica gravissima che colpisce in particolar modo le persone che vivono del lavoro saltuario. Come dice Ana María, donna indigena maya del Guatemala: día ganado, día comido” (giorno guadagnato, giorno mangiato).

Ma se non si va al mercato a vendere non si mangia. E in questa situazione vivono, da un anno, troppe donne e troppe famiglie.

Crisi economica e famiglie in difficoltà

L’Italia, che in Europa è fra i Paesi maggiormente colpiti in termini di contagi e vite umane perse, vedrà una perdita del PIL pari al 11,2%. Le cause sono ovviamente il blocco delle attività sociali e produttive interne. La crisi economica è stata devastante. Iniziando dall’ultimo esempio in ordine di tempo, oggi sappiamo che circa 4 milioni di italiani sono stati costretti a chiedere aiuto per mangiare a Natale e a Capodanno, un numero praticamente raddoppiato rispetto allo scorso anno. Si tratta della punta dell’iceberg della situazione di difficoltà in cui si trova un numero crescente di persone costrette a far ricorso alle mense dei poveri e ai pacchi alimentari.

Tra le categorie più deboli degli indigenti, il 21% è rappresentato da bambini di età inferiore ai 15 anni, quasi il 9% da anziani sopra i 65 anni e il 3% sono i senza fissa dimora secondo gli ultimi dati Fead, il Fondo di Aiuti Europei per gli Indigenti. Fra i nuovi poveri ci sono coloro che hanno perso il lavoro, piccoli commercianti o artigiani che hanno dovuto chiudere le attività, le persone impiegate nel sommerso che non godono di particolari sussidi o aiuti pubblici e non hanno risparmi accantonati, come pure molti lavoratori a tempo determinato o con attività saltuarie che sono state fermate dalle limitazioni dovute alla diffusione dei contagi per il Covid-19.

Sono persone e famiglie che mai prima d’ora avevano sperimentato condizioni di vita così difficili.

La crisi Covid fa aumentare, in particolare, il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in maggioranza (52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e delle persone in età lavorativa. Una situazione che è destinata a peggiorare per i lavoratori autonomi ma anche per tanti lavoratori dipendenti a rischio licenziamento.

E le misure di emergenza introdotte dal governo, per un insieme di cause che vanno dalla “scarsa chiarezza” alla “farraginosità delle procedure amministrative” hanno generato una frattura fra gli “insider”, che già godevano di forme di protezione e assistenza pubblica, già esperti rispetto alle procedure e in grado di gestire le difficoltà, e coloro che, invece, non avevano mai avuto prima di allora accesso al sistema”. E che sono rimasti esclusi.

Così, ancora una volta, ha dovuto supplire la solidarietà privata. Questo è il quadro che emerge dal Rapporto sulla Povertà e l’Esclusione Sociale in Italia della Caritas1

Sempre secondo il rapporto Caritas, le donne che hanno chiesto aiuto da maggio a settembre, quindi subito dopo il lockdown, sono state il 54,4% contro il 50,5% del 2019. Il numero dei giovani tra 18 e 34 anni è passato dal 20% al 22,7%, gli italiani sono oggi il 52% dei poveri, contro il 47,9% del 2019, hanno dunque superato gli stranieri.

Il numero di famiglie impoverite con parenti a carico, con genitori anziani o infermi, è passato dal 52,3% del 2019 al 58,3% di questi ultimi mesi. La perdita del lavoro è tra i motivi principali di crollo del reddito.

Il Rapporto, inoltre, rileva come il Reddito di Cittadinanza e il Reddito di Emergenza abbiano raggiunto solo chi già godeva di protezione. Le due misure, inoltre, invece di compensarsi a vicenda hanno registrato piuttosto una sovrapposizione.

Il Reddito di Emergenza (REM) avrebbe dovuto aiutare chi non aveva diritto a nessun altro sussidio. Stando all’analisi della Caritas, invece, è andato prevalentemente a nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single o monogenitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. Si tratta di “un profilo del tutto sovrapponibile a quello di coloro che percepiscono il Reddito di cittadinanza”. Gli esclusi dai sussidi, quindi, non sono contemplati in alcun circuito di aiuto e vedranno quindi peggiorare la loro situazione economica rischiando un vortice al ribasso che può avere solo effetti devastanti.

Il Rapporto sulla Povertà e l’Esclusione Sociale in Italia della Caritas, in conclusione, spiega come il Covid-19 abbia messo in evidenza “il carattere mutevole della povertà” che porterà il nostro Paese, inevitabilmente, a entrare in una nuova fase.

1www.caritas.it

Violenza di genere

Con l’insorgere dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 nei primi mesi del 2020, i professionisti del settore hanno da subito previsto un aumento dei casi di violenza contro le donne tra le mura domestiche. Il maggior rischio di violenza dovuto al confinamento forzato (lockdown) riguarda soprattutto la difficoltà per le vittime conviventi con il maltrattante a denunciare e rivolgersi ai servizi di supporto. La lunga permanenza in casa, inoltre, ha portato molte donne, soprattutto quelle che svolgevano lavori informali, a perdere il lavoro diventando anche economicamente dipendenti dai loro compagni e ritrovandosi quindi in difficoltà ancora maggiori a sottrarsi alla violenza.

La violenza domestica già presuppone una strategia di controllo da parte dell’abusante, utilizzando elementi strutturali a livello sociale e il controllo individuale per isolare le donne dalle loro reti e fonti di sostegno esterno, principalmente la famiglia di origine e gli amici. Il lockdown e la quarantena, necessari per ridurre la diffusione della pandemia, hanno di fatto contribuito ad aumentare ulteriormente l’isolamento delle donne e le loro difficoltà ad attivare reti di supporto.

L’aumento dei casi di violenza di genere nel mondo come conseguenza della pandemia è stato chiaramente denunciato dall’indagine pubblicata da CEPOL (l’Accademia Europea di Polizia) nel luglio 2020 e dalle stesse Nazioni Unite che hanno definito questo fenomeno “pandemia ombra”. A livello internazionale ed Europeo, sono state fornite raccomandazioni e linee guida per fronteggiare le situazioni di violenza durante l’emergenza sottolineando l’esigenza di rafforzare i servizi specializzati di supporto e ospitalità per le donne, sia con riferimento al numero di strutture che alle modalità di lavoro, in primis per quanto concerne la possibilità di operare da remoto.

In questo contesto, anche in Italia, l’esplosione dei casi di violenza è stato sostanziale. Se si guarda ai dati delle chiamate al numero verde nazionale antiviolenza 1522 si può, infatti, notare come dal 1° marzo al 16 Aprile 2020 ci sia stato un aumento del 73% rispetto allo stesso periodo del 2019 con un aumento delle vittime che hanno chiesto aiuto del 59% rispetto allo scorso anno (ISTAT, 2020).

"Nella prima fase della pandemia, le donne avevano reagito meglio degli uomini, forse perché c’è una maggiore propensione alla gestione più positiva degli eventi traumatici. Ma dalla fase due si è evidenziato un decremento pesante del benessere psico-fisico, ma anche un abbattimento della capacità di vedere, o almeno di cercare, gli aspetti positivi della crisi, con livelli di stress più alti degli uomini".

Lo afferma Claudia Manzi, docente di Psicologia sociale della Cattolica e coordinatrice del progetto Howcare, che con Sara Mazzucchelli, che insegna Psicologia dei processi organizzativi e culturali, è autrice del lavoro "Famiglia e lavoro: intrecci possibili. Studi interdisciplinari sulla famiglia".

"Anche con la riapertura di una parte delle scuole e di una parte di servizi dopo il lockdown non abbiamo notato nessun effetto positivo nella percezione del conflitto tra ambito familiare e lavorativo per le donne. Semmai, il dato interessante è che le donne che hanno avuto una percezione di miglioramento sono quelle che hanno avuto un aiuto dal sistema di welfare delle loro aziende, che hanno avuto un supporto. Ma questo, ovviamente, non riguarda tutte, anzi".

Da ricordare sempre il dato dell'Istat: su 101 mila posti di lavoro persi a dicembre 2020 rispetto al mese precedente, 99 mila erano occupati da donne. E se ogni persona che resta disoccupata vale allo stesso modo, la sproporzione dei numeri è impressionate. Cala l’occupazione, e aumenta il tasso di donne inattive (+0,4%).

Faticosamente si era arrivati a un tasso di occupazione femminile del 50%, e adesso scende di nuovo.

Migranti

All’inizio furono considerati “immuni”, poi d’improvviso diventarono gli “untori”, in realtà la pandemia da Covid-19 ha inciso anche sui migranti, peggiorandone le condizioni di vita e sfruttamento. A tracciare un primo bilancio sull’emergenza sanitaria vista dagli stranieri è il Dossier Statistico Immigrazione 2020, realizzato dal Centro Studi e Ricerche Idos in partenariato con il Centro Studi Confronti.

Il 2020 sul fronte migratorio si caratterizza per diversi episodi: dal parziale fallimento della regolarizzazione (la nona dal 1982) allo “tsunami di odio e xenofobia” e, infine, alla “ricerca di un capro espiatorio” (parole del segretario Onu António Guterres). Nel complesso, il rapporto sottolinea come la pandemia da Covid-19 abbia portato con sé problemi aggiuntivi e abbia aggravato le già difficili condizioni di vita dei migranti in Italia e in Europa.

In particolare, secondo Gianfranco Schiavone dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) la nuova sanatoria per gli immigrati attivi nei settori dell’assistenza, del lavoro domestico e dell’agricoltura è stata una grande occasione mancata. Lanciata dal governo per venire incontro alle esigenze di cura dei familiari e di approvvigionamento alimentare degli italiani, essa è stata appunto un parziale fallimento per la parte riguardante l’emersione del lavoro irregolare (comma 1 del decreto 103/2020).

Le “sole” 207 mila domande pervenute per questo comma, a fronte di una platea di 621 mila lavoratori stranieri irrego- lari, sono spiegate in parte dall’impostazione della norma, basata “quasi interamente sulla sola volontà del datore di lavoro di far emergere o meno il rapporto di lavoro irregolare” (escludendo di fatto le fasce più sfruttate).

Ma si spiegano soprattutto con l’esclusione di altri settori lavorativi come la ristorazione, il magazzinaggio, il commercio: una scelta, scrive Schiavone, di “gratuita crudeltà” che ha tagliato fuori all’origine almeno 180 mila persone. Un “secco fallimento” è invece stata la regolarizzazione per la parte (comma 2) riguardante i migranti che avevano avuto in passato un percorso di regolarità di soggiorno o un rapporto lavorativo regolare: anche qui la rigidità dei criteri decisi ha impedito l’applicazione della norma e le sole 13 mila domande raccolte lo dimostrano. Una analisi condivisa anche dal Grei 250, un gruppo di esperti formatosi proprio dopo l’annunciata regolarizzazione.

Secondo Marco Omizzolo, sociologo di Eurispes, durante l’emergenza Covid si è registrato un aumento del 15-20% di stranieri sfruttati nelle campagne (40-45 mila persone), con un peggioramento delle condizioni lavorative, un incremento sia dell’orario di lavoro (oscillato tra 8 e 15 ore giornaliere) che del numero di ore lavorate e non registrate (20%) e un peggioramento della retribuzione. Tutti effetti, dice il sociologo, “dell’intreccio perverso tra la pandemia e il sistema dello sfruttamento dei migranti”. A cui si è aggiunto “l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza” dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti migranti sfruttati “a considerare se stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani” e quindi a rinunciare spesso alle giuste rivendicazioni. Critica è anche la situazione di chi lavora in casa, come spiega il saggio sul lavoro domestico ai tempi del Coronavirus, scritto da Andrea Zini di Assindatcolf. Sono stati 13 mila i posti di lavoro persi in questo settore, che totalizza 850 mila lavoratori in massima parte immigrati. Ambiguo, per Zini, il “successo” della regolarizzazione in questo ambito, che ha avuto ben 177 mila domande ma ha escluso tutto il lavoro nero.

Non solo, ma secondo Elena D’Angelo del Rissc (Research Centre on Security and Crime) a fronte di numerosi episodi di razzismo registrati in Europa, i migranti - specialmente quelli con lavori più precari - stanno “pagando il prezzo più caro per la pandemia, e rischiano ora e in futuro di essere tra i più esposti alla diffusione del virus”. “Altro che untorispiega la ricercatrice - piuttosto doppiamente vittime”.

Una condizione questa che non riguarda solo l’Italia ma l’intera Europa (41,3 milioni i migranti pari all’8% della popolazione, concentrate per tre quarti in soli 5 paesi compresa l’Italia). Secondo Alessio D’Angelo della University of Nottingham, la pandemia “ha messo in luce tutte le criticità e le insufficienze del sistema europeo in materia di migrazioni economiche e diritti”. Provvedimenti come la chiusura dello spazio Shengen, il blocco dei voli e le restrizioni sui movimenti hanno avuto un fortissimo impatto sia su alcune economie che sugli stessi migranti coinvolti. Ma soprattutto c’è stata la “scoperta” di come oltre il 30% degli immigrati in età lavorativa siano classificabili come key-worker: si è scoperto, insomma, come i servizi essenziali (sanità, assistenza, pulizie, ecc.) per difendere gli “autoctoni” dalla pandemia dipendano proprio dall’immigrazione.

Il quadro internazionale è inquietante anche per quanto riguarda i “migranti climatici” – quasi 25 milioni attualmente nel mondo – e di come sia per loro molto più facile contrarre la malattia a causa degli spazi sovraffollati e delle condizioni igieniche in cui vivono, come spiega Maria Marano dell’Associazione A Sud. Marano ricorda anche come alcuni dei fenomeni che generano tali migrazioni (deforestazione, urbanizzazione selvaggia, allevamenti intensivi) siano gli stessi che hanno facilitato la diffusione del virus.

Il rapporto si concentra poi su stranieri e carcere. Carolina Antonucci dell’Associazione Antigone ricorda che il calo medio delle presenze nelle carceri è stato del 12%, e del 10,2% per i detenuti stranieri.

Riporta invece un’esperienza positiva il capitolo di Ilaria Valenzi del Centro Studi Confronti, che si sofferma sulla libertà di culto durante la pandemia. Per la prima volta, infatti, il governo italiano (Ministero dell’Interno), dopo quello con la Chiesa Cattolica, ha sottoscritto altri 13 diversi protocolli insieme ai rappresentanti di altrettante fedi per regolare i vari aspetti legati alle pratiche di religione. Un esperimento che ha avuto tra l’altro il merito di “prendere atto delle diversità religiose presenti nel Paese”.

Infine, l’ultimo dei contributi è di Claudio Piccinini del Centro patronati, che racconta le difficoltà vissute da questi uffici nel gestire con efficienza le complesse domande per l’ultima regolarizzazione, un’area in cui sono spesso presenti “situazioni di ‘faccendariato’, improvvisazione, quando non di lucro e sfruttamento”.

Sulle pratiche per l’immigrazione restano però in piedi numerose difficoltà, in particolare per l’acquisizione della cittadinanza: dopo che i decreti sicurezza del primo governo Conte hanno “irragionevolmente alzato l’asticella” dei requisiti per accedervi, infatti, oggi i tempi per completare l’istruttoria per la naturalizzazione non sono più 10, ma 14 anni di residenza in Italia, “gli ultimi 7 dei quali con un reddito costante difficile da mantenere anche per molti lavoratori italiani”.

Fonte: https://www.onuitalia.it/anticipazione-dossier-statisticoimmigrazione-2020-del-28-ottobre/

Povert Educativa

Scelte compromesse. Gli adolescenti in Italia, tra diritto alla scelta e povertà educativa minorile è il rapporto 2021 dell’Osservatorio #Conibambini, promosso dalla Fondazione Openpolis e dall’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. I dati del report sono preoccupanti e devono far riflettere. Nel documento, infatti, si rileva come il legame tra povertà economica e povertà educativa impedisca a bambini e ragazzi di avere accesso alle opportunità che potrebbero garantire loro una crescita sana.

La cultura e l'istruzione, che dovrebbero rendere l'uomo libero, capace di elevarsi al di sopra della propria condizione di partenza per andare oltre, per cercare un futuro migliore, appaiono in questo report distanti dalla realtà. Il quadro illustrato nel rapporto racconta un'Italia in cui è ancora determinante il posto in cui nasci, in cui vivi, la condizione sociale della famiglia.

Il report cerca di ricostruire alcuni dei fattori che limitano le opportunità degli adolescenti nel decidere in modo consapevole il proprio futuro: dall’origine sociale e familiare ai livelli negli apprendimenti, dalle prospettive nel territorio in cui si abita all’impatto dell’abbandono scolastico. Fattori su cui l’emergenza Coronavirus ha inciso in modo fortemente negativo.

Ad esempio, chi ha alle spalle una famiglia con status socioeconomico-culturale alto, nel 54% dei casi raggiunge risulta- ti buoni o ottimi nelle prove di italiano. Per i coetanei più svantaggiati, invece, nel 54% dei casi il risultato è insufficiente.

I due terzi dei figli con entrambi i genitori senza diploma non si diplomano a loro volta Nascere in una famiglia con meno opportunità da offrire significa generalmente partire già svantaggiato anche sui banchi di scuola. L’abbandono scolastico prima del tempo, più frequente dove ci sono fragilità sociali, è l’emblema di un diritto alla scelta che è stato compromesso.

E spesso non è che la punta dell’iceberg: dietro ogni ragazzo e ragazza che lascia la scuola anzitempo, ci sono tanti fallimenti educativi che non possono essere considerati solo problemi individuali o delle istituzioni scolastiche. È un fallimento imputabile all'intera comunità educante - la scuola e la famiglia, ma anche istituzioni e mondo del terzo settore - che deve avvertire la responsabilità e la necessità di intraprendere un percorso comune per aiutare bambini, ragazzi e giovani a diventare protagonisti del proprio futuro.

Un'altra evidenza interessante che emerge dal rapporto riguarda la relazione inversa tra la quota di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) nelle grandi città italiane e gli indicatori di benessere economico (ad esempio, il valore immobiliare). I giovani che non lavorano e non studiano spesso si concentrano nelle zone socialmente ed economicamente più deprivate.

A Napoli, dei 10 quartieri con più Neet, 8 compaiono anche nella classifica delle 10 zone con più famiglie in situazioni di disagio. A Milano, Quarto Oggiaro ha il doppio di Neet rispetto alla zona di corso Buenos Aires. A Roma, a Torre Angela la quota di Neet è oltre il doppio del quartiere Trieste.

Il livello di istruzione, di competenze e conoscenze è strettamente collegato anche alle possibilità di sviluppo di un territorio. Nei test alfabetici, l’87% dei capoluoghi del nord Italia presenta un risultato superiore alla media italiana. Nell'Italia meridionale e centrale la quota di comuni che superano questa soglia scende rispettivamente al 25% e al 36%. Un dato che, oltre a confermare i profondi divari territoriali tra gli adolescenti italiani, sembra essere legato alla quota di famiglie in disagio nelle città1

Con la pandemia le disuguaglianze sociali ed educative crescono e aggravano una situazione caratterizzata da grandi divari strutturali – ha commentato Marco RossiDoria, vicepresidente di Con i Bambini. In questa fase di grandi difficoltà, i ragazzi dovrebbero rappresentare il fulcro di qualsiasi ripartenza. Non dovremmo criminalizzarli, come spesso accade, per alcuni comportamenti devianti o relegarli ad un ruolo passivo. Credo fortemente che siano una generazione migliore, hanno dimostrato grande senso di responsabilità, dovrebbero partecipare attivamente alle scelte che incidono sul futuro loro e, di conseguenza, del Paese. Dobbiamo loro - conclude RossiDoria - grandi opportunità”2

L'auspicio dunque non è solo quello di garantire a tutti i bambini, ragazzi e giovani l’accesso a un’educazione di qualità, ma anche quello che la comunità educante sia capace di trasmettere ai ragazzi un desiderio di rivalsa, come stimolo, come obiettivo, che li spinga a credere di conseguenza nel potere dell'istruzione. Educare i ragazzi alla caparbietà e alla tenacia è forse ciò che può insegnare loro a essere il cambiamento che chiedono al mondo.

1https://www.minori.gov.it/it/node/7531

2www.confinionline.it

Gli effetti della pandemia da Covid-19 sulle istituzioni scolastiche hanno messo a dura prova i ragazzi che vivono in famiglie già in condizioni di difficoltà economica. Queste famiglie, tra l’altro, sono aumentate vertiginosamente negli ultimi dieci anni. Tra il 2008 e il 2018, infatti, i minori in povertà assoluta in Italia sono triplicati, passando dal 3,7% al 12,5%, e hanno raggiunto quota 1.260.000.

Sono proprio loro che, intrappolati nella povertà materiale causata dall’emergenza Coronavirus e nella mancanza di opportunità educative, rischiano di vedere innalzato il livello di esclusione sociale e di povertà. Molti bambini e ragazzi, infatti, rischiano di rimanere indietro perdendo motivazione e competenze, e arrivando, in alcuni casi, a scegliere l’abbandono scolastico.

Se non tutti i ragazzi possiedono gli strumenti necessari per partecipare in maniera adeguata alle lezioni, le diseguaglianze rischiano di aumentare a dismisura colpendo la parte più fragile della popolazione.

A causa di questa crisi, da una parte le situazioni di povertà pre-esistenti si sono acuite e dall’altra se ne sono sviluppate di nuove, con molte altre famiglie che si sono trovate improvvisamente in difficoltà.

La didattica a distanza, poi, non è per tutti. Laddove le scuole siano state in grado di avviarla, la tecnologia ha potuto raggiungere solo le studentesse e gli studenti che potevano contare sul supporto proattivo della famiglia e su una base economica stabile.

Secondo gli ultimi dati Istat, più di 4 minori su 10 vivono in abitazioni sovraffollate, privi di spazi adeguati allo studio, e il 12,3% non ha un computer o un tablet in casa per seguire le lezioni a distanza, percentuale che arriva al 20% al Sud Italia. Tra i bambini e ragazzi che invece possono disporre di questi strumenti, il 57% si vede costretto a condividerlo con gli altri familiari.

Solo il 30% dei ragazzi impegnati nella didattica a distanza, inoltre, presenta competenze digitali idonee all’uso delle piattaforme online. In una situazione tale, che ha visto diminuire anche il lavoro e le opportunità per gli adulti, risulta chiaro come molti ragazzi rischino di scivolare nella povertà assoluta.

Il divario è anche geografico: è soprattutto al Sud, infatti, che si concentrano le percentuali più elevate di studenti in condizioni di maggiore svantaggio socio-economico e culturale.

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