Nepal nella terra degli dei

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a Marco, il nonno



“Lascia che la pace della natura entri in te, come i raggi del sole penetrano le fronde degli alberi. Lascia che i venti ti soffino dentro la loro freschezza e che i temporali ti carichino della loro energia, allora le tue preoccupazioni cadranno come foglie in autunno.�

John Muir (Dunbar, Scozia 1838 – Los Angeles, Stati Uniti 1914) Ingegnere, naturalista e scrittore



Ruggero Rizzati

N E P A L NELLA TERRA DEGLI DEI

CON UN CAPITOLO SUL SISMA DEL 2015



Organizzazione a cura di Avventure nel Mondo – Roma Sherpa Alpine Trekking Service - Kathmandu

◄Carlo Venturini

Renato Frigerio►

◄Anna Mazzaro

Carlo Michelini►

◄Maurizio Miori

Ruggero Rizzati►

◄Nicoletta Schiavini

Flavia Vido►

Khaji Sherpa – Prima guida e Sirdar (capo-carovana) Dorje Sherpa – Seconda guida e gli otto portatori Fotografie archivio Ruggero Rizzati con il contributo di Renato Frigerio e Anna Mazzaro


“Il grande tempio fu infine completato” Kesar Lall, Lore and Legend of Nepal, Ratna Pustak Bhandar, Kathmandu,1971 Illustrazioni di Amar 'Kalakar' KESAR LALL (Luglio 1926 – Dicembre 2012), scrittore, narratore, poeta.


NEPAL NELLA TERRA DEGLI DEI



Prologo Il Nepal non è fatto solo di scenari incantati, di montagne le più alte del pianeta, di sconfinati silenzi o di aria cristallina. Ovunque respiri il senso del sacro che traspare dalla natura, alberi, pietre e cieli. Per qualcuno è un ritorno alla madre, un ritrovare se stessi. Bisogna camminare fra le vette dell'Himalaya, magari spingersi in alto fin dove è possibile, attraversare villaggi sperduti per ritrovare valori dimenticati, incrociare il tuo sguardo con quello di un bambino che sorridendo ti saluta, donandoti il suo NAMASTE, e ti fa sentire partecipe del suo mondo. NAMASTE è il saluto con cui tutti ti accolgono. Significa “saluto il divino che è in te” e va bene per tante occasioni. Può servire per dare il buon giorno, la buona sera, arrivederci, persino grazie. Per i Nepalesi ogni individuo è l'espressione della sacralità di cui il cosmo è pervaso e vale quindi per quello che è e si porta dentro e non per quello che ha. Se confrontiamo il loro NAMASTE con il nostro ARRIVEDERCI ci troviamo di fronte a due culture profondamente diverse, che si basano su due diversi modi di pensare, due diverse impostazioni dell'esistenza. Certo, sono due semplici formule di saluto. Ma il nostro arrivederci è l'espressione inconscia di un messaggio drammatico, cioè significa “spero di rivederti ancora”, che “saremo ancora vivi, tu ed io, la prossima volta per poterci incontrare”. In occidente, crediamo in una sola vita, una vita che ci sfugge inesorabilmente per ogni momento che viviamo. Da qui la nostra frenesia di vivere intensamente ogni

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attimo, la fretta, l'agitazione nel fare. Il tempo che non basta mai. Per loro non è così. Credono nella reincarnazione e hanno la convinzione che tutto l'esistente in qualche modo sia partecipe del divino. Ma torniamo all'uso del termine NAMASTE nel ringraziare. Qualcuno potrebbe pensare che in lingua nepali non ci sia una parola specifica per dire “grazie”. In realtà la parola esiste ed è “dhanyavad”. Il suo uso però è raro. La prima volta che la usai, suscitai un leggero sorriso da parte dei presenti ed io mi sentii imbarazzato e mi chiedevo il perché, dove avevo sbagliato. Poi ho capito. In realtà non è chi riceve che deve essere grato a qualcuno, ma bensì chi dona perché ha avuto la possibilità con quel gesto di migliorare il proprio karma, cioè il proprio destino nella vita futura. Il karma è la forza sprigionata dalle nostre azioni buone e cattive, pensieri e parole, che determinano la forma e la qualità della esistenza presente e di quelle future. Certo, non dobbiamo pensare che per loro la vita sia tutta rosea. Spesso è la cruda realtà e la possiamo trovare nei vicoli e nei cortili squallidi dei grossi centri abitati, o nei bambini troppo presto diventati adulti, o negli uomini e donne curvi dal troppo peso che portano sulle spalle. A Kathmandu c'è sempre una sottile nuvola di polvere nell'aria. Ti accorgi della sua presenza solo quando torni in hotel, dopo aver trascorso qualche ora all'aperto. Ti ritrovi con le mucose del naso irritate o con gli occhi che lacrimano. Per noi diventa un problema il mangiare la frutta, la verdura. Bere l'acqua. Bisogna farla bollire, filtrarla. I servizi igienici sono carenti, soprattutto quando esci dalla capitale. Non ci sono fogne sotterranee, né pozzi neri. I liquami scorrono all'aperto e non è raro il caso in cui pentolame e stoviglie vengono lavati nei rigagnoli che scorrono davanti casa. Pure, nonostante ciò il Nepal conquista, come ha conquistato me. Mi sono recato laggiù la prima volta, attirato dalle grandi montagne himalayane, poi... sono ritornato... una seconda... una terza... una quarta volta. Quello che rimane dentro non sono i disagi che tu, occidentale, devi affrontare, ma la visione di una vita diversa, di un rapporto più umano con gli altri, rapporto che da noi, troppe volte purtroppo, rischiamo di perdere.

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La Leggenda della Valle L'alba del Tempo... un lago. Nelle sue profondità dimorava Karkotak, il re dei serpenti. Un lago immenso, circondato da maestose montagne e lussureggianti foreste. Vi crescevano piante acquatiche di ogni sorta, eccezione fatta per il loto. Un giorno passò da quelle parti il Buddha Vipaswi e nelle sue limpide acque gettò il seme di una pianta di loto. «Questo piccolo seme metterà radici. Foglie. E germoglierà un fiore dai mille petali». Disse. Poi aggiunse: «Allora dal calice apparirà 'Shoyambhu,' il Per-Se-StessoEsistente. Una luce intensissima illuminerà la Valle. L'acqua del lago lascerà il proprio alveo naturale e al suo posto sorgerà una fertile vallata, con villaggi e città...» Passarono gli anni. Spuntarono sulla superficie del lago le prime foglie di una pianta di loto. Uno splendido fiore sbocciò sulle sue acque in tutta la sua divina bellezza. Ed una aureola di luce, splendente come mille soli, dardeggiò sublime. Ora che l'antica profezia si era avverata e che il Per-Se-Stesso-Esistente si era finalmente rivelato, un altro Buddha, Sikhi, giunse da quelle parti con un grande seguito di pellegrini. Tre volte fece il giro del lago e poi, affaticato, si sedette a meditare sulla cima di un monte. Radunò i discepoli e narrò loro del futuro glorioso del sacro lago. Disse inoltre che era arrivato per lui il tempo di lasciare questo

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mondo e, fra le lacrime di tutti coloro che lo ascoltavano, il Buddha Sikhi si immerse nelle acque e scomparve, accolto dallo spirito del Per-Se-StessoEsistente. Altro tempo passò ed il Buddha Visambhu si recò sulle sponde del lago. Come per i suoi predecessori, una folta schiera di fedeli lo accompagnava ad incontrare il Per-Se-Stesso-Esistente. E così disse al suo seguito di devoti: «A tempo debito verrà il Bodhisatwa* e farà esondare le acque». Detto ciò, il Buddha si dileguò. In quel tempo nel nord della lontana Cina, su di una montagna dai Cinque Picchi, viveva il Bodhisatwa Manjushri. Un santo uomo dedito a profonde meditazioni sulle miserie umane. Nella sua infinita saggezza, quando seppe che il Per-SeStesso-Esistente si era mostrato nella Grande Valle, radunò i suoi seguaci. Fermamente egli intendeva onorare la sacra fiamma. Così decise di partire per il lungo e periglioso viaggio. Salì sul dorso di un leone. Portava con sé le due mogli, la spada ed il libro delle sacre scritture. Lo accompagnavano i suoi discepoli ed una persona di alto lignaggio di nome Dharmakar. Partirono tutti. Ivi giunto, Manjushri camminò a lungo sulle sponde del lago primordiale fino ad arrivare nei pressi di una collinetta a sud. Poi sguainò la spada. Con un poderoso fendente tagliò in due la modesta altura. E l'acqua sgorgò dalla profonda ferita. Infine il Bodhisatwa disse ai seguaci: «Prendete dimora in questa nuova valle». E partì, non prima di aver nominato Dharmakar primo sovrano del Nepal.

* * * Così le antiche scritture ci parlano della valle dove oggi sorge la città di Kathmandu, al centro del Nepal. Chi è Manjushri? Perché lo ritroviamo in molti miti _____________________ *Bodhisatwa: “colui che sta percorrendo la via per diventare un buddha”, secondo la definizione di Paul Williams.

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Manjushri sguainò la spada. Con un poderoso fendente tagliò in due la modesta altura. E l'acqua sgorgò dalla profonda ferita. Kesar Lall, Lore and Legend of Nepal, Ratna Pustak Bhandar, Kathmandu,1971 Illustrazioni di Amar 'Kalakar'

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e leggende? Il nome stesso significa “Dolce Gloria” o “Soave Splendore” in Sanscrito.

Personificazione

della

Saggezza

Trascendente,

assieme

ad

Avalokiteśvara, “Colui che ascolta i dolori del mondo”, è il più antico ed importante Bodhisatwa. Secondo il Buddhismo Mahāyāna non è ancora un Buddha, cioè un Illuminato. Pure, egli rinuncia ad entrare nel Nirvana per amore di tutti gli esseri senzienti “fino a quando anche l'ultimo filo d'erba non avrà raggiunto l'Illuminazione”. Nella tradizione iconografica viene di solito rappresentato come un giovine con la spada fiammeggiante stretta nella mano destra: la saggezza che abbatte l'ignoranza. Il fiore di loto racchiuso nella mano sinistra regge il rotolo delle Scritture: il conseguimento della conoscenza ottenuta con lo studio. Oltre che alla saggezza Manjushri è associato alla Poesia, all'Arte oratoria e letteraria.

* * * Le prime testimonianze scritte sulla valle risalgono al V secolo d. C. La leggenda domina incontrastata fino a quel tempo. Così Kathmandu sorge dopo che il Bodhisatwa Manjushri prosciugò il grande lago con un fendente della sua spada e le sue acque defluirono a formare quello che oggi è il fiume Bagmati. Sacro alla grande comunità hindu. Sulle sue rive, nel complesso religioso di Pashupatinath, si raccolgono i fedeli per dare l'ultimo saluto ai loro defunti che qui vengono portati per la cremazione su grandi pire funerarie. È il luogo dove i moribondi vengono ad esalare il loro ultimo respiro. I corpi, adagiati su barelle di bambù sulle scalinate (ghat) che scendono al fiume, vengono immersi fino alle ginocchia nelle sacre acque per l'ultima purificazione. A pochi passi i vivi seguono i propri riti quotidiani intenti nelle loro abluzioni. E i bambini, in particolare, continuano a giocare nell'acqua. Il confine tra la Vita e la Morte non è mi mai apparso così labile. Il nome stesso, Kathmandu, sembra derivare da Kasthamandap, una vecchia costruzione nel centro della città, andata distrutta nel terremoto del 2015. Risale al XII secolo. Qui la leggenda ci soccorre ancora una volta. Fu un sacerdote che ebbe l'incarico, da parte di una divinità, di costruire un edificio di notevoli dimensioni... e qui sta il bello... esso doveva essere edificato con il legno di una

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unica enorme pianta, il sal, di origine divina. Era un tempio? Un luogo per le riunioni? Un riparo per i pellegrini? Non lo sappiamo. Di certo doveva essere molto importante se pensiamo al materiale usato, di provenienza celeste, per la sua costruzione. “L'albero infatti in molte tradizioni è considerato sinonimo dell'asse cosmico, simbolo del punto di appoggio per eccellenza, in un certo senso il pilastro sacro che esprime la legge, l'ordine, come contrapposti al caos. Edificare il Kasthamandap può aver significato dunque, fare di questa città una città divina, il centro del mondo, un luogo in comunicazione fra il cielo e la terra”.* Nella mitologia hindu la Grande Catena Himalayana è la dimora degli dei da sempre. I saggi ed i profeti del subcontinente indiano consideravano le bianche cime che apparivano in lontananza, come altrettanti troni su cui sedevano le divinità. La potenza e la magnificenza della visione, l'impossibilità di raggiungere le maestose vette ed il mistero profondo che da esse emanava, diedero loro un'aurea mistica. Kathmandu giace in una valle ubertosa, ricca d'acque, dal clima temperato e dal terreno così fertile da donare, in condizioni particolarmente favorevoli, anche tre raccolti in un anno. Non è poi tanto difficile immaginare questa valle come il luogo eletto dagli dei a loro “Terreno di Gioco”. Gli attuali abitanti discendono da antiche tribù di origine tibetana e da popoli provenienti dalle grandi pianure dell'India. Oggi in Nepal coabitano circa 120 etnie diverse, ed il risultato della interazione di questi gruppi è ben visibile agli occhi di tutti. Antichissime tradizioni sciamaniche ed animiste coesistono con le più recenti e grandi religioni buddhista ed induista. Innumerevoli sono le leggende fiorite a giustificare i luoghi ed i templi che abbondano in tutta la valle. La popolazione è prevalentemente di fede induista ma una tacita alleanza fra dei ed umani ha prodotto tante e tali festività religiose a cui tutti partecipano. Induismo e Buddhismo, infatti, si sovrappongono dopo secoli di pacifica vicinanza. Presentano divinità spesso in comune, con caratteristiche simili anche se con nomi diversi. Le feste nell'arco dell'anno sono tantissime perché accanto a quelle ufficiali vi sono quelle dei singoli quartieri e delle varie etnie. La partecipazione comunque, è sempre corale. Ne ricorderò le più importanti e sentite. __________________ *O. Ammann e G. Barletta, Nella terra degli dei, dall'Oglio Editore1982

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La festa del Dashain, ad esempio. Sono due settimane di giubilo a fine settembre o nei primi giorni di ottobre, quando tutte le attività si fermano. Gli uffici governativi, le scuole di ogni ordine e grado e gli altri uffici chiudono per 15 giorni. Vi partecipano tutti i nepalesi di ogni casta e credo. Celebrano la lunga battaglia e la vittoria della dea Durga, il Bene, contro il demone Mahishasura, il Male. Avremo l'occasione di parlarne più avanti. Subito dopo, la festa del Tihar o Festa delle Luci, perché tutte le case di Kathmandu e dei villaggi vicini sono decorate con lampade ad olio accese. Il buio della notte è punteggiato da miriadi di piccole luci e lo spettacolo è assicurato. Si svolge a cavallo fra ottobre e novembre, quando si celebra la dea Laxmi, la dea dell'abbondanza. Negli ultimi giorni di febbraio o ai primi di marzo ricorre la festa di Holi, o Festa dei Colori. Numerosi falò all'aperto ricordano la morte di Holika, una demone, perita tra le fiamme a causa della sua malvagità. L'ultimo giorno, dopo una settimana di manifestazioni, vede gli abitanti dipingersi il viso con colori smaglianti. Predomina il rosso. Incomincia la battaglia. Volano terre colorate e palloncini pieni d'acqua. Persino i turisti si lasciano coinvolgere. Grande è il divertimento... certo non consiglierei di uscire con il vestito buono! Infine Machendra-jatra, forse la più popolare. Ha luogo ai primi di giugno e tale rituale deve la propria importanza in quanto apportatrice delle benefiche piogge dalle quali dipendono abbondanti raccolti e dunque la vita stessa degli abitanti della Valle. Le ricorrenze sono talmente numerose che in pratica si è quasi certi di essere testimoni di qualcuna di queste in ogni periodo dell'anno. Non hanno una data fissa. Dipendono dal calendario lunare e da propiziatorie congiunzioni astrali. È proprio in tali occasioni che gli dei e gli umani si ritrovano. I primi sono portati in processione su carri colorati ed agghindati, mentre i secondi fanno ala al loro passaggio tra rulli di tamburi e squilli di trombe. Le festività vogliono essere anche un'opportunità per le famiglie per incontrarsi e stare assieme in un'atmosfera gioiosa ed amichevole. Le strade brulicano di gente, i templi risuonano di canti e musiche ritmate. L'eccitazione collettiva è al culmine.

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Hanuman Dhoka Ottobre 2013. Alloggiamo all'Hotel Harati nel quartiere turistico di Kathmandu, a duecento metri da Chhetrapati Chowk. Thamel è un intrico di viuzze sempre affollatissime di turisti, trekker, alpinisti e perdigiorno. Centro pulsante della vita della città, offre alberghi di ogni tipo per tutte le tasche e ristoranti dove è possibile gustare specialità locali e piatti della cucina multietnica. Abbondano gli internet café e negozi d'ogni genere allineati senza interruzione su entrambi i lati di strade strette, talora in terra battuta, interrotte da buche e gobbe del terreno e dove il passaggio incessante e caotico di auto, motociclette e ciclo risciò si mescola con la moltitudine vociante e multicolore degli umani. Vi si può acquistare di tutto. Nulla è affidato al caso. Cibo, vestiario, scarpe, CD e DVD piratati, abbigliamento alpinistico last minute delle più grandi marche internazionali... solitamente il frutto di abili contraffazioni... Tutti lo sanno, pure la ressa nei negozietti è indescrivibile. Ottimi i dolci. La cucina nepalese è famosa e particolarmente varia in questo genere. E gli hawker, i venditori ambulanti, sempre lesti ad avvicinarsi per proporre la loro merce. La fantasia non ha limiti. Si va da un improbabile tiger balm, il balsamo di tigre, l'unguento buono per tutti i dolori che, nonostante il nome, non contiene grazie al cielo parte alcuna di quel nobile animale, al basuree, flauto in bambù nepalese. Il venditore ti affianca e, dopo un breve approccio, accenna a qualche nota con lo strumento.

È un campione di esperienza guadagnata sul

campo, talmente bravo da capire da quale paese arrivi ed ecco... qui arriva la

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piccola magia... dal suo flauto escono le semplici e dolci note di un “Fra Martino campanaro” che tutti noi italiani ben conosciamo. Il motivetto ha il potere di portarti indietro agli anni della tua infanzia, quando alle scuole elementari la maestra si affannava ad insegnarti quella melodia e tu avevi il tuo bel da fare a tenere quell'oggetto fra le piccole dita. Thamel fu negli anni sessanta la meta preferita di hippies e “figli dei fiori” qui pervenuti dal mondo occidentale alla ricerca di facili paradisi artificiali a base di hashish. Oggi la vendita della cannabis è illegale ed è decisamente pericoloso per l'incauto acquirente cedere alla tentazione. Già, perché può accadere, come al sottoscritto, di venire avvicinati furtivamente da qualcuno mescolato tra la folla e sentirti sussurrare all'orecchio: «hashish, marijuana, sir?..». Dimenticavo... non scordiamoci di mercanteggiare sul prezzo. Qui è un genere di sport assai praticato. All' inizio può essere imbarazzante soprattutto per chi non è abituato ma poi si fa divertente. Credo di averci fatto la mano oramai. Mi reputo bravo nel gioco delle parti fino al punto di concludere l'accordo quasi sempre con un deciso: «Take it or leave it...». Prendere o lasciare... e mi è andata sempre bene.

Thamel all'imbrunire. Le luci accese e lo scarso traffico creano un'atmosfera soffusa e serena, più a misura d'uomo.

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La sera, cena all'Everest Steak House, ad una manciata di passi dall'incrocio di Chhetrapati Chowk: è il ritrovo per alpinisti e trekker evoluti. Il ristorante è famoso per i prelibati piatti a base di carne di bufalo importata dall'India, cotta alla piastra. Bistecche di filetto alte tre dita che, a seconda dei gusti, vengono servite “well done”, ben cotte oppure, e questo è il mio caso, “rare”, poco cotte, con la parte interna del succoso filetto di un tenero colore rosato... Non me ne vogliano i vegetariani. Nutro il massimo rispetto per loro... Consiglio la Chateubriand Steak, enorme bistecca su di un letto di patatine fritte e verdure varie. Il tutto innaffiato da alcune bottiglie di birra fredda, la “Everest”, il brand più conosciuto fra gli intenditori di mezzo mondo che hanno la ventura di passare da queste parti. Se poi oltre alla cena, volete assaporare un po' di “innocente” vita notturna, bere bene ed ascoltare anche della buona musica, il locale che fa al caso vostro è il caratteristico Rum Doodle. Nulla di particolare per i piatti della cucina nepalese e continentale che vi si possono gustare. È l'atmosfera che fa la differenza. Noto fin dagli anni ottanta per essere stato inserito in una lista come il migliore bar di Kathmandu dalla rivista americana Time, è stato il ritrovo di illustri alpinisti di fama mondiale come Edmund Hillary, Reinhold Messner e Chris Bonington, i quali hanno lasciato la loro firma su dei piedoni di yeti in cartone. Quelle firme, considerate preziose reliquie, fanno bella mostra di sé

dentro una vetrinetta a imperitura

memoria e hanno fatto la storia e la fortuna di Rum Doodle. Oggi innumerevoli piedoni pendono dal soffitto ed altrettanti sotto forma di graffiti decorano le pareti del locale. E non temete. Anche se non avete ancora scalato l'Everest... è sufficiente avere in animo di salirlo... i gestori chiudono entrambi gli occhi... e sono felici di darvi l'ambita sagoma di cartone. Potete così apporre la vostra firma e lasciare dei messaggi o pensierini. Dulcis in fundo, i boccali di birra vengono serviti su sottobicchieri a forma di piedone. _____________________ Un boccale di birra 'Everest'... e la giusta compagnia sono gli ingredienti per una piacevole serata... al RUM DOODLE.

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Nostalgia dei sapori di casa? Nessuna paura. Ecco il locale giusto... Here With A Loaf Of Bread Beneath The Bough, A Book Of Verse, A Flask Of Wine And Thou Beside Me. The Wilderness Is Paradise Enow.* Sono versi tratti dal Rubâiyat, raccolta di poesie di Omar Khayyam, matematico, astronomo, poeta e filosofo persiano, vissuto a cavallo dei secoli XI e XII. Danno il benvenuto alll'internauta sul sito della 'Pizzeria Fire and Ice'. Il locale, inserito in un grande edificio, si trova nella via Tridevi Marg, giusto al limite del quartiere Thamel, non lontano dal Palazzo Narayanhity, oggi sede museale. Nel 1988 una signora napoletana e la sua famiglia arrivarono a Kathmandu. Decisero di rimanervi. La pizzeria iniziò ufficialmente l'attività nel gennaio 1995, divenendo subito famosa tra viaggiatori d'ogni dove, alpinisti, trekker e persino residenti. Oggi è un rinomato punto d'incontro dove è possibile assaporare un ottimo espresso o consumare pizze, primi piatti, insalate, dolci e una fragrante grappa alla fine, il tutto all'insegna della sempre buona e cara cucina italiana. Gli ingredienti usati, reperibili sul mercato locale, sono di importazione o vengono qui preparati dal team di esperti chef, come ad esempio la mozzarella. Gli stessi “daranno vita a deliziosi aromi e fragranze ed ogni boccone sarà per le vostre papille gustative come un delicato ed intenso viaggio nelle specialità italiane”... WOW!.. proprio così recita il messaggio pubblicitario... ma fidatevi... la mia diretta esperienza non può che confermare... anche se i prezzi sono più alti della media. ________________ *Oh un libro di canzoni, oh una coppa di vino, Oh una pagnotta di pane, e te, amor mio, vicino A me, a cantare nella solitudine... Solitudine, bene veramente divino. (Traduzione di Mario Chini, Lanciano, Carabba Editore, 1916)

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* * * Non è la prima volta che soggiorno all'Hotel Harati ed Il nome mi ha sempre incuriosito non poco. Così mi soffermo a parlare con l'addetta alla reception nella grande hall, tutta vetrate e salottini. Ascoltiamola: «Narra la leggenda», mi sembra un ottimo inizio, «qui ogni angolo, ogni nome ha una sua origine che si perde in un non ben definito passato... Narra la leggenda dunque, che Harati fosse una “Yaksheni”, una dei tanti spiritelli benevoli, incarnazione femminile, che hanno a che fare con la fecondità della Terra. Al tempo del Buddha vivente, l'amore di Harati per tutti i bambini era così profondo da indurla a rapire, questa è proprio la parola giusta, i bambini della Valle di Kathmandu. Poi li faceva sparire come per incanto in un Giardino delle Delizie segreto dove li intratteneva amabilmente raccontando loro meravigliose storie. Sconvolti dal dolore, i genitori, per un po' di conforto, si rivolgevano a Lord Buddha che si trovava in visita nella Valle. Buddha allora si accordò con Harati e fece rapire il bambino da lei prediletto, assumendosene il merito. La madre, con il cuore spezzato dall'angoscia, si presentò da lui, implorando il ritorno del figlio. A questo punto il Buddha rimproverò benevolmente Harati, presente alla scena, per avere essa stessa causato immensi dolori ai genitori dei figli rapiti e consegnò il bambino alla madre. Solo allora Harati capì quanto male avesse fatto e rilasciò tutti i bambini. Pentita, chiese a Lord Buddha una grazia del tutto speciale. Diventare Patrona dei bambini e Protettrice dei Sacri Luoghi del Buddha. La sua richiesta fu esaudita ed ecco perché oggi, accanto ad ogni monumento innalzato in memoria del Divino Buddha nella Valle, si trova un tempietto dedicato ad Harati dove i genitori sostano per invocare protezione per i propri figli». Da qui la scelta del nome su Harati perché l'hotel si trova ad un tiro di schioppo dal sacro Colle di Swayambhu, il centro spirituale per eccellenza per il Buddhismo tibetano, con il sacro tempio ad Harati. Non solo, anche qui, al centro della città vecchia, si è voluto creare un piccolo giardino delle delizie, a cui si può accedere dalla grande sala mensa al pianterreno, un angolo di tranquillità e serenità, ricco di piante e di fiori per gli ospiti.

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Sopra: l'accesso all'Hotel Harati che dĂ sulla Gangalal Marg, in Chhetrapati, con gli immancabili taxi bianchi all'uscio, in attesa. Sotto: la camera da letto (io e Renato).

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Sulla stessa via, tutta buche e rivoli di fango, alla stregua della maggior parte della rete stradale di Kathmandu, apre i cancelli un ospedale non profit, il Chhetrapati Free Hospital, gestito da una comunità di volontari. La sua storia risale alle prime lotte per la democrazia nel 1951. Allora il potere dispotico della famiglia regnante Rana terrorizzava con i suoi sostenitori la gente. Fu deciso di istituire delle pattuglie di difesa per contrastare le tattiche del terrore della sedicente “khukri dal”, o “banda del khukri”, gruppo di fanatici armati di un temibile coltello. Ora, il khukri è un coltello del tutto speciale sul quale vale la pena soffermarsi un po'. Dai molteplici usi, ha il bordo tagliente dalla parte leggermente ricurva. Di grande efficacia come arma, è in uso nell'esercito nepalese e in tutti i reggimenti Gurkha, simbolo del coraggio e del valore di chi lo porta in battaglia. È noto che un Gurkha “non sfodera mai la sua lama per gioco e non la ripone se non avrà sparso prima del sangue”. Un abile soldato Gurkha è in grado di mozzare con un solo colpo bene assestato la testa dal collo di un nemico. Presente in alcuni rituali presso diversi gruppi etnici del Nepal, nelle cerimonie matrimoniali viene ostentato dallo sposo. Per la religione induista ha un significato profondamente religioso quando è consacrato durante la festività annuale del Dashain. La festa si tiene di solito in ottobre, dura quindici giorni e, per l'occasione, si rinnovano i legami fra amici e famiglie, con sacrifici di animali alle varie divinità. L'ho visto portare alla cintura e usare nelle valli himalayane e confesso di aver provato una strana sensazione, di inquietudine mista a timore. Nella realtà il khukri è un attrezzo molto comune in cucina ed in agricoltura. Lo si usa per disboscare, spaccare la legna, tagliare la carne e la verdura, scuoiare gli animali e perfino come apriscatole. Presenta misure rispettabilissime: lama dai 26 ai 38 cm e lunghezza totale dai 40 ai 45 cm. Il peso da 450 a 900 grammi lo rende perfettamente bilanciato in tutte le sue parti. Il khukri mi ha visto testimone di un episodio curioso in uno dei miei viaggi in Nepal. Era di Ottobre. Ore 0025: boarding time. Gate 7. Mi presentai per l'ultimo controllo prima di salire a bordo. Il personale mi bloccò. Panico. Mancava lo sticker, il cartellino sul bagaglio a mano su cui vengono posti timbro e firma a perquisizione avvenuta. Ritornai sui miei passi, recuperai lo sticker e mi ripresentai. Fila. Davanti a me due distinte signore inglesi in età non più giovane stavano

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discutendo con animazione tra di loro. Faticai qualche istante prima di rendermi conto di cosa stesse accadendo. L'addetto, con un'espressione sul viso che non seppi definire, un misto fra stupore e incredulità, incrociò il mio sguardo e, come a ricevere conforto e partecipazione agli eventi, sbottò rivolto verso di me: «An old lady... Una vecchia signora!», la mimica facciale lo aiutava non poco. «Unbelievable... Incredibile!», tuonai ed annuii con altrettanta incredulità. C'era veramente di che stupirsi. Sul banco erano allineati in bella mostra, usciti come per magia dalla borsa del cappellaio matto, alcuni esemplari di khukri dalle varie misure. Il più grande di notevoli dimensioni. Le due signore, imperterrite, facevano osservare le proprie ragioni. Non le sfiorò neppure per un attimo l'idea che, viaggiare su di un aereo di linea con un arsenale del genere appresso, non solo non era consentito, ma quell'azione poteva essere fonte di guai seri per l'improvvido possessore. Pure, la loro veneranda età e fanciullesca ingenuità non riuscirono a scalfire un senso di spontanea ed innata simpatia nei loro confronti... Il finale non mi fu noto. L'addetto alla sicurezza, i coltelli in esposizione sul banco e le signore a discutere, velocemente controllò il mio zainetto, timbrò e firmò lo sticker e mi fece passare. Osservai

il grande monitor

a muro. Mi rimaneva

pochissimo tempo. Sul filo dei minuti. Quest'ultimo contrattempo mi aveva fatto balzare il cuore in gola. Al gate 7 ero l'ultimo. Presentai il Boarding Pass, la carta d'imbarco. Ultimi passi affrettati. Il corridoio mobile a serpentone mi inghiottì e mi guidò direttamente al portellone dell'aereo. Pochi secondi ancora e mi ritrovai a bordo accolto dal saluto sorridente della hostess. Ma è tempo di tornare al nostro ospedale. Ottenuta infine la stabilità politica, quella comunità fondò qui un posto di pronto soccorso con capitale iniziale di 10 rupie il 5 febbraio del 1957. Nei primi 50 anni di attività hanno curato più di tre milioni di pazienti. È forse l'ospedale privato, aperto 24h su 24h, più popolare, non a scopo di lucro del Nepal. L'obiettivo è fornire assistenza di base gratuita al settore più povero della popolazione, impossibilitata a provvedere personalmente alla propria salute. ______________________ Dolakha. Il khukri, tradizionale coltello ricurvo, si rivela utile in varie occasioni.

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L'associazione si sostiene con i proventi dei soci sostenitori, donazioni, sovvenzioni e prestazioni a pagamento da parte di coloro che se lo possono permettere. Né mancano i generosi contributi di istituzioni pubbliche e di privati da paesi come la Germania, il Canada e gli USA. Il personale medico ed infermieristico è inoltre supportato da medici e tecnici occidentali. Ricordo che l'assistenza sanitaria a livello nazionale è assai carente e che solo circa il 15 % della popolazione può accedere a tale servizio. I motivi sono molteplici. In particolare giocano un ruolo a sfavore assai importante le enormi difficoltà di comunicazione nel paese dovute alla complessità geologica del suolo e la precaria situazione economica generale. Nelle aree rurali e di montagna più remote, credenze, superstizioni, povertà, analfabetismo ed ignoranza delle più elementari norme di igiene costringono le persone ad affidarsi esclusivamente agli sciamani di turno. La carenza cronica di infrastrutture poi, è la classica ciliegina sulla torta.

* * * Una passeggiata di quindici minuti o giù di lì sono sufficienti per recarsi dall'Hotel Harati fino a Durbar Square, il cuore pulsante della città vecchia. Vi si accede da uno dei numerosi checkpoint. È previsto un biglietto d'ingresso: 750 rupie, circa sette euro, prezzo più che raddoppiato in due anni. Se vi recate dopo il tramonto e fino all'alba l'ingresso è libero. Il biglietto è valido per il giorno del rilascio ma esiste un piccolo ufficio, di lato al palazzo Kumari-ghar dove, presentando il biglietto appena acquistato, il passaporto ed una foto formato tessera, viene rilasciato un documento con una estensione gratuita della stessa durata del vostro soggiorno in Nepal. L'operazione richiede qualche minuto. La trovo un'ottima idea. Una raccomandazione. Il biglietto va accuratamente conservato durante la visita poiché va esibito ad ogni richiesta da parte del personale addetto. A me è capitato. Subito dopo il checkpoint una grande stele in pietra nera racchiusa in una cornice di mattoni rossi attira l'attenzione del visitatore. Così recita l'iscrizione in lingua inglese:

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Templi e palazzi sono stati costruiti in un periodo di tempo che va dal regno del re Ratna Malla (1484 – 1520) fino al regno del re Prithvi Bir Bikram Shah (1881 – 1911), anche se una antica iscrizione del settimo secolo fa riferimento a questo luogo in epoca più remota. Tale complesso ha preso il nome di Hanuman Dhoka Durbar dopo la messa in posa della statua del dio Hanuman presso l'ingresso del palazzo reale del re Pratap Malla nel 1672. È il maggior complesso residenziale reale del periodo medievale nel Nepal. Sotto il regno di Mahendra Malla (1560 – 1574) fu eretto il tempio in onore della dea Taleju Bhavani (divinità tutelare dei re Malla) mentre Mulchowk, una delle parti più antiche di tutto il complesso, ne divenne la piazza principale. Il re Pratap Malla (1641 – 1674) fece decorare ed ampliare il palazzo aggiungendovi nuove parti: Sundari Chowk, Nasal Chowk, Mohan Chowk e il giardino di Bhandarkhal. Dopo la conquista di Kantipur da parte del re Prithvi Narayan Shah di Gorkha nel 1768, Kathmandu fu dichiarata capitale del nuovo regno unificato del Nepal. Il nuovo re edificò Basantapur Durbar, con la parte residenziale più alta strutturata a tempio, nel 1770. Il re Pratap Singh Shah (1775 – 1777) lo ampliò ancora. Il Primo Ministro Jung Bahadur Rana introdusse per primo l'architettura neoclassica europea dopo il 1851 ed il Primo Ministro Chandra SJB Rana costruì il Gaddi Vaithak seguendone lo stile nel 1907. Numerosi templi, in epoche diverse, hanno fatto da degna corona al palazzo reale: Kasthamandap nel XII secolo, Kumarighar (1756), Manjudeval (1690), il tempio a Shiva Parvati nel XVIII secolo, il tempio Jaganath (1633), il tempio Naragan (1696), Chyasin Dega (1649) e Kavindrapur (1656). Qui ha luogo la solenne cerimonia dell'incoronazione del re. Ufficio del Turismo

Il Governo di Sua Maestà

Marzo 2001

Dipartimento di Archeologia

Si trova accanto al tempio Chyasin Dega (1649), subito dopo l'accesso alla zona monumentale. Mi soffermo ad ammirarne la struttura. Presenta una pianta a forma ottagonale non comune e l'intero edificio è sormontato da un tetto multiplo, tre per la precisione. Lo stile è quello tipico a pagoda che si è poi diffuso in tutto il

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continente asiatico. Fu fatto edificare dal re Pratap Malla che regnò dal 1641 al 1674 in onore di Krishna Dio dell'Amore, in memoria delle due mogli indiane Rupamati e Tajamati, morte proprio nell'anno della sua costruzione. Pratap Malla era, come si direbbe oggi, un intellettuale, un illuminato, profondamente religioso e amante delle arti. Si definiva il re dei poeti. Sotto il suo regno la dimora reale subì notevoli trasformazioni: alcuni vecchi templi furono ricostruiti ed altri nuovi vennero edificati per dare lustro e decoro alla sua dinastia. Fu proprio lui che fece disporre la statua di Hanuman davanti all'ingresso di Mohan Chowk, la residenza dei re Malla. Hanuman, tradizionalmente rappresentato con le sembianze di una scimmia, avrebbe di sicuro protetto la sua dimora e rafforzato il suo esercito. Nella piazzetta antistante di fronte al tempio dedicato a Krishna, si eleva una colonna sormontata dalla statua di Pratap Malla che appare seduto con le mani giunte, circondato dalle due mogli e dai cinque figli. Anche il turista più frettoloso non può non notarla perché è inserita in un'area scelta come dimora stabile da centinaia di colombi; né mancano gli immancabili venditori di granaglie a garantire loro il necessario cibo. Il luogo dove ci troviamo, per la sua importanza storica, commerciale e culturale, rappresenta da secoli il centro della città stessa, ne è l'incrocio vivo e vitale delle due principali fedi religiose, quella buddhista e quella induista, un vero crogiolo di etnie. La moltitudine di piazze e piazzette, collegate tra di loro da vie e viuzze a formare una specie di labirinto, è un invito a muoversi senza una meta precisa, abbandonandosi alla scelta del momento. Scopro così lo sguardo fiammeggiante di Kalo Bhairav: la sua immagine, scolpita su di un unico enorme blocco di pietra tiene desta la mia attenzione. Bhairav è una delle molteplici manifestazioni negative di Shiva. Il dio vi è rappresentato con una ghirlanda di teschi sul capo, ha sei braccia, una delle quali tiene nella mano una spada minacciosa, e i suoi piedi poggiano sul corpo di un demone morto. Nella parte superiore di questa specie di capitello in cui il dio è racchiuso, campeggiano le immagini del sole e della luna, a sinistra e a destra rispettivamente. La leggenda vuole che le controversie venissero qui risolte: al cospetto della terribile divinità il mentitore si confondeva, piangeva e cadeva morto vomitando sangue. A completare il quadro due grandi singha, leoni in pietra, i guardiani del dio.

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Sopra: Chyasin Dega (1649), edificato da Pratap Malla in memoria delle due mogli indiane. Sotto: la stele con l'iscrizione in lingua inglese a sinistra del tempio Chyasin Dega.

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Sopra: al centro si eleva la colonna del re Pratap Malla. In secondo Chyasin Krishna

piano Dega Dio

memoria

il

tempio

dedicato

a

dell'Amore,

in

delle

due

mogli

indiane Rupamati e Tajamati. Sullo

sfondo,

tempio,

la

accanto stele

al con

l'iscrizione. A lato: la colonna del re Pratap Malla, 1670. (particolare)

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Di questa enorme immagine su pietra di Kalo Bhairav, in atteggiamento minaccioso, non ci è nota la datazione. Sappiamo però che a collocarla nel punto in cui si trova oggi fu Pratap Malla, dopo che era stata trovata in un campo a nord della città.

* * * Mi si offre allo sguardo un ampio spazio aperto. Il tempio dedicato a Shiva e alla consorte Parvati è una bassa costruzione del XVIII secolo. Insolito per certi aspetti costruttivi, forse una ricostruzione perché la piattaforma su cui sorge è molto più antica del tempio stesso. Subito accanto tre grandi templi a pagoda dal triplice tetto, eretti su alte scalinate: Narayan, Maju Deval e Trailokya Mohan. Maju Deval supera per imponenza gli altri due templi. Si eleva su di una piattaforma-scalinata a nove livelli. Salirvi è un'esperienza: come ci si innalza, piano piano la vista sottostante arriva ad abbracciare spazi sempre più grandi fino

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ad avere un'immagine a volo d'uccello di tutto il complesso di palazzi e templi che ora si trovano sotto ai nostri piedi. Il tempio, dedicato a Shiva, ospita un linga, simbolo fallico del dio. Narayan e Trailokya Mohan sono dedicati al dio Vishnu. Le finestre e i puntoni a supporto dei tetti sono riccamente decorati con figurazioni intagliate nel legno. Kumari-ghar, è una costruzione un po' isolata dalle altre sul lato orientale dell'ampia piazza Basantapur, accanto all'anonimo ufficio turistico. Vi dimora la Kumari, la Dea Vergine, la Dea bambina. Risale alla metà

del

XVIII

secolo

come

espressione

dell'architettura residenziale Newar del tempo. Lo stile dell'edificio a tre piani, con il piccolo cortile interno, si rifà ai monasteri buddhisti con simboli e motivi cari al buddhismo e all'induismo. Superati i due leoni di pietra che stazionano all'ingresso, si percorre uno stretto e basso corridoio che conduce nel quadrilatero interno. Luogo fra i più sacri del Nepal, meta continua di devoti, ospita

la

Kumari,

fino

all'età

della

sua

prima

mestruazione. La venerazione di bambine, le Kumari, ritenute l'incarnazione di una divinità, è un'antica tradizione del Buddhismo nepalese. Abbiamo notizie in tal senso a partire dal XIII secolo. Solo più tardi, probabilmente durante il regno di Jaya Pratash Malla (XVII secolo), la Kumari ha preso l'identità della dea hindu Durga, Taleju in lingua nepali. Vi sono molte Kumari in tutto il territorio nepalese, ma la più degna di nota è la Kumari Reale di Kathmandu. Il termine Kumari deriva dal sanscrito 'vergine' e in lingua nepali indica una ragazza non sposata. ___________________________________ Dall'alto: 1.Il tempio di Shiva-Parvati a destra nella foto e, a sinistra, il tempio Narayan. 2.Trailokya Mohan con, a sinistra, Kumari-ghar. 3.Trailokya Mohan a sinistra, Maju Deval al centro e Narayan a destra nella foto.

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La scelta è particolarmente rigorosa. Molte sono le leggende sulle origini della Dea bambina. Qui mi piace ricordare la più popolare. … Una notte un serpente rosso si avvicinò alle stanze del re Jaya Pratash, l'ultimo re nepalese della dinastia dei Malla. Siamo nel XVII secolo. Il re, come il suo solito, stava giocando a dadi, sua grande passione, con la dea Taleju. Erano incontri segreti, e tali dovevano restare. Ma la moglie del re, sospettosa, una notte lo seguì scoprendo ogni cosa. La dea si adirò a tal punto che se il re voleva rivederla e avere così ancora la sua protezione, avrebbe dovuto cercarla, incarnata in una bambina della casta dei gioiellieri Shakya. Il re, per farsi perdonare, abbandonò il palazzo e andò alla ricerca della bambina posseduta dallo spirito della dea Taleju... Ancora oggi, l'apparizione in sogno di un serpente rosso ad una madre, viene considerata un evento straordinario, un presagio per l'elevazione della figlia a Kumari Reale. Così, ogni anno, il re del Nepal, durante l'Indra Yatra, otto giornate di grande festa a settembre per tutti, Buddhisti ed Induisti, cercava la benedizione della Kumari e si inchinava ai suoi piedi. Per l'occasione la Dea Vivente si mostrava in pubblico, portata in solenne processione su di un carro nel terzo giorno delle celebrazioni. Ma ora, dopo il passaggio alla repubblica presidenziale (2008), molte cose sono cambiate e spetta al Presidente cercare quella benedizione. La scelta della Kumari Reale per certi aspetti ricorda quella del Dalai Lama. Veniva effettuata da sacerdoti buddhisti anziani e dall'astrologo del re. La predestinata deve godere di ottima salute, non aver riportato ferita alcuna e quindi nessuna cicatrice, né essere stata affetta da malattie. La Dea bambina ideale, superati questi primi criteri di selezione, deve presentare altre caratteristiche ben precise che si rifanno agli ideali di bellezza e perfezione: occhi scuri e capelli neri, mani e piedi delicati. Deve avere un atteggiamento sereno e tranquillo. Non piangere. È importante la presenza dell'astrologo. Infatti l'oroscopo della Kumari doveva combaciare con quello del re, ma ora che la monarchia non esiste più, è all'oroscopo del Presidente che si guarda. La futura Kumari non deve mostrare paura durante la festività hindu del Dashain. Per l'occasione ben 108 bufali e capre vengono sacrificati alla dea Kali: la giovane candidata viene portata nel tempio della dea Taleju al cospetto delle teste mozzate degli animali e dovrà trascorrere una notte in quella stanza

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senza rivelare alcun timore. Infine le vengono presentati alcuni oggetti e dovrà scegliere fra loro quelli che erano appartenuti alla precedente Kumari. Solo ora, senza ombra di dubbio, diverrà la nuova prescelta. La sua vita cambierà. Andrà a vivere nel palazzo a lei riservato fino all'arrivo della pubertà. Non potrà ferirsi né ammalarsi perché perderà la propria purezza e quindi il proprio status di incarnazione della divinità. I suoi famigliari le faranno visita raramente e comunque solo in forma ufficiale. Non potrà mai appoggiare i piedi per terra e, quando uscirà dal suo palazzo-dimora in occasioni di cerimonie della massima importanza, verrà trasportata nella sua portantina dorata. I suoi piedi, come tutto il corpo, sono sacri. Non porterà scarpe. Vestirà sempre di rosso, i capelli raccolti sulla testa e porterà dipinto sulla fronte il terzo occhio, simbolo di speciali poteri. Con l'arrivo della pubertà, la Dea bambina perde la purezza e quindi la sua condizione divina. Solitamente il passaggio alla vita normale è alquanto duro. Nel breve volgere di quattro giorni, ogni simbolo della sua divinità viene cancellato. Lascerà il palazzo con un assegno vitalizio mensile ad opera di una Fondazione istituita a tale specifico scopo. È interessante osservare come la casta di appartenenza della Kumari Reale sia la stessa del Buddha Sakyamuni, ma posseduta dalla dea Taleju, una divinità hindu: ennesimo episodio, questo, di convivenza fra religioni tra loro diverse.

Kumari-ghar. Vi dimora la dea bambina. Nella foto il quadrilatero interno decorato con finestre finemente intagliate.

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Hanuman Dhoka, il Palazzo Reale

Acquerello del complesso degli edifici del Palazzo Reale in un dipinto del 1852, di Henry Ambrose Oldfield (1822 – 1871). British Library, Londra. Fonte: Wikimedia Commons

La parte centrale di Durbar Square è dominata da una grande palazzo, Hanuman Dhoka, ricco di templi e di cortili interni, residenza dei re Malla e Shah fino al 1886. Da quell'anno la dimora della famiglia reale sarà il Palazzo Narayanhity. In origine edificato sotto l'antica dinastia Licchavi, subì ripetuti rifacimenti e una buona parte delle sue attuali dimensioni risale al periodo in cui regnò Pratap Malla nel XVII secolo. Entriamo L'ingresso è segnato dalla statua di Hanuman in ginocchio, posta su di un alto piedistallo. É una delle figure più importanti del Rāmāyana, testo sacro e poema epico, venerato in tutte le culture aventi il sanscrito come radice comune. É la personificazione della saggezza, della giustizia, dell'onestà e lealtà. Il dio-scimmia

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appare ricoperto da un mantello rosso e protetto da un parasole dello stesso colore. Il volto della divinità scompare sotto uno spesso strato di pasta color arancione che generazioni di fedeli hanno lasciato. Due leoni in pietra, il primo cavalcato da Shiva ed il secondo dalla moglie Parvati, delimitano, ai lati, la grande porta, dhoka, che dà anche il nome al palazzo stesso. Sollevando il capo si nota una grande nicchia dipinta con alcune figurazioni. Domina il centro una rappresentazione minacciosa di Krishna. A sinistra un Krishna più benevolo accompagnato da due aggraziate gopi, ancelle, mentre a destra la scena è occupata dal re Pratap Malla e dalla consorte. Oltre l'entrata, lo spazio si allarga in uno dei tanti cortili interni, Nasal Chowk, il più grande. Qui, sul lato sinistro, trova alloggio la statua uomo-leone di Narsingha, una delle tante incarnazioni di Vishnu, nell'atto di uccidere un demone. Subito dopo, un portico con ritratti dei re della dinastia Shah. Nell'angolo, una porticina immette negli alloggi privati della famiglia reale Malla, fino a qualche tempo fa non aperti al pubblico.

L'ingresso al Palazzo Reale con i due singha, i leoni in pietra. Sopra il portale (dhoka), la nicchia con Krishna e Pratap Malla. A lato la statua del dio-scimmia (1672).

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NASAL CHOWK Sopra: lato sud del cortile con la imponente torre Basantapur, opera del re Prithvi Narayan Shah (1770). L'edificio a sinistra, ospita il museo dedicato ai re Birendra e Mahendra. Sotto: lato nord. In evidenza il curioso tempio a cinque piani circolari Panchamukhi. Sul lato sinistro della foto, ala ovest, si trova il museo memoriale del re Tribhuvan.

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Nasal Chowk doveva essere il più importante del complesso. Qui avevano luogo, a partire dal XVI secolo, le cerimonie di ogni specie. I cortili risalgono al periodo Malla perché fu proprio sotto i Malla che le modifiche apportate hanno dato al palazzo il suo fascino artistico ed architettonico. Fra i regnanti di questa dinastia spicca un nome in particolare, quello di Pratap Malla, che regnò dal 1641 al 1674. In posizione centrale, è stato il centro di vari ed importanti eventi. Fra i più spettacolari del periodo Malla troviamo le danze rituali, quando gruppi provenienti dai vari villaggi della valle danzavano per il re. Le danze si effettuavano sul pianale rialzato in pietra che tuttora esiste al centro del chowk. Il nome stesso del cortile, Nasal, significa “colui che danza” e si riferisce a Shiva nell'atto di danzare. Il più famoso sostenitore di queste danze era proprio Pratap Malla che vi partecipava di persona. La scultura in pietra, datata 1673 di Narsingha, che abbiamo visto, ha una storia che vale la pena raccontare. Si trova scritta sul piedistallo. Durante una sua danza Pratap Malla impersonò Vishnu. Il dio si impossessò del suo corpo per non lasciarlo neppure dopo che il ballo ebbe termine. Uno dei sacerdoti presenti ebbe l'idea di trasferire lo spirito del dio in una immagine. Furono chiamati a corte gli scultori più bravi e fu loro ordinato di creare una statua. Solo a consacrazione avvenuta lo spirito del dio abbandonò il corpo del re. Il risultato fu una scultura singolare in pietra nera lucida. Narsingha, appunto. L'incarnazione di Vishnu in un uomo-leone nell'atto di sventrare con le due zampe anteriori Hiranyakashyap, il demone. Pratap Malla non era nuovo a comportamenti del genere. Ricorse agli dei anche quando fece porre l'immagine di Hanuman presso l'ingresso principale del palazzo, pensando che il dio “portasse distruzione e morte al nemico e vittoria a lui e difendesse la sua casa”. Ancora. Fece costruire un tempio a cinque piani di forma circolare dedicato a Hanuman Panchamukhi (dai-cinque-volti). Data la struttura non comune, non può non attirare l'attenzione. La smania di costruire ha fatto di lui un uomo profondamente religioso. Non solo. Era anche profondamente egocentrico. In una iscrizione si definiva così. “Nessuno è come me, perla nel diadema di re, né in cielo né in terra o da parte alcuna in dieci direzioni, né sulle colline o nelle foreste.” Viene dipinto come persona erudita, presuntuosa e combattiva in politica verso gli stati confinanti. Cercava la compagnia dei dotti.

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Narsingha nell'atto di sventrare Hiranyakashyap, il demone. La statua uomo-leone in pietra nera si trova subito oltre l'entrata a sinistra.

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Aveva la propensione non solo a commissionare ma anche a procurarsi, talora con la forza, le opere d'arte. Scrisse poesie, arrogandosi il titolo di kavindra, o re dei poeti. L'ultimo periodo del regno dei Malla fu segnato da periodi di guerra alternati a incerti periodi di pace. I sovrani dei tre regni della valle – Kathmandu, Patan e Bhaktapur – erano continuamente in guerra tra di loro. La pace era difficile e quando era vera pace, le rispettive corti si adoperavano a superarsi in altri campi. Allora gli eserciti con la spada venivano soppiantati dagli eserciti con martello e scalpello e, a dire il vero, dobbiamo all'ambizione e alla conoscenza di Pratap Malla in particolare, un'epoca di grande competitività nelle arti e nella architettura. Sul lato meridionale del cortile si eleva la torre Basantapur, costruita sotto il re Prithvi Narayan, appartenente alla dinastia Shah che sostituì la dinastia Malla al potere. Siamo nel 1770. Doveva servire da luogo di divertimento e svago. Saliamo una lunga serie di ripide scale in legno fino al piano più alto, il nono. È strutturato con parti in legno a graticcio che permettono una ampia visuale in ogni direzione, senza essere visti. Si racconta che ogni bravo re che avesse a cuore i propri sudditi fosse solito sbirciare, dalle finestre a graticcio, i tetti delle case. Per quale motivo? Il fumo che vedeva salire dai camini gli indicava se ci fosse del cibo o meno sul fuoco a cucinare. Il panorama che si presenta ora ai nostri occhi è di tutto rispetto. Nelle giornate limpide e senza vento, a nord risplendono le cime innevate della catena himalayana. Sempre a nord, in primo piano, svetta il tempio dedicato alla dea Taleju, la dea tutelare dei Malla. Il lato sud invece riserva una visione completamente diversa. Piazza Basantapur, sulla verticale sotto di noi, appare in forte contrasto, pulsante di vita. I numerosi venditori di souvenir hanno qui esposta la loro merce su delle bancarelle improvvisate. Arrivano di mattina presto ad occupare il posto. Alcuni si servono di un semplice telo disteso sulla piazza lastricata di mattoni rossi, opportunamente posizionati. Non illudetevi però di fare qualche buon affare. Sono prodotti dell'artigianato locale buoni per i turisti. Non pensate di trovare pezzi antichi pregiati, per i quali bisogna seguire altre strade e comunque tali acquisti sono regolati da leggi assai severe. Ad ogni modo vale la pena soffermarsi e, se siete presi da una improvvisa voglia di the, vi può capitare di

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imbattervi in una venditrice di tale bevanda. Le foglie sono fatte bollire direttamente in un recipiente con del latte e dello zucchero.

Un tempo la stessa piazza risuonava delle musiche che accompagnavano il passo cadenzato e lento degli elefanti adornati con le insegne reali, il sovrano sul dorso, nelle cerimonie importanti. Parti di vecchi cortili (chowk) sono visibili sul lato orientale e occidentale. Mentre le strutture che maggiormente attirano l'attenzione sono le tre torri che si elevano dagli angoli del vecchio Lohan Chowk. Sono di diverso disegno architettonico. La torre ottagonale è la Bhaktapur Tower, quella quadrata è la Patan Tower e quella rettangolare è la Kirtipur Tower. Il quarto angolo è occupato dalla quarta torre, Basantapur. È quella in cui ci troviamo ed il nome significa “Palazzo della Primavera” e si riferisce a Kathmandu. Infatti i nomi derivano dalle città che si trovano nella direzione delle torri. È probabile che l'ultimo ________________________ Panorama verso nord dalla Basantapur Tower. In primo piano la Kirtipur Tower e Nasal Chowk, il più grande cortile interno. A seguire il tempio a forma circolare Panchamukhi e il tempio dedicato alla dea Taleju, la dea tutelare dei Malla.

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piano, il nono, dove siamo, sia stato adibito, data l'altezza dal suolo, a postazione di guardia. Il luogo dona al visitatore una atmosfera particolare, irreale. Se lasciate scendere le torme schiamazzanti dei turisti, in quei momenti di pace, indugiate presso le finestre a graticcio sui quattro lati, godetevi lo spettacolo che si apre ai vostri occhi... e cercate di indovinare quale potesse essere la vita per un re o una regina nei tempi andati.

Panorama verso sud dalla Basantapur Tower. La piazza omonima si trova sulla verticale sotto di noi con i numerosi venditori di souvenir e le loro bancarelle improvvisate. Anche dopo la caduta della monarchia, rimane sempre il palcoscenico ideale per tutte le manifestazioni e le festivitĂ civili e religiose.

Sul lato ovest di Nasal Chowk si trova il museo dedicato al re Tribhuwan e prima di addentrarci nelle stanze espositive sarĂ opportuno avvicinarci a lui per conoscere un po' la sua figura. Chi era questo re, amato forse, come pochi, dai suoi sudditi? Tribhuvan Bir Bikram Shah, ascese al trono del Nepal alla morte del padre, all'etĂ di cinque anni, sotto la reggenza della madre, nel 1911. In realtĂ , in

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quel tempo, la figura del sovrano era puramente rappresentativa, dato che il potere veniva gestito dalla potente e ricca famiglia Rana con i suoi primi ministri ereditari. Le continue tensioni interne, portarono alla fine del dominio incontrastato dei Rana nel 1951, anno in cui il re riuscì a ristabilire la propria autorità. Per il suo ruolo nelle vicende di allora è ritenuto il “Padre del Nepal moderno”.

Oltre all'aeroporto

internazionale ha dato il suo nome anche all'università di Kathmandu, la più vecchia, frequentata e prestigiosa del Nepal. Morirà nel 1955, in una clinica svizzera, in circostanze mai chiarite. Aveva 48 anni.

Ritratto di Tribhuvan Bir Bikram Shah Dev 1906 – 1955 Fonte: Perceval Landon, NEPAL, AES Reprint New Delhi,1993 vol.1

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Facciamo un salto temporale di oltre due secoli. La storia della dinastia Shah è strettamente correlata al periodo storico moderno del Nepal. Fu infatti Prithvi Narayan Shah, soprannominato il Grande, a fare del Nepal una nazione, quando ancora era diviso in numerosi piccoli principati. Eravamo nel XVIII secolo e l'anno in cui egli salì al trono di Gorkha, era il 1743. La dinastia a cui apparteneva era antica. Infatti gli Shah regnavano sul principato di Gorkha da duecento anni almeno. Le cronache dei tempi andati ci danno le seguenti grandi dinastie che si susseguirono, prima degli Shah. Nell'ordine troviamo i Gopal, i Kirati, i Lichhavi e i Malla. Ricordo che il Nepal di allora geograficamente comprendeva solo la Valle di Kathmandu più alcuni distretti minori vicini. Prithvi Narayan aveva ereditato il governo del regno di Gorkha, sulle alture a NO di Kathmandu, ad appena vent'anni. Ma il giovane re non si accontentò e, uscito dai confini del suo regno, attaccò e sconfisse le città-stato della Valle. Caddero in rapida successione, l'una dopo l'altra, città come Kathmandu, Kirtipur, Patan e Bhaktapur. E quella che era iniziata, come sembrava, una operazione di ampliamento del principato di Gorkha, si rivelò alla fine, nell'anno 1771, la prima fase di un processo di riunificazione che doveva portare alla nascita di uno Stato moderno ed indipendente. Il Nepal, appunto. Definito dagli storici, fra l'altro, leader illustre e dall'intelligenza vivace, viene commemorato ancora oggi, nella “Giornata dell'Unità Nazionale”, che si tiene nel mese di gennaio di ogni anno. Ottimo stratega, riuscì a mantenere il proprio regno lontano e al sicuro dalle mire belligeranti degli Inglesi a sud e degli irrequieti Tibetani a nord. Lungimirante, volle rispettare la cultura ed i valori degli abitanti della Valle. Un esempio fra tutti, fu il culto del popolo per le Kumari, le deebambine, simbolo dell'indipendenza del lungo regno dei Malla e la venerazione verso la dea Taleju, divinità reale per eccellenza. Seppe anche essere brutale e vendicativo verso i vinti, quando ordinò di tagliare nasi ed orecchie ai maggiorenti di Kirtipur per punirli della strenua resistenza nella difesa della città. Come abbiamo visto, l'ala del palazzo che si affaccia interamente sul lato occidentale del cortile Nasal Chowk ospita il Museo Tribhuvan. Entriamo. Dobbiamo lasciare gli apparecchi fotografici all'ingresso in apposite cassette numerate con tanto di chiave. Li recupereremo al termine della nostra visita. Sono

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vietate foto e riprese cinematografiche e vi assicuro che il personale è alquanto severo nel far rispettare questa norma. La visita al museo è progettata per condurre il visitatore all'indietro nella storia del Nepal. Una serie di scale porta in una prima stanza dove sono esposti oggetti appartenenti alla vita dei re della dinastia Shah, l'ultima dinastia a regnare sul Nepal. Tramite una collezione di abiti è possibile seguire l'ideale percorso della vita di un re, seguendone i principali eventi dalla sua nascita: dai vestitini indossati nei primi anni di vita, a quelli indossati dal principino infante nelle varie cerimonie. La raccolta procede ad illustrare il passaggio all'età adulta. Sono esposti gli abiti nuziali dei re. Pur sbiaditi dal tempo, richiamano alla mente lo sfarzo e lo splendore passati, durante le cerimonie di investitura. Sono molte le fotografie esposte a stimolare la curiosità del visitatore. Una, in particolare, ritrae l'incoronazione di Tribhuvan Bir Bikram Shah nel 1913. Ogni oggetto si riferisce ad una data o ad un avvenimento della storia del Nepal. In un angolo della prima sala vi è il trono reale usato per le celebrazioni del 25° anniversario del re Tribhuvan. Subito dopo una foto in bianco e nero mostra una grande folla attorno ad una piattaforma rialzata, sotto un albero. La didascalia informa che la foto fu scattata “in occasione dell'appello fatto al popolo a favore della emancipazione degli schiavi e per l'abolizione della schiavitù. 28.XI.1924.”... proprio così!.. L'appello, continua la didascalia, cadde nel vuoto. E prosegue. “Fu promulgata una nuova legge per dichiarare la schiavitù un reato penale. Prevedeva un risarcimento per i proprietari di schiavi. Il governo del Nepal dovette spendere 3.670.000 rupie per il progetto di liberazione dell'intera popolazione schiava costituita da 59.873 persone. Il risarcimento fu pagato per 51.782 schiavi.” Facile immaginare la magnificenza della vita vissuta tra queste mura, pure c'è una fotografia che ritrae il disagio a cui tutti noi mortali non possiamo sfuggire almeno una volta nella nostra esistenza, re compresi. Il volto del re Tribhuvan è appoggiato sul palmo della mano, mentre sottili fili di fumo escono dalla sigaretta accesa. L'atteggiamento pensoso ci dà l'immagine di un re immerso nei propri pensieri. Gravi, suppongo. Di certo ha un'espressione assai lontana dall'immagine ricorrente. Fra le numerose foto esposte, una la trovo particolarmente interessante.

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Probabilmente fu scattata poco dopo l'arrivo a Kathmandu della spedizione britannica all'Everest nel 1953. Si vede il re Tribhuvan con ai lati John Hunt, il capo della spedizione, lo Sherpa Tenzing Norgay ed Edmund Hillary. Al di là dello storico evento colpisce, in particolare, l'espressione dei tre alpinisti. Hunt sembra indifferente. Tenzing sfodera un largo e smagliante sorriso – il bianco dei denti risalta ancora di più sul colorito scuro della pelle – mentre Hillary ha un'aria così stanca da non sembrare molto preso dalla cerimonia. Sono presenti molti oggetti personali di Tribhuvan. Il revolver. Il suo uccellino preferito impagliato. Ridotto ad uno scheletro tutto penne oramai, mi tocca leggere la nota sul fondo della gabbietta per capire che si tratta di un canarino. E ancora ritratti di re e regine. Si avvicina un custode e ci invita ad entrare in una stanza decisamente piccola dove, al centro, è visibile una bara. Ci tiene a farci notare che in quella bara il corpo di Tribhuvan fu trasportato in Nepal dalla clinica svizzera in cui si trovava. Memento di una sorte matrigna riservata ad un giovane re di appena 48 anni.

Al termine di un stanza lunga e stretta ci sono i due troni usati in passato nelle cerimonie di incoronazione. Su una parete spicca la foto dell'incoronazione di re Gyanendra, l'ultimo re del Nepal. Ad un tratto gli occhi di Renato, amico e compagno di (dis)avventure sulle montagne himalayane, sembrano illuminarsi. Mi guardo attorno. Ci troviamo nella sala delle armi. Renato è un appassionato esperto delle armi da fuoco e lunghe sono le conversazioni con le quali mi intrattiene ogni qual volta se ne presenti l'occasione. Il pezzo più importante della collezione credo sia il moschetto personale di Prithvi Narayan Shah, “usato per la riunificazione del Nepal”, come recita puntuale la didascalia. Ci sono schioppi tibetani e un cannone catturati durante la seconda guerra tibeto-nepalese nel 1854. Superata una tromba di scale giungiamo infine in una stanza ricca di puntoni di capriata, statuine in terracotta, sculture in pietra e legno e numerosi altri manufatti provenienti dai vari edifici del Palazzo Reale. Il salto storico all'indietro è notevole poiché all'improvviso si passa dal periodo della dinastia Shah all'arte ed alla architettura medievale dei Malla. Questi pezzi vogliono essere un campione, dato che molte sono le parti del palazzo da dove sono stati prelevati, ancora

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chiuse al pubblico. Da qui si accede direttamente al Nantaley Durbar, la torre di nove piani, eretta da Prithvi Narayan Shah nel 1770, meglio nota con il nome di Basantapur Durbar o “Palazzo della Primavera�.

Ritratto di Prithvi Narayan Shah il Grande 1722 - 1775

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* * *

19 JESTHA 2058 B.S.* secondo il calendario nepalese 1 GIUGNO 2001 secondo il calendario gregoriano

Palazzo Narayanhity, residenza della monarchia dal 1886, oggi sede di un museo dopo l'abdicazione del re e la fondazione della repubblica. Venerdì. È in corso una festa. Sono presenti tre generazioni di reali per trascorrere una tranquilla serata in compagnia al di fuori di ogni formalità ed ufficialità. Fra gli ospiti il re e la regina, la regina madre e i cugini. Ventidue convitati in tutto. Ma a poco più di un'ora dal loro arrivo alcuni di loro moriranno di morte violenta o saranno feriti da colpi di arma da fuoco. Il tragico fatto di sangue getterà nel lutto un paese intero ed il generale timore di una feroce cospirazione politica avrà come risultato scontri e tumulti nelle piazze che sconvolgeranno il Nepal nei giorni a seguire. Al centro del dramma troviamo il principe Dipendra, figlio del re Birendra ed erede al trono. Che cosa ha sconvolto la sua mente quel venerdì sera? Perché la festa si è tramutata in una tale tragedia nazionale?

_________________ *Bikram Sambat (B.S.), in vigore nel Nepal, di circa 56 anni e 8 mesi e mezzo più avanti del nostro.

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LE VITTIME DEL MASSACRO –

il re Birendra Bir Bikram Shah, anni 55

la regina Aishwarya, anni 51

la principessa Shanti, sorella del re Birendra, anni 59

il principe Nirajan, il figlio minore di Birendra e Aishwarya, anni 22

Dhirendra, fratello del re (ha rinunciato al titolo di principe), anni 51. Muore all'ospedale militare in seguito alle ferite riportate.

la principessa Sharada, sorella del re Birendra, anni 58

Kumar Khadga, marito della principessa Sharada

la principessa Jayanti, prima cugina del re Birendra, anni 54

la principessa Shruti, moglie di Kumar Gorakh, anni 24, figlia di Birendra e sorella di Dipendra. Muore all'ospedale militare in seguito alle ferite riportate. RIPORTANO FERITE

la principessa Shova, sorella del re Birendra, anni 66

Kumar Gorakh, marito della principessa Shruti, figlia di Birendra

la principessa Komal, moglie del principe Gyanendra, anni 64

Ketaki Chester, prima cugina del re Birendra (ha rinunciato al titolo di principessa) e sorella della principessa Jayanti AUTORE DEL MASSACRO Il principe ereditario Dipendra Bir Bikram Shah Dev, anni 29

Così la ricostruzione di quei momenti drammatici basata sulle testimonianze dei sopravvissuti e sui risultati dell'inchiesta da parte del governo, nel documentario della serie Zero Hour, The Royal Massacre, scritto, prodotto e diretto da Clive Maltby, 2006.

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L'intero dramma si consuma nell'arco di un'ora appena.

19:57 Un venerdì sera come altri. Festa in casa Dipendra. Fra i primi ad arrivare troviamo la principessa Shruti con il marito Kumar Gorakh e Ketaki Chester, prima cugina del re. Seguono alla spicciolata, via via tutti gli altri.

20:08 Tutti gli invitati sono presenti. Unica assente Devyani Rana, la donna che da tempo Dipendra corteggia e che vorrebbe sposare. Secondo alcune voci la famiglia ha idee ben diverse al riguardo e la regina Aishwarya è fortemente contraria al matrimonio. Perché? Devyani appartiene alla famiglia aristocratica Rana, potente dinastia verso la quale la famiglia reale Shah nutre antichi dissapori. I Rana, infatti, hanno dato al Nepal tutti i primi ministri ereditari con il titolo di Maharajah dal 1846 fino al 1951, riducendo la monarchia Shah a semplice prestanome. Inoltre le due famiglie hanno una lunga tradizione di matrimoni in comune ed il nuovo matrimonio avrebbe tra l'altro, come risultato poco piacevole, la condivisione del potere. Infine, sembra che anche il responso degli aruspici di corte non sia favorevole al matrimonio. Dipendra beve forte e fuma (hashish e marijuana). È chiaramente alterato. Viene accompagnato nella sua stanza, dal fratello il principe Nirajan ed il cugino il principe Paras.

20:22 Dipendra, disteso nel suo letto, riceve una telefonata dall'amata Devyani, ma non è in grado di rispondere. Borbotta e biascica parole senza senso. Ha 29 anni. Il suo “curriculum vitae et studiorum” è di tutto rispetto. Ha frequentato i primi anni di scuola a Kathmandu, poi ha proseguito gli studi nel prestigioso Eton college in Inghilterra. Grande appassionato di sport in generale, esperto di karate, ne diventa cintura nera a soli 20 anni. Tornato in patria, si iscrive all'università dove segue un corso di geografia e consegue la relativa laurea. Servizio militare nel Royal Nepalese Gurkha Army e brevetto di pilota civile.

20:39 Chiama Devyani e riesce a darle la buona notte.

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20:42 Indossa la divisa militare di fatica. Prende armi e munizioni: un fucile d'assalto Colt M16A2, un mitra H&K MP5K calibro 9 e un fucile Franchi SPAS-12. Per ciò che ha in mente è solo un problema di scelta. Possiede una ricca collezione personale di armi da fuoco; inoltre ha libero accesso all'armeria del palazzo. Ottimo tiratore, nei suoi discorsi fa spesso riferimenti alle armi fa fuoco che conosce perfettamente.

20:45 Per i suoi familiari, serenamente riuniti nella festa di un normale venerdì sera, il tempo sta esaurendo la sua corsa e corre veloce verso il baratro.

20:50 Esce dalla camera e si presenta alla festa vestito da militare, armato di tutto punto. Neppure il tempo di rendersi conto di che cosa stia per succedere. Partono i primi colpi. Il padre Birendra, è il primo a cadere. Il terrore paralizza i presenti. Dipendra esce ed entra a più riprese ed ogni volta impugna un'arma diversa. Il massacro è appena agli inizi. Spara a bruciapelo a Dhirendra, fratello del re e suo zio, che prova a farlo ragionare chiedendogli di consegnare le armi. Prossime vittime lo zio Kumar e la moglie, principessa Sharada, sorella del padre.

20:52 Viene allertato il personale addetto alla sicurezza del palazzo ma impiega minuti preziosi prima di poter intervenire. Intanto la principessa Shruti cade sotto i colpi del fratello. Morirà all'ospedale.

20:53 Tocca alla principessa Shanti, sorella del re. Poi alla principessa Jayanti. Dipendra appare concentrato e determinato nell'individuare i suoi obiettivi.

20:54 Dipendra esce dal palazzo. Il personale addetto alla sicurezza entra nella sala e presta le prime cure ai feriti.

20:55 Sulla scalinata che dà sul giardino, Dipendra uccide il fratello, il giovane principe Nirajan e la madre, la regina Aishwarya. Il tentativo coraggioso di farlo tornare in sé finisce tragicamente.

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20:57 Dipendra si spara un colpo alla tempia scrivendo di suo pugno la parola fine a tanta violenza. Quando le guardie arrivano, lo trovano a terra agonizzante. Ricoverato all'ospedale, viene proclamato re, in qualità di legittimo erede della corona. Morirà il 4 giugno, dopo soli tre giorni di regno. In quei tre giorni lo zio Gyanendra assumerà il ruolo di reggente e, alla morte del nipote, salirà al trono. Gyanendra Bir Bikram Shah Dev sarà l'ultimo re del Nepal. Il suo regno, nato da un tributo di sangue altissimo si concluderà esattamente il giorno 28 maggio 2008 con la proclamazione della Repubblica da parte del Parlamento.

Mi scuoto dalle immagini di sangue che il cervello ha rielaborato in un batter di ciglia e che la mente ha riportato a quei tragici avvenimenti del 2001. Ritorno alla realtà che mi circonda mentre proseguo il giro attraversando le due sezioni del memoriale dedicato a Birendra e Mahendra. L'edificio sul lato orientale di Nasal Chowk ospita il museo di memorie dedicato ai due re che forse maggiormente si distinsero nel loro rapporto con i sudditi, tanto furono rispettati ed amati. Al primo piano contiene numerosi e vari oggetti appartenuti al re Birendra Bir Bikram Shah. Sono visibili le fotografie, gli abiti indossati dal re in diverse occasioni importanti come il suo matrimonio ed incoronazione, le divise militari. E ancora i doni ricevuti in speciali occasioni da enti e privati, banconote e francobolli emessi durante il suo regno, certificati e medaglie. Regnò dal 1972 al 2001. Al secondo piano troviamo il memoriale dedicato al re Mahendra Bir Bikram Shah: abiti da cerimonia, divise militari, una ricostruzione dell'ufficio personale e doni di dignitari fra cui trovo interessanti un apparecchio radio ed un grammofono. Regnò dal 1955 al 1972.

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LA FAMIGLIA REALE

Da sinistra a destra In piedi La principessa Shruti Rajya Laxmi Devi Shah, 1976 – 2001 Il principe ereditario Dipendra Bir Bikram Shah Dev, 1971 – 2001 Il principe Nirajan Bir Bikram Shah Dev, 1978 – 2001 Seduti Il re Birendra Bir Bikram Shah Dev, 1945 – 2001 La regina Aishwarya Rajya Laxmi Devi Shah, 1949 - 2001

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* * * Forse i migliori esempi del livello eccelso raggiunto nell'arte e nell'architettura sotto il regno di Pratap Malla si trovano nei due piccoli cortili, sul lato settentrionale di Nasal Chowk, aperti di recente al pubblico. É la parte più antica dell'intero complesso del Palazzo Reale. Il primo dei due, Mohan Chowk, fu costruito nel 1650 come alloggio residenziale del re. Il commercio fiorente con il Tibet aveva portato a Pratap Malla una somma di quattro crore.* Seppellì il denaro e costruì il Mohan Chowk sopra di esso. Secondo la leggenda quel denaro è ancora sepolto nel cortile e la chiave per scoprirlo è nascosta nei versi arcani incisi sul muro esterno del chowk. Sono scritti in 15 lingue diverse e solo coloro in grado di comprenderli sono molto eruditi. Le credenze popolari aggiungono che solo per costoro dal cannello d'acqua lì accanto fuoriusciva il “latte”. Tesori d'altro genere si trovano anche all'interno. Il cortile si può definire un deposito dell'arte del periodo Malla. Ci sono dipinti e sculture in legno, pietra e terracotta. Qui venivano firmati i trattati tra i governanti e gli invitati del re. In passato solo il re, i familiari o altri capi di stato vi avevano libero accesso. Mohan Chowk, come dicevamo, abbonda di arte. Sculture in legno sono allineate lungo le pareti. L'uccisione dei demoni ad opera degli dei sono il motivo ricorrente. Alla base dei portici del cortile si notano formelle in terracotta con disegni in rilievo. Ci sono anche pitture murali sbiadite dall'azione inclemente del tempo. Ciò che maggiormente attira è il bagno dei Malla. Non è permesso scendere in quell'area. Sul fondo della vasca c'è una cannella dorata. Le teste di varie creature emergono una dalla bocca dell'altra prima di terminare nell'estremità che un tempo scaricava l'acqua proveniente dal Budanikantha. La vasca, sui quattro lati di circa tre metri e __________________ *Il crore è una unità del sistema di numerazione indiano usato anche in Nepal, pari a dieci milioni di rupie.

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mezzo di profondità, è ricca di figure in pietra che ritraggono re e personaggi mitici. L'antropologo Prayag Raj Sharma lo spiega in questi termini: «Le molteplici figure dei re sistemate nella vasca permettevano al re di vedere quasi tutti gli dei che invocava durante le abluzioni del mattino». Il cortile ha inoltre figure di mortali. Sulla parete del portico settentrionale del chowk sono dipinte alcune scene che rendono perplesso l'osservatore. Qui sono molte le scene che ritraggono l'attività quotidiana della vita di Pratap Malla. In una in particolare, un bambino guarda attraverso un telescopio. Sembra un anacronismo. In realtà è la testimonianza di un fatto storico. Durante il suo regno alcuni monaci cappuccini in viaggio verso Calcutta da Lhasa avevano soggiornato per un po' a Kathmandu. Uno di loro, un certo Padre Grueber, aveva mostrato al re, appunto un telescopio. Compaiono pure donne in abbigliamento occidentale ma nessuna spiegazione esiste fino ad ora. L'ingresso a nord di Mohan Chowk conduce nel secondo cortiletto, il Sundary Chowk, altro cortile residenziale fatto costruire e ad uso di Pratap Malla. Non possiamo entrarvi. Solo l'occhio può spaziarvi indisturbato. Le sue misure in lunghezza ed ampiezza non superano i nove metri. Il fondo è semplice e vuoto al confronto di Mohan Chowk. Pure il materiale iconografico che adorna il bagno non ha eguali. Si tratta di una scultura in pietra sbozzata da un unico blocco che raffigura Kaliya, il serpente tiranno sottomesso dal giovane dio Krishna. Pratap Malla aveva innato il colpo d'occhio per l'arte come pure le conoscenze da vero intenditore quale egli era. Aveva recuperato questa scultura da un rudere risalente al periodo dei Licchavi, giunti in Nepal dall'India Settentrionale nel 250 d.C. Vi regnarono, sembra, per circa 630 anni... gli storici infatti non sono concordi sulle date. Sotto la dinastia Licchavi la Valle di Kathmandu visse un lungo periodo di stabilità politica. Dobbiamo alle numerose iscrizioni su tavole in pietra recuperate se le gesta dei re di quel periodo sono arrivate fino a noi sotto forma di editti reali. Fedeli custodi di quei preziosi manufatti furono i templi sacri. Sono una miniera di informazioni che hanno permesso agli studiosi di formulare un quadro abbastanza completo della storia del Nepal in quegli anni lontani. Regnarono la pace e la prosperità. Prevalse la tolleranza religiosa. Se i Licchavi portarono con loro

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l'induismo e la suddivisione in caste della società, è altrettanto vero che nel campo dell'arte e dell'architettura in particolare, furono i primi ad introdurre lo stile a pagoda nei templi. Furono aperte nuove vie commerciali verso il Tibet. Le nozze tra la principessa nepalese Bhrikuti, di fede buddhista, con Tsrong-tsong Gompo, imperatore del Tibet, VII secolo secondo la tradizione, furono fondamentali nella divulgazione del Vangelo del Buddha in Tibet e in Cina. Un matrimonio di stato, diremmo oggi, con l'unico scopo di rafforzare i vincoli di pace o di non belligeranza con i regni confinanti. Così la civiltà e la cultura nepalesi uscirono dai confini della Valle di Kathmandu per diffondersi in India, Tibet e Cina. Per la efficace amministrazione, la pace e le relazioni amichevoli con i popoli confinanti il periodo Licchavi può essere giustamente ricordato come “l'Età dell'Oro” nella storia del Nepal. Poi, dopo un periodo di transizione in cui si alternano varie monarchie al potere - siamo nel XII secolo - toccherà ai Malla, provenienti anch'essi dall'India settentrionale, a reggere i destini del Nepal fino al XVIII secolo, con l'avvento della dinastia Shah... L'ISCRIZIONE DI PRATAP MALLA IN 15 LINGUE POSTA SUL MURO ALL'ESTERNO DI MOHAN CHOWK

…Spendere del tempo nel Palazzo-Museo di Hanuman Dhoka fa entrare in un mondo che ha impiegato secoli per vedere la luce... è come sfogliare le pagine del Grande Libro della Storia...

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Tapai ko naam ke ho?

Kathmandu – Besisahar (760m) – Chyamche (1430m) Mangalbaar, 22 Ashoj 2070 B.S. / Martedì, 8 Ottobre 2013 Ore 8:00. Siamo riuniti nella grande e confortevole hall dell'albergo. Saziata è la fame con una abbondante colazione self-service nella sala ristorante al piano terra. Pronte le capaci sacche con gli effetti personali, ricambi del vestiario, il saccopiuma e l'abbigliamento d'alta quota. Riunite in un angolo, attendono solo il gesto dei portatori per essere caricate sulle spalle. Seduti su morbidi sofà attendiamo l'arrivo del bus con destinazione Besisahar. Da qui continueremo il viaggio con le jeep fino a Chyamche, l'odierna meta. Presentazioni con i portatori. Faccio sfoggio della mia modestissima conoscenza della lingua nepali. Saluto con le mani giunte sul petto e... «Namaste. Meero naam Ruggero ho... Tapai ko naam ke ho?» «Salve. Sono Ruggero... Come ti chiami?» Il mio portatore si chiama Dawa Sherpa. Molto giovane. Probabilmente sotto i vent'anni. Il secondo nome, come di consueto in Nepal, indica l'etnia di appartenenza. Rivedo Khaji Sherpa, la guida già conosciuta in una precedente occasione. Sarà il sirdar

con funzioni di capo-carovana e responsabile dei

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portatori. Né può mancare il sorriso largo e pieno di Tshiring Ongel Sherpa, il prezioso collaboratore e dirigente della locale agenzia Sherpa Alpine Trekking Service. Si occupa infatti con serietà professionale della complessa macchina logistica di spedizioni e trek nel Nepal e nel vicino Tibet. Lo rivedo con grande piacere. Per me è come ritrovarmi fra amici di lunga data e ho la piacevole sensazione di sentirmi a mio agio come a casa mia. Il termine sherpa venne alla ribalta sulla scena internazionale con le prime spedizioni britanniche sul versante nord del Chomolungma – così i Tibetani chiamano il Monte Everest – negli anni '21, '22 e '24 del secolo scorso. Si fecero subito notare per le loro qualità naturali: intelligenti, precoci nell'apprendere, rapidi nelle decisioni, fedeli e sempre pronti all'azione. Tutte doti che, aggiunte ad un fisico robusto, resistente alle fatiche e temprato alle temperature estreme, derivavano loro da secoli di vita e frequentazioni delle alte valli himalayane. Furono subito grandemente apprezzati dagli Inglesi e dagli alpinisti venuti da ogni dove, dei quali divennero ben presto collaboratori preziosi ed inseparabili nella corsa agli 8000. Montanari da sempre, avevano infatti impressa nel proprio DNA la capacità di convivere con il freddo e sapevano muoversi con disinvoltura alle grandi altezze. Un nome su tutti: Tenzing Norgay Sherpa. Di umili origini, proveniva da un piccolo villaggio del Khumbu. Non sapeva leggere né scrivere. Pascolava gli yak sui terreni rocciosi e avari d'erba delle alte quote himalayane. Aveva lo sguardo mite ed il sorriso accattivante, perennemente stampato sulle labbra. Fu con Edmund Hillary, l'apicoltore neozelandese nella conquista della montagna più alta della terra. Calpestarono gli ultimi metri di neve sull'esile ed infida cresta che porta alla cima, dopo aver superato assieme difficoltà e pericoli d'ogni sorta. La profonda stima reciproca, di cui si era nutrito il loro rapporto, era tale che non vollero mai rivelare il nome di chi, fra i due, per primo aveva raggiunto la vetta. Era il 29 maggio del 1953. Oggi non c'è spedizione alpinistica che possa rinunciare all'aiuto insostituibile degli Sherpa in alta quota. Ed il nome di quel gruppo etnico di origine tibetana, trasmigrato a sud della dorsale himalayana, a partire dal 1600, è diventato nel tempo sinonimo di portatore. In realtà, oggi questo ruolo viene svolto per lo più da

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gente proveniente dai villaggi della cintura himalayana. Contadini che lasciano le proprie case per spostarsi più a nord, alla ricerca di un ingaggio nei mesi solitamente dedicati ai grandi trek himalayani. Il denaro così guadagnato è essenziale per le povere economie rurali basate tuttora principalmente sul baratto. È una attività ambita, in particolare dai giovani. Il Nepal è un paese costituito in gran parte da remoti villaggi di montagna. Inaccessibili per la cronica mancanza di strade. Tutto ciò che è necessario al loro vivere quotidiano, dal cibo al vestiario, dagli oggetti d'uso comune di ogni giorno ai materiali da costruzione per le abitazioni... tutto, ma proprio tutto, viene portato a spalla. Fin dalla più tenera età. Sono uomini e donne di ogni età, di etnia Tamang e Rai in particolare. Li vedi lungo i sentieri di montagna, piegati su se stessi sotto il peso di capaci gerle, o doko, fatte di bambù intrecciato ed assicurate sulla fronte da una fascia. Così il capo sopporta tutto il peso. Le vertebre cervicali compresse per lo sforzo. Spesso non posseggono neppure quella gerla, ma si adattano legando il carico sapientemente sulle spalle. I calzari sono un paio di ciabatte infradito che usano su ogni tipo di terreno. Sono persino veloci su terreno pianeggiante e in discesa. Fanno continue e brevi soste sul loro tokma – un curioso bastone a forma di T sul quale appoggiano il carico e prendono fiato. E nonostante la fatica hanno sempre tempo per un sorriso ed un amichevole namaste. Sherpa viene da Shar-pa e significa popolo-dell'est. Le maggiori aree di insediamento

sono

soprattutto

il

Solu-Khumbu

con

Namche

Bazaar,

comunemente ritenuta la capitale - la regione immediatamente a sud dell'Everest. Comunità minori si trovano lungo il corso del fiume Arun e nel Rolwaling, sempre a ridosso della catena himalayana, ad altezze che vanno dai 2500 ai 4000 metri ed oltre. Fino a poco tempo fa, erano principalmente dediti alla pastorizia e all'allevamento degli yak con i quali si spingevano fino ai 5000 metri di altitudine negli yersa, specie di alpeggi estivi. Coltivavano la terra, per quel poco di pura sussistenza che poteva loro

offrire. Patate, orzo, grano saraceno. In passato,

frequentavano la nota via carovaniera

che, attraverso il valico ghiacciato del

Nangpa-la a 5716 metri di quota, mette in comunicazione il Tibet con il Nepal. Guidavano interminabili carovane di yak, per il trasporto di sale, lana, cereali, e altri generi di prima necessità. Dall'invasione cinese negli anni cinquanta del secolo

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scorso, ciò non è più stato possibile. Da allora, molte cose sono cambiate. L'alpinismo in primis, ed il turismo escursionistico poi, sua naturale evoluzione, danno a loro un lavoro qualificato e sono fonte di reddito privilegiato. Intraprendenti, cordiali, generosi ed ospitali, hanno imparato a gestire la maggior parte delle agenzie di servizi operanti a Kathmandu. Offrono la loro provata esperienza sul campo, dalla prenotazione alberghiera alla completa logistica ed al corretto funzionamento delle spedizioni. E sono sempre loro che, nei mesi pre e post-monsonici, curano il collegamento tra il campo base ed i campi alti sulla via all'Everest, nell'area pericolosissima dell'Icefall, disseminata di profondi crepacci nascosti e torreggianti seracchi, guadagnandosi l'appellativo di Icefall Doctors. Più di 200 Sherpa hanno perduto la vita accompagnando gli alpinisti sulle montagne himalayane ed altrettanti hanno subito invalidità permanenti dovute a scariche di sassi, valanghe, cadute nei crepacci, congelamenti. Qualche utile dato sarà opportuno. Il 18 aprile 2014 una valanga, staccatasi dalla parete ovest dell'Everest a quota 5800 m, investì e seppellì presso il campo base 16 guide Sherpa. La stagione alpinistica era alle porte e, come di consueto, avevano il compito di mettere in sicurezza con corde fisse la via al Colle Sud. Solo 13 corpi furono recuperati. La tragedia fu all'origine del rifiuto di continuare il difficile e pericoloso lavoro da parte degli altri Sherpa. Per due motivi. Erano adirati con il governo nepalese per il misero indennizzo ai familiari delle vittime proposto e per rispetto alle vittime stesse. Per evitare in futuro eventuali valanghe da quel versante della montagna fu stabilito di spostare la via di salita lungo l'Icefall, più al centro della grande seraccata rispetto a quella in uso. E ancora. Il 25 aprile 2015 sarà ricordato da tutti i Nepalesi come il giorno del grande terremoto che sconvolse la Valle di Kathmandu e le aree limitrofe, causando morte e distruzione. Neppure l'Everest fu risparmiato. Una lunga serie di scosse, di cui la più forte di magnitudo 7,8, sconvolse il campo base, sul quale piombò una enorme massa di neve, ghiaccio e massi, staccatasi questa volta dal Pumori, 7161m, un satellite dell'Everest. Secondo NMA, il Club Alpino Nepalese, i morti furono 19 di cui 10 erano Sherpa. Questa volta fu il governo stesso, dopo non poche esitazioni, ad interdire l'accesso agli scalatori. Per la seconda volta

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consecutiva nessuno scalò la Grande Montagna, la Dea Madre della Terra. Ed infine, ancora uno Sherpa, Phurba Tashi, un nome poco noto ai non addetti ai lavori, detiene il primato di 34 salite oltre gli 8000 metri e condivide il record di 21 salite all'Everest con Apa Sherpa, di 11 anni più giovane.

Foto di copertina del supplemento a colori di 24 pag. del quotidiano britannico THE TIMES settembre 1953. Così recita la didascalia: COMPAGNI NELLA CONQUISTA SIR EDMUND HILLARY E TENZING NORGAY CHE INSIEME HANNO SALITO L'EVEREST VENERDÌ 29 MAGGIO 1953

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L'attrezzatura del portatore è semplice ma efficace. Essa consiste di una gerla (doko) fatta di bambù intrecciato, assicurata alla fronte tramite una fascia o cinghia. È il capo che sopporta tutto il peso, il quale può arrivare fino ai 40kg. un bastone, anch'esso di bambù, a forma di T (tokma), sul quale appoggiano il carico per riprendere fiato. ed un paio di ciabatte infradito che usano su qualsiasi terreno. [qui nei pressi del campo base del Makalu]

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Namche Bazaar (3440m – 1540 abitanti, secondo il censimento del 2011), nel distretto del Solu-Khumbu, è un centro turistico commerciale notevole. Situato su una piana a forma di ferro di cavallo, in bilico sulla valle del Bhote Khosi, è considerato la porta d'accesso all'Everest. Qui alpinisti ed escursionisti sostano per due notti ai fini di una buona acclimatazione per prevenire il pericoloso “Male di montagna”. Abbondano i negozi ed i negozietti che espongono i loro articoli anche all'esterno, nella pubblica via. Vi si trova di tutto. È possibile non solo acquistare ma anche noleggiare abbigliamento ed attrezzatura da montagna. Non mancano l'ufficio postale, abbastanza affidabile, gli Internet Café ed una favolosa pasticceria, assai nota nell'ambiente, la German Bakery. Ottimi il cappuccino e lo strudel. Vi è pure la sede del Sagarmatha National Park. Capitale degli Sherpa e sede amministrativa del Khumbu è un cantiere a cielo aperto, in enorme espansione soprattutto negli ultimi anni. Famoso il mercato, solo di sabato fino a qualche tempo fa. Oggi lo si può frequentare ogni giorno. Vi si trovano articoli di vestiario in particolare e a prezzi veramente stracciati. La merce è semplicemente esposta su dei teli per terra. I venditori sono tibetani che qui portano i loro articoli a dorso di yak attraversando il Nangpa la, un alto colle a quasi seimila metri di quota, colle che permette di scavalcare la catena himalayana e di collegare il Khumbu con il Tibet.

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* * * BESISAHAR. Grosso centro di quasi 27.000 abitanti, censimento del 2011. Capoluogo del distretto di Lamjung, situato nella zona di Gandaki. Altitudine 760 m sul livello del mare. Sede municipale con scuole ed istituti di ogni ordine e grado. Campus universitario associato alla Università Tribhuvan di Kathmandu. Ospedale e poliambulatori. Abbiamo lasciato la vasta e caotica periferia di Kathmandu, prodiga di continui blocchi del traffico, a causa delle lunghe file di camion in entrata ed uscita. Imboccata la Tribhuvan Rajpath, abbiamo preso poi la Prithvi Highway, la carrozzabile che collega la capitale del Nepal con la città di Pokhara. È un'arteria importantissima per i collegamenti est-ovest del paese. Lunga 206 km e costruita con l'aiuto cinese nel 1974, ha avuto un ruolo importantissimo nella modernizzazione del paese ed ha contribuito notevolmente allo sviluppo della città di Pokhara, oggi ritenuta, a ragione, la seconda meta turistica più importante, dopo Kathmandu. Il fiume Trisuli, che scorre parallelo ad essa per un lungo tratto, è un forte richiamo per gli amanti del rafting che sulle sue acque tumultuose trovano un ottimo terreno di gioco. È spesso soggetta, come tutte le strade del Nepal, a frane di roccia e fango nel periodo monsonico. Il traffico è notevole. Dalla mia postazione privilegiata accanto al finestrino in prima fila, la strada scorre a serpentina seguendo il profilo dei crinali e delle profonde valli che si susseguono ininterrottamente. Un'altalena senza fine. Scendiamo di quota. Me ne accorgo anche dal paesaggio che sfila al mio fianco. I boschi hanno ceduto il passo alla campagna antropizzata. Le collinette coltivate a riso sui campi terrazzati e degradanti sono punteggiate qua e là da grosse fattorie e da abitazioni, assai più modeste, con il tetto di fango e paglia. Qui la terra è intensamente coltivata ed in modo sostenibile. Nulla va perduto. Il foraggio che si ricava dalle aree verdi serve da alimento per il bestiame. Di macchinari agricoli neppure l'ombra. Buoi e bufali aiutano l'uomo nel duro lavoro dei campi. Forniscono il latte ed il letame per la concimazione. Le capre, i polli ed i maiali si cibano degli scarti e danno la carne e le uova. Perfino i cani randagi sono tollerati perché fanno piazza pulita di ogni sorta

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di rifiuti. Tale ciclo produttivo è sufficiente a fornire ai contadini una buona percentuale delle loro esigenze alimentari. La parte eccedente viene scambiata con altri generi di prima necessità, sale, zucchero e così via. Il baratto per molti è tuttora una risorsa.

Sono passate più di sei ore dalla partenza, inclusa la breve sosta per una abbondante razione di riso e lenticchie o dal bhat, tradizionale piatto della cucina nepalese. Il bus ci ha appena scaricati sul marciapiede davanti all'ufficio per il rilascio dei trekking permit. Portatori, guide, sacche e zaini compresi. Con le gambe ancora indolenzite per le lunghe ore di viaggio, stretti negli angusti sedili, tentiamo alcuni passi incerti, giusto per facilitare la circolazione del sangue agli arti inferiori. Aspettiamo Khaji. È occupato con il rilascio dei permessi. L'operazione richiede tempi lunghi. Controllati i passaporti, per ciascuno vengono dati due documenti rilasciati dal Ministero degli Interni. Su di essi, oltre alla foto tessera e ai dati anagrafici, spiccano le date di accesso e di permanenza nell'area che intendiamo visitare, con indicazioni precise sul percorso. Vanno custoditi gelosamente e sempre presentati presso i vari checkpoint che incontreremo.

Besisahar. L'ufficio dove si rilasciano i trekking permit.

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La tappa di trasferimento di oggi non è conclusa però. Proseguiremo a bordo di due jeep. Una corsa massacrante su pista stretta, fangosa, sconnessa, con continui sobbalzi e scossoni su terreno disagevole, alta sulla valle, dove scorrono le acque tumultuose del fiume Marsyangdi. La luce incerta della tarda sera ci coglie a Chyamche o Chamje, dipende dalla grafia che può variare. Quattro case. Due hotel. Telefono e pronto soccorso. L'essenziale. Fra i due alberghi, il Tibet Lasha Hotel ed il Chyamche Hotel, ci tocca il secondo. Con terrazza ristorante, recita l'insegna a caratteri rosso sangue. In realtà la scritta si rivelerà alquanto pretenziosa. Non mi lamento comunque. Conosco perfettamente quale sia il concetto di hotel da queste parti.

Chyamche (Chamje), 1430m – Dharapani, 1860m – Koto (Kyapur), 2600m Budhabaar, 23 Ashoj 2070 B.S. / Mercoledì, 9 Ottobre 2013 CHYAMCHE. Ancora una giornata di bel tempo. Oggi abbiamo in programma tre ore di cammino fino a Dharapani con sosta per un dal bhat e poi in jeep fino a Koto. Sulla carta sono circa 26 chilometri. Lo spirito è positivo e la voglia abbondante. Nell'attesa della partenza, quattro passi sull'unica via centrale lastricata, dove si affacciano le poche case, sono un buon risveglio per il corpo ancora intorpidito dalla notte. Una donna sull'uscio di casa nell'atto di uscire, un giovane seduto su scalini di pietra, un uomo ritto in piedi, con le braccia conserte dietro alla schiena ed un grosso cane nero, sono gli unici attori che animano la scena. Mi incuriosisce lo strano muro di roccia all'inizio del villaggio, che sembra schizzare fuori dal verde che lo circonda. Alla base presenta una profonda rientranza, la parte interna annerita dal fumo. Mi dicono che lì un tempo sostavano e trascorrevano la notte i portatori con i carichi di riso provenienti dalle colline nepalesi da barattare con il sale dal Tibet. Tale commercio, che da sempre si serviva degli alti passi che portano oltre la catena himalayana, è continuato fino alla fine degli anni cinquanta, quando, dopo l'invasione cinese, ciò non fu più possibile. Qualcuno vi ha eretto un muricciolo in pietra, sassi e materiali di fortuna a delimitare una piccola area. Così, protetto dal tetto naturale della roccia, è stato

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ricavato uno spazio utile per accatastare delle tavole ed approntare un banco attorno al quale qualcuno è già al lavoro con degli arnesi da falegname.

Sopra: Chyamche alle prime luci del mattino con il Chyamche Hotel. Sotto: il falegname all'opera nella sua bottega sotto una sporgenza della roccia.

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Siamo pronti a muoverci. Prendo lo sterrato davanti a me, supero il piccolo pronto soccorso, poco più che una modesta costruzione con le pareti in pietra e legno, dove spicca la scritta MEDICAL – HALL, con tanto di numero telefonico per le emergenze. Seguiamo la carrozzabile, abbastanza larga per far passare un veicolo. A metà circa della imponente parete che chiude la vista a nord, si indovina, alta, una ferita quasi orizzontale. Di là passa la strada. Due anni fa non esisteva ancora. Mi trovavo, come oggi, da queste parti. Lasciata Chyamche, avevo però preso il sentiero che con ripida pendenza scende a fondo valle. Superato il ponte sospeso sulla Marsyangdi Khola avevo risalito l'incerta traccia sulla sponda opposta sinistra del fiume e ammiravo, quasi intimidito, quella possente parete. Allora notai, aggrappati alla roccia, alcuni operai. Stavano praticando dei fori per le mine. Ricordo che rimasi stupito per il loro coraggio e fatica nel lavorare in quelle condizioni, senza alcuna protezione. Stavano completando la strada che doveva congiungere Besisahar con Manang, molti chilometri più a nord, verso il confine con il Tibet. Oggi, ormai completata, mi ritrovo a percorrerla. Mi avvicino al ciglio e lo sguardo scivola verso il basso. Sul fondo della piatta valle, racchiusa fra precipiti montagne, dove il fiume rallenta la propria corsa e indugia in un'ampia ansa tra sabbie e ciottoli bianchi, splendenti nel sole del mattino, giace Tal. Parzialmente in ombra, il villaggio conserva tuttora l'aura misteriosa di Shangri-La, il mitico luogo sperduto tra le montagne dell'Himalaya, sospeso tra lo spazio ed il tempo. Cambiata la prospettiva, allora vi giunsi da sotto, oggi da sopra, ma l'effetto magico di quella visione permane.

Usciti da Chyamche, prima di affrontare la salita che porta in quota, superiamo una grande cascata... con relativo guado.

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La parete a picco sulla Marsyangdi Khola con la strada scavata nella roccia a colpi di piccone e scoppi di mine. Una lunga ferita trasversale. La pista è adatta solo ai veicoli 4x4. Qui sono richiesti nervi saldi e riflessi pronti per chi si trova alla guida dell'automezzo.

Un'occhiata alle mie spalle e mi accorgo di non essere seguito. Succede. Si parte assieme, poi ciascuno tende a seguire i propri ritmi di cammino. Se lo stare con gli altri è piacevole ed aiuta la socializzazione, muoversi in solitaria acutizza i propri sensi e ti fa sentire più a contatto con l'ambiente che ti circonda, quasi in simbiosi.

Così, arrivato all'altezza di Karte, anziché continuare per la strada,

attraverso l'ennesimo ponte sospeso, alto sul fiume e mi trovo sull'altra sponda. Karte è solo uno sputo di case con l'immancabile lodge per i trekker, appiccicato sulla riva, con poco altro attorno. Mi è venuta la voglia di ripercorrere il vecchio sentiero che porta a Dharapani, trenta minuti buoni. Come prevedevo, non incontro nessuno. La traccia che si snoda fra arbusti e radi alberi è più disastrata che mai. Non la ricordavo così. L'area, soggetta a frane, particolarmente nella stagione monsonica, sembra abbandonata. La solitudine è totale. Unica compagnia il rombo di tuono che mi giunge dalle acque spumeggianti e tumultuose della Marsyangdi Khola. Scorre esattamente sotto ai miei piedi e si lascia scorgere di tanto in tanto tra piante ed enormi massi. Anche il ponte che infine mi riporta sulla riva destra presenta segni di abbandono. Poi una breve e ripida mulattiera mi ricongiunge alla strada. E subito trovo il Tashi Delek Hotel, il lodge previsto per la sosta per un lunch leggero e veloce. Nell'attesa del gruppo, ne approfitto per gratificarmi con un paio di tazze di caldo the. DHARAPANI a 1860m sul livello del mare, nel distretto di Manang, si trova alla confluenza di due fiumi, Marsyangdi e Dudh Khola. Inoltre, qui si congiungono i trek per il Manaslu e per l'Annapurna, ottava e decima montagna più elevata del

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pianeta, rispettivamente. La sosta per il controllo dei permessi presso il checkpoint dell'ACAP è lunga, come al solito. Ho tutto il tempo per osservare da vicino alcuni manifesti. Di grandi dimensioni, con parole e disegni dai colori brillanti, non sfuggono di certo all'attenzione. Il testo in lingua nepali è scritto con i caratteri dell'alfabeto devanāgarī, tipico non solo del Nepal, ma anche di diverse lingue dell'India. È a cura di USAID (U.S. Agency for International Development), una agenzia governativa che gestisce gli aiuti internazionali civili degli Stati Uniti, nata nel 1961 per iniziativa del presidente John F. Kennedy. Collabora con i governi locali, con i privati e le comunità in progetti di aiuto e supporto in vari campi. Qui il messaggio è chiaro e finalizzato a promuovere comportamenti igienico-sanitari corretti nelle aree rurali, dove il concetto di igiene personale è pressoché sconosciuto. In breve, si tratta di eradicare la comune pratica di espletare i propri bisogni corporali all'aperto, causa principale di gravi infezioni intestinali e di alta mortalità infantile al di sotto dei cinque anni. Il primo passo è la costruzione di latrine ad uso dei singoli nuclei familiari e di indurre abitudini e gesti sconosciuti ai più. Fra tutti, il lavarsi le mani con il sapone frequentemente, non solo nei momenti in cui si è maggiormente esposti a pericoli infettivi, ma anche prima di mangiare o di nutrire i bambini piccoli – molto comune in Nepal è l'uso delle mani anziché delle posate, nel portare il cibo alla bocca...

Dharapani: il checkpoint. Sosta obbligata per il controllo dei trekking permit.

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Non può passare inosservato il messaggio pubblicitario a cura di USAID e governo locale per un corretto comportamento igienico-sanitario. Nelle aree rurali e montuose il concetto di igiene personale è pressochÊ sconosciuto.

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IN NEPAL É ANCORA MOLTO COMUNE PORTARE IL CIBO ALLA BOCCA CON LE MANI.

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‌ Ora possiamo proseguire con la jeep fino a Koto, destinazione finale di oggi. Con noi viaggiano le pesanti sacche, mentre i portatori, liberi da ogni peso, potranno salire tranquillamente a piedi.

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Una vecchia cartina con la posizione dei villaggi di Nar e di Phu nel distretto di Manang. Da: An Ethnographic Note on Nar-Phu Valley di Nareshwor Jang Gurung, in Kailash - A Journal of Himalayan Studies, Vol.V No.3 1977

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Nar-Phu la Valle Perduta Koto (Kyupar) 2600m – Meta (Methang) 3560m Bihibaar, 24 Ashoj 2070 B.S. / Giovedì, 10 Ottobre 2013 A KOTO risiede una piccola comunità, composta da poche decine di case, le une incollate alle altre, ai due lati di una pista in terra battuta, pronta a trasformarsi in un acquitrino fangoso ad ogni pioggia che il buon cielo manda. Un paio di lodge, alcuni negozietti con generi di prima necessità per i trekker di passaggio, e un minuscolo

posto

di

polizia,

completano

l'insediamento

umano.

Cena,

pernottamento e prima colazione allo Snowland Hotel & Restaurant che, fra l'altro, offre docce calde ad energia solare, come recita una grande scritta in bella mostra. A trenta minuti di cammino

si trova Chame, grosso centro abitato e centro

amministrativo del distretto di Manang, con una banca, l'ufficio postale, il pronto soccorso, molti negozi ben forniti, internet café, scuole di ogni ordine e grado fino ai 18 anni di età ed una importante stazione di polizia. Ci siamo svegliati dopo una notte di buon riposo e il nuovo giorno che avanza, reso ancora più luminoso dal sole splendente nell'azzurro intenso del cielo, mette addosso il buonumore. Dalla finestra della stanza a due, poso lo sguardo su alcuni alberi da frutto, dai cui rami pendono piccole mele. Sembrano mature mentre il desiderio di addentarne qualcuna sale spontaneo alla bocca. Sollevo gli occhi ed il bianco abbagliante delle cime innevate del Lamjung Himal (6983m) e dell'Annapurna II (7937m) di fronte mi costringe velocemente ad abbassare le palpebre.

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Siamo pronti. Breve sosta presso il checkpoint per il controllo dei documenti, passaporto e trekking permit, ed imbocchiamo la traccia verso nord che ci porterà fino ai confini con il Tibet, nella “valle perduta” (beyul) di Nar-Phu. Il sentiero scende subito con notevole pendenza tra conifere secolari. Il grande pannello colorato su sfondo nero in lingua inglese non può non attirare l'attenzione. NAR-PHOO - UN'ESPERIENZA INDIMENTICABILE NUOVA AREA APERTA DI RECENTE AI TREKKER. SONO AMMESSI SOLO GRUPPI ORGANIZZATI. LO SPECIALE PERMESSO È RILASCIATO DAL DIPARTIMENTO DELL'IMMIGRAZIONE CON SEDE A KATHMANDU. INIZIO A KOTO E TERMINE A NGAWAL. GUIDE ESPERTE LOCALI SONO DISPONIBILI A COSTI RAGIONEVOLI. LE AREE DI SOSTA LUNGO IL PERCORSO SONO SOGGETTE ALLE REGOLE E ALLE NORME DELLE COMUNITÀ LOCALI. SI RACCOMANDA UN COMPORTAMENTO DI MINIMO IMPATTO SULL'AMBIENTE COSÌ COME STABILITO DALL'ACAP.

Segue uno schizzo dell'area interessata con relativa legenda, utile ad individuare sentieri, ponti, fiumi, aree di sosta, sorgenti calde, insediamenti umani, monasteri e passi.

KOTO: la cucina dello Snowland Hotel & Restaurant. Sullo sfondo il bianco abbagliante del Lamjung Himal.

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Dopo il consueto controllo dei documenti al checkpoint di Koto, imbocchiamo il 'gate', la porta di accesso alla valle perduta di Nar-Phu.

Ma... prima di proseguire... vediamo di chiarire il termine beyul al di là del significato letterale di “valle perduta”. È un concetto complesso che trova la sua origine in una delle più antiche sette buddhiste, i Nyingmapa ovvero “Gli Antichi”. Secondo la tradizione, l'ispiratore fu Padmasambhava, il “Nato dal Loto”,

un

monaco buddhista vissuto nell'ottavo secolo. Indiano per nascita, è ritenuto il primo e più importante diffusore del Buddhismo in Tibet, dove è conosciuto con il nome di Guru Rinpoche, cioè “Prezioso Maestro” ed è venerato dai suoi seguaci come il secondo Buddha. Nelle sue peregrinazioni, trascorse lunghi periodi in meditazione in alcune vallate remote della catena himalayana dove nascose dei “tesori”, insegnamenti sotto forma di testi religiosi ed oggetti sacri. Per proteggere quei luoghi, promosse a divinità le forze protettrici della natura che si manifestano sotto forma di tempeste, di nebbie e addirittura di leopardi delle nevi. Testi buddhisti affermano che i beyul saranno scoperti quando per il nostro pianeta si avvicinerà la distruzione ed il mondo diverrà troppo corrotto per dedicarsi alle pratiche spirituali. Parlano quindi di vallate che sanno di paradiso, raggiungibili solo con grande fatica ed enormi sofferenze. I pellegrini che colà si recano narrano di esperienze al di là di ogni comprensione umana, simili a quelle vissute dai praticanti spirituali

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buddhisti sulla via della Liberazione. Attenzione, però. Non tutti possono aspirare al successo in questa personale ricerca spirituale. Puoi fallire l'obiettivo e morire. Ti puoi avvicinare solamente se hai buoni propositi, accompagnati da profondi e sentiti principi morali. Sarai in grado di vedere il mondo in modo diverso da come appare ai comuni mortali, svilupperai e accrescerai le virtù buddhiste della saggezza e della compassione. La vita nei beyul è sacra. Qui si vive in armonia con la natura... Personalmente trovo molto interessante questo accostamento tra i valori spirituali da perseguire e l'amore per la Natura.

La valle di Nar-Phu confina con il Tibet, nella parte più remota del distretto di Manang, ad una quota compresa fra i 3820m e gli 8092m sul livello del mare. Aperta nel 2003 agli occidentali, neppure il governo nepalese ne conosceva l'esistenza fino agli anni settanta del secolo scorso. E fu per caso, sembra. Qualcuno infatti a Phu aveva scaricato nelle acque della Phu Khola del grano. Il grano, galleggiando, seguì la corrente finché, dopo alcuni chilometri più a valle, qualcuno lo notò. Poiché nessuno si aspettava che ci fosse vita nella direzione da cui proveniva, furono fatte ricerche che portarono alla scoperta della valle perduta (beyul). Una leggenda? Chissà... Oggi vi si accede solo con un permesso speciale del costo di $90 per una settimana. Un sentiero la congiunge a sud con Chame, la capitale del distretto, a tutt'oggi la via di collegamento più usata. Una seconda via supera il Kang La (5306m) ad ovest, impraticabile durante i mesi invernali. Ed una terza la collega alla regione del Mustang a nord ovest tramite il passo Saribung La a 5602m. Due sono i villaggi: Nar (4110m) e Phu (Phoo, a seconda della grafia, 4080m). Phu si trova a circa 10 km a nord di Nar. La popolazione totale, in base all'ultimo censimento del 2011, è di 538 anime, a maggioranza femminile, di cui 176 a Phu e 362 a Nar. In netto calo rispetto al censimento del 1971 che dava 850 abitanti in tutto. Parlano un dialetto locale, diverso da quello delle popolazioni confinanti. I due villaggi presentano caratteristiche assai simili. Le case sono strette le une alle altre, con il duplice scopo di proteggerle dai venti che soffiano regolarmente tutto l'anno e per alleviare i disagi agli abitanti durante i mesi invernali, quando le abbondanti nevicate ricoprono ogni cosa. La maggior parte è a

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due piani. Al primo si trovano la cucina, la dispensa/magazzino e la camera da letto. Al piano terra trovano riparo gli animali, il fieno e la legna per il focolare. Il tetto è piano e serve da cortiletto. Poche sono le case ad un piano. Né mancano i monasteri buddhisti, naturalmente, tre a Nar e due a Phu. Sono della setta non riformata Nyingmapa o dei “berretti rossi”, di cui raccontavamo prima, mentre il Dalai Lama appartiene alla setta riformata dei Gelugpa o dei “berretti gialli”, tanto per capire. Il terreno attorno ai due villaggi è terrazzato e coltivato con orzo e patate. Nei mesi più freddi, dicembre – febbraio, molti sono coloro che scendono a quote decisamente più basse. I due villaggi sono un esempio di insediamento stagionale, tipico di tutta l'area himalayana confinante con il Tibet. Chi rimane, poche persone in tutto, si prende cura degli animali e delle abitazioni. Di solito gli anziani, ma non solo. Coloro che possiedono appezzamenti di terreno a quote inferiori, si spostano in quelle aree anche durante la semina (marzo – maggio) e durante il raccolto (luglio – novembre). Tradizionalmente, l'economia della valle si orienta soprattutto verso l'agricoltura e l'allevamento del bestiame. L'alta quota e la limitata superficie di terreno coltivabile sono in grado di fornire cibo per quattro mesi all'anno soltanto. L'allevamento del bestiame diventa così la principale attività a sostegno dell'economia locale. Il commercio è sempre stato di secondaria importanza, anche quando le vie commerciali dal Nepal verso il Tibet e viceversa, rivestivano un ruolo vitale altrove. Perciò, la forte riduzione degli scambi commerciali al di là della catena himalayana, avvenuta negli anni '60, è stata del tutto ininfluente. Gli abitanti di Nar-Phu sono costretti ad acquistare frumento, orzo, grano saraceno, riso, mais e miglio dalle vallate coltivate a quote più basse. Queste vallate danno ancora possibilità di lavoro stagionale agli abitanti di Nar-Phu che possono scegliere fra un pagamento in rupie o in generi alimentari: frumento, orzo, mais... appunto. Esiste anche una forma di commercio ad impronta strettamente locale. Le coperte e i tappeti di lana di yak e di capra ed i prodotti caseari sono venduti sui mercati vicini oppure dati in cambio di granaglie. Ma all'orizzonte si profila una nuova attività molto promettente. Nar-Phu si trova al centro di un'area dove prospera un particolare fungo che cresce sulla larva mummificata di una farfalla. La raccolta di questo fungo impegna tutta la comunità

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locale poiché si sta rivelando un'ottima fonte di guadagno. Ricercatissimo dalla medicina cinese per le sue eccezionali proprietà afrodisiache, raggiunge sul mercato prezzi elevatissimi, superiori all'oro stesso. In lingua tibetana si chiama Yar-che-Gun-bu, cioè 'erba-estiva-verme-invernale' ed è meglio noto come il 'Viagra himalayano'. In realtà non è un'erba e neppure un verme. Si tratta della larva di una farfalla del genere Thitarodes, che, sviluppandosi nel terreno, viene infettata dalle spore di un fungo parassita, Ophiocordyceps sinensis. Il fungo divora il corpo del bruco lasciandone intatto solo l’esoscheletro ed in primavera, in corrispondenza di quella che era la testa del bruco, si sviluppa e dal terreno spunta un piccolo stelo di colore marrone. Lungo appena qualche centimetro, difficilissimo da scorgere, sono necessari occhi attenti ed allenati. Ed una buona dose di pazienza, dato che la sua individuazione richiede lunghe ore, chini ed inginocchiati, sotto il sole ed esposti al vento delle praterie d'alta quota. Se ne ha notizia, addirittura, in un testo di medicina tibetana del tardo XV secolo, dal titolo “Oceano di qualità afrodisiache”, in cui vengono evidenziate le sue eccezionali proprietà terapeutiche e afrodisiache. Verso la fine di maggio, un certo fermento coglie gli abitanti della valle. Le case si svuotano, le scuole chiudono, ragazzi e adulti sono impegnati su per le balze montuose, dove sorgono accampamenti qua e là. La raccolta inizia di primo mattino. Scrutare i prati, ancora bagnati per la rugiada della notte, alla ricerca degli steli preziosi degli yarchagumba è come trovare un quadrifoglio. Appena ne viene individuato uno, chini e ginocchioni, scavano delicatamente attorno al gambo individuato e con uno speciale attrezzo lo estraggono, avendo cura di non danneggiarlo. Allo scadere del giorno puliscono gli yarchagumba disseccati con uno spazzolino. Nei casi più fortunati, il singolo può arrivare a coglierne anche un centinaio in una giornata. È un lavoraccio, ma l'atmosfera è gioviale, da giocosa competizione. Chi ne avrà raccolti di più? Dopo il lavoro si beve chhang, la birra di miglio fatta in casa, si intonano canti, si sta assieme. Talora, nei campi più affollati, nascono come funghi, è proprio il caso di dirlo, improvvisate vendite dei prodotti tipici della cucina locale, riso, tagliolini... per i giovani è una delle rare occasioni di incontro. Amicizie. Simpatie. Amori. Si combinano matrimoni. Insomma l'atmosfera ricorda le nostre care e vecchie sagre di paese di un tempo! Le reazioni a questo nuovo modo di vita sono però

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contrastanti. Alcuni pensano che lo yarchagumba abbia poteri nefasti per chi lo commercia. Gli ambientalisti temono il forte impatto di questa nuova corsa all'oro: potrebbe alterare il fragile ecosistema alpino e una raccolta indiscriminata potrebbe portare all'estinzione di questa bizzarria della natura. Altri ancora confessano di non avere alcuna idea al riguardo, dato che il fenomeno è recentissimo e non ci sono studi specifici in merito. La loro raccolta potrebbe anche, perché no, favorire la dispersione delle spore, aumentandone l'areale di distribuzione.

▲Esemplare di Yar-che-Gun-bu © 2016 GreenMe.it ◄Campo di raccoglitori del prezioso fungo nell'area di Phu. Foto di Ramji Rana © 2016 The Himalayan Times

Sembra che non porti solo buona fortuna, però. Nar-Phu fu al centro di un feroce crimine nell'estate del 2009. Alcuni contadini Gurkha, venuti dall'est, si erano recati di nascosto a raccogliere il prezioso fungo. Gli abitanti di Nar-Phu li colsero sul fatto e, armati di pietre e bastoni, li assalirono. Fu un massacro. I sette Gurkha, cinque dei quali non ancora ventenni, furono uccisi ed i loro corpi fatti a pezzi. Dopo l'orrendo crimine, si accordarono per non rivelare a nessuno quello che era successo. Trascorso un mese, la storia venne fuori e giunse agli orecchi della polizia di Chame. La polizia si recò lassù, scoprì alcuni resti dei corpi ed arrestò settanta uomini, all'incirca l'intera popolazione maschile. Parte di loro, furono portati a Chame e rinchiusi in un locale della scuola, in attesa del processo. Qui, infatti, non c'è mai stata una prigione: il crimine è pressoché sconosciuto alla popolazione, prevalentemente buddhista e non-violenta per tradizione. Il processo, tenutosi nel novembre del 2011, si è concluso con sei ergastoli e tredici condanne a due anni di reclusione.

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* * *

Procediamo in una gola. I portatori sono già partiti. Il sentiero, scavato nella roccia, segue la destra orografica della Naar Khola. Il fiume scorre rombando alcuni metri al di sotto. Sulle nostre teste incombe perpendicolare un'alta parete. Camminiamo in pieno sole. In fila indiana. Ce lo impone l'esiguità del terreno su cui poggiamo i piedi. La riva orografica sinistra è ancora immersa nell'ombra del primo mattino. Scesi a livello del fiume, attraversiamo il primo ponte sospeso. Altri quattro seguiranno per passare da una sponda all'altra. La radura nella foresta di pini è un invito ad una breve sosta per uno spuntino. In altri momenti sarebbe l'ora del pranzo. Ciascuno consuma i generi di conforto di cui dispone: biscotti, frutta secca e fresca, cioccolato. Ci sistemiamo alla meglio, qua e là. Disteso supino a terra per alcuni lunghi minuti, le braccia distese, il mio sguardo individua un piccolo specchio di cielo azzurro dove confluiscono piccole nuvole come fiocchi di bianca bambagia, tra le verdi cime frondose delle piante. Il tenue profumo di resina impregna l'aria che respiro. Non mi sono mai sentito così rilassato e parte integrante della natura, come in questo momento. Superiamo Chhongche Cave. I segni lasciati dai fuochi da campo testimoniano che la caverna, in realtà una rientranza nella parete rocciosa fra gli alberi, è un punto sosta delle rare comitive che passano da queste parti. Poi una grande cascata sembra inghiottire il sentiero. Protetto dalla parete strapiombante, forma un tunnel naturale e permette il passaggio. Segue Dharmasala o Dharamshala. La grafia sulle carte, come abbiamo già avuto occasione di notare, cambia a causa della traslitterazione dal devanāgarī, l'alfabeto impiegato nella scrittura della lingua nepali. È una costruzione in pietra a due piani. Potrebbe servire da comodo rifugio se non fosse per lo stato di evidente abbandono in cui si trova. Comunque sono agibili due toilette, che fanno comodo. Da qui, infine, il sentiero si impenna e con una lunga serie di zigzag abbandona la Naar Khola per superare i 330 metri che ci separano da Meta.

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Procediamo in una gola. Il sentiero, scavato nella roccia, segue la destra orografica della Naar Khola. Camminiamo in pieno sole. La riva orografica sinistra è ancora immersa nell'ombra del primo mattino.

Scesi a livello del fiume, attraversiamo il primo ponte sospeso. Altri quattro seguiranno per passare da una sponda all'altra.

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▲Foto © 2013 Anna Mazzaro - Editing e post-produzione © Alice BL Durigatto Chhongche Cave: la caverna è in realtà una rientranza nella roccia, punto di sosta e ristoro per le rare comitive che passano da queste parti... e... la stessa... con … da sx a dx: Nicoletta, Flavia, Carlo Venturini, Carlo Michelini, io, Renato e Maurizio. ▼ Foto © 2013 Anna Mazzaro

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La grande cascata sembra inghiottire il sentiero. Protetto dalla parete strapiombante, forma un tunnel naturale e permette il passaggio. Dharmasala (3230m). Potrebbe servire da comodo rifugio se non fosse per lo stato di evidente abbandono in cui si trova.

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Meta (Methang) 3560m – Phu Gaon 4080m Shukrabaar, 25 Ashoj 2070 BS / Venerdì, 11 Ottobre 2013 Di META rimangono le case in rovina disordinatamente sparse su di un pendio terrazzato, fra prati aridi e radi arbusti di ginepro, al limitare della foresta. Un tempo insediamento umano abitato dai Khampa di cui parleremo fra poco, oggi è sosta obbligata e punto di partenza per le spedizioni alpinistiche che intendono salire il Kang Guru. Una traccia porta al campo base situato a 4200m. Tra queste rovine trovano riparo e sistemazione provvisoria le carovane di muli con i mulattieri che risalgono la valle con i loro carichi fino a Nar e a Phu. Anche gli abitanti di Nar vengono in questo posto per soggiorni temporanei in inverno. La recente apertura agli occidentali ha convinto più di qualcuno a costruire dei lodge per soddisfare la domanda crescente di servizi per i trekker. Non mancano ampi spazi aperti per piantare il campo, ma a questa quota le notti sono sempre molto fredde e umide, ed un riparo fra quattro mura, seppure modesto, è sempre una gradita sorpresa. Noi alloggiamo presso il Jampala Guest Restaurant. Il buon odore di legno nuovo che trasuda dalle pareti delle stanze ne tradisce la recentissima costruzione. Le camere a due letti sono spaziose, linde e pulite, con tendine alle finestre. Si sente solo la mancanza di un tavolino o qualcosa del genere dove riporre gli effetti personali. Infatti all'arrivo la prima cosa da fare è quella di svuotare le capaci sacche del loro contenuto. La toilette e la doccia trovano posto in una unica bassa struttura all'esterno, fra un tripudio di gialli tagete e rosse peonie. Di certo il tocco di una mano femminile.

Così ci appare Meta, un conglomerato di case in pietra, sparpagliate su di un ripido e brullo pendio, al limitare della zona arborea.

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Il Jampala Guest Restaurant, dove alloggiamo, di recentissima costruzione (sopra) e la bassa struttura con toilette e doccia tra gialli tagete e rosse peonie.

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Sta calando la sera. Una rapida uscita per fare qualche foto al paesaggio. Non vedo anima viva. Solo questi due cavalli. Fa freddo. Le pareti della camera, spaziosa, trasudano del buon odore di legno nuovo.

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Il Kang Guru (Kangaru), “Montagna Bianca” nella lingua locale, con i suoi 6981 metri è la montagna più alta del gruppo montuoso Larkya a nordest del massiccio dell'Annapurna. Fu scalato per la prima volta nel 1955 da una cordata tedesca composta da Heinz Steinmetz, Fritz Lobbichler e Jürgen Wellenkamp. È tristemente famoso per una delle più gravi tragedie himalayane. Tutto ciò che Dawa Lama, un portatore, oggi ricorda, è un rombo di tuono seguito subito dopo da un sibilo terrificante. Quando riprende conoscenza, si trova catapultato a trenta metri di distanza dal campo. Nel buio riesce a trovare altri tre portatori superstiti. Invano cercano gli altri. A piedi nudi scendono fino

al villaggio di Meta per

informare dell'accaduto. Era il 20 ottobre 2005. La spedizione francese aveva abbandonato il campo avanzato a causa della intensa nevicata ed era scesa al campo base a 4200m. Erano le cinque del pomeriggio e la squadra era appena rientrata nelle tende dopo il the quando la valanga si staccò dalla parete. Dawa Lama e tre portatori si salvarono; tutti i sette componenti della squadra francese e undici nepalesi rimasero sepolti. E di questi ben nove provenivano dallo stesso villaggio, Larpak, nel vicino distretto di Gorkha. La prima squadra di soccorso non poté fare altro che recuperare tre cadaveri. Gli altri erano stati spazzati via dalla paurosa onda d'urto e scagliati lungo il canalone sottostante, sommersi da una massa enorme di neve, ghiaccio e detriti. A novembre ogni ulteriore ricerca fu sospesa. L'estate successiva, una forte squadra che includeva anche cinque francesi si recò sul luogo del disastro. Lo scenario che si presentò ai loro occhi nulla lasciava trapelare del dramma compiutosi appena nove mesi prima. Al posto della neve, verdi prati lussureggianti e fiori multicolori coprivano le praterie d'alta quota. Era un mondo diverso. L'identificazione dei resti scheletrici degli alpinisti francesi avvenne solo attraverso metodi dentali e quindi furono rimpatriati. Le famiglie dei portatori deceduti ricevettero un indennizzo da parte dell'ambasciata di Francia, che si occupò anche dell'istruzione dei figli orfani a Kathmandu, un doveroso aiuto come spesso accade in questi casi. Guidava il gruppo francese il cinquantaseienne Daniel Stolzenberg, esperto alpinista e già istruttore presso la Scuola Nazionale di Sci ed Alpinismo di Chamonix. A capo del team nepalese figurava Iman Singh Gurung, provetto alpinista e presidente dell'Associazione Nazionale delle Guide.

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* * *

Gli dei che da tempi immemorabili dimorano sulle montagne sono decisamente buoni con noi. Ancora bel tempo. Mi sveglio. Certo non è stato un sonno profondo, non lo è mai in queste situazioni. Ma ho imparato a riposare ugualmente e tanto mi basta. Indugio alcuni minuti immerso nel tepore del sacco piuma e brevemente ripasso il programma... Vediamo... Oggi ci aspetta una lunga tappa fino a Phu Gaon e domani faremo sosta l'intera giornata per l'acclimatazione. Sarà possibile fare una breve escursione nei dintorni ed ammazzare il tempo visitando il monastero e fare conoscenza con i residenti. Acclimatarsi è indispensabile per prevenire il male acuto di montagna (AMS). Affrontare in modo consapevole il problema della quota e i pericoli che ne derivano in caso di una non corretta acclimatazione, è di importanza vitale. Per quanto mi riguarda, ho sempre cercato di

approfondire l'argomento fin dalla mia prima esperienza himalayana. A suo

tempo ero già salito oltre i quattromila sulle nostre Alpi, il massiccio del Rosa ad esempio, o il Cervino, “il più nobile scoglio d'Europa”... come è stato felicemente definito. Il mio corpo aveva mostrato reazioni contrastanti. Alla Capanna Regina Margherita, poco oltre i quattromilacinquecento metri, un terribile mal di testa mi aveva colpito per tutta la notte, non lasciandomi scampo alcuno, neppure con delle aspirine. Una spiacevole sensazione di spossatezza mi aveva creato qualche difficoltà, mentre durante la scalata al Cervino per la cresta dell'Hörnli sul versante svizzero era andato tutto bene. La quota in cui ci troviamo ora, tremilacinquecento metri sul livello del mare, è quella giusta per iniziare la terapia a base di acetazolamide, prendendo un farmaco universalmente conosciuto dagli alpinisti, il Diamox. È un farmaco che, pur non essendo nato per questo specifico scopo, si è rivelato un valido aiuto nella prevenzione del mal di montagna acuto aiutando il processo di acclimatazione. Ha, come tutti i farmaci, degli effetti collaterali, peraltro sopportabilissimi a mio avviso, come un certo formicolio alle mani, piedi e labbra e un aumento della diuresi notturna. Con il primo the del mattino prendo 125 mg,

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spezzando in due la compressa da 250 mg e l'altra metà dopo la cena prima di addormentarmi. Il Diamox va assunto costantemente alcuni giorni prima di raggiungere la maggiore quota prevista e va protratto almeno per altri due dopo il superamento del punto più alto. Va supportato da una salita molto graduale per dare la possibilità al nostro corpo di “abituarsi” all'altezza, cioè di acclimatarsi, mettendo in moto tutta una serie di meccanismi di compenso. Il primo di questi è dovuto alla notevole riduzione della disponibilità di ossigeno per le nostre cellule a cui si va incontro salendo di quota. Basti pensare che a 5500m è di circa la metà e a 8500m è un terzo dell'ossigeno disponibile a livello del mare. Il Mal di Montagna Acuto non è assolutissimamente da sottovalutare dato che le sue forme cliniche più pericolose sono l'edema polmonare e l'edema cerebrale che, nei casi più gravi, possono portare alla morte.

Ore 08:25. Lasciato alle nostre spalle l'abitato di Meta, continua la risalita della valle, solcata dalla Naar Khola. Sulla sponda opposta, nella fredda luce del mattino, il Gompa Narsadak Changu Tashi Choling, di recentissima costruzione.

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Due ponti gemelli sospesi su di un orrido profondo 80 metri. Da lĂŹ passa il sentiero per risalire ai 4110 metri di Nar Gaon, al ritorno dal villaggio di Phu.

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Da Phu scenderemo a quote più basse ripercorrendo

parte del sentiero

effettuato all'andata fino alla confluenza della Phu Khola con la Labse Khola e risaliremo ai 4110 metri di Nar Gaon. Un'altra giornata dedicata al riposo e all'acclimatazione prima di affrontare e superare il Kang La, un passo a 5306 metri di quota. Discesa vertiginosa al villaggio di Ngawal (3660m). Poi Manang (3540m), Khangsar (3734m), Tilicho Tal, il grande lago a 4920m e l'impegnativo Mesokanto La a 5121 metri. Un passo tra i ghiacci nel cuore del massiccio dell'Annapurna. Avremo bisogno di tutta la benevolenza possibile da parte della “Deadell'Abbondanza” per superarlo. Undici giorni, se tutto va bene, prima di arrivare a Jomsom dove ci attende il volo per Pokhara e da lì un altro volo per Kathmandu. La nostra carovana è composta da otto occidentali, otto portatori e la guida Dorje Sherpa. Kaji Sherpa, infatti, ci ha accompagnato fino a Koto ed è poi tornato a Kathmandu. Ma torniamo ai Khampa. Dirigendoci verso nord, alti sulla Phu Khola, ci imbattiamo in altri agglomerati di case disabitate in pietra che gli anni hanno annerito e reso cadenti. Villaggi fantasma. JHUNUM 3640m, CHYAKHU 3735m, KYANG 3840m, tutti abitati un tempo da rifugiati Khampa. Chi erano costoro? Da dove venivano? Perché

si stabilirono in quest'area? Per quale motivo

abbandonarono le loro case? Ho fatto alcune ricerche e ho scoperto cose interessanti. Per lungo tempo ritenuti dei briganti provenienti dalla provincia tibetana di Kham, si erano fatti notare per la strenua lotta e resistenza condotta negli anni cinquanta contro le preponderanti forze di occupazione cinesi. Costretti a ritirarsi oltre il confine nepalese, da qui partivano per le loro azioni belliche di disturbo per poi rientrare velocemente. All'inizio godevano della segreta copertura degli Americani, interessati com'erano a destabilizzare i regimi comunisti ovunque si trovassero. Ma nei primi anni settanta gli Stati Uniti riconobbero il Governo cinese ed i Khampa, rimasti privi del loro supporto, dovettero cessare la guerriglia. Alla ricerca di un rifugio sicuro, lontano da eventuali rappresaglie, si radunarono in villaggi come questi, per poi spostarsi sempre più a sud e dileguarsi definitivamente. I Khampa si stabilirono nella valle nel 1964. Inizialmente scelsero Kyang e due anni dopo si impossessarono anche di Chyakhu. Qui si dedicarono

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all'agricoltura

ed

all'allevamento

del

bestiame,

approfittando

del

terreno

pianeggiante. Inoltre offrivano loro un rifugio sicuro. Il punto è che i Khampa vennero in questi luoghi senza chiedere il permesso agli abitanti. Fu un'azione di prepotenza. Si misero a coltivare tutto il terreno arabile e produssero grandi quantità di frumento ed orzo. Oggi la terra è visibilmente incolta. Gli abitanti di NarPhu non avevano mai coltivato la terra prima di allora. Inoltre i Khampa iniziarono una florida attività di allevamento del bestiame: yak, capre, pecore e cavalli senza permesso alcuno. Nacquero delle controversie sull'uso dei terreni e dei pascoli fino alla metà degli anni settanta, quando i Khampa furono costretti a lasciare quelle terre per decreto del governo centrale. Non vi furono solo svantaggi però, derivanti dal rapporto con gli abitanti della valle, i quali erano sempre stati costretti a recarsi a Manang per il sale, importato, se pure su piccola scala, dal Tibet. Le grandi vie del commercio del sale con il Tibet furono di fatto bloccate nel 1960, dopo il massiccio intervento cinese nella regione. Di fatto i Khampa divennero gli intermediari. Erano loro a rifornire di sale gli abitanti della valle in cambio di prodotti locali, formaggi in particolare.

Due erano le possibilità: un itinerario era assai difficile e conduceva attraverso molti passi a una regione spopolata. Il secondo era più facile, ma attraversava purtroppo la regione dei «Khampa». Ecco di nuovo il nome che avevamo già udito pronunciare misteriosamente da molti nomadi. «Khampa» doveva essere un abitante della provincia più orientale del Tibet, chiamata Kham. Ma tale nome non veniva mai pronunciato senza un'intonazione di paura e di avvertimento. È divenuto sinonimo di «brigante». […] Ci furono raccontati anche dei particolari circa la vita dei Khampa. Vivono a gruppi in tre o quattro tende, donde intraprendono le loro spedizioni di ricatto. Gli uomini, armati di fucili e spade, si presentano davanti a una tenda di nomadi, vi penetrano ed esigono spavaldamente un buon pasto. Il nomade impaurito cerca di accontentarli come meglio può. Quei galantuomini si riempiono lo stomaco e le tasche, e trascinandosi appresso uno o due capi di bestiame scompaiono. L'operazione si ripete ogni giorno in un'altra tenda, finché una regione è completamente depredata. Se ne

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vanno, quindi, per stabilire il loro quartier generale da qualche altra parte, dove il gioco ricomincia. I nomadi si sono arresi al loro destino, perchÊ essendo di solito disarmati essi si trovano indifesi di fronte alla prepotenza del numero, mentre il governo in questi territori lontani è del tutto impotente. [Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Garzanti 1956, pp.93-94]

Jhunum 3640m. Insediamento Khampa. Non è rimasto nulla. Solo una grande spianata e dei maestosi ginepri.

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Chyakhu 3735m. Qui alcune case sono ancora in discrete condizioni. Forse non è passato molto tempo da quando i Khampa hanno abbandonato tutta l'area. Sullo sfondo domina il Pisang Peak (Jong Ri), 6091m.

◄◄Pianta d'alto fusto del genere Juniperus. Tipico della zona subalpina himalayana, può raggiungere i 20 metri di altezza. Riposare sotto le sue fronde, seduti ai suoi piedi, con la schiena appoggiata al tronco, dona momenti di serenità.

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A Kyang troviamo ristoro presso un goth o antico ricovero per pastori. Sono le 12:30, l'ora giusta per mettere qualcosa nello stomaco. Quattro muri di sasso tirati su a secco formano una specie di cortiletto. Il basso ingresso costringe a chinare la testa. All'interno una tettoia per gli animali ed un piccolo riparo che funge da cucina e zona notte. Questa è la stagione giusta per fare affari. A Kyang infatti vi sono ampi spazi per piazzare il campo ed è posto tappa per le carovane con tende al seguito. Noi però non ci fermeremo per la notte e dopo la sosta proseguiremo. Da una fontana sgorga abbondante acqua per la gioia degli assetati. Attenzione però! Noi occidentali non la possiamo bere così come sgorga. Potremmo sicuramente trovarci con vari problemi intestinali, anche seri. Dobbiamo prima farla bollire per alcuni minuti oppure trattarla con pastiglie potabilizzanti. Di solito io uso Katadyn micropur. Durante la mia prima esperienza nepalese, mi trovavo nella regione del Makalu nel 2007, mi ero avvicinato ad una sorgente invitante per bere. Se c'è una ricchezza naturale di cui il Nepal dispone è proprio l'acqua. Si trova al secondo posto, dopo il Brasile, nella graduatoria mondiale. Si avvicina veloce Kipa, la guida Sherpa di allora e mi rimprovera: «Io la posso bere tranquillamente... tu no!». La lezione sul campo mi è servita.

Kyang 3840m. Ore 12:30: l'ora giusta per una sosta e mettere qualcosa sotto i denti.

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Anna, Flavia e Carlo Venturini in pieno relax.

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Si riconoscono da sx Carlo Michelini e Renato. Maurizio di spalle.

Il menu non è ricco. Due sono i piatti caldi possibili: tagliolini in brodo e dal bhat, riso con lenticchie. E the bollente a volontà, ottimo per tutte le occasioni. Primo... toglie la sete. Secondo... ti riscalda dentro e poi via via il calore si diffonde a tutte le parti del corpo. Terzo... fa sparire la stanchezza di un lungo cammino al freddo e sotto il cattivo tempo. Quarto... rilassa. Quinto... dona nuove energie. Sesto... calma gli eventuali stimoli della fame... e, non ultimo, una calda tazza di the tra le mani intirizzite, scioglie le lingue e invita al dialogo e alla comunicazione anche con persone mai viste prima... Segue un gran secondo. Renato, da par suo, offre grana padano e salame portati sulle spalle pazientemente da casa. Ne beneficiano anche due “foresti”, con grande gioia e ringraziamenti da parte di tutti.

E gli amici portatori.

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* * *

Lasciato Kyang, ci muoviamo fra orridi e gole, con continui saliscendi a picco sulla Phu Khola. Dorje ci fa notare un gruppo di “bharal” (pseudois nayaur) sulle pietraie, alti sulle nostre teste. È un caprino della famiglia dei Bovidi che vive nell'Asia centrale, in un areale molto esteso. Il suo mantello di colore grigio, in particolari condizioni di luce, assume toni bluastri e per tale motivo è comunemente noto come capra azzurra himalayana. Solitamente vive in gruppi di dieci esemplari o poco più, a quote a partire dai 4000 metri fino al limite delle nevi perenni. Abbastanza facili da avvistare, non si lasciano avvicinare. Sono la preda preferita del leopardo delle nevi, magnifico predatore delle alte quote a rischio di estinzione con il quale condividono, in parte, l'habitat.

Ci muoviamo fra orridi e gole, con continui saliscendi sulla Phu Khola. Per Phugaon abbiamo ancora dalle tre alle quattro ore di cammino.

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Un monolito gigantesco, seguito da un portale in pietra al termine di una ripida salita,

preannunciano la vicinanza al villaggio di Phu. Ancora quaranta minuti

prima di avvistare l'ultimo ponte che scavalca la Phu Khola, al di là della quale si trova Phugaon ̶ il suffisso gaon significa villaggio ̶ quando le luci del giorno volgono ormai all'imbrunire. L'ultima immagine è una mandria di yak che ritorna alle stalle. I richiami ed i fischi dei mandriani, accompagnati da lanci di sassi, coprono perfino il sordo rumore del fiume. La curiosità mi spinge a chiedere a Dorje quanto può valere un capo. «80.000 rupie», è la risposta. Un breve calcolo: 663 euro. Un piccolo tesoro anche dalle nostre parti, direi.

Il kani è la porta che tradizionalmente segna l'ingresso ai villaggi di impronta tibetana, nella fascia a ridosso della catena himalayana... … superato il quale ci appare un mondo totalmente nuovo, un paesaggio spoglio, fatto di colori saturi, come il giallo dei dirupi e dei terrazzi argillosi e l'azzurro intenso delle acque della Phu Khola, che scorre imbrigliata fra le rocce nel fondo della valle.

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La regione di Nar Phu fu esplorata per la prima volta da Harold William Tilman, Bill per gli amici (1898 – 1977), nel 1950. Alpinista, esploratore e prolifico scrittore inglese, ci ha lasciato un resoconto di quella spedizione scientifica ed esplorativa di cui era al comando, nel suo “Nepal Himalaya”. Una descrizione spesso arguta, ironica e persino romantica. A 18 anni si arruolò nell'esercito britannico ed ebbe modo di distinguersi per il suo coraggio nella battaglia della Somme durante la prima guerra mondiale. La sua carriera alpinistica cominciò dopo aver incontrato Eric Shipton, con il quale formò una delle più famose e formidabili coppie della storia dell'alpinismo. Nel 1935 partecipò ad una ricognizione all'Everest assieme a Dan Bryant, Edmund Wigram, Charles Warren, Michael Spender, Eric Shipton ed Edwin Kempson. Nel 1938 fu a capo di una nuova spedizione con l'obiettivo ambizioso di conquistare la cima della montagna più alta del pianeta. Tenzing Norgay, che conquisterà l'Everest nel 1953 assieme ad Edmund Hillary, era uno degli Sherpa. Seguirono la via tradizionale dal versante nord. Arrivarono fino a 8300 metri, poi dovettero rinunciare a causa del cattivo tempo. Il monsone quell'anno si era fatto sentire con tre settimane di anticipo. Lo troviamo in azione nel Nord Africa, volontario, durante la seconda guerra mondiale e nel Veneto a combattere con i partigiani dietro le linee nemiche, meritandosi la cittadinanza onoraria di Belluno. Il 1 novembre 1977, a quasi 80 anni, a capo di una grossa barca per una spedizione in Antartide, tra Rio de Janeiro e le isole Falkland, scomparve con la nave e tutto l'equipaggio nelle gelide acque dell'oceano. Per onorare la sua partecipazione alla lotta di Liberazione nazionale il CAI di Asiago e di Falcade gli hanno dedicato l'Alta Via Tilman, un sentiero che collega l'Altipiano di Asiago a Falcade. Ma seguiamo per un momento le impressioni che Bill Tilman riportò nel suo libro “Nepal Himalaya” al suo arrivo a Phugaon.

A mezzo miglio dalla gola, sulla riva occidentale, giungemmo al misterioso villaggio di Phu, edificato sulla parete e sulla cima di un alto dirupo di depositi morenici e sabbia, risultato dall'erosione prodotta dalle acque del fiume. A prima vista sembra costituito da angusti terrazzi argillosi appoggiati su pilastri, sotto i

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quali giacciono immagazzinati la paglia e le granaglie dopo la spulatura. Dietro ci sono infatti delle casupole ma le case migliori sono raggruppate sotto un unico tetto e circondate da un muro sulla sommità della rupe. Fummo costretti a piazzare il campo su uno di questi terrazzi, essendo gli altri spiazzi piani dei minuscoli campi terrazzati coltivati a “kuru”, un orzo già con le spighe. Phugaon è a circa 13.500 piedi sul livello del mare, eppure ci sono altre case ed altri campi d'orzo 1000 piedi più in alto sui pendii soprastanti. Nei pressi del campo un fiume largo come la Phu Khola ed egualmente torbido emerge dalla lingua di un grande ghiacciaio e, sullo sperone tra i due fiumi si eleva un piccolo gompa bianco con tredici chorten, allineati. Tali sono i tratti severi di un paesaggio così aspro dove a malapena cresce un cespuglio, figurarsi un albero: un paesaggio fatto di gialli dirupi, di massi di bianco granito e del ghiaccio scuro del ghiacciaio che li aveva un tempo trascinati a valle.*

A Phugaon le possibilità di alloggio sono il Karma Hotel, il Tashi Hotel e l'Himalayan Border Hotel, come indica la location map all'ingresso del villaggio. Il termine hotel di cui si fregiano sembra forse eccessivo. Noi invece siamo ospiti presso la Karsang Guest House, termine più rispettoso della qualità dei servizi basilari offerti, pernottamento e pasti. In realtà Phu, come abbiamo visto, è stato aperto ai turisti solo qualche anno fa e non ci si può aspettare di più. La cortesia comunque è assicurata e la cordialità con cui si viene trattati al pari dei membri della famiglia è una esperienza che auguro di fare a tutti. Vi sosteremo per due notti, 38 ore in tutto per l'esattezza, per meglio acclimatarci alla quota e riposarci. Vediamo come funziona la sistemazione. Renato ed io, il privilegio dell'età servirà pure a qualcosa, disponiamo di una camera a due letti, mentre i nostri compagni d'avventura, Carlo Venturini, Anna, Flavia, Nicoletta, Maurizio e Carlo Michelini sono sistemati in due stanze da tre. Differenza non da poco visto che da loro vi sono dei materassini sul pavimento soltanto. _____________________ *H.W.Tilman, Nepal Himalaya, Cambridge University Press 1952, pp.179 -180 Testo raccolto in lingua inglese – Traduzione dello scrivente

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Non ci sono né tavoli né sedie, caratteristica quest'ultima anche della cucina, come scopriremo. Colazione alle 7:30 sul terrazzino all'aperto. La temperatura ancora bassa del primo mattino invita anche i più audaci a coprirsi bene. Lo stare accoccolati sulle stuoie con le gambe incrociate, nella classica postura del 'fiore di loto', non è facile da mantenere a lungo, costringe a continui e svariati aggiustamenti. The nero, caffè, the con il latte e latte caldo sono le bevande più gettonate. E poi tibetan bread su cui spalmare abbondantemente marmellata o miele. Il pane tibetano è una specie di piadina nostrana a base di tsampa (farina d'orzo) impastata con acqua e lievito in polvere. Fritta nel burro è facile e veloce da preparare ed è il “pane” più comunemente usato a colazione o durante i pasti principali della giornata. Pranzo e cena nel locale al piano terra con funzione di cucina. La stanza, piccola nelle dimensioni, è semibuia. Una lampadina penzolante dal basso soffitto diffonde una luce fioca. Ad illuminare l'ambiente contribuisce il fuoco acceso nel bel mezzo su di un piccolo basamento in pietra mentre il fumo è convogliato all'esterno tramite una canna fumaria. All'interno l'odore del fumo è fortissimo. Ad attenuarlo subentra l'abitudine. Zero mobili. I vari utensili per cucinare sono disposti a terra sotto la parete che ospita su delle mensole bicchieri e tazze di varie fogge e dimensioni. Piatti in alluminio. Bottiglie di birra “Everest”, famoso brand nepalese, dal sapore fresco e leggero. La puoi trovare anche nei villaggi più isolati, naturalmente recapitata a spalle con sudore e fatica; va da sé che il prezzo è decisamente più caro, ma vale la pena soffermarsi e gustarla dopo ore ed ore di cammino. Su di un muretto, in bella mostra, una pentola a pressione, vasetti di marmellata e miele, salse di varia natura, zucchero, maionese, the, latte in polvere, sale, thermos, un contenitore con le posate, un fornellino a gas... un bazar in miniatura di oggetti ad uso e consumo per gli ospiti e per la giovane coppia di gestori con figlioletto che qui abitano. Ancora. Una grande cassapanca, non saprei definirla meglio, dalle dimensioni di un letto a due piazze, occupa buona parte della stanza. Nessun materasso. Le coperte sulle stuoie danno l'idea che sia la zona notte. Dal bhat, porridge, zuppe di vario genere, tibetan bread, bevande calde e quant'altro si preparano a terra sulla piastra del focolare. Lo spazio restante,

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ridottissimo, è la parte riservata a noi. Seduti su di una panchina, appoggiata all'ultimo lembo di muro libero, aspettiamo il pranzo e la cena. Stretti gli uni agli altri, possiamo apprezzare il calore... umano. La tavola è solo una panca più alta e leggermente più larga dove appoggiare i cibi. I padroni di casa sono molto gentili ed ospitali. Infine, un breve siparietto. Il figlio della coppia, un bimbetto curioso di quattro anni circa, a mio avviso, ci fa visita. I lineamenti del viso, perfettamente regolari, il colorito bruno della pelle, i grandi occhi neri, danno un insieme delicato. Al mio namaste risponde con un filo di voce che denota timidezza. Il leggero sorriso con cui accompagna il saluto esprime invece il suo desiderio di socializzare con dei perfetti sconosciuti quali noi siamo. E lo fa da par suo, nel modo dettato dalla sua tenera età. Si impadronisce del vasetto di cioccolata sulla tavola, lo apre, vi intinge il dito e lo porta alla bocca. Velocissimo. La mamma lo vede, gli toglie il vasetto dalle mani e lo sgrida. Quadretto familiare che non conosce latitudini.

La stanza al piano terra con l'angolo cucina e la mamma con il figlio della giovane coppia che gestisce il lodge.

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Infine un cenno alla camera da letto per i meno giovani del gruppo. Cioè Renato ed io. Coetanei. Le due spesse pareti esterne sono di sasso. La terza in lamiera, funge da divisorio con la stanza di Flavia, Anna e Nicoletta, le quali, meno fortunate, dormiranno su materassini a terra. Accanto la stanza di Carlo Venturini, Maurizio e Carlo Michelini. La quarta parete, che dà sul terrazzino verso l'interno, è ancora in lamiera con struttura portante in legno. Presenta un unico punto luce: la finestra, con grata in ferro lavorato a forma di “nodo infinito”, uno degli otto simboli del buon auspicio del Buddhismo tibetano, a protezione della casa e dei suoi abitanti. Qui la luce elettrica è assente. Tutta la parte alta del villaggio, deserta e disabitata, minaccia di andare in rovina definitivamente. È dominata dalla imponente struttura di una fortezza-palazzo, dove le abitazioni, molto vecchie, sembrano assai meno confortevoli di quelle costruite più recentemente in basso su aree non più coltivate. Alcune, dal tetto squarciato, mostrano segni evidenti di un grosso incendio che ha lasciato muri anneriti e travi bruciacchiate. Muti testimoni.

Secondo l'ultimo censimento del

2011, effettuato dal Central Bureau of Statistics, vi risiedono 36 famiglie in tutto. Per la produzione di energia elettrica, alquanto limitata, ci si avvale di pannelli fotovoltaici che si vedono occhieggiare qua e là dai terrazzini. Non vi sono negozi di alcun genere ma è possibile trovare semplici generi di conforto come marmellate, biscotti, barrette di cioccolato e latte in polvere, presso i quattro lodge esistenti. Dispone di un posto telefonico satellitare, di un pronto soccorso e di una piccola scuola. L'insegnante che vi opera non può comunque coprire l'intero corso di studi, dalle elementari alle superiori, così molti sono i giovani che vanno a Pokhara per studiare e vi soggiornano per tutta la durata dell'anno scolastico. Phu nella lingua locale significa “testata della valle” e mai nome fu più appropriato, dato che si trova nell'ultimo lembo estremo abitabile. Una traccia di sentiero fra i massi porta al Kongyur La, il passo che segna il confine con la Cina a due giorni di marcia da qui e si trova su di un grande plateau innevato a circa 5800 metri di altitudine. La vetta piramidale innevata a nord di 6364 metri, Bhrikuti, deve il suo nome alla principessa nepalese, andata in sposa del re tibetano Songtsen Gampo. Diverrà una figura importante per il Buddhismo di rito tibetano, come vedremo.

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* * *

Tashi Lhakhang Gompa è il monastero situato su di uno sperone roccioso a 4150 metri di quota, formatosi alla confluenza di due fiumi ed è un ottimo punto da cui godere del panorama circostante. A venti minuti di cammino da Phu, per giungervi, si scende dal villaggio attraverso una porticina, si supera il nuovo ponte in metallo gettato sulla Layju Khola e si risale dall'altra parte. Salita breve ma ripidissima. Innumerevoli “lung-ta”, letteralmente “cavalli nel vento”, accolgono il visitatore. Danno una nota di colore. Garriscono perennemente nel vento, che da queste parti non manca di certo. Sono le bandierine delle preghiere. Blu, bianco, rosso, verde e giallo, si susseguono in stringhe variopinte ad ornare la spianata. Dal forte valore simbolico, rappresentano i cinque elementi naturali. Per tradizione, ad ogni colore è associato un elemento e precisamente: il BLU simboleggia lo spazio ed il cielo, il BIANCO l'acqua, il ROSSO il fuoco, il VERDE il vento e l'aria, il GIALLO la terra. L'equilibrio dei suddetti elementi è essenziale al fine di preservare la salute e l'armonia del corpo e dello spirito. Di origine antichissima, comparvero ancora prima del Buddhismo presso gli sciamani praticanti la religione Bon, i quali le usavano nelle loro cerimonie per contattare gli spiriti e cacciare gli spiriti malefici, per guarire gli infermi. Sono drappi di stoffa che recano, a stampa, mantra e preghiere e sono illustrate con le figure dei grandi maestri buddhisti. Il vento le legge e le spande nello spazio per infondere buona volontà e compassione. Concetto, quest'ultimo, dal significato complesso che implica pietà, misericordia ed amore, inteso come carità, nei confronti degli altri. Sfiorate dal minimo alito di vento, ondeggiano e così purificano e santificano l'aria che le circonda. Sono parte integrante del nostro universo perché i testi e le immagini stampati sbiadiscono al vento ed al sole ed il tessuto di cui sono fatte si sfilaccia sotto l'azione degli eventi naturali, pioggia, grandine, neve, gelo. Allo stesso modo in cui la vita che muore rivive nella nuova vita che avanza, così le lung ta si rinnovano, aggiungendone di nuove accanto a quelle vecchie e consunte. Tutto ciò sta ad indicare l'accettazione

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dei mutamenti della vita ed il riconoscimento che tutti gli esseri vivi sono parte di un ciclo incessante. Proprio per la loro sacralità, vanno trattate con grande rispetto. Sulla sommità dello sperone roccioso, alla quale si accede arrampicando per un sentierino, si trova un'area dove viene praticata tuttora la 'sepoltura celeste'. Così ne parla Heinrich Harrer nel suo famoso “Sette anni nel Tibet”. Avemmo pertanto la triste occasione di conoscere anche le cerimonie di un funerale tibetano. L'abete riccamente ornato, simbolo della festività, fu sceso dal tetto, e già il giorno seguente, alle prime luci dell'alba, il cadavere avvolto in bianche tele fu trasportato da un becchino di professione, che si caricò la salma sulle spalle. Anche noi seguimmo il corteo composto di tre persone. Non lontano dal villaggio, su una collinetta riconoscibile già da lontano per gli avvoltoi e le cornacchie che si levavano in volo, uno degli uomini spaccò a pezzi con un'ascia il cadavere. Un secondo, lì accanto, mormorava intanto delle preci, mentre un terzo scacciava gli avidi uccelli, e offriva di tanto in tanto agli altri due uomini birra o tè per ristorarli. Le ossa del cadavere vennero spezzate, affinché pure queste potessero venir divorate dagli uccelli e del cadavere non rimanesse traccia. Benché tutto il procedimento sembrasse assai barbaro, l'azione era tuttavia improntata di profondi motivi religiosi. I tibetani desiderano che del loro corpo, privo di valore senza anima, non rimanga nulla dopo la morte.*

La sepoltura celeste è tuttora in uso presso i Tibetani ed i gruppi etnici che vivono in Nepal al di qua della catena himalayana. La chiamano “jhator”, che vuol dire “fare l'elemosina agli uccelli”. Sono presenti comunque altre cerimonie funebri. Ai lama d'alto rango e ai nobili è riservata la cremazione, mentre per chi non può permettersi funerali di questo genere dagli alti costi, la soluzione è diversa. Il cadavere viene gettato nel fiume dove la funzione di divorare il corpo è assunta dai pesci, anziché dagli avvoltoi.

_____________________ *Heinrich Harrer, op. cit., pag.66

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Il Tashi Lhakhang Gompa, situato su di uno sperone roccioso a 4150m. Vi si accede salendo per una debole traccia di sentiero a zig zag, terribilmente ripido, a sx nella foto.

Il gompa. Particolare del complesso. Al centro una delle monache (ani) che vivono al monastero. Sulla sommitĂ dello sperone roccioso, sulla quale sventola una bandiera, si trova l'area dove viene praticata tuttora la “sepoltura celesteâ€? o jhator, che vuol dire 'fare l'elemosina agli uccelli'.

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Sono con Renato. Ci togliamo le scarpe, lasciandole all'ingresso del monastero. Entriamo. Un giovane monaco si avvicina. Inizierà così, nel modo più semplice e naturale, una conversazione fitta fitta che toccherà alcuni punti sulla cultura e sulla religiosità di cui egli è l'espressione. Molto mi affascina del Buddhismo. Non è solo l'incontro fra due diverse concezioni della vita... Usiamo l'inglese come lingua veicolare. «Namasté», è il saluto con il quale ci accoglie, venendoci incontro. In sanscrito significa Mi-inchino-di-fronte-al-divino-che-è-in-te. La sua valenza filosoficospirituale va al di là della parola pronunciata. Vuole esprimere il riconoscimento dell'altro in quanto espressione del macrocosmo cui tutti apparteniamo e la consapevolezza della scintilla divina insita in ciascuno di noi. Viene usato in tutte le occasioni di

incontro, nel congedarsi, per esprimere gratitudine, nel chiedere

qualcosa. «Namasté» rispondo, con un lieve inchino del capo in avanti, portando le mani giunte all'altezza del petto... Mi guardo attorno... Ci troviamo nella cosiddetta sala delle preghiere o lhakhang, presente in tutti i monasteri lamaisti sparsi lungo la dorsale himalayana. Gli occhi devono abituarsi al cambio repentino di luce. La semi oscurità iniziale a poco a poco lascia il posto ad una gradevole luminosità diffusa, che mi permette di mettere a fuoco i particolari. Due file di banchi partono ai lati dell'ingresso ed attraversano la stanza in tutta la sua lunghezza. Qui, accomodati su tappeti e cuscini, i monaci recitano i mantra e cantano passi presi da testi buddhisti (Sutra) durante le funzioni religiose al mattino e alla sera, spesso accompagnati dal suono dei cimbali, dei tamburi verticali e delle trombe tibetane. I muri sono decorati dai quattro guardiani protettori dall'aspetto terrificante, la cui funzione principale è quella di dissipare le tenebre dell'ignoranza dalle menti. L'altare è l'area centrale del lhakhang. Vi domina una grande statua mentre una serie di statue minori, situate in piccole nicchie tutte intorno, rappresentano i grandi Maestri della tradizione lamaista. Lampade votive e figurine scolpite nel burro per le offerte rituali completano l'arredamento. Né può mancare la cassetta per le donazioni in denaro, peraltro mai richieste ma sempre auspicabili. Altre nicchie nel muro coprono ininterrottamente la parete ed ospitano, ad uso libreria,

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l'immancabile corredo delle sacre scritture, i preziosi manoscritti su carta di riso, in fogli sciolti di forma rettangolare, tenuti assieme da legacci con due tavolette di legno per copertina e avvolti in drappi. L'incontro con il giovane monaco è per me un'occasione singolare, forse irripetibile, per rispolverare le mie scarse conoscenze sul Buddhismo, la cui concezione della vita mi incuriosisce non poco.

La sala delle preghiere o lhakhang. La grande statua di Padmasambhava sovrasta l'altare al centro della parete. Le statue minori, nelle nicchie intorno, sono i grandi maestri della tradizione lamaista. Alle due estremitĂ del muro, altre piccole nicchie occupano interamente la parete ed ospitano i preziosi manoscritti delle sacre scritture. Sulla colonna a sx in alto la maschera rossa di Dorje Drolo, che rappresenta la manifestazione irata di Padmasambhava.

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«La grande statua sull'altare non mi sembra rappresenti il Buddha, non è vero?», chiedo. «No... non è Lord Buddha. È Padmasambhava...» «Se non ricordo male, è considerato il più importante diffusore del Buddhismo nel Tibet...», lo interrompo per un attimo. «... certamente. Secondo la tradizione apparve miracolosamente, con le fattezze di un bambino di otto anni, in un grande fiore di loto al centro di un lago noto come 'Oceano di latte', in una fertile e lussureggiante vallata a nord ovest dell'India. Vi abitava un popolo dai modi cortesi, rispettoso della saggezza e del sapere. Il luogo, circondato da aspre ed alte montagne, era un vero paradiso in terra, punteggiato da bianchi stupa e templi dai tetti dorati. In quel tempo la valle era governata da un re saggio e buono, particolarmente generoso con i poveri ed i bisognosi, al punto tale da donare loro tutti i suoi averi. Non potendo continuare nella sua opera di beneficenza, si recò in pellegrinaggio presso il lago 'Oceano di latte', intenzionato a trovare un gioiello in grado di soddisfare ogni desiderio. Mentre tornava con il gioiello, incontrò quel bambino e gli fece alcune domande sulla sua provenienza, su chi fossero i suoi genitori, come si sostentasse e cosa facesse lì tutto solo. Esterrefatto dalle risposte, decise di portarlo con sé e, non avendo eredi, lo nominò principe ereditario e sua personale guida spirituale. Gli diede il nome di Padmasambhava, cioè Nato-dal-Loto, in riferimento al suo luogo di nascita»... si sofferma per qualche istante e subito continua: «Il re, proprio per le sue straordinarie capacità, lo diede in sposo ad una delle sue figlie che poi, si racconta, egli lasciò per diffondere la dottrina del dharma e perfezionare la conoscenza degli insegnamenti del Buddha. Inizia così un lungo periodo della sua vita peregrinando in luoghi remoti ed isolati, alla ricerca della solitudine, l'unica in grado di favorire la meditazione»... «... e la trovò nelle caverne, nelle foreste, presso i laghi e nelle valli più inaccessibili della regione himalayana, dove nascondeva dei tesori spirituali, insegnamenti sotto forma di oggetti e testi religiosi, perché fossero poi ritrovati in futuro».

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«Noto che lei non è proprio a digiuno di queste cose e aggiungo che Il Libro Tibetano dei Morti, di cui avrà certo sentito parlare, è fra quei testi recuperati in un periodo storico più tardo del Buddhismo tibetano. I suoi insegnamenti fecero di lui l'ispiratore di una delle quattro scuole del pensiero buddhista, nota come Nyingma, la più antica fra tutte. Differisce dalle altre tre per le tecniche meditative particolarmente severe ed impegnative, per il costante impegno da parte dei discepoli a trascorrere la loro vita nella povertà più assoluta e nella meditazione. Inoltre Padmasambhava, sempre secondo la tradizione, è colui che riuscì a sottomettere le numerose divinità del male della religione Bon e a convertirle al Buddhismo. Fra le varie manifestazioni che riflettono differenti aspetti delle sue attività miracolose, c'è quella di DORJE DROLO, diventata così popolare da produrre una propria tradizione liturgica. Dorje Drolo è l'emanazione irata di Padmasambhava, nell'atto di sconfiggere i demoni e gli

spiriti del male. La

maschera rossa appesa che vedete ne è una rappresentazione e viene usata nelle sacre danze rituali». «Come viene rappresentato Padmasambhava nell'arte iconografica buddhista?» «Avviciniamoci e vediamo. Di solito sono i baffi ed il pizzetto appena pronunciati a dare identità al suo volto sorridente, giovanile. Indossa un cappello a forma di fiore di loto sul quale spiccano il sole e la luna, cioè saggezza e grandi capacità intellettive. Nella mano destra, all'altezza del cuore, tiene il vajra, emblema del supremo potere spirituale. Nella sinistra, posizionata sul grembo, tiene la kapāla, una calotta cranica umana contenente il vaso ricolmo della saggezza immortale. Nell'incavo del gomito sinistro tiene un khatvanga, il bastone cerimoniale con il tridente, al di sotto del quale troviamo, nell'ordine, un cranio, una testa appena mozzata ed una in putrefazione... Simboleggia la principessa consorte Mandāravā che, assieme a Yeshe Tsogyal, altra consorte, condivise il loro ruolo principale nel cammino spirituale di Padmasambhava...» «... ma Padmasambhava era un monaco, il 'Prezioso Maestro', Guru Rinpoche per i Tibetani... come si spiegano le due consorti?» «In realtà, le consorti di cui siamo a conoscenza furono cinque. Vede... ciascuna

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di quelle cinque compagne era un'emanazione del divino al femminile e, in quanto tale, fonte di energia, vitalità, benessere fisico e spirituale. Diciamo che erano in possesso di capacità straordinarie. Semplificando un po'... allo stesso modo in cui l'artista, il poeta, hanno bisogno di una musa ispiratrice che li aiuti a dare il meglio di sé, così quelle figure femminili furono necessarie affinché Padmasambhava potesse, durante il suo percorso spirituale, raggiungere l'Illuminazione».

PADMASAMBHAVA (particolare)

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«Capisco... la storia della sua vita è una formidabile sequenza di prodigi e imprese soprannaturali... Accanto alla foto del Dalai Lama c'è la foto di un personaggio che non conosco. Penso comunque sia importante se si trova in questo luogo». «Sì... è l'attuale Karmapa, il XVII. Il Karmapa ed il Dalai Lama sono considerati la reincarnazione vivente di Avalokiteshvara, il Bodhisatwa della compassione. Il Karmapa è a capo della scuola Kagyu, la seconda, in ordine temporale, del Buddhismo tibetano». «Ma che cosa significano queste scuole? Confesso che faccio fatica a seguirla e ad integrare le mie conoscenze con quanto lei mi sta dicendo. Può aiutarmi?» «Allora... Padmasambhava, come abbiamo visto, fu l'ispiratore della scuola dei Nyingma-pa, 'Gli Antichi'. Siamo nell'ottavo secolo. Poi vennero i Kagyu-pa, 'Seguaci della tradizione orale', verso l'anno mille. Seguirono i Sakya-pa, 'Seguaci del monastero della terra rossa', pressoché contemporanei alla precedente. Infine i Gelup-pa, 'I Virtuosi', alla quale appartiene il Dalai Lama. Fra il XIV ed il XV secolo circa. Quest'ultima è la scuola dominante... la vedo perplessa... non sono quattro forme diverse di Buddhismo... sono rami fruttuosi nati dalla stessa pianta, nel nostro caso il Bhudda storico Sakyamuni. Hanno tutti la stessa origine, si differenziano solo per alcuni aspetti... nella foto, Sua Altezza Gyalwa Karmapa indossa il cappello nero, rappresentazione materiale della corona spirituale, identificativo del suo rango e dei suoi meriti. Tibetano di nascita, è fuggito poi dal Tibet negli anni '90. Attualmente risiede a New Delhi...» «... A questo punto mi sorge spontanea una domanda. A quale periodo risale questo monastero?» «Il nostro monastero risale al XVII secolo ai tempi del X Karmapa. Proveniva dalla regione dell'Amdo, Tibet, la stessa dell'attuale Dalai Lama. Visse in un momento storico difficile, carico di conflitti fra le varie scuole religiose. Ne approfittarono i Mongoli per intervenire, sempre pronti a far sentire la loro forza militare e far pesare la loro influenza. Il Karmapa di allora fu costretto ad un lungo esilio, durante il quale viaggiò molto, giungendo fino in Nepal, dove fondò alcuni

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monasteri. Ci vollero venti anni prima che potesse ritornare in patria, a riconciliazione avvenuta tra le scuole... ma venite con me che vi porto a visitare gli altri ambienti del nostro monastero... La vedo molto interessata». «Certamente... grazie... per me è un'occasione unica... veniamo volentieri...». Usciamo dal Lhakhang e attraversiamo un cortiletto dove un gruppetto di giovani sembra assorto in un lavoro importante. Chiedo spiegazioni. «Oggi pomeriggio, alle due, ci sarà la cerimonia della puja, un rituale molto antico, un atto di profonda devozione e di purificazione collettiva. Avrete notato sull'altare dei dolcetti rituali (tor-ma); sono offerte di cibo che saranno usate per l'occasione... e poi le coppe contenenti l'acqua sacra per le aspersioni... loro invece stanno facendo delle figurine votive (tsa-tsa) con la creta, che fanno parte della pratica meditativa... ma... seguitemi».

Nel cortiletto alcuni giovani stanno facendo delle figurine votive con la creta (tsa-tsa) che serviranno per la puja del pomeriggio.

Entriamo in un basso edificio laterale a pochi passi dal monastero e ci troviamo in una piccola stanza. Al pari delle altre che visiteremo fra poco, presenta ambienti dalle ridotte dimensioni, soffitti bassi e porticine d'ingresso dove è necessario abbassare il capo. La sensazione di trovarmi improvvisamente sbalzato in un

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tempo remoto è molto forte. Anche l'aria che respiro contribuisce a darmi questa impressione. «Questa e' stata fino a qualche tempo fa la residenza di Lama Karma Sonam Rinpoche. Con una biblioteca ed una cappella dove si ritirava per la meditazione. Una figura davvero importante per il nostro monastero». «D'altronde l'appellativo di Rinpoche è un termine onorifico riservato ad una persona che merita grande rispetto, soprattutto se riconosciuta come la reincarnazione di un lama vissuto precedentemente...» «... sì... nato nel Kham, Tibet orientale, ha trascorso i primi 25 anni della sua vita nello studio e nella meditazione, alcuni dei quali passati presso le pendici del Monte Kailash, luogo sacro per eccellenza e considerato il centro dell'universo. L'invasione Cinese lo ha costretto ad andare in esilio. Era il 1959 ed era in corso una grande rivolta contro l'invasore. Faceva parte di un grosso gruppo di scampati, tra i quali Sua Santità il Dalai Lama. Si è stabilito da noi e vi è rimasto per 45 anni. Attualmente, data la sua veneranda età, vive a Kathmandu. Si è occupato, tra l'altro, di conservazionismo durante tutto il periodo trascorso a Phu. Allora la capra azzurra himalayana (bharal) era piuttosto rara ed il leopardo delle nevi, sulla via dell'estinzione, perché cacciato dai locali per proteggere il bestiame domestico. Ha minacciato persino di lasciarci per sempre se le uccisioni fossero continuate, poiché tutti gli esseri viventi, come insegna Lord Buddha, meritano rispetto. Gli abitanti di Phu, per non perdere la loro preziosa guida spirituale, hanno promesso di non cacciarlo più ed i risultati si sono visti. Per la sua opera di ambientalista impegnato, nella giornata internazionale dedicata all'ambiente, è stato insignito dal WWF a Kathmandu del prestigioso Abraham Conservation Award, alla bella età di 70 anni. Se i leopardi, questi magnifici animali della nostra terra non corrono ora il rischio dell'estinzione, lo si deve anche alla sua opera... per non parlare dei bharal; la colonia nel nostro territorio infatti, è la più numerosa al mondo». «Davvero una sorpresa questo lama... certo la sua opera di convinzione deve essere stata molto forte con la gente di qui...» «Lama Karma Sonam Rinpoche era anche un rinomato 'amchi'... come dire... il

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medico del monastero... la stanza in cui ci troviamo è la farmacia (menkhang)». Uno sguardo attorno mi permette di coglierne i particolari. Le pareti sono interamente occupate da scaffalature sulle quali si trovano, accostati gli uni agli altri, una grande quantità di vasi e vasetti ricolmi delle erbe officinali più varie... e ancora... mi sembrano pozioni... ma non ne sarei sicuro... il tutto mi ricorda certi nostri eremi dove frati pazienti e laboriosi tengono i prodotti della medicina alternativa, frutto di una secolare esperienza. Ma continuiamo... «Ogni amchi è un profondo conoscitore della medicina tibetana, una miscela di scienza, arte e filosofia, antica di 2500 anni, al tempo del Buddha Sakyamuni. Parte dal presupposto che tutto nell'universo è costituito dai cinque elementi primari, la terra, l'acqua, il fuoco, il vento e lo spazio. Ciascuno di questi elementi ha una sua specifica funzione nella formazione di tutte le cellule che costituiscono i tessuti del nostro corpo. Anche la farmacologia si basa su questi cinque elementi e guarire la malattia significa ritrovare il loro giusto equilibrio nel proprio corpo e con l'ambiente». Penso alla pratica medica nel Nepal, ancora lontana dalla nostra, così legata alla loro concezione della vita e del mondo. In queste aree montuose dell'Himalaya è intrisa di pratiche magiche e spirituali con influenze buddhiste, animistiche e sciamaniche. La medicina occidentale è stata introdotta molto tardi ad opera di missionari cristiani, nel XVII secolo. Oggi l'intero sistema è in evoluzione. Istituti Superiori associati all'Università pubblica ed Istituti privati offrono corsi di medicina tradizionale e moderna. Potrebbe essere la ricetta giusta, poiché la realtà rimane difficile, soprattutto in queste zone. Qui gli abitanti dei villaggi ricorrono anche ai medici che solitamente accompagnano alpinisti ed escursionisti. Un'abitudine acquisita fin dalle prime spedizioni all'Everest nei lontani anni venti del secolo scorso.

Ci accomiatiamo dal nostro giovane monaco. Ho ancora qualche piccola curiosità da soddisfare, a partire dalla sua età e dai suoi progetti per il futuro. «Ho 17 anni. Resterò qui ancora per un anno e poi mi recherò nel gompa di

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Boddhanath a Kathmandu per completare la mia preparazione spirituale e religiosa.

Nella gestione quotidiana del monastero sono aiutato da alcune

monache (ani) che qui risiedono ed anche dagli abitanti del villaggio, come avrete avuto modo di constatare». «Com'è l'inverno da queste parti? Immagino vi sia molta neve», gli chiedo. «Qui l'inverno è molto freddo, pochissimi sono gli abitanti che rimangono... solo gli anziani... ma la neve, data la quota, non mi sembra poi molto abbondante... può arrivare fino al ginocchio...» Siamo giunti al termine della nostra lunga conversazione. È stato piacevole confrontarmi con lui. Prima di congedarci, lascio nella cassetta delle offerte 205 rupie per il monastero... L'ultima cifra nelle offerte in denaro deve essere sempre dispari. Le cifre pari non sono infatti di buon auspicio. Lo ringrazio per il tempo che ci ha dedicato. Lo salutiamo prima di scendere a Phu. Mi chiedo come questo villaggio possa aver resistito per secoli alla inclemenza degli elementi. Al pomeriggio, venti molto forti spazzano le gole e le forre dell'altopiano ed il freddo, anche con il sole, è pungente.

Tashi Lhakhang Gompa: la fila dei chorten.

Nella pagina accanto ed in quella seguente: alcuni scorci di Phu Gaon. ►►

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â—„Foto Š 2013 Anna Mazzaro

Da sx a dx: Maurizio, Carlo Michelini, Renato, io, Flavia, Nicoletta e Carlo Venturini a colazione.

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Phu Gaon 4080m – Naar Phedi 3480m Aitabaar, 27 Ashoj 2070 BS / Domenica, 13 ottobre 2013 Lasciamo Phugaon nella luce ancora incerta del primo mattino. Colazione prestissimo. Oggi il programma prevede una lunga tappa di trasferimento fino a Nar. Domani una seconda giornata di acclimatazione e poi il superamento del Kang La. Abbisogniamo di una finestra di bel tempo e fisico pronto ed in forma. Il cielo presenta alcuni assembramenti di nubi... non sembra promettere male... ma non è detto che rimanga tale. Scendiamo in silenzio, ognuno con il proprio passo. Conosciamo la via. Si tratta di ripercorrere il cammino dell'andata per un buon tratto, seguendo il corso della Phu Khola verso valle. Poi, la deviazione verso la nuova destinazione. A Kyang, breve sosta per un caldo the e di nuovo in cammino. Lasciamo alle nostre spalle Chyakhu e Jhunum. Parole che risuonano ormai familiari anche se la loro pronuncia non lo è altrettanto. Ecco il bivio. Abbandoniamo la traccia che porta a Meta. Il sentiero perde improvvisamente quota, giù per un pendio e si perde in un intrico di tracce più o meno marcate che scendono a rotta di collo tra pinnacoli di roccia erosa, sabbie e massi alquanto instabili. Il tutto dà l'impressione di essere terribilmente fragile ed in bilico, sempre sul punto di rotolare a capofitto in una spaccatura della terra, sul cui fondo scorre rombando l'acqua. L'inferno dantesco sotto ai nostri piedi. Siamo nei pressi della confluenza della Labse Khola con la Phu Khola. Due ponti gemelli superano questa ferita nel punto più stretto. Entrambi si elevano ad una altezza di 80 metri sopra il profondo orrido che si apre al di sotto, dove le rocce formano un imbuto che si restringe sempre più fino quasi a farle toccare. A sporgersi un po' ci si sente prendere da una leggera euforia da vertigine che consiglia subito di ritrarsi. Il ponte vecchio: costruito con travi ed assi di legno, poggia su spallette in pietra, tirate su a secco. Il ponte nuovo: di metallo, ancorato su pilastri di cemento e sostenuto da grosse funi di acciaio, dall'aspetto più rassicurante. Ha persino un nome: Mahendra Pul. Pul significa 'ponte' in lingua nepali. Mahendra si riferisce a Mahendra Bir Bikram Shah, re del Nepal dal 1955 al 1972. Nel 1960 sospese le

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libertà costituzionali e sciolse il governo. Riformò il sistema istituzionale nepalese vietando i partiti politici ed instaurando il panchayat, sistema amministrativo apartitico in cui il popolo eleggeva i propri rappresentanti su base locale, in numero di cinque, da cui il termine panchayat, mentre il potere reale era comunque nelle mani del re. Una torre di guardia antica in rovina domina la gola. Le numerose lung-ta, appese in ordinata fila alle grosse funi, oscillano sotto l'azione del vento. La temperatura è scesa sensibilmente ed il cielo ha assunto una tonalità lattiginosa.

I due ponti gemelli sulla Naar Khola ed uno sguardo sull'orrido che si apre al di sotto.

Ore 13:30. Le gazzelle di Sarnath e la ruota del dharma segnano l'ingresso al Narsadak Changu Tashi Choling Gompa, monastero di recentissima costruzione. Protetto da un'alta parete di roccia, spicca con i suoi colori brillanti e tutti i simboli tipici del Buddhismo tibetano, nel grigiore uniforme di un giorno che si è fatto improvvisamente umido e freddo. Nell'aria si respira l'odore della imminente pioggia. Siamo in località Naar Phedi. Phedi significa 'ai piedi del monte'. Da qui al villaggio di Naar non c'è molta strada, pure con un dislivello di tutto rispetto da superare, di 600 metri in salita. Siamo nella foresteria dove è possibile consumare il pranzo. Il giovane monaco, barba a pizzetto, mi ricorda certi sacerdoti dalle nostre parti, oserei dire d'avanguardia, così gioviali e dalla mentalità aperta. Ci fa notare che sono disponibili camere per tutti, nel caso intendiamo fermarci per la notte. La sosta non era prevista. Alcuni portatori sono andati avanti, proseguendo

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per Naar. Parte una staffetta per recuperarli. Siamo tutti un po' stanchi, il tempo non promette nulla di buono e pernottare in questo luogo di pace è un ghiotto invito. Così la tappa si interrompe qui. Abbiamo fatto bene? Chissà... con il senno di poi lo sapremo. Le camere che ci vengono assegnate si trovano in un edificio a parte. Una scala esterna conduce al primo piano con una disponibilità di 10 stanze. Camera 204 per me e Renato. Un magnifico drappo di colore rosso con il nodo infinito, uno degli otto segni della buona ventura, giallo, copre la porta in tutta la sua grandezza. Mi sembra una meraviglia. Profumo di nuovo e di pulito. Molto spazio all'interno. Una delle due finestre dà sul cortile interno, con il monastero e la foresteria. Se mi affaccio alla seconda finestra, sul lato opposto, ho le montagne di fronte. Svuotata la capace sacca di tutte le sue indispensabili cose, sono raccolto nel sacco piuma a buttare giù le impressioni del giorno sulla moleskine, prezioso taccuino e fedele compagna dei miei viaggi. Fuori è scesa la notte ormai. Piove...

Ancora pioggia fitta ed incessante per tutta la notte. Il cortile si è trasformato qua e là in un grande pantano. Siamo impossibilitati a muoverci. Le nove di mattina. Continua a piovere. Osservo la linea bianca che denota la presenza della neve, sulle montagne attorno, abbassarsi sempre di più. Il manto nevoso sembra via via consolidarsi. Ne approfitto per curare l'igiene personale, trascurata da qualche tempo. Nella avversità atmosferica siamo fortunati. Possiamo ritrovarci a conversare nella saletta della foresteria, dove una stufa al centro regala calore e conforto. Tazze di fumante the, che il monaco dal pizzetto è sempre pronto ad elargire, aiutano a trascorrere il tempo. Strano. Non vedo altri monaci. La gatta grigia con gattino completamente nero, che già avevo notato, è accoccolata proprio sotto la stufa. Li osservo. Il gattino, di quando in quando, accenna ad un tentativo di succhiare il latte materno. La madre, con delicatezza ma anche con decisione, lo respinge più volte. Si limita a leccarlo in tutte le parti del corpo. Sono proprio un pigrone. Trascorro buona parte del pomeriggio avvolto nel sacco piuma. Non so rinunciare al calore che il mio stesso corpo mi dona. Non ho

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neppure la voglia di visitare il monastero. Sono in equilibrio con me stesso. Una sensazione rara e piacevole. La pioggia non ci abbandona un istante da un giorno e mezzo. Seconda notte in attesa di un miglioramento.

Il monastero con la foresteria. Accanto, l'edificio a parte con le camere. La pioggia, incessante, ha allagato i cortili.

Naar Phedi 3480m – Koto (Kyupar) 2600m Mangalbaar, 29 Ashoj 2070 BS / Martedì, 15 Ottobre 2013 Piove incessantemente da 40 ore. Non possiamo restare ancora qui. Esperienza insegna che superare i 5306 metri del Kang La e uscire a Ngawal non è possibile. Il manto nevoso a quella quota sarà molto consistente e soprattutto instabile con alte probabilità di

slavine. Sono necessarie un paio di giornate di bel tempo

almeno, per dare tempo alla neve di compattarsi ed affrontare il passo con ragionevole sicurezza. Ma è proprio quello che ci manca. Il tempo. Il permesso speciale di permanenza nell'area di Nar-Phu scade domani 16 ottobre. Non rimane che rinunciare e scendere a Koto. Partiamo sotto la pioggia battente. Ci vorranno quasi sette ore per arrivare a Koto. Sette interminabili ore di continua pioggia, a tratti violenta, con un cielo ostinatamente chiuso e plumbeo. I sentieri diventati ruscelli da guadare. Pioggia e fango ovunque. Nessuna sosta. Il colpo di grazia lo subiamo quando siamo

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impegnati nel tratto finale. La parete rocciosa alla nostra destra scarica acqua come una gigantesca grondaia su di noi. L'unica difesa è accelerare il passo per uscire da quella indesiderata doccia il prima possibile... non ho mai visto così tanta acqua in vita mia. Snowland Hotel. Stanza 104. La stessa dell'andata. A sacche aperte, Renato ed io controlliamo com'è andata. L'esito non è confortante. Molti gli indumenti bagnati, in particolare la biancheria d'alta quota. Anche il sacco piuma ha pagato pegno. Per non parlare degli scarponi, fradici. Attendiamo l'ora della cena a letto, sotto una montagna di coperte che per fortuna si trovano lì. Siamo riuniti per la cena nella stanza al piano terra, accanto alla cucina, dove la stufa accesa dona un po' di calore. Gli indumenti bagnati appesi a dei cordini ad asciugare. Stessa scena già vista tante volte nei rifugi delle nostre montagne dopo la pioggia. Un pasto caldo è ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno. Che facciamo? Saltato il Kang La, salteranno anche il Tilicho Lake ed il Mesokanto La per lo stesso motivo. NEVE. In pratica l'intero programma e l'obiettivo principale di questo viaggio, almeno per me. Carlo Venturini, il nostro coordinatore e Dorje Sherpa sono dell'idea di proseguire via Manang, il Thorung La, 5416m, un passo tranquillo nonostante la quota perché non presenta difficoltà alpinistiche, pur innevato. Discesa a Muktinath, Kagbeni e Jomsom. Da lì rientro a Pokhara in jeep o volo. Personalmente non me la sento di rifare buona parte del tour dell'Annapurna di due anni prima. Se poi aggiungiamo allo scarso entusiasmo anche gli indumenti bagnati e gli scarponi inservibili non adatti a quote così elevate, la scelta è presto fatta. Renato ed io ci staccheremo dal gruppo e rientreremo a Besisahar, poi soggiorneremo a Pokhara per alcuni giorni. Ritrovo a Kathmandu prima della partenza per l'Italia, il giorno 25. Per Carlo Michelini il problema non si pone. Aveva già previsto il ritorno in tempi più stretti per impegni di lavoro. Chiedo a Dorje che cosa preveda il contratto per le spese nei giorni in cui i portatori resteranno con noi. A loro carico spetta il costo dei pernottamenti e a noi quello dei pasti, ridotto del 50%, tariffa comunemente praticata ai portatori negli alberghi. Mancia finale.

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Koto (Kyupar) 2600m - Dharapani 1860m Budhabaar, 30 Ashoj 2070 BS / Mercoledì,16 Ottobre 2013 È il momento del commiato. Carlo Michelini si mette in cammino di mattina presto con il suo portatore, con l'obbiettivo di arrivare a Kathmandu in giornata. Glielo auguriamo di cuore. Non sa l'inglese. Dorje, previdente, gli assegna un portatore con una conoscenza elementare della lingua che gli sarà certo di aiuto. Non è possibile fare altrimenti. Salutiamo gli altri cinque componenti del gruppo e li seguiamo con lo sguardo fino alle ultime case di Koto, diretti verso ovest. Dorje Sherpa è con loro. La pioggia ha perso di forza e di intensità. Il cielo è di un grigiore uniforme. Bene. Sono con Renato. Che fare? Non abbiamo problemi di tempo. Consulto il gestore del nostro lodge. L'idea è di portarci il più avanti possibile, verso valle, con una jeep. Non abbiamo programmi precisi. Però questa soluzione è subito da scartare dato che le notizie in arrivo parlano di una grossa frana che ha ostruito completamente la strada. Nessuno sa quando sarà di nuovo percorribile agli automezzi. Forse stasera... Chissà... non ci resta che attendere. La mattinata è lunga da passare. Delle jeep nemmeno l'ombra. Quantomeno ha smesso di piovere. Così, dopo un veloce lunch, la decisione. Scendiamo a piedi, anche con un tempo molto incerto. Cartina alla mano, faccio un programma di massima con Dawa, il mio portatore. Confido nel suo inglese. Oggi abbiamo disponibile tutto il pomeriggio. Potremmo arrivare fino a Dharapani. Pernottare e proseguire il giorno dopo, se tutto va secondo le previsioni. Domani si vedrà. La strada è interrotta in più punti. Una frana di terra, sassi ed alberi, più importante

delle

altre,

blocca

completamente la carreggiata. A piedi, ad ogni modo il problema non si pone e

con

qualche

equilibrismo

ed

acrobazia, si può aggirare l'ostacolo. Il morale è alto... … equilibrismo... appunto...

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Ore 17:00. Il villaggio di Dharapani si snoda per circa un paio di km, tanto è lungo. Scegliamo il Tibet Lasha Guest House per la cena ed il pernottamento, fra gli ultimi che incontriamo, giusto per guadagnare qualcosa domani mattina. La scelta non sembra molto felice. L'aspetto esteriore è accattivante, ma la stanza che ci viene assegnata è particolarmente umida con un penetrante odore di muffa. Il resto, cibo compreso, come da routine. Un'occhiata al cellulare. Ho notizie da Carlo Michelini.

SMS inviatomi da Carlo Michelini ore 11:25 del 16/10/2013 SONO A CHYAMCHE. JEEP DA QUA IN POI. STRADA INTERROTTA PER JEEP IN ALMENO 4 PUNTI. NON CREDO IN 2 GIORNI SIA LIBERA. OGGI O DOMANI RIPARTO. BUON VIAGGIO.

SMS inviatomi da Carlo Michelini ore 14:43 del 16/10/2013 SONO SU UNA JEEP CON IL PAPÀ, LA MAMMA, LE DUE FIGLIE PICCOLE E QUALCHE AMICO. UNA GUIDA TRANQUILLA E SICURA CHE MI PORTERÀ A BESISAHAR. DOMANI KTM. ALLA PROSSIMA.

SMS inviato a Carlo Michelini ore 18:16 del 16/10/2013 SIAMO PARTITI DA KOTO ALLE UNA E ORA SIAMO A DHARAPANI. DOMANI VOGLIAMO ARRIVARE A SYANGE E PRENDERE IL BUS PER BESISAHAR. RUGGERO

Le notizie da Carlo sono decisamente incoraggianti per lui ed utili per noi. Caspita! Ne ha fatta di strada. Certo, è partito molto presto e a quest'ora deve essere già a Besisahar. Da lì sono molte le corse di autobus per Kathmandu e domani sarà nella sospirata capitale. Ricapitoliamo. Da qui a Chyamche la strada non è gippabile. Dovremo camminare. Sulla carta circa tre ore. Altre tre ore fino a Syange, dove sappiamo

esistere il servizio autobus per Besisahar, oppure

vedremo di noleggiare una jeep. L'animo è più sereno. Speriamo il tempo ci aiuti domani. La tappa è lunga. Cena con abbondanti spaghetti al pomodoro e formaggio.

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Dharapani 1860m – Syange 1100m - Besisahar 760m Bihibaar, 31 Ashoj 2070 BS / Giovedì, 17 Ottobre 2013 Il tempo sembra favorirci. Forse il peggio è passato. Mi stupiscono non poco le piogge degli ultimi giorni in questo periodo dell'anno. Sono una anomalia atmosferica. Ottobre è il mese migliore per recarsi in Nepal, quando la stagione del monsone, che va da metà giugno a metà settembre, ha esaurito la sua forza. I cambiamenti climatici in atto sul nostro pianeta probabilmente non sono estranei a tutto ciò. Nei miei recenti viaggi ho sempre goduto di tempo bello e stabile con giornate gradevoli e temperature accettabili anche in alta quota. Prima della partenza, invito Dawa ed il portatore di Renato, di cui non ho il nome, a sedersi con noi al tavolo. Mi interessa instaurare un rapporto con loro che vada al di là del semplice contratto di lavoro, esistente fra noi. Di certo non mi va di fare la figura del sahib, di vittoriana memoria, risalente all'epoca dell'impero britannico. Ordino una 'big pot' di the, una specie di teiera enorme da litro che usano da queste parti, per condividerla con loro. Con quattro tazze. Verso il the e gliele porgo... rifiutano. Conosco, o credevo di conoscere a questo punto, alcune norme basilari di comportamento da tenere in Nepal. Si sa. I gesti giusti possono superare le differenze tra società e culture diverse. E non vi è motivo di stupirsi o scandalizzarsi. Qui, ad esempio, si usano entrambe le mani nel porgere un dono e la mano destra per offrire oggetti di uso comune. Ancora più importante, secondo me, è evitare di toccare il cibo di un nepalese, in quanto si contaminerebbe. Nel nostro caso ho porto loro una bevanda direttamente da un recipiente e forse qui sta l'errore. Avrei dovuto lasciare questa operazione a loro stessi. Ma è giunto il momento di metterci in cammino. L'idea, forse ambiziosa, è di arrivare a Besisahar in giornata, pernottare, e l'indomani essere a Pokhara. Gambe in spalla dunque, come si suol dire, e giù per la strada. 'Strada' è probabilmente un eufemismo che è bene chiarire subito. Si tratta di una striscia di terra battuta, sconnessa, terribilmente fangosa dopo ogni acquazzone, che lascia l'impressione a chi la percorre, di un eterno “lavori in corso”. Larga quanto basta per permettere l'incrocio, a fatica, di due automezzi e, spesso, pericolosa. I paracarri di protezione pressoché inesistenti. Piccole frane di terra e massi sulla sede stradale. Ed il ciglio,

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a tratti assente, sprofondato a fondovalle per le piogge monsoniche. Questa strada è di recentissima costruzione. Lunga 97 km, collega Besisahar con Manang coprendo quella che era ritenuta, a ragione, la rete di sentieri tra le più spettacolari al mondo, che porta al Thorung La, un passo a quota 5416m. Esso mette in comunicazione i versanti est ed ovest dell'Annapurna, il decimo ottomila più elevato del pianeta e permette ai trekker di chiudere l'anello del massiccio in 17 giorni di marcia, portando a casa un bagaglio di emozioni e conoscenze inestimabile. Mentre il numero dei trekker è calato drasticamente, sembra che i più entusiasti siano proprio gli abitanti di Manang e con ottime motivazioni, direi. La strada fa

risparmiare tempo. Un esempio su tutti. Ora si possono portare gli

ammalati all'ospedale, quando prima, per i casi più gravi, bisognava trasportarli a valle sulle spalle, nella gerla di bambù intrecciato, o doko, comunemente usata dai portatori per i carichi pesanti. Mi è capitato più volte di assistere a questi curiosi ricoveri. Di certo, è la più importante infrastruttura per migliorare la qualità della vita delle comunità locali, anche se richiede particolari attenzioni per l'impatto negativo che può causare sull'ambiente. La sua costruzione ha comunque toccato interessi di vario genere, spesso in aperto contrasto tra di loro. Facile immaginarli. I piccoli proprietari di lodge e bhatti, cresciuti ai lati dei sentieri per dare vitto ed alloggio ad escursionisti e pellegrini, erano fermamente contrari. Ma rappresentavano solo il venti per cento della popolazione residente. Gli agricoltori la strada la volevano per ovvi motivi. Il trasporto su strada è di certo vantaggioso, vuoi per la quantità, vuoi per i costi. Portare la merce a dorso di mulo o sulle spalle dei portatori non è di certo competitivo e, ciò che più conta, richiede tempi assai più lunghi per arrivare a destinazione. Ancora. Viaggiare diventa più facile e, in un mondo che ha sempre più fretta, richiede minore tempo per gli spostamenti. La categoria più penalizzata sembra quella dei trekker. Come dar loro torto? Provate a camminare per giorni interi e settimane su strade battute da automezzi. Rumore. Aria inquinata. Il pericolo di essere travolti. Viene a mancare la motivazione principale, la molla che spinge a fuggire dai ritmi frenetici della vita quotidiana a cui tutti siamo costretti. Spezzare la routine, muoversi al solo ritmo dei propri passi là dove spazio e tempo perdono la loro specificità fino a dilatarsi e a

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fondersi. E non dimentichiamo l'imprevisto, quel pizzico di avventura che da sola può giustificare la stanchezza, i pericoli e le rinunce di un lungo viaggio nella natura a contatto con culture dalle quali abbiamo molto da imparare in termini di ospitalità, semplicità, valori veri. Manang si trova su di un terrapieno alluvionale a 3540 metri alla testata della valle, solcata dalla Marsyangdi Khola. A nord svettano le cime dei Chulu. Tutte superano i seimila metri. A sud si eleva l'immane catena montuosa degli Annapurna, con le sue creste, i picchi innevati e i contrafforti rocciosi. Una terrificante cascata di ghiaccio precipita dal Gangapurna, per finire nel piccolo lago glaciale che lambisce il grosso villaggio. Per tutti questi motivi Manang è il centro più importante di tutto l'Annapurna trail. Da qui ci vogliono ancora due giorni di cammino, i più impegnativi, per toccare il Thorung La. Insomma, un paradiso per gli escursionisti provenienti da ogni parte del mondo. Ora, l'ente che si occupa di tutto ciò necessita di fondi. Dove e come li reperisce? In particolare derivano dai trekking permit (permessi di accesso), il cui costo attuale è di 2000 rupie, reinvestite al 100%. Altri aiuti derivano da donazioni a livello nazionale ed internazionale. Per il funzionamento ottimale dell'intera area, sono sorte delle strutture gestionali ad hoc nelle sedi più turisticamente importanti, per un livello eco-sostenibile dei flussi turistici, delle comunità locali e dell'ambiente. Nelle sedi meno favorite dal turismo, in genere alle basse quote collinari, sono l'agricoltura, l'allevamento del bestiame e le attività silvo-forestali ad essere privilegiate. Un'unica costante unisce tutti gli interventi ed i programmi: la gestione è unicamente nelle mani dei residenti. Le campagne di sensibilizzazione, partite alcuni anni fa e tuttora in pieno svolgimento, stanno dando i loro frutti. Uso di combustibili e di energie alternative, costruzione di asili e scuole,

educazione

ambientale a partire dalle classi dell'istruzione secondaria, corsi di alfabetizzazione per adulti, infrastrutture residenziali e alberghiere, opere di contenimento e canalizzazione dei fiumi, impianti igienico-sanitari e di depurazione dell'acqua, introduzione di colture alternative, centri di informazione per turisti. E ancora. Coinvolgimento della componente femminile, da secoli emarginata, nelle scelte decisionali. E allora? Facciamo due conti grossolani. Secondo i dati forniti dall'ACA il numero totale dei trekker provenienti da paesi stranieri ha sfiorato le 100.000

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unità nell'anno 2011. Il trekking permit vale 2000 rupie che, moltiplicato per quel numero, mi dà duecento milioni di rupie. Convertitore alla mano, fanno 1.672.904 euro. Una cifra molto importante. Come contrastare il calo delle presenze? Nel 2006

l'ACAP

(Annapurna

Conservation

Area

Project,

il

Programma

di

Conservazione e Sviluppo della Regione dell'Annapurna), ha iniziato a studiare dei percorsi alternativi. Nuovi sentieri sono stati individuati e già si parla di un Nuovo Trek dell'Annapurna (NATT). Stiamo percorrendo il tratto sicuramente più pericoloso fra Tal e Chyamche. Qui la strada è una stretta cengia scavata nella roccia a colpi di piccone e scoppi di mine, una ferita nella parete a picco sulla Marsyangdi Khola. Qui sono richiesti nervi saldi e riflessi pronti per chi si trova alla guida di un automezzo. Due anni fa ancora non esisteva. Stesso periodo dell'anno. Ottobre. Allora salivamo per un sentiero nell'umida foresta di latifoglie e su tratti alquanto esposti lungo il fianco orientale della valle. I frequenti incontri con lunghe carovane di muli ed asini, preceduti dal suono familiare dei campanellini, ci costringevano ad addossarci a monte del sentiero in attesa del loro passaggio. Precauzione necessaria per evitare, nel caso contrario, di essere spinti di lato e sbalzati di sotto.

La strada fra Tal e Chyamche è scavata nella roccia. Foto a destra: in vista di Chyamche.

Di jeep nemmeno l'ombra... Ancora qualche passo ed eccoci alla interruzione... ci vorrà qualche tempo per rimediare questa volta. Una frana di grosse dimensioni ha cancellato la strada per alcuni metri ed il ciglio è stato inghiottito nel vuoto. Non è stato semplice superarla, neppure a piedi.

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Chyamche. Ore undici ed il tempo gioca a nostro favore. Possiamo andare avanti come da programma, verso la meta che ci siamo imposti. Breve sosta per un the e... via, dunque. Syange. Ore 13:00. Il servizio di autobus per Besisahar non funziona. L'attesa di trovare un passaggio in jeep si prospetta assai lunga. Sembra non ci sia fretta alcuna da queste parti. Ne approfittiamo per un abbondante piatto di spaghetti al pomodoro. Buono. Forse è la fame. Alle 16:15 una jeep parte per Besisahar. Saliamo con i portatori. Si intravede la fine del tunnel. Arriviamo a destinazione dopo due ore e mezza di 4x4, traballante per gli scossoni, i sobbalzi e le profonde buche nel fango. Ma tant'è. Cena e pernottamento al Tilicho Hotel... quasi una beffa del destino per noi.

Bollettino meteo di giovedì 17 ottobre 2013 LA VIOLENTA TEMPESTA TROPICALE PHAILIN CHE HA COLPITO LA COSTA ORIENTALE DELL'INDIA SABATO NOTTE 12 OTTOBRE HA INVESTITO DOMENICA 13 LE REGIONI ORIENTALI CENTRALI ED OCCIDENTALI DEL NEPAL. L'INATTESA PRECIPITAZIONE È DURATA PER 4 GIORNI CONSECUTIVI DA DOMENICA 13 FINO A MERCOLEDÌ 16 E HA CAUSATO UN BRUSCO CALO DELLE TEMPERATURE. A KATHMANDU MERCOLEDÌ LA MINIMA È SCESA

A

15° CELSIUS E LA MASSIMA A 20,1°. LE CONDIZIONI METEO

SONO IN NETTO MIGLIORAMENTO DA OGGI. LA REGIONE DEL SOLU KHUMBU È STATA INTERESSATA DA INTENSE NEVICATE SEGUITE DA INGENTI PIOGGE. L'AEROPORTO TENZING-HILLARY DI LUKLA HA SUBITO INTERRUZIONI E BLOCCHI. LA FESTIVITÀ DEL DASHAIN

IN

QUESTI

QUATTRO

GIORNI

È

STATA INFLUENZATA DAL FENOMENO.

PIOGGIA RECORD CON 95,4 MM. LA STAGIONE MONSONICA HA AVUTO QUEST'ANNO UN PERIODO INSOLITAMENTE LUNGO CHE NON SI VERIFICAVA DA QUARANTA ANNI A QUESTA PARTE CON UNA DURATA COMPLESSIVA DI 125 GIORNI.

Besisahar 760m – Pokhara 830m Shukrabaar, 1 Kartik 2070 BS / Venerdì, 18 Ottobre 2013 DASHAIN. Tutte le feste nel Nepal, pur essendo di origine soprattutto religiosa, finiscono immancabilmente per assumere l'aspetto di un avvenimento sociale, profondamente sentito e vissuto. La festività del Dashain non fa eccezione. È fra le

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più famose e partecipate perché celebra la vittoria della dea Durga, una delle tante emanazioni della Dea Madre Devamatri, su Mahisashur, potente demone. Non è difficile pensare come il tutto non sia altro che una metafora della lotta eterna fra il Bene ed il Male, comune a molte religioni. La dea Durga viene venerata in tutto il paese con offerte votive ed il sacrificio di migliaia di animali. Il malvagio Mahisashur aveva creato, con le sue azioni, il terrore nel mondo degli dei. Nessuno si era opposto a tale sfacelo, solo Durga aveva osato contrapporsi uccidendolo e portando la salvezza per tutti. Per le famiglie è un'ottima occasione per ritrovarsi, stare assieme e rinnovare i legami parentali ed affettivi. Particolarmente favoriti gli studenti di ogni ordine e grado. Le scuole chiudono per un mese. Le case vengono pulite a dovere ed arricchite con decorazioni varie per ricevere degnamente la visita della dea. Si approfitta per rinnovare il guardaroba personale con l'acquisto di abiti nuovi per sé e per gli altri. Le celebrazioni durano quattordici giorni e seguono alcune fasi codificate dalla tradizione. La partecipazione è di massa: alte cariche istituzionali e militari, funzionari civili, autorità religiose, la comunità variopinta della gente. Tutti sono accomunati dal medesimo interesse. La festa è importante perché ricorda come la Verità, la Giustizia e la Virtù siano principi universali che debbono prevalere sull'Inganno, l'Ingiustizia e la Malvagità. È somma festa per gli Induisti come per i Buddhisti, che ricordano il momento in cui l'Imperatore Ashoka, sovrano dell'India, vissuto tra il 272 e il 236 a.C., abbandonò una vita di violenze per incamminarsi sul sentiero del Buddhismo. Sono previsti vari e complessi rituali, processioni, parate, balli e canti per le affollate vie della valle di Kathmandu. I bambini riempiono il cielo con i loro aquiloni colorati. Alti nel cielo, annunciano l'imminenza della festa e sono una preghiera per la dea Durga affinché non mandi la pioggia. Numerose sono le altalene di bambù, costruite per l'occasione in varie parti del paese, con l'aiuto di tutti gli appartenenti alle comunità locali. Sono l'espressione della infinita gioia, in particolare dei bambini. Alcune di queste arrivano a sfiorare i sei metri di altezza. Passate le feste, saranno smantellate. Nella prima delle quattordici giornate celebrative si piantano dei semi d'orzo in una mistura di sterco di vacca e sabbia di fiume in un recipiente (kalasha), simbolo della dea Durga, abbondantemente bagnati con acqua sacra. È l'offerta (puja) alla dea di ogni capo famiglia. Essa, con la sua presenza, benedirà e

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proteggerà la casa ed i suoi abitanti. I semi, tenuti al riparo dalla luce diretta del sole al centro di una stanza, sono innaffiati due volte al giorno, mattino e sera. Al decimo giorno i semi saranno germogliati. Le piantine d'orzo (jamara) diventano il simbolo di un buon raccolto e sono considerate di buon auspicio per tutti i membri della famiglia. Il clou avviene nell'ottava giornata dei festeggiamenti. Migliaia di giovani maschi di bufalo e capra e di volatili da cortile vengono sacrificati nei vari templi sparsi per il paese per soddisfare la sete insaziabile di sangue della dea Kali, una delle emanazioni della Dea Madre o Durga. Il sangue simboleggia la fertilità. Dopo la macellazione e l'offerta del sangue alla dea, la carne viene portata a casa e cotta, in quanto cibo consacrato (prasad) dalla divinità. Poi viene offerto su piatti di foglie ai numi tutelari della casa e distribuito fra gli appartenenti della famiglia riunita. Consumare questo cibo è di lieto auspicio. Anche gli oggetti da lavoro d'uso comune vengono bagnati con il sangue delle vittime sacrificate. In questa orgia collettiva, il sangue scorre a fiumi sugli altari dei templi. È uno spettacolo non certamente adatto per le persone più sensibili. Terminata la fase cruenta, è compito delle donne preparare la tika o tilak, un preparato a base di riso, latte coagulato e terra di colore carminio. Gli anziani applicano questa mistura sulla fronte dei giovani della famiglia e la accompagnano con una piccola somma in denaro per augurare loro fortuna e felicità per l'anno a venire. È un simbolo, rappresenta il terzo occhio o occhio della mente e protegge dagli spiriti malvagi. In passato era un segno distintivo di divinità, sacerdoti e asceti; oggi è una pratica induista molto comune. Il colore rosso simboleggia il sangue, ancora una volta, che tiene uniti i vincoli parentali. L'ultima giornata, oggi, è dedicata alla dea Laxmi, l'ennesima emanazione della Dea Madre, altrimenti Durga o Kali. Laxmi è la dea dell'abbondanza che scende sulla terra per colmare di prosperità e benessere tutti coloro che rimangono svegli in questa notte di luna piena. Proprio per tale motivo le famiglie trascorrono le ore della notte giocando a carte o in altre attività.

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Da circa due ore ormai siamo in viaggio per Pokhara su di un autobus di linea lungo la Prithvi Highway. Così vituperati dai turisti occidentali perché sono scomodi, gli spazi all'interno limitati e gli orari di partenza e di arrivo, quando ci sono, difficilmente rispettati. Frequenti gli incidenti mortali, assai spesso determinati da uscite di strada dell'automezzo. Si sa, le strade sono quelle che sono... la segnaletica è carente... e non mi riferisco soltanto alle strade di montagna. Anche le cosiddette “highway”, le vie principali di grande comunicazione che collegano i centri importanti del paese, soffrono di progettazioni affrettate e di scarsa manutenzione. A Besisahar ci siamo congedati dai nostri portatori e, sistemate le pesanti sacche sul tetto del pullman, siamo qui a sperimentare di persona, per la prima volta, come si viaggia con il trasporto pubblico. A cominciare dai costi. Il prezzo del biglietto Besisahar – Pokhara è di 250 rupie, vale a dire due euro. Date le continue fermate per permettere alla gente di scendere e salire, la velocità commerciale è decisamente bassa. Cinque ore per fare 80 km, tale è la distanza fra le due città. Ma il tempo, in questo caso, mi è alleato perché mi dà il modo di guardarmi attorno ed osservare con attenzione cosa succede in uno spazio così ristretto, in un lungo lasso di tempo. Partiamo dal bigliettaio. Un signore di robusta taglia, assai deciso, ritira i soldi, consegna il biglietto e, con voce imperiosa che non ammette repliche, indica al Tizio ed al Caio di turno, dove sedersi. Ai viaggiatori in piedi dove spostarsi per fare posto a coloro che salgono o che devono scendere. Renato ed io, ci siamo risparmiati tale cerimoniale, dato che fortunatamente siamo saliti al capolinea e avevamo ampie possibilità di scelta. Aggiungerei che, stando il rapporto fra i salienti e gli scendenti in continuo divenire, il bilancio è decisamente a favore dei primi. Inutile dire che, ad un certo punto del viaggio, ci troviamo impacchettati come sardine. C'è di tutto e si fa di tutto. L'atmosfera gioiosa mi fa ricordare che oggi è il PURNIMA, l'ultimo giorno del Dashain in cui i fedeli si spostano in massa per le rituali visite. Indossano l'abito delle grandi occasioni. Sono seduto accanto ad una giovane mamma. Per tutto il tempo allatta al seno, ora quello destro, ora quello sinistro, un piccolo marmocchio alquanto riluttante a starsene tranquillo. Io vorrei scambiare qualche parola con lei... ma forse è meglio di no... non vorrei essere male interpretato... il signore, seduto davanti a me, dà di stomaco in un sacchetto provvidenzialmente fornito dal

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sempre attento bigliettaio... non ha fatto altro che mangiucchiare dolcetti di ogni tipo!.. l'autista spara musica locale... tipo orchestra Raoul Casadei, da noi noto come il re del liscio... non esattamente il mio genere musicale, comunque... il signore di cui sopra, finita l'operazione, prende il sacchetto... lo passa sotto il naso del vicino seduto a fianco... apre il finestrino e... via... fuori... mentre io mi sforzo di non importunare la mia occasionale compagna di viaggio costringendomi in posture innaturali... ...le mie gambe non trovano spazio...

UN'ALTALENA DI BAMBĂ™ COSTRUITA IN OCCASIONE DELLA FESTA DEL DASHAIN.

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COME TRASCORRERE ALCUNE PREZIOSE GIORNATE IN LIBERTÀ A POKHARA. COSA VEDERE: MAHENDRA GUPHA - CHAMERA GUPHA - GURKHA MEMORIAL MUSEUM K.I. SINGH BRIDGE - PATALE CHHANGO GUPTESHWAR MAHADEV GUPHA - SHANTI STUPA TAL BARAHI - INTERNATIONAL MOUNTAIN MUSEUM PHEWA TAL SARANGKOT

Nella pagina precedente: il Lago Phewa (Phewa Tal) In questa pagina: Pokhara ed il Lago Phewa dalla collina di Sarangkot

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Turisti a Pokhara

“Pokhara, una terra dai grandi contrasti. In nessuna parte al mondo si possono ammirare montagne che superano gli 8000 metri così da vicino, direttamente dalla pianura tropicale, senza catene montuose interposte. Pokhara è di certo uno dei luoghi più belli e straordinari del mondo”. Così Toni Hagen (1917 – 2003), geologo svizzero, che molto viaggiò e visse in Nepal. Mentre il nostro Giuseppe Tucci, durante la sua spedizione scientifica del 1952, la definiva «un enorme bazar che si snoda lungo una interminabile via». Oggi Pokhara, ovvero 'la valle dei laghi', capoluogo del distretto di Kaski, con i suoi 255.465 abitanti, secondo il censimento del 2011, è la seconda città più popolosa del Nepal. La valle si trova incastonata tra le pendici della grande catena himalayana a nord ed una serie di verdeggianti colline a sud. Probabilmente l'unico posto al mondo dove è possibile godere della vista di ben tre gruppi montuosi con cime che superano gli ottomila metri, l'Annapurna, il Dhaulagiri ed il Manaslu. Se pensiamo che la città si trova ad una altitudine media di 827 metri sul livello del mare e che in linea d'aria non dista neppure 60 chilometri dai tre giganti appena nominati, appare chiaro come Pokhara abbia conquistato la fama di paradiso in

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terra e di porta per l'Himalaya. Per la posizione geografica gode di un clima subtropicale mite, con temperature che vanno dai 25 ai 33°C in estate, e dai -2 ai 15°C in inverno. È interessata dalle piogge monsoniche a partire dal mese di giugno fino a settembre. Sembra che la neve non si faccia mai vedere da queste parti. Un tempo florido centro di scambi commerciali sulla via carovaniera che collegava l'India al Tibet, oggi Pokhara ha perso quasi del tutto questo importante ruolo. È pur sempre possibile vedere lunghe file di muli in sosta in periferia, carichi di merci, in partenza per le remote regioni himalayane di confine, come il Mustang. Il turismo ha fatto il suo ingresso nella valle verso la fine degli anni sessanta del secolo scorso, con la costruzione della strada carrozzabile che collega Pokhara con Kathmandu. Oggi sono sufficienti venticinque minuti di volo o sei ore di autobus e veicoli d'altro genere per coprire i 200 chilometri che separano le due città. Shanibaar, 2 Kartik 2070 BS / Sabato, 19 Ottobre 2013 Siamo alloggiati al Green Tara Hotel. Dà su di una stradina laterale a pochi passi dalla riva orientale del grande Lago Phewa. L'albergo è pulito, luminoso, con ampie superfici vetrate. Gli stucchi sui soffitti, le numerose piante in vaso nei corridoi, ai piani e sulle scale, sono un ottimo biglietto da visita per ogni nuovo arrivato. Per noi è un gradito ritorno. Ci sistemiamo in una camera spaziosa, a tre letti con bagno, all'ultimo piano. Sopra di noi, un'ampia terrazza dalla quale l'occhio può spaziare tutto intorno. Vi resteremo per alcuni giorni. Da normali turisti. Green Tara. Tara è la figura femminile più popolare nel Pantheon tibetano delle divinità. L'iconografia ne fa un ritratto di donna assai giovane, quasi una fanciulla, bellissima. La dea, il cui nome significa «stella» in sanscrito, deriva dalla Grande Madre Creatrice dell'Induismo, dove è venerata come una delle manifestazioni della dea Parvati. Entrò nel Buddhismo di rito tibetano probabilmente verso il sesto secolo. Nella tradizione buddhista Tara è nata dalle lacrime di Avalokiteshvara, Colui-che-tutto-vede, l'incarnazione della infinita compassione del Buddha. La

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tradizione narra come il sant'uomo pianse nel vedere il mondo degli esseri viventi soffrire nel samsara, l'eterno ciclo della vita, morte e rinascita. Dalle lacrime che scendevano copiose dall'occhio destro ebbe origine Tara Verde mentre da quelle dall'occhio sinistro nacque Tara Bianca. Assieme simboleggiano la compassione infinita della divinità che lavora giorno e notte per lenire le nostre sofferenze. Nel Buddhismo di rito tibetano è molto più di una dea, è la rappresentazione femminile del Buddha, una “Illuminata” che ha raggiunto lo stato supremo della saggezza e della compassione. Storicamente Tara viene associata con le due mogli del primo re buddhista del Tibet, Songtsen Gampo, salito al trono all'età di tredici anni nel 629. La prima moglie fu la principessa nepalese Bhrikuti Devi. Portò con sé una statua di Akshobya, una delle manifestazioni spirituali del Buddha. È considerata l'incarnazione di Tara Verde. La seconda moglie fu Wen Cheng, una nipote del potente imperatore della Cina. Portò in dote una statua del Buddha Shakyamuni. È ritenuta l'incarnazione di Tara Bianca. Matrimoni di stato, diremmo oggi, con l'unico scopo di rafforzare i vincoli di pace o di non belligeranza tra regni confinanti. Molto devote, saranno loro a portare la nuova religione nel Tibet e a far convertire il re e loro sposo Songtsen Gampo. Esistono 21 rappresentazioni di Tara, ciascuna dal diverso colore. Tutte sono emanazioni della originale Tara Verde. Per i Buddhisti il colore verde significa attività, dinamismo, realizzazione. Così Tara Verde è rappresentata in atteggiamento dinamico. Ricca di vigore giovanile, è la dea salvatrice. La classica postura la vede in appoggio su di un fiore di loto. La gamba sinistra ripiegata nella posizione contemplativa. La destra

distesa, pronta ad

entrare in azione. La mano sinistra nella mudra, “gesto” in sanscrito, dell'offerta di rifugio. La destra nella posizione di elargire un dono. Dalle sue mani hanno origine due lunghi steli con due fiori di color blu cobalto, simbolo di purezza e di forza. È adorna di gioielli sfarzosi. Giro vita stretto ed il seno pieno. È la Madre di noi tutti. È sempre disposta ad aiutare coloro che soffrono come una madre amorosa protegge, cura ed ama i propri figli.

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L'iconografia ed il ruolo di Tara Verde sono ottimamente illustrati in questa lauda religiosa, opera del primo Dalai Lama, Guendun Drup (1391 – 1474).

In lode della Veneranda Signora Tara Khadiravani Protesa nel conseguire la Vacuità suprema, su di un fiore di loto, O Signora dalle braccia e dal volto color verde smeraldo, La gamba destra distesa e la sinistra ripiegata, nel pieno della giovinezza, Unione mistica di arte e saggezza – a Te mi inchino! Quale lungo ramo del verde albero del paradiso La Tua agile mano destra elargisce un dono. Invita i saggi al banchetto delle supreme Virtù, Come ad un ricevimento – a Te mi inchino! La Tua mano sinistra offre a noi rifugio, indica i Tre Gioielli. Dice: ”Voi che vedete mille pericoli, Non abbiate paura – Io vi salverò!” A Te mi inchino! Le Tue mani con le ninfee azzurre ci dicono, “ Creature del Samsara! Non restate attaccati ai piaceri della vita. Entrate nella grande città della Liberazione!” Quei fiori... invitano all'impegno – a Te mi inchino!

Testo raccolto in lingua inglese Traduzione dello scrivente

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TARA VERDE FONTE: http://www.enricoguala.it/wp-content/uploads/2014/10/606pxGreen_tara_1947_wk.jpg

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* * * Correva l'anno 2011. Era di ottobre. Come oggi. Allora ritornavamo dal massiccio dell'Annapurna, che con i suoi 8.091 metri di altezza è la decima montagna più elevata del pianeta. Nelle gambe avevamo 240 km di cammino, equamente suddivisi su un dislivello di 13.680 metri in salita e 10.890 metri in discesa. Il tempo fu generoso con noi, permettendoci di raggiungere tutti i nostri obiettivi. Dopo aver risalito la Marsyangdi Khola e superato il Thorung-la, eravamo scesi a quote più tranquille lungo la valle scavata dalla Kali Gandaki nella sua veloce e tumultuosa corsa dall'arido altopiano tibetano a nord, giù giù, fino a gettarsi nel sacro fiume Gange, più a sud. E ci eravamo spinti nel cuore del Santuario, un bacino glaciale d'alta quota, particolarmente freddo e ventoso. La catena himalayana qui forma un anfiteatro ovale ampio sei chilometri. Una breccia, stretta tra due poderosi pilastri di roccia, nella formidabile barriera di cime disposte ad anello, che donano al luogo l'aspetto di una fortezza inaccessibile. La storia alpinistica del Santuario è molto recente. Inizia nel 1957, fino ad allora vietato agli occidentali. Una spedizione britannica, guidata da James Roberts, fallì il primo ed unico tentativo di scalare il Machhapuchhre, una curiosa e splendida montagna il cui nome significa 'coda-dipesce'. Solo tre metri le mancano per essere un settemila. La cordata di punta fu costretta al ritiro ad appena cinquanta metri dalla vetta. Il re dichiarò che la sconfitta non era da imputarsi a difficoltà tecniche bensì al volere di Lord Shiva, che sulla cima ha la sua dimora. Motivo per cui il permesso di accesso alla sacra montagna non fu più concesso e la montagna rimane inviolata ancora oggi. Più importante ai fini della conoscenza di quest'area è Chris Bonington. Nel 1970, a capo di una spedizione che annoverava il fior fiore dell'alpinismo britannico dell'epoca, portò a compimento la scalata della parete sud dell'Annapurna I. Il 27 maggio Don Whillans e Dougal Haston arrivarono in vetta. Fu l'inizio di un nuovo tipo di alpinismo himalayano che, dopo la salita di tutti gli ottomila, si proponeva come obiettivo non più le cime, bensì grandi vie su grandi pareti, particolarmente impegnative e con i più alti gradi di difficoltà alpinistiche. L'enorme successo

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dell'impresa fu funestato però dalla morte in parete di Ian Clough. Una valanga lo investì ed uccise tra i campi II ed I mentre scendeva verso la base della parete. Chris Bonington, nel suo Annapurna parete sud,

dedicò due interi capitoli a

descrivere la marcia di avvicinamento al «Santuario». Ed è proprio a loro, agli inglesi, che dobbiamo l'appellativo di Sanctuary, ad identificare questo anfiteatro nascosto di cime. A Pokhara, allora, avevamo solo una intera mattinata a nostra disposizione, prima di prendere l'aereo per Kathmandu nel pomeriggio. Con noi era Khaji Sherpa. Il Lago Phewa si rivelò una delle mete naturali più appaganti di tutta la vallata. Non potevamo mancare all'appuntamento. Il lago appariva sfumato nei contorni alla sua massima lunghezza, quattro chilometri più a monte. L'acqua, dello stesso colore del cielo, donava una tenue tonalità d'azzurro a tutto il paesaggio, boschi compresi. Uniche macchie di colore le piccole barche variopinte dal fondo piatto. Fu proprio su una di queste che raggiungemmo l'isoletta davanti a noi. Cinquanta rupie il costo del passaggio. Accomodati ordinatamente sugli scanni, quasi a pelo d'acqua, la barca scivolava lentamente sulle tranquille acque. Dopo pochi minuti mettemmo piede sull'isola. Ospita il monumento religioso forse più importante della città. La struttura di questo tempio, in stile pagoda a due piani, è dedicata interamente alla dea Barahi. Barahi è uno dei tanti aspetti della Dea Madre. Ne voglio ricordare qui altri. Parvati, sposa di Shiva. Lakshmi, sposa di Vishnu e dea della fortuna e del benessere. Taleju, dea protettrice del Nepal. Kali, regina della morte. E ancora Durga, la dea guerriera sempre in lotta contro i demoni. Come forza femminile può assumere diversi ruoli, in quanto origine della creatività e forza universali. Viene rappresentata con il volto di scrofa ed il corpo di donna. In una mano tiene una coppa e nell'altra un pesce. Per trafiggere i nemici malvagi usa le appuntite zanne. La dea è oggetto di profonda venerazione per i devoti hindu e buddhisti. Si ritrovano in questo luogo il sabato, giorno di festa. Vi portano animali maschi e volatili da sacrificare alla dea su di un altare edificato allo scopo. Data l'ora, le nove del mattino, non furono molti i fedeli. Lasciate le calzature all'ingresso, attendevano il loro turno per entrare nel piccolo tempio. Come al solito, per noi, 'non-fedeli', l'accesso fu interdetto.

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Sopra: la piccola isola con il tempio dedicato alla dea Barahi. Barche variopinte a fondo piatto permettono di raggiungerla in pochi minuti. Sotto: il tempio a pagoda. Al sabato, giornata festiva in Nepal, i fedeli fanno la fila per accedervi.

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Ci restavano ancora un paio di ore che dedicammo al Museo Internazionale della Montagna, direi un must per ogni alpinista appassionato, a venti minuti d'auto a sud della città, non lontano dall'aeroporto. Fortemente voluto dalla Nepal Mountaineering Association, il Club Alpino Nepalese, è stato costruito con il supporto economico di varie associazioni nazionali ed internazionali. Inaugurato nel maggio 2002, è aperto al pubblico in tutte le sue sezioni a partire dal febbraio 2004. L'ampio edificio a due piani è situato all'interno di un vasto giardino, dal quale si può godere la vista della catena himalayana, se il bel tempo aiuta. Al centro

emerge,

con

la

sua

inconfondibile

forma,

il

versante

sud

del

Machhapuchhre. Allora fui impressionato dalla straordinaria somiglianza con la parete nordest del Cervino, la montagna archetipo per eccellenza. Diciamo che la visione naturale del gruppo dell'Annapurna, del Dhaulagiri e del Manaslu, sono parte integrante del museo stesso. Ci arrivammo passeggiando tranquillamente tra grandi alberi e piante di caffè. Un chorten, semplicissimo nella sua struttura in pietra, rimanda ai cairn che segnano gli alti passi e sentieri himalayani. “Dedicato a tutti coloro che hanno perso la vita in montagna”, recita la scritta sulla targa. Nei pressi della scalinata che conduce ai saloni espositivi, staziona un grande yak in bronzo, l'animale simbolo e risorsa vitale per le popolazioni che ancora risiedono alle alte quote della regione tibeto-nepalese. L'interno è suddiviso in varie sezioni, ciascuna dedicata a precise tematiche che mettono in relazione tra di loro l'Uomo, la Montagna e le Attività in Montagna. Il primo interessante approccio è nell'area riservata alle popolazioni delle montagne. Con manichini in grandezza naturale, dedicati ad alcuni gruppi etnici del Nepal, i Tamang, i Thakali, i Gurung e gli Sherpa sono rappresentati nei loro coloratissimi costumi tradizionali. La sezione successiva, la parte centrale direi di tutta l'esposizione museale, è dedicata alle montagne, con un occhio di riguardo per le 14 vette più elevate della terra. Gigantografie, pannelli e plastici introducono il visitatore nel mondo delle grandi altezze. Vari gli argomenti trattati. Ce n'è per tutti. Tavole di geologia sulle origini dei vari sistemi montuosi. Glaciologia. Campioni di fossili, minerali e rocce. Esemplari di flora e fauna. L'area successiva è dedicata alle attività dell'uomo. Le ascensioni ed esplorazioni, con particolare riguardo alla storia alpinistica del Monte Everest, negli anni che vanno dal 1921 al

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1953. E a Maurice Herzog, il salitore del primo ottomila, l'Annapurna, nel 1950. Un angolo è riservato all'attrezzatura ed equipaggiamento alpinistici. Né possono mancare lo yeti ed il suo mito, così presenti nell'immaginario collettivo. Ancora. Per stimolare l'attenzione su tematiche ecologiche ed ambientali, è possibile vedere un campionario dei rifiuti, e furono quintali su quintali, recuperati tra il 2000 ed il 2003, al Colle Sud e tra i vari campi all'Everest. Al piano superiore trovano spazio una sezione dedicata alle attività di diverse organizzazioni governative che si occupano della conservazione della natura e di un corretto sviluppo integrato della montagna. Una piccola biblioteca con circa 2000 volumi, periodici e riviste è a disposizione di studenti e studiosi. Il lakhang, o stanza delle preghiere, perfettamente ricostruito, il simbolo della religione buddhista prevalente nell'area himalayana.

In questo

locale, presente in tutti i monasteri, le spedizioni alpinistiche fanno una tappa d'obbligo per chiedere, tramite il Lama Rinpoche, la benevola intercessione degli dei. Il tutto è completato da una sala per le conferenze e da una sala per audiovisivi. Qui è utile ed interessante assistere alla proiezione di un filmato sulla regione del Khumbu e sulla sua gente, gli Sherpa. Perché proprio il Khumbu? È una valle di notevole importanza. Di certo la più famosa. Infatti furono Edmund Hillary e Tenzing Norgay a farla conoscere al mondo intero nel 1953, l'anno della conquista dell'Everest...

Il grande yak in bronzo all'ingresso del Museo Internazionale della Montagna.

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… Ma torniamo al presente. Questa volta abbiamo quattro o cinque giorni da gestire tutti per noi mentre i nostri amici arrancano verso il Thorung-la. Sono in contatto con loro tramite SMS, mai come ora così utili alla comunicazione, giusto per tenerci ancorati al sottile filo che ci unisce dopo esserci divisi a Koto. SMS inviatomi da Carlo Venturini ore 01:48 del 21/10/2013 CIAO RUGGERO. SIAMO A MUKTINATH. OGGI ANDIAMO A KAGBENI. POI PROSEGUIAMO COME DA PROGRAMMA. DIMMI DI VOI. A PRESTO. CARLO.

SMS inviato a Carlo Venturini ore 06:36 del 21/10/2013 PARTIAMO PER KTM IL 22. CI VEDIAMO ALL'HOTEL. TUTTO OK. RUGGERO.

SMS inviatomi da Carlo Venturini ore 11:08 del 21/10/2013 BENE! DIFFICOLTÀ COL CAMBIO DATA VOLO? IN CHE HOTEL SIETE?.. PREZZO – QUALITÀ? NOI SIAMO IN FERIE A KAGBENI. ANCHE CARLO TUTTO OK. BUON KTM.

SMS inviato a Carlo Venturini ore 15:35 del 21/10/2013 NESSUNA DIFFICOLTÀ COL CAMBIO VOLO. SIAMO AL GREEN TARA. DOMANI PARTENZA ORE 13:30. CI VEDIAMO ALL'HOTEL HARATI. NAMASTE.

E ancora con Carlo Michelini che doveva tornare in patria molto prima di noi per motivi di lavoro. SMS inviatomi da Carlo Michelini ore 04:24 del 20/10/2013 SONO ALL'AEROPORTO. COME VA LA VOSTRA VACANZA? HO FATTO DUE GIORNI DA TURISTA

A KTM. CI RIVEDREMO IN ITALIA. HA MIGLIORATO L'INGLESE RENATO?

SALUTAMELO. CIAO.

SMS inviato a Carlo Michelini ore 16:14 del 20/10/2013 SIAMO IN HOTEL. FUORI UN VERO DILUVIO. TURISTI PURE NOI. BUON RITORNO IN PATRIA. RUGGERO.

… Ecco cosa ci vuole. Una lunga passeggiata lungo la riva orientale, Baidam, del Lago Phewa, ideale per ammazzare il tempo. Del resto è anche la meta più

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accattivante e a portata di mano, a pochi passi dalla stradina in terra battuta dove si affaccia il Green Tara Hotel. Rivedere l'isoletta boscosa con il piccolo tempio, dedicato alla dea Barahi, è motivo di intimo piacere. Come le colorate barche dal fondo piatto, parcheggiate nei pressi del molo, in attesa. O le variopinte barche a vela solcare l'acqua cosÏ delicatamente da lasciare dietro di sÊ una scia appena percettibile. O il Tempio della Pace, sfavillante di luce bianca, emergere maestoso e solenne oltre la verde muraglia boschiva che gli fa da degna corona, alto sulla collina, a sud. O la sagoma inconfondibile del Machhapuchhre, la 'coda-di-pesce', svettare nel cielo azzurro di una limpida giornata di fine ottobre, a nord. O i tanti puntini neri appesi alle vele multicolori luccicanti nel sole alti nel cielo, a condividere lo spazio aereo con i grifoni e le aquile. O ancora, sullo sfondo, le cime eternamente innevate degli ottomila, che si specchiano civettuole nel blu del lago.

‌ ecco cosa ci vuole... una passeggiata... lungo la riva orientale del lago Phewa... in una tranquilla giornata di sole di fine ottobre... e la mente si libera da ogni affanno...

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Percepisco qualche cosa di nuovo su questo palcoscenico della natura. Piccole isole galleggianti verde smeraldo, dalle foglie lucide e carnose e aggraziati fiori azzurro-violetti, punteggiati di giallo che occhieggiano qua e là a pelo d'acqua, presso le rive. Si lasciano cullare e sembrano andare alla deriva, mosse dal lieve sciabordio causato dalle imbarcazioni. Noto con il nome scientifico di Eichhornia crassipes, il giacinto d'acqua è una pianta ornamentale comune in giardini e laghetti, proveniente dal bacino amazzonico. In pochi esemplari è un utile purificatore perché le sue lunghe radici si nutrono di sostanze organiche ed in agricoltura è un ottimo fertilizzante. In dosi massicce diventa invasivo. Difficile da estirpare, soffoca la fauna ittica e, a quanto mi si dice, ha causato interruzioni nella erogazione della energia elettrica. Blocca infatti il flusso delle acque che alimentano la piccola centrale idroelettrica a sud del lago che serve la città. Ma il pericolo maggiore agli occhi ed al cuore di un turista come me è la potenziale distruzione della struggente bellezza di questo ambiente naturale. Lasciata la riva, una laterale porta direttamente sulla Lakeside Marg, l'arteria principale che scorre parallela al lago. Lungo i suoi due chilometri scarsi si affacciano senza interruzione alberghi, ristoranti, negozi di souvenir, librerie, cambiavalute, agenzie di viaggio e di noleggio di attrezzature per gli amanti degli sport più disparati. Il traffico è sempre contenuto, nulla a che vedere con il caos dei veicoli d'ogni sorta a Kathmandu. Il luogo ideale dove Renato ed io ci rechiamo molto volentieri è la bakery annessa all'Hotel Barahi. Una piacevole parentesi quotidiana. Vi trascorriamo parte del nostro tempo a conversare, sorseggiando un caffè espresso, magari doppio, della mia marca italiana preferita, una cioccolata calda o un cappuccino, accompagnati dalle ottime paste di cui va giustamente fiera l'arte pasticcera locale. E aggiungiamoci anche un pizzico di ospitalità e cortesia da parte della giovane barista...

* * *

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Il gestore del Green Tara Hotel ha prenotato un taxi tutto per noi. A nostra disposizione per una giornata, ci lasceremo trasportare in un lungo giro turistico per scoprire i luoghi più interessanti della città. Il giovane autista sarà, e questo è importante per me, la guida che mi fornirà altresì notizie ed informazioni preziose. Il suo inglese non si limita alle solite poche parole di circostanza. Potremo conversare dunque.

Mahendra Gupha, “gupha” vuol dire grotta in lingua nepali, è una cavità naturale

sotterranea

di

natura

calcarea, come lo sono le numerose grotte naturali della valle. Si trova a Batulechaur, un piccolo villaggio della periferia settentrionale di Pokhara. In parte ancora inesplorata, presenta le stalattiti e stalagmiti tipiche di questa struttura geologica. Deve il suo nome in onore del defunto re Mahendra Bir Bikram Shah Dev che regnò sul Nepal dal 1955 al 1972. Fu scoperta nel 1950 quando alcuni pastori del luogo vi si imbatterono per caso. Il complesso si trova all'interno di una foresta sul fianco di una collina, ora parzialmente adibita a parco ed area picnic.

Esplorata da una spedizione

britannica negli anni '70 del secolo scorso, la grotta ha un ampio ingresso, una specie di depressione nel suolo e si restringe notevolmente dopo pochi metri, per finire in una ampia camera dove non manca un tempietto religioso. La volta, ad intervalli regolari, presenta delle luci a bassa intensità. Il fondo diseguale e sdrucciolevole costringe a fare molta attenzione a dove si poggiano i piedi. La lampada frontale ci è di grande aiuto. L'umidità è elevata. L'acqua che stilla perenne dal lucido calcare ha scolpito le pareti ed il fondo della grotta e formato bizzarre strutture nelle quali la fantasia dei devoti ha saputo individuare forme e sembianze di divinità hindu.

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La suddetta grotta è parte di un sistema di gallerie che attraversano il sottosuolo della città. L'intera area su cui poggia Pokhara è un enigma geologico. Il fiume Seti, quando irrompe nella valle, è costretto a rallentare la propria corsa e, come le spire di un serpente, indugia con numerose volute al suo interno. Le sue acque tumultuose si tuffano sotto terra, dove sembrano morire per poi riapparire all'improvviso in superficie. Nel corso dei millenni il suolo ha subito profonde trasformazioni, dando origine ad una serie impressionante di caverne, fenditure, orridi senza fondo e spaccature, da cui il fiume ricompare alla vita con grande forza e violenza. La gente del posto afferma che Pokhara galleggia letteralmente sulle sue acque. Per i geologi tutta la valle è il risultato di sedimenti convogliati dalle inondazioni improvvise del fiume, che si fanno notare ancora oggi durante il periodo delle piogge. I frequenti terremoti che scuotono la catena himalayana a nord ̶ non dimentichiamo che tutto il Nepal si trova lungo l'irrequieta placca indoasiatica ̶ hanno contribuito a formare i numerosi laghi qui presenti, ed il sistema di abissi, grotte e caverne che si estendono per chilometri. Ancora. Il collasso dei laghi, di formazione glaciale a monte, porta a valle enormi masse di detriti, sempre convogliati dalle acque del Seti che trova la sua origine nel ghiacciaio del Machhapuchhre. A tradire questa sua origine è il nome stesso. Seti infatti significa “bianco”.

Mahendra Gupha. L'ampio ingresso e, accanto, il piccolo altare dove i fedeli lasciano le loro offerte alla divinità.

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Fra le numerose grotte di origine calcarea della valle di Pokhara, merita una visita la Grotta dei pipistrelli, Chamera Gupha in lingua nepali, situata nei pressi della Grotta di Mahendra. L'area è immersa nel verde della foresta. Un vialetto lastricato porta alla biglietteria e all'ingresso tra piante ed arbusti lussureggianti. Ci avvicina un giovane che si offre di farci da guida. Accettiamo. È munito di grosse lampade portatili. Una stretta scala in cemento scende sottoterra ma, fatti pochi passi, entriamo in una enorme sala. Il buio è totale. Lentamente l'occhio si abitua. La caverna dalla curiosa forma ad U, ci viene detto, ha una lunghezza di 150 metri ed un'altezza di circa 8 metri. Il fondo è alquanto irregolare. Dobbiamo fare attenzione ai massi sparsi qua e là e superare una profonda spaccatura nel terreno, aiutandoci con le mani. L'acqua che scende dalla volta sotto forma di gocce, rende il fondo estremamente scivoloso. La guida ci invita ad indirizzare il fascio di luce delle lampade verso il soffitto. Lassù, ad alcuni metri sopra le nostre teste, innumerevoli pipistrelli

sono appesi a testa all'ingiù. A migliaia.

Appartengono in particolare al genere Rhinolophus, meglio noti come “ferro di cavallo”, per la particolare forma del naso. Non sembrano minimamente disturbati dalla nostra presenza. Trascorrono il giorno dormendo e si attivano alla sera con il buio, quando escono in massa alla ricerca di cibo.

Sono appesi con la testa all'ingiù, nella classica posizione del riposo diurno. A migliaia.

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L'uscita, se non si vuole ritornare sui propri passi, è leggermente impegnativa. Diciamo che precedenti esperienze di arrampicata possono tornare utili. In breve, si tratta di infilarsi in uno stretto camino verticale. Alcuni metri, in cui dobbiamo prima superare in spaccata lo squarcio nella roccia, facendo attenzione a dove mettere le mani ed i piedi. Gli appigli e gli appoggi sono scarsi, consunti e scivolosi. Poi, dulcis in fundo, strisciamo sul ventre lungo un budello orizzontale fino a raggiungere la stretta fessura finale che porta all'esterno. Se sei di taglia XL ed oltre... oppure soffri di claustrofobia, puoi avere qualche problema. L'unica soluzione possibile è quella di ritornare sui tuoi passi fino all'ingresso principale. Intanto noi, con la testa fuori alla luce del sole ed il corpo ancora dentro nel buio della grotta, siamo accolti da battimani e gridolini di incitamento da una piccola folla lì riunita per l'occasione e per completare il quadro io mi lascio sfuggire un sonoro: “BEWARE!.. BATMAN'S COMING!..” beh... date le circostanze... quel grido ci voleva proprio per mettere in guardia i presenti dell'arrivo del famoso uomo pipistrello. Ritorniamo al fiume Seti e facciamo la sua conoscenza. In che modo? Subito a nord della città vecchia dove il fiume si inabissa una prima volta. Qui, dove il terreno presenta una diversa formazione geologica, trova la sua via tra alte pareti di roccia, strapiombanti su di un forra profonda e buia. L'accesso si trova all'interno di un piccolo giardino. Il cartello recita “Seti River Gorge. K.I. Sing Pool”. Scendendo la breve rampa di scale che porta ad una doppia passerella in cemento, il rombo

assordante e continuo impedisce di

parlare e l'immaginazione già prepara il visitatore a quanto vedrà di lì a pochissimo. La passerella pedonale attraversa in tutta la sua larghezza, una quindicina di metri ad occhio e croce, l'abisso che ci viene incontro. Sporgendosi oltre la spalliera è facile restare impressionati dal vuoto da capogiro che appare. Lo sguardo, un po' intimidito da quel vuoto, corre alternativamente dalle ripide pareti ricoperte di lussureggiante vegetazione sospesa, al fondo della voragine, sempre più giù, dove l'acqua ribolle bianca come il latte. E non si può

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non pensare come mai quello che era un grande fiume fino a poco prima più a monte, riesca a comprimersi ed infilarsi in quella fessura larga poco più di un metro per poi scomparire. Una magia, forse, che per nove volte si ripete per tutta la lunghezza della città da nord a sud. Chi era K.I. Singh a cui il luogo è dedicato? Kunwar Inderjit Singh fu un leader politico amato dal suo popolo. Già Primo Ministro del Nepal per quattro mesi nel 1957, ebbe un ruolo importante durante gli anni 1950-51 del secolo scorso nella lotta contro il governo dispotico della potente famiglia Rana. Noto, sempre negli anni '50, come il Robin Hood dell'Himalaya per la sua iniziativa in favore di un'equa distribuzione della terra fra i contadini. Di lui colpisce soprattutto l'onestà. Raccontano che davanti al regalo di una Mercedes Benz da parte dell'ambasciatore di Russia, così motivò il suo rifiuto: ”Sono un leader povero, come posso viaggiare in un'auto così lussuosa?” Morì nel 1982 all'età di 76 anni.

* * * “IT IS BETTER TO DIE THAN TO BE A COWARD”, si legge sul biglietto d'ingresso al Gurkha Memorial Museum, a qualche passo di distanza dal K.I. Singh Pool. A lato della scritta trova spazio l'emblema del corpo con le lame ricurve incrociate di due khukri. 'Meglio morti che codardi'... e non ci sono parole più adatte, credo, a significare il coraggio, il valore e l'onore nel senso più alto del termine per il soldato Gurkha. L'idea nacque nel 1994 in occasione del grandioso ricevimento che si tenne a Kathmandu, per festeggiare i sette Gurkha viventi assegnatari della Victoria Cross. La più alta onorificenza militare concessa per atti di valore di fronte al nemico, conferita a partire dalla Regina Vittoria ai sudditi dell'Impero Britannico. Fu deciso

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inoltre di creare il Gurkha Memorial Trust, una Fondazione in memoria dei soldati Gurkha, con l'obiettivo primario di custodire le testimonianze del loro valore in battaglia. Alcune uniformi costituirono la prima collezione, esposta in un paio di armadi. Nel 2001, il piccolo museo fu trasferito a Pokhara in un edificio anonimo. La sede attuale, iniziata nel 2004 e terminata nel 2008, oggi è un grande edificio a tre piani e la sua visita è fra le più importanti ed esaustive del suo genere. I soldati Gurkha sono arruolati nell'esercito britannico sin dal lontano 1815 e, dal 1947, sono presenti anche nell'esercito indiano, dopo l'indipendenza. Il museo serve proprio a questo: a raccontare la storia di un corpo eccezionale, universalmente riconosciuto. Entriamo. Renato, gran conoscitore di cose militari, ne è entusiasta. Nelle numerose bacheche si alternano centinaia di fotografie, a documentare le campagne militari a cui furono partecipi. Le uniformi che indossavano, gli oggetti usati durante le campagne militari, le armi e le medaglie vinte sui più disparati fronti di guerra. Né possono mancare i nomi di tutti coloro ai quali fu assegnata la Victoria Cross, anche post mortem, la medaglia più ambita, con la relativa motivazione. Chi sono coloro che entrano a far parte di questo corpo militare d'élite, su base volontaria? Giovani occupati principalmente nell'agricoltura, provenienti da un'area geografica ed una etnia ben precise. Sono soprattutto di etnia Magar, Gurung, Rai e Limbu e provengono dalla regione collinare a nord di Kathmandu. Ogni anno vengono messi a disposizione circa 200 posti e, se pensiamo che si presentano in migliaia, è chiaro che la selezione è durissima. Non è un caso che il principale centro di reclutamento si trovi a Pokhara, nei pressi del Memorial Museum. I giovani scelti faranno parte della Brigata Gurkha, aggregata all'esercito britannico. Per costoro è un grande onore, non solo, ma anche fonte di profondo orgoglio per tutta la famiglia. Se aggiungiamo la prospettiva di una carriera militare ben remunerata ed una buona pensione una volta collocati a riposo, possiamo capire quanto sia fortissima la motivazione. La selezione ha luogo nei mesi di dicembre e gennaio ma comincia alcuni mesi prima. Di norma, è compito degli ex-militari in pensione recarsi nelle aree di residenza delle potenziali reclute, dove avviene la prima fase. In quella successiva, interviene il British Gurkha Army Camp con sede nelle vicinanze del Memorial Museum. Ai non idonei

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non viene comunicata la motivazione, ma li si invita a presentarsi l'anno successivo, proprio per evitare acutissime delusioni. A tutti costoro è corrisposta una somma in denaro per affrontare le spese del ritorno a casa. Durante la II Guerra Mondiale, truppe Gurkha combatterono in Nord Africa, in Grecia, nelle fitte giungle di Burma contro i Giapponesi. Furono presenti persino in Italia, nella battaglia di Montecassino, al seguito delle truppe indiane aggregate al corpo di spedizione britannico. Primi mesi del 1944. Ai Gurkha nepalesi venne ordinato di attaccare una postazione

germanica dislocata sulla collina. Si

distinsero per la loro abilità e destrezza nel combattere su di un terreno montuoso, a loro congeniale. Un piccolo gruppo riuscì ad arrivare fino sotto le mura dell'abbazia. Ricacciati infine giù dalla collina, oltre i due terzi di loro, rimasero sul terreno. Nell'estate dello stesso anno e nei mesi successivi li troviamo impegnati in aspri combattimenti sul fronte della Linea Gotica, fra le Marche e la Romagna, dove maggiormente era concentrata l'offensiva degli alleati. Oggi, a ricordare il sacrificio di quegli uomini caduti sul suolo italiano, rimane una importante testimonianza. A pochi chilometri da Rimini, sulla superstrada che porta a San Marino, è stato istituito il Cimitero di Guerra dei Gurkha che custodisce le spoglie di 790 giovani soldati, in età compresa fra i 18 ed i 26 anni. Non dimentichiamo infine che il termine Gurkha ha origine dalla cittadina di Gorkha che diede i natali a Prithvi Narayan Shah. A lui, come abbiamo visto, si deve l'unificazione del Nepal dopo aver sconfitto e sottomesso i regni confinanti. Era l'anno 1768. A questo punto ci vorrebbe una birra. E per essere in tema suggerirei l'ottima Gorkha Beer, qualità premium, famoso brand, prodotta in Nepal... davvero ottima da gustare! Le Grotte di Gupteshwor Mahadev (Gupteshwor Mahadev Gupha), assieme alle Grotte di Mahendra e alla Grotta dei pipistrelli contribuiscono a formare quello che potremmo definire “il mondo sotterraneo” di Pokhara. Si trovano a sudovest della città, non lontano dall'aeroporto. È ormai il primo pomeriggio quando scendiamo dal taxi. L'accesso è del tutto singolare. Un grande portale immette in un affollato bazar all'aperto. Vi si affacciano negozi e bancarelle di ogni tipo con gli

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immancabili souvenir. Ci facciamo strada tra la folla. L'imponente scala a chiocciola sprofonda in una voragine a cielo aperto per parecchi metri. Poi un robusto cancello è il lasciapassare al buio dell'ambiente sotterraneo. L'umidità prende subito alla gola. La temperatura è decisamente più elevata. Ma forse è solo una sensazione. Il luogo è sacro agli Hindu e meta di pellegrinaggio per i devoti. Uno stretto tunnel porta ad una riproduzione in grandezza naturale di una vacca. È la vacca primordiale, rappresentazione terrena della dea Kamadhenu, la madre di tutte le vacche, la “Vacca dell'Abbondanza”. Le sacre scritture la fanno emergere dal ribollire dell'oceano cosmico primigenio di latte e quindi simbolo dello stesso cosmo. I fedeli sostano. Fanno un'offerta. Inseriscono una moneta nel dorso dell'animale e... alcune gocce di latte escono dalle mammelle, come per incanto. L'antico rito della fertilità che si rinnova. Il sistema delle gallerie ora sfocia in una camera sufficientemente grande. Su di una piattaforma, protetta da una ringhiera metallica, si trova una stalagmite, riconosciuta come Shiva lingam, il simbolo fallico di Lord Shiva e scoperta solo alcuni anni fa. Così il termine Gupteshwor è il “Dio nascosto” e Mahadev è il “Grande Dio”, due dei 1008 appellativi con cui Shiva viene identificato. Il luogo è consacrato e fotografare è severamente proibito. Da qui il percorso si fa più accidentato fino a raggiungere, tramite cunicoli angusti, una enorme caverna inferiore. L'atmosfera cambia improvvisamente. Dalla volta di roccia calcarea cadono numerose e minute gocce d'acqua. Sulle pareti sono visibili i diversi colori dei sedimenti di remotissime ere geologiche. Ed un brontolio minaccioso sembra scaturire dal grembo della terra... Ancora pochi passi. L'arcano si svela ai nostri occhi. Una scala metallica, alquanto instabile, male assicurata, scende a superare un poderoso salto di roccia. A pochi passi una pozza dalle acque limpide e cristalline attira la nostra attenzione. Solleviamo gli occhi. Ci troviamo nella parte più bassa dell'intricato sistema di gallerie. In realtà è il letto sotterraneo di un fiume che scorre a 20 metri sotto la superficie, la Pardi Khola, emissario del Lago Phewa. Qui la Pardi Khola sembra voler gareggiare con il fiume Seti nella sua instancabile opera di escavazione di pozzi, imbuti e rami laterali sotterranei. La potenza e la forza delle acque in uscita dal lago hanno

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formato mirabolanti strutture architettoniche che neppure la fantasia umana più spinta sarebbe in grado di produrre. Davanti a noi la forra si restringe nell'oscurità fino a diventare una fessura verticale illuminata dalla luce naturale. Attraverso quella spaccatura si intravede il flusso dell'acqua sotto forma di cascata, la Devi's Fall, Patale Chhango nella lingua nepali. Il suo volume e portata sono regolati dalla diga. In questo punto il fiume sprofonda. Il termine inglese si riferisce ad un tragico episodio avvenuto nel luglio 1961, quando una improvvisa inondazione trascinò con sé la vita di una signora svizzera, di nome Devi, mentre faceva il bagno. Questa parte non è accessibile nel periodo giugno-settembre, i mesi delle piogge monsoniche. Ai turisti si consiglia la visita di quest'area solo con guida esperta, il che non significa che sia un obbligo. Nel gennaio 2010 tre turisti vi entrarono ma nessuno li vide più uscire. Naturalmente consiglio vivamente la visita alla parte superiore della Devi's Fall, il cui accesso si trova ad un centinaio di metri in linea d'aria, sulla parte opposta della strada. Si resta affascinati dalla turbolenza e violenza dell'acqua mentre si infrange sulle pareti di roccia, polverizzandosi in minutissime goccioline, ad ondate successive, prima di lanciarsi con un salto vorticoso nell'invisibile vuoto sottostante.

Devi's Fall: il punto in cui la Pardi Khola, emissario del lago Phewa si inabissa.

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GUPTESHWOR MAHADEV GUPHA

Nella parte piĂš bassa dell'intricato sistema di gallerie, la forra si restringe fino a diventare una fessura verticale che lascia intravedere il flusso dell'acqua sotto forma di cascata, la Devi's Fall.

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* * * La Pagoda della Pace (Shanti Stupa) è un tempio sacro, meta di pellegrinaggio di Buddhisti e Induisti. Inoltre, è fra le destinazioni più frequentate dai turisti per l'ampio panorama che si gode a 360°: dalle cime himalayane alla ricca valle dove giace la città di Pokhara, dai campi terrazzati al Lago Phewa (Phewa Tal). L'auto sale per una strada asfaltata nella parte iniziale, per poi restringersi sempre più fino a diventare una sottile striscia di terra e concludersi in uno slargo a fine corsa, nei pressi del crinale. La bianca costruzione si trova su di un poggio, Ananda Hill, a 1100 metri di quota, sopra Pokhara. Venti minuti d'auto dalle Grotte di Gupteshwor Mahadev. Non siamo fortunati. La giornata non è delle migliori. La coda del monsone indiano si fa ancora sentire. Tempo imbronciato con grosse nuvole nere. Pioggia a tratti. Ma continuiamo il tour. L'edificio, imponente e di recente costruzione, è un simbolo di pace. “Shanti” in sanscrito significa “pace”. Il suo colore bianco brillante, come un faro di luce, è ben visibile da tutta la valle sottostante. A pianta circolare, vi si accede tramite un' ampia scalinata con una struttura a due livelli. Al secondo livello si eleva l'alta cupola che ospita le quattro grandi nicchie con le statue del Buddha, rivolte verso le quattro direzioni cardinali. Rappresentano altrettanti importanti episodi della vita di Gautama Buddha, collegati con le località dove ebbero luogo. Soffermiamoci ora

sulla nascita di colui che diventerà il Bhudda, ovvero

l'Illuminato. La sua storia, pur avvolta nel mito, vale la pena di essere narrata. E, come tutte le belle storie, inizia con un re ed una regina. Dunque... … Più di 2500 anni fa, viveva un re di nome Suddhodana. Sposò una bellissima principessa, e non poteva essere altrimenti, della stirpe dei Koliya, dal dolce nome. Si chiamava Maha Maya. Regnavano sui Sakya, una tribù di guerrieri, confinante con i Koliya, nell'India settentrionale, là dove oggi è terra del Nepal. La capitale del loro piccolo regno, Kapilavatthu, si trovava ai piedi delle grandi montagne

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himalayane. La regina era talmente bella che, Maya, il nome a lei dato, vuol dire “Visione”. Ma in particolare erano le sue virtù ed il suo ingegno le sue eccezionali qualità, poiché la natura l'aveva dotata dei doni più prestigiosi: intelligenza e devozione. Il re Suddhodana non le era di meno e, in verità, degnissimo della sua adorata moglie. Egli stesso era conosciuto come “Il Re della Legge” perché governava il suo popolo nel pieno rispetto delle leggi. Nessuno tra i Sakya era più rispettato ed onorato. A lui veniva riservata la stessa grande ammirazione sia dei nobili e della corte, sia di tutti gli altri abitanti del paese. Tale era la nobile famiglia in cui il Buddha sarebbe nato. Una notte di luna piena, la regina fece un sogno. Si sentiva trasportare lontano da quattro spiriti (deva) fino al lago Anotatta, tra le montagne. Dopo essersi bagnata nelle sue acque, i deva la rivestirono con abiti divini, le unsero il corpo con profumi e la adornarono con i fiori più belli. Subito dopo apparve un elefante bianco, con un bianco loto nella proboscide. Le girò attorno per tre volte ed infine entrò in lei dalla parte destra del suo grembo. La regina si svegliò, perfettamente consapevole che le era stato dato un importante messaggio, poiché l'elefante è un simbolo di magnificenza. Il giorno seguente, di mattina presto, la regina raccontò al re del sogno. Il re era perplesso e mandò a chiamare i saggi di corte per avere spiegazioni. I quali così dissero: «Vostra Maestà è molto fortunata. I deva hanno scelto la nostra regina come madre del Purissimo e colui che nascerà, se non abbandonerà la casa paterna, conquisterà il mondo». Nell'udire ciò, il re e la regina furono felicissimi. Erano talmente felici che invitarono molti nobili del regno ad una grande festa al palazzo per dar loro la lieta novella. Ma neppure i poveri furono dimenticati. A loro riservarono cibo e vestiti, durante le celebrazioni dell'evento. Così il regno tutto attendeva in grande trepidazione ed ansia la nascita del principe. Mentre la regina trascorreva una felice gravidanza senza problemi, dedicando i lunghi giorni della gestazione a se stessa ed al nascituro. Dopo quasi dieci mesi dal sogno la regina Maya sentiva avvicinarsi il momento

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tanto desiderato. Andò dal re e disse: «Mio caro, devo tornare dai miei genitori. Il mio bambino ha voglia di nascere». E poiché era usanza a quei tempi di partorire nella casa paterna, il re di buon grado acconsentì, dicendo: «Molto bene. Darò tutti gli ordini necessari a ciò». Allora il re mandò avanti i soldati a fare strada e dispose altri a guardia della regina per tutto il viaggio, trasportata in una portantina regalmente addobbata. La regina lasciò Kapilavatthu accompagnata da una lunga processione di soldati e servitori, diretta verso la capitale del regno del padre. Durante il cammino, il grande corteo si trovò a passare nel boschetto di Lumbini. Il luogo, assai invitante nella sua magnificenza, costituito per intero da alberi di sal (Shorea robusta), ricco di essenze profumate, abitato da uccelli canori ed api operose, attrasse la regina. E poiché era un ottimo luogo per una sosta, ordinò ai portatori di fermarsi un po'. Mentre si riposava sotto l'ombra di un grande sal, sentì che il parto era imminente. Si alzò in piedi, con le mani si sostenne ad un ramo e dal fianco venne alla luce il bambino. La nascita non le causò dolore alcuno. Immediatamente la regina ed il figlio si ricoprirono di profumatissimi fiori e due rivoli di acqua lucente scesero dal cielo a bagnarli. La nascita avvenne nel periodo della luna piena. Non ci poteva essere miglior auspicio. Il piccolo mosse i primi passi e ad ogni passo un fiore di loto crebbe sul terreno. Al settimo si fermò e con nobile voce pronunciò le seguenti parole: «Io sono il più grande nel mondo, Io sono il più vecchio, Il primo al mondo, Questa è l'ultima nascita, Nessun altro verrà dopo di me». Poi fecero ritorno a Kapilavatthu. La regina morì sette giorni dopo ed il piccolo a cui fu dato il nome di Siddharta, cioè “colui che ha raggiunto lo scopo”, fu affidato alle cure di Maha Prajapati, zia materna e seconda moglie del re...

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MAHA MAYA E LA NASCITA DI GAUTAMA BUDDHA A LUMBINI

Thangka: dipinto religioso tibetano, 33X43 cm circa.

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Qualche considerazione a margine. Abbiamo scarse e controverse testimonianze storiche sulla sua vita. Non sono universalmente accettate neppure le date di nascita e di morte: il 566 ed il 486 a. C. Il materiale biografico di cui disponiamo proviene da diverse fonti, un paio di secoli dopo la sua morte e comunque rimaneggiato nel tempo. Secondo la tradizione, la storia presenta aspetti presi a prestito da vari testi hindu. Alcuni ipotizzano, e questo ci riguarda da vicino, che la storia della nascita del Buddha sia stata, per così dire, modificata dopo che alcuni mercanti tornarono dal Medio Oriente con racconti sulla nascita di Gesù. La storia è altresì prodiga di simboli. L'elefante bianco, considerato sacro, rappresenta la fertilità e la saggezza. Il loto, come abbiamo più volte visto, simbolo di purezza mentale e spirituale, è comunemente ed ampiamente usato nell'iconografia buddhista. I sette passi evocano le sette direzioni nord, sud, est, ovest, il cielo, la terra ed il punto stesso dove si trova il Buddha in fieri. Si tratta, a buon vedere, di racconti e leggende che mettono in rilievo il carattere straordinario della sua vita, a partire dal concepimento: l'elefante bianco che penetra nel corpo, nel grembo di Maya “senza alcuna impurità”. Così Maya partorisce, delicatamente dal fianco, un bambino perfettamente formato, cosciente ed in grado di parlare. A 29 anni Gautama abbandonò la sontuosa dimora paterna di Kapilavatthu. Lasciati alle sue spalle la sposa, il figlio ed una vita a corte ricca di agi, si diede alla meditazione ed alle peregrinazioni per l'India. All'età di 35 anni raggiunse lo stato di Illuminazione a Buddhagaya, divenendo il Buddha, il Risvegliato. Tre mesi dopo, a Isipathana pronunciò il suo primo sermone davanti ad una piccola folla di discepoli. Basata sull'armonia, compassione e non-violenza, la sua dottrina si diffuse in tutto il mondo. Dall'India, passando per la Cina, raggiunse il Giappone. Il suo impatto sulla vita e cultura giapponese fu notevole. Sorsero varie comunità per diffondere il suo messaggio di pace. Una di queste, la Nipponzan Myohoji, movimento religioso pacifista, fu fondata nel 1917 da Nichidatsu Fujii (1885 – 1985), venerabile monaco buddhista. Testimone diretto della distruzione di Hiroshima e Nagasaki, aveva dedicato la propria vita a portare il messaggio di pace ovunque nel mondo fin dal 1954, l'anno della sua prima pagoda in Giappone. Da allora, continuò in quest'opera meritoria, facendo costruire decine e decine di quelle pagode.

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CosÏ si presenta al visitatore, dopo una lunga sequenza di scalinate, la Pagoda della Pace, lo Shanti Stupa... certo... la luce non è proprio ideale per esaltarne il colore che, nelle limpide giornate di sole, risplende in tutto il suo luccicante fulgore...

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Nel 1973 pose la prima pietra nella costruzione della Pagoda sulla collina sovrastante Pokhara. Il tempio aveva raggiunto già i 10 metri di altezza quando fu fatto abbattere dal governo, perché non compatibile con il piano edilizio locale. Con essa furono distrutte anche le costruzioni vicine: un monastero, una sala delle preghiere ed un ricovero per i pellegrini. Nonostante ciò, i devoti continuarono a raccogliersi in preghiera in quel luogo. Dopo 18 anni di inutili tentativi, il 21 maggio 1992, l'allora Primo Ministro Girija Prasad Koirala provvide ad una seconda messa in posa della prima pietra. I lavori furono completati e la Pagoda, come ci appare oggi, fu inaugurata il 30 ottobre 1999. Aggiungo, fra i personaggi chiave di tutta la complicata vicenda, Min Bahadur Gurung. La statua di fronte, per onorare il suo ruolo nella edificazione dello stupa, ne è la testimonianza. Fu lui infatti a donare il terreno.

Renato ed io ci togliamo le scarpe ai piedi dell'ampia scalinata. Saliamo lentamente. La sacralità del luogo è percepibile dal silenzio che ci circonda. Qui gente di ogni razza e credo religioso si raccoglie muta in meditazione, accomunata dal messaggio di pace che il tempio riesce a trasmettere ai presenti. Questa sensazione è rafforzata dalla maestosità del panorama. Un enorme palcoscenico su cui la natura ha dato il meglio di se stessa. Così nel cielo infinito si susseguono i giganti della terra. Li riconosco uno ad uno. Eccoli: Annapurna Sud, Annapurna I, Machhapuchhre, Annapurna III, Annapurna IV, Annapurna II... Si specchiano sulle acque sonnacchiose del Lago Phewa che i declivi circostanti, ricoperti di boschi, colorano di verde smeraldo. E poi il bianco quasi abbacinante dell'intera struttura circolare.

Raggiungiamo il secondo livello. Vi si eleva l'alta cupola che ospita le quattro grandi nicchie con le immagini del Buddha, rivolte verso le quattro direzioni cardinali. Rappresentano altrettanti importanti episodi della vita di Gautama Buddha. Facciamo il giro (kora) in senso orario. In conformità alla rivoluzione che la terra fa attorno al sole e al nostro sistema solare nella galassia.

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Nell'ordine troviamo: ISIPATHANA: qui Gautama Siddharta tenne il primo sermone ai suoi seguaci, riuniti nel Parco delle Gazzelle, l'odierna Sarnath. Stato dell'Uttar Pradesh, India settentrionale. La nicchia guarda verso est. LUMBINI: dove, secondo la tradizione, il futuro “Illuminato” ebbe i natali, nel boschetto di sal nel 566 a.C. Odierno Nepal ai confini con l'India. La nicchia rivolge a sud. BUDDHAGAYA: dove, all'età di 35 anni, Gautama raggiunse lo stato di Illuminazione e divenne il “Buddha”. Stato del Bihar, India settentrionale. Guarda ad ovest. KUSINARA: qui Lord Buddha morì nel 486 a.C. Uttar Pradesh, India settentrionale. Guarda a nord. Orbene. Isipathana, Lumbini, Buddhagaya e Kusinara, i quattro luoghi più sacri e cari per i Buddhisti, sono meta di pellegrinaggio religioso da sempre. Buddha Sakyamuni Siddhartha Gautama, questo il suo nome completo, rimane probabilmente il più enigmatico dei filosofi. Egli stesso un errabondo, alla continua ricerca della verità. Per dare un senso alla vita. E fuggire dalle sofferenze umane. Un lungo cammino iniziato alle pendici delle montagne himalayane che lo portò infine a morire, sulle pianure dell'India settentrionale. Per raggiungere il proprio obiettivo non esitò a prendere una decisione che cambiò non solo la sua vita, ma che influenzò profondamente il pensiero umano. Ciò che ha scoperto continua ad ispirare circa mezzo miliardo di seguaci nel mondo, nelle varie tradizioni religiose locali... Una notte, nel bel mezzo, aveva abbandonato tutto e tutti, compresi gli affetti a lui più cari. L'ultimo sguardo alla moglie ed al figlioletto addormentati accanto a lui. Poi, era scivolato silenziosamente fuori... nell'oscurità...

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Ancora due parole su Lumbini che, fra l'altro, si è guadagnata l'iscrizione all'UNESCO come patrimonio dell'umanità nel 1997. Non soltanto è un famoso sito religioso, indissolubilmente legato alla nascita del Buddha. É sopratutto un prezioso sito archeologico, di grandissimo interesse per gli studiosi. Gli scavi hanno evidenziato i resti di monasteri (vihara) e di sacrari (stupa) antichi risalenti ad un periodo che va dal III secolo a. C. al XV secolo d. C., e che testimoniano la natura di questo luogo, meta di pellegrinaggi da oltre due millenni. In particolare, nel 1896, gli scavi misero in luce una colonna, rimasta sepolta per molti secoli. Il monolite in pietra, fatto erigere dall'imperatore indiano Ashoka nel 249 a. C., con la seguente iscrizione, in una lingua parlata nell'India settentrionale del tempo: “IL RE PIYADASI (Ashoka), PREDILETTO DEI DEVA, NEL VENTESIMO ANNO DALLA SUA INCORONAZIONE FECE UNA VISITA REGALE NEL LUOGO IN CUI BUDDHA SAKYAMUNI NACQUE E VI FECE ERIGERE UNA COLONNA IN PIETRA. POICHÉ BHAGAVAN (altro nome di Buddha) É NATO QUI IL VILLAGGIO DI LUMMINI (Lumbini) FU LIBERATO DALLE TASSE E GLI FU CONFERITA SOLO L'OTTAVA PARTE.”

L'autenticità e la datazione di quei reperti non sono più messi in discussione. Ed i recentissimi scavi, novembre 2013, ad opera di una squadra di archeologi guidati da Robin Coningham dell’Università di Durham, hanno dato luogo ad una sensazionale scoperta. Ma che cosa hanno portato alla luce? Hanno scavato in profondità al di sotto delle attuali strutture esistenti, in mattoni, rinvenendo strutture in legno e in pietra che, tramite datazione al radiocarbonio e datazione tramite luminescenza stimolata otticamente, si sono rivelate antecedenti di alcuni secoli alla colonna di Ashoka. Con un duplice risultato. Spostare all'indietro di centinaia di anni le attività rituali del luogo, ed identificare la nascita di una comunità buddhista, simile a un monastero, entro il sesto secolo a.C. Prova questa, inconfutabile, dell'esistenza del Buddha in quel secolo. __________________ ◄◄ SHANTI STUPA: le quattro grandi nicchie con le immagini del Buddha che rappresentano i luoghi dove si svolsero i più importanti episodi della sua vita. Da sx in basso ed in senso orario: Isipathana – Lumbini – Buddhagaya – Kusinara

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Ancora negli anni 1960 e '70 Lumbini era un posto dominato da paludi infestate dalle zanzare, particolarmente caldo ed umido nella stagione estiva. Oggi, si calcola che oltre mezzo milione di visitatori all'anno, vi si rechino in pellegrinaggio. Si parla di grossi investimenti e di un ambizioso progetto che preveda, accanto ai servizi esistenti, la costruzione di un aeroporto, strade, alberghi ed una universitĂ del Buddhismo, dove la protezione ambientale dovrebbe essere il principale obiettivo, oltre alla creazione di nuovi posti di lavoro. Inoltre, acqua, elettricitĂ , e comunicazioni ancora carenti sarebbero maggiormente potenziate. Propositi a prima vista condivisibili... ma dubito che la sacralitĂ ed il mistero, di cui Lumbini gode da oltre 2500 anni, durino ancora a lungo nel tempo.

La colonna di Ashoka a Lumbini, l'antica Rummindei. Alta circa sei metri, reca alla base l'iscrizione in una lingua parlata nell'India settentrionale del tempo, che testimonia della nascita del Buddha. Foto di uno sconosciuto fotografo dell'Archaelogical Survey of India durante gli scavi nel 1896-97. (The British Library)

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*** Dalla mia moleskine: DOMENICA 20 OTTOBRE. ORE 16:00. DOPO ALCUNI TUONI E FULMINI È SCESA LA PIOGGIA. QUASI UN DILUVIO. FINO A QUALCHE MINUTO FA ABBIAMO CERCATO DI PORTARE A TERMINE IL TENTATIVO DI ARRIVARE FINO ALLA DIGA, A SUD DEL LAGO, PASSANDO PER BASUNDHARA PARK, IL PARCO DELL'AMICIZIA. I PRIMI GOCCIOLONI CI HANNO INDOTTO AD UNA PRECIPITOSA FUGA IN HOTEL. I NOSTRI AMICI DOVREBBERO AVER SUPERATO IL THORUNG-LA.

E ancora: LUNEDÌ 21 OTTOBRE. MATTINATA LIMPIDA E ALQUANTO FRESCA. IL CIELO DELIZIOSAMENTE TERSO PERMETTE DI VEDERE LA SAGOMA INCONFONDIBILE DEL MACHHAPUCHHRE E GLI ANNAPURNA DALLA FINESTRA DELLA CAMERA D'ALBERGO. IL TEMPO SCORRE LENTAMENTE BIGHELLONANDO QUA E LÀ.

Panorama dal Green Tara Hotel con gli Annapurna e il Machhapuchhre.

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Abbiamo concordato un giro nel primo pomeriggio con uno dei numerosi tassisti che, in ordinata fila,

affollano la Lakeside Marg, la grande arteria che scorre

parallela al Lago Phewa, riva orientale, per quasi tutta la sua lunghezza. Vista la concorrenza, c'è solo l'imbarazzo della scelta. E la contrattazione, attività in cui mi reputo un esperto oramai, ci è molto utile. Non è difficile spuntare un buon prezzo. L'appuntamento è per subito dopo il pranzo. Abbiamo scoperto un locale all'italiana, dove siamo soliti consumare i pasti da qualche giorno. Così gli spaghetti al pomodoro, sostituiscono il tradizionale e onnipresente dal bhat e, per il resto, restiamo fedeli ai piatti della cucina locale. In particolare trovo invitante il filetto di pesce del vicino lago, alla griglia, servito su di un letto di verdure varie, accompagnato da patate al prezzemolo e salsa al burro e limone. Sarangkot è un ridente villaggio pigramente adagiato su di crinale a circa 1600 m sul livello del mare. Si trova a ovest della città. Approfittiamo della limpida giornata di sole di un tranquillo fine ottobre. Da lassù sarà possibile dominare a volo d'uccello sia il Lago Phewa in tutta la sua estensione, sia la piana su cui sorge la seconda città del Nepal per numero di abitanti. E sembrerà di toccare i giganti della catena himalayana. Ed il “Cervino dell'Himalaya” per la sua straordinaria ed impressionante somiglianza con la nostra montagna. Inoltre il luogo è assai frequentato dagli appassionati di parapendio che qui si ritrovano per gettarsi nel vuoto dal crinale in volo planato, fino a toccare la sponda del lago. Da Pokhara sono circa 45 minuti d'auto su per una strada stretta e tortuosa, con brevi tratti di sterrato, che conduce al lungo e frastagliato crinale. Lasciato il lungolago alle nostre spalle, percorriamo la Pokhara-Baglung Highway e prendiamo la Sarangkot Road. Una lunga serie di curve e di tornanti aiutano ben presto a prendere quota. L'orizzonte sotto di noi si allarga sempre più mentre la città di Pokhara mi appare ora in tutta la sua vastità. E mi sorge immediata e spontanea una domanda. Sono fortunato... il tassista è alquanto ciarliero. «Quanti abitanti ci vivono laggiù?». «Non saprei esattamente», ci pensa un po' su, «forse arriviamo a 300.000...» Poi aggiunge: «L'eccessivo inurbamento degli ultimi anni è la conseguenza del conflitto armato tra il potere centrale ed i guerriglieri del partito comunista

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maoista». BAM! Ho fatto centro. L'occasione è troppo ghiotta per lasciar cadere il discorso. «In quale senso, scusi...» «Vede... molti abitanti delle aree rurali e montuose, per sfuggire alle continue e pressanti richieste di cibo e di asilo da parte dei Maoisti, abbandonarono tutto per rifugiarsi nella piana di Pokhara». «Non ne so molto. Le notizie arrivate da noi in Europa sono state poche e frammentarie». «Siamo andati avanti per più di dieci anni. Dal 1996 al 2006. Una guerra civile che ha causato dai 13.000 ai 17.000 morti, a sentire le varie fonti. Il conflitto nacque nelle aree più emarginate, per espandersi poi rapidamente con intensità e violenza in tutto il paese. Neppure Kathmandu fu risparmiata. Gli attacchi alle caserme di polizia arrivarono pure lì. In particolare, i piccoli villaggi del nord e dell'ovest, lontani dalle grandi città, furono vittime due volte degli eventi: dei Maoisti prima, che costringevano i giovani ad arruolarsi nelle loro file e dei governativi poi, con le loro azioni punitive indiscriminate verso tutti i sospettati di connivenza con i ribelli». «Povertà e differenze sociali dunque. Anche se il vostro sistema, basato sulla rigida suddivisione in caste fino a qualche anno fa, è ancora attivo proprio nelle aree montuose, collinari e rurali». «... non solo. I Maoisti, per bocca del loro leader, più conosciuto con il nome di battaglia Prachanda*, cioè “il fiero”, volevano fermamente l'abolizione della monarchia, secondo loro, all'origine di tutti i mali. Intendevano inoltre abbattere la struttura sociale ed istituzionale esistente, per eliminare ogni ingiustizia. Fu così che Prachanda proclamò la “guerra del popolo”... la lotta armata si fece più cruenta dopo l'assassinio del re Birendra e lo sterminio della famiglia reale ad opera del principe ereditario. Eravamo nel 2001. Giugno...» _______________________ *Pushpa Kamal Dahal, conosciuto con il nome di Prachanda. Nacque nel 1954 in un villaggio nel distretto di Kaski, non lontano dalla città di Pokhara. Rivoluzionario e politico. Conseguì la laurea in Scienze Agricole. Nel 1994 divenne il leader del Partito Comunista Maoista Nepalese. Il 10 aprile 2008 vinse le elezioni dell'Assemblea Costituente, avendo il suo partito (CPN) ottenuto la maggioranza relativa dei seggi. Eletto Primo Ministro il 18 agosto 2008, mantenne la carica fino al 25 maggio 2009. Attualmente è per la seconda volta Primo Ministro dal 3 agosto 2016.

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«Ricordo quella vicenda... sono passati alcuni anni da allora... che cosa è successo?... è stata fatta piena luce?». «Non so... la motivazione che ha fatto scattare il dramma sembra sia stata la posizione fortemente avversa del re e della regina al matrimonio del figlio Dipendra, erede al trono, con la principessa Devyani Rana... ammazzò tutti coloro che si trovò davanti... a quella festa... prima di spararsi a sua volta... lo trovarono agonizzante con un foro alla tempia... morì tre giorni dopo... aveva 29 anni... ci furono tumulti e manifestazioni nelle strade e nelle piazze... passammo giorni difficili... correva voce che fosse stata una congiura di palazzo e che i Maoisti non fossero del tutto estranei... salì al trono lo zio Gyanendra... fu il nostro ultimo re... e con lui finirono due secoli e mezzo di monarchia... il suo regno si concluse nel maggio 2008, con la proclamazione della Repubblica da parte del Parlamento... » «Mi trovavo in Nepal nell'ottobre 2007... giusto un anno dopo il decennale conflitto. Parco Nazionale Makalu Barun, diretto al campo base del Makalu e poi il Khumbu, regione dell'Everest. Nei villaggi che attraversavo, frequenti erano la falce ed il martello dipinti sui muri delle case. O i manifesti con l'immagine di un signore con i baffi e scritte in lingua nepali. Simboli e messaggi di propaganda... immagino...» «Certo. Quell'uomo era Prachanda ed invitava alla rivoluzione». «In alcuni villaggi, all'ingresso, c'erano grandi scritte in lingua inglese di benvenuto, ed inneggianti al Governo del Popolo del Nepal. E poi: “Tax Check Post”. Non mi ci volle molto a capire che erano una specie di posto di guardia o di controllo sugli escursionisti ed alpinisti che capitavano da quelle parti». «Venivano bloccati ed invitati, dapprima con le buone e via via con modi sempre più minacciosi a fare una donazione in denaro per la causa del popolo. Veniva loro rilasciata una ricevuta, completa di ammontare della cifra versata, di firma del ricevente e timbro del Partito Comunista. Con la raccomandazione ultima di conservarla con cura...» «... ed anche negli anni seguenti, quando mi trovavo dalle parti dell'Annapurna. O nella regione del Rolwaling. Quei simboli e messaggi erano sempre presenti». « ... agli escursionisti ed alpinisti non si andò mai oltre le minacce... che io sappia... per fortuna... troppo importanti per la nostra economia...»

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* * * “Sarangkot, rispetto a Pokhara è come la classica ciliegina su di una deliziosa torta”. Così viene spesso definita. Lasciamo l'auto con l'autista ad attenderci in una piazzetta alle prime case: 8534 abitanti, secondo i dati del censimento rilasciati dall'Ufficio Centrale di Statistica del Nepal nel 2011. Abbiamo giusto un'ora di tempo, come concordato. Ci inerpichiamo lungo la ripida scalinata che porta al punto più alto e panoramico del colle. Un breve spiazzo erboso, su di un vuoto di 800 metri che dà sul Lago Phewa sottostante. Qui, da qualche anno a questa parte, si svolge a gennaio/febbraio, una manifestazione competitiva internazionale di parapendio, alla quale concorrono atleti da vari paesi. Naturale punto di ritrovo per gli appassionati nella stagione più propizia, da settembre a febbraio, così importante da essere tra i primi cinque posti al mondo tra i luoghi più ricercati per tale attività. E non c'è da stupirsi di ciò. Basta girare lo sguardo attorno: quel pinnacolo a forma di coda di pesce domina sui suoi vicini per bellezza, purezza ed audacia delle sue forme. L'immagine ideale della montagna dalla cima aguzza e ammantata di bianco. Il paesaggio sottostante punteggiato da campi coltivati a riso e piccoli villaggi dalle case con i tetti di paglia. Il lago. Il bianco abbagliante della Pagoda della pace. I dolci declivi ricoperti di boschi. Dopo una breve rincorsa, le vele si gonfiano ed un attimo dopo li vedo effettuare il grande balzo. Li seguo mentre immediatamente si impennano verso l'alto, portati dalle correnti d'aria calda del primo pomeriggio. Sollevo gli occhi. Il cielo è punteggiato da grandi aquiloni. Un caleidoscopio di colori. Volteggiano lentamente in grandi cerchi concentrici sotto lo sguardo superbo dei giganti himalayani. Restiamo affascinati davanti ad un simile spettacolo. L'ora di tempo pattuita con l'autista passa in fretta. Al ritorno lo troviamo profondamente addormentato nell'auto... perché svegliarlo? Così abbiamo la possibilità di bere un the...

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Sms inviato a Tshiring Sherpa ore 17:45 del 20/10/2013 SO WE LEAVE ON THE 22ND AT 1:30 AFTERNOON BUDDHA AIR. MY EMAIL: RUGGEROR63@GMAIL.COM

[Allora partiamo il 22 alle 13:30 con vettore Buddha Air. La mia email: ruggeror63@gmail.com]

Email inviatami da Tshiring Sherpa ore 06:47 del 21/10/2013 NAMASTE RUGGERO. PLEASE FIND BELOW YOUR TOMORROW PASSENGER FLIGHT CONFIRMATION CODE WHICH YOU HAVE TO SHOW AT THE COUNTER OF BUDDHA AIR. CODE NO – ZIWW7G. BOTH OF YOUR NAMES ARE REGISTERED AS FLIGHT 1:30 POKHARA TO KTM INSIDE THE GIVEN CODE. HAVE A NICE DAY. NAMASTE! TSHERING.

[Namaste Ruggero. Eccoti il codice di conferma del volo passeggeri per domani che dovrai mostrare allo sportello della compagnia aerea Buddha Air. Codice no.: ZIWW7G. Siete registrati entrambi con lo stesso codice per il volo delle 13:30 da Pokhara a Kathmandu. Buona giornata. Namaste. Tshering.]

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Epilogo Mangalbaar, 5 Kartik 2070 BS / Martedì, 22 Ottobre 2013 Aeroporto di Pokhara. Ore 12:30. Dopo aver ricevuto il biglietto elettronico presso lo sportello della compagnia Buddha Air ed effettuato il check-in, siamo seduti nella sala delle partenze in attesa del volo 608 per Kathmandu. Ho ricevuto ieri sera la email con il codice di conferma. Tshering Sherpa, come al solito, è stato puntuale. Con lui ho un rapporto più di amicizia che di lavoro. Fu lui ad attendermi all'aeroporto di Kathmandu per accompagnarmi alla clinica CIWEC, nei pressi dell'Ambasciata britannica. Era il 2009. Una dolorosissima colica renale mi aveva immobilizzato a 4200 metri di quota. Mi trovavo dalle parti della Rolwaling Himal, una catena montuosa secondaria dell'Himalaya che occupa la regione centro settentrionale del Nepal, ai confini con il Tibet. La sua cima più elevata è il Melungtse (7181m), sul lato tibetano, mentre il Gauri Shankar, con i suoi 7145 metri, si trova proprio sul confine. La prima esplorazione di quest'area da parte degli occidentali ebbe luogo nel 1951 con Eric Shipton, durante una ricognizione per trovare una via per la scalata alla più alta montagna della terra. Allora avevamo in programma la salita al Parchamo, una bella vetta di 6273 metri lungo la cresta nord nord-ovest, una via di ghiaccio non tecnicamente difficile, con pendenze che non superano i 50 e 60 gradi. Portato al campo a spalle, vi rimasi due giorni in attesa dell'elicottero per il recupero. Tshering mi fu di sostegno morale e di grande aiuto in quella difficile situazione.

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L'aeroporto di Pokhara viene usato per le brevi tratte interne, con collegamenti giornalieri e regolari alla capitale, ma è in programma la costruzione di un secondo e grande aeroporto per i voli internazionali. Risulta molto utile quale punto di partenza per le spedizioni alpinistiche e per le decine di migliaia di escursionisti da ogni dove diretti verso l'Annapurna, la decima montagna più elevata della terra. E notevole è il movimento passeggeri, anche dall'India, che qui fanno scalo prima di proseguire per Jomsom, 2700m, centro urbano di una certa importanza. Da lì poi proseguiranno per Muktinath, seconda meta più importante di pellegrinaggio, dopo Pashupatinath, cara a tutti gli induisti. Capitale amministrativa del distretto del Mustang, Jomsom è nodo strategico per le comunicazioni ed i trasporti. Sono presenti, tra l'altro, scuole di ogni ordine e grado, dalla primaria alla secondaria superiore ed il campo di aviazione, un'unica pista asfaltata lunga 530 metri. Incuneato tra alte montagne, sul fondovalle dove scorre la Kali Gandaki, è ritenuto, statistiche alla mano, fra i più pericolosi del Nepal. Personalmente, ritengo più al cardiopalma atterrare e decollare dal piccolo aeroporto Tenzing Hillary di Lukla, sulla via per l'Everest, dove la breve pista in pendenza è limitata da una parete di roccia da un lato e da un abisso senza fine dall'altro. A bordo del volo U4 608. Ho il posto a sedere No.3B. Interni curati ma spazi estremamente ridotti. Ginocchia rannicchiate di lato. «L'aeromobile è un modello ATR 42-300/320. 35/45 posti. Partnership Francia-Italia. Due motori turboelica Pratt & Whitney Canada. Velocità di crociera vicina ai 300km orari. Quota di crociera 7000 metri». Mi informa Renato... lo guardo sbalordito... è lui l'esperto di queste cose... decolliamo con un po' di ritardo... neppure mezz'ora e siamo al Tribhuvan Airport di Kathmandu... taxi e Hotel Harati... ed ancora quattro giornate da spendere prima che i nostri amici ci raggiungano...

“Lha Gyalo! Dè Tamtchè Pham!” “Gli dei trionfano! I demoni sono vinti!”

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Quei giorni del sisma

12, Baisakh 2072, Shanibaar [25 Aprile 2015, Sabato] 29, Baisakh 2072, Mangalbaar [12 Maggio 2015, MartedĂŹ]

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© 2009 by John C. Huntington

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Sono frastornato. Mi giunge il numero dei morti, aggiornato di ora in ora. E va in un'unica direzione. All'insù. Non potrebbe essere altrimenti. La terra, dopo la prima devastante scossa, vicinissima all'ottavo grado della scala Richter, continua a tremare. Lo sciame sismico, di inaudita violenza, sempre su gradi molto elevati, aggrava se possibile, un quadro di sofferenza, dolore e morte, già insostenibile. La valle di Kathmandu, con i suoi 2.500.000 abitanti, raccoglie poco meno del dieci per cento di tutta la popolazione nepalese. Il Nepal è un paese povero che stenta a trovare una sua dimensione, schiacciato com'è, non solo geograficamente, tra due giganti: la Cina a nord e l'India a sud. Uscito nel 2006 da una guerra interna durata dieci anni, combattuta dai guerriglieri comunisti maoisti contro il potere centrale, senza esclusione di colpi da entrambe le parti, ha prodotto 13.000 morti. Poco abbiamo saputo di quel feroce e lungo conflitto. Oggi il Nepal è una Repubblica Federale Democratica. È un paese povero, immensamente povero, dicevo. Le sue risorse sono le grandi montagne himalayane che richiamano gli alpinisti da ogni parte del pianeta. Mentre gli escursionisti di ogni età si arrampicano su per le alte valli fino ai 4000 metri di quota e gli ultimi villaggi abitati da etnie come gli Sherpa, i Tamang, i Gurung, i Rai. Kathmandu, centro culturale e religioso per eccellenza, è

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meta di moltitudini di turisti. Un tempo alcuni di loro si spingevano fino a qui in cerca di facili paradisi artificiali. Gli hippies alla fine degli anni sessanta. Due sono le religioni che convivono in totale armonia, un aspetto questo del nostro tempo, non certo scontato. L'Induismo e il Buddhismo. Mi sono avvicinato al Nepal, spinto dal fascino irresistibile delle grandi altezze e ho scoperto la gente di quella terra, la loro semplicità, l'accoglienza nei confronti dello straniero, l'accettazione dell'altro. Ho respirato la religiosità e la sacralità dei suoi luoghi. Ogni vicolo, ogni tempio, ogni piccolo spazio aperto di Kathmandu è di per sé un luogo dove il devoto induista o buddhista può fare professione della propria fede in ogni momento del giorno. Numerosissime le immagini di divinità buone in lotta contro i demoni. Ho imparato a riconoscere quelle divinità e quei demoni dal nome, spesso, impronunciabile. Credo che poche città al mondo possano vantare un numero così elevato di siti protetti dall'Unesco, in quanto patrimonio culturale mondiale. Sono ben sette. Le tre piazze, stesso nome, Durbar Square, a Kathmandu, Patan e Bhaktapur, le tre città regali un tempo divise e in competizione fra loro, ora praticamente un unico agglomerato urbano, il “centro sociale e religioso della vita cittadina”. Risalgono ad un periodo storico quando noi eravamo in pieno Medio Evo. Sono musei a cielo aperto, con i numerosi templi a pagoda, custoditi da grandi statue. Ciascuna dedicata ad una divinità, più frequentemente ad una dea, alla quale sono affidati i destini di una umanità afflitta da tanti malanni. E Swayambhunath e Boddhanath, forse i due centri maggiori del Buddhismo lamaista o tibetano di tutta l'Asia. E Pashupatinath, sulle rive della Bagmati, il fiume che scorre attraverso Kathmandu, prima di gettarsi nel Gange. Non è un caso che abbia usato la parola “della”. Infatti i fiumi sono divinità femminili. Centro religioso importantissimo per gli Hindu, è il luogo dove si eseguono le cremazioni e si gettano le ceneri dei defunti nelle sue sacre acque. Qui mi sono soffermato più volte, nel corso delle mie frequentazioni nepalesi, spinto dalla curiosità di conoscere. In atteggiamento rispettoso verso una religione che non è la mia, mi sono avvicinato in silenzio ad un rito profondamente lontano dalla mia cultura. E ne sono rimasto affascinato ed emotivamente coinvolto. Infine Changu Narayan, l'altro grande centro religioso così caro agli Hindu, interamente dedicato alla venerazione del dio Vishnu...

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Le immagini di quei luoghi che ben conosco, mi giungono dai media, affastellate le une alle altre. Non riesco più a riconoscerli, tanto sono devastati e sepolti da informi cumuli di macerie. Non so se il popolo nepalese, così provato, avrà la volontà morale e la forza di ricostruire. Ho un ricordo molto vivo del mio ultimo recente soggiorno in Nepal. Bhaktapur, ovvero la Città dei Devoti, a pochi chilometri da Kathmandu. Piazza Taumadhi. Sono solo. Accoccolato su di uno scalino ammiro il Tempio Nyatapola a pagoda, di fronte. Con i suoi cinque tetti sovrapposti, svetta alto nel cielo ed è dedicato a Siddhi Lakshmi, la sposa di Vishnu, dea della fortuna e del benessere. Si avvicina una ragazzina. Dodici anni o giù di lì. Tra di noi inizia un lungo dialogo. È lei la prima. È curiosa e spontanea come tutti i ragazzi a quella età. Le differenze culturali e soprattutto linguistiche sono superate alla grande. La lingua inglese sarà il medium che ci permetterà di comunicare. La conversazione è rilassata e serena... Rivedo il suo volto e mi chiedo, con angoscia, se Siddhi Lakshmi, la dea della fortuna e del benessere, l'avrà aiutata e salvata da quel mare di rovine. Sabato, 25 aprile 2015. Ore 16:47

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Fonte: portale del Governo del Nepal

Sabato, 25 aprile 2015, alle 11:56 ora locale, una fortissima scossa di terremoto di magnitudo 7,8 ha colpito il Nepal con epicentro a 77 km a nord-ovest della capitale Kathmandu, ad una profondità di circa 10-15 km. Secondo le Nazioni Unite otto milioni di persone sono state interessate dal sisma, circa un quarto dell'intera popolazione. Nella stessa giornata i sismografi hanno registrato oltre 38 scosse di assestamento di magnitudo pari o superiore a 4,5 ed una di magnitudo 6,8. Le aree maggiormente colpite sono, oltre alla valle di Kathmandu, i distretti di Gorkha, Lamjung, Sindhupalchok, Bhaktapur e Lalitpur. Secondo l'Agenzia Scientifica del Governo degli Stati Uniti (USGS) il terremoto è stato causato da un improvviso rilascio di energia lungo la principale linea di faglia, dove la placca indiana si scontra con la placca euroasiatica. La zona, nella quale si trova Kathmandu, è larga 120 km e lunga 60 km circa. La scossa principale ha prodotto lo slittamento della città verso sud di circa tre metri. La stessa ha causato una immane valanga sui pendii meridionali dell'Everest, distruggendo il campo base, i campi alti I e II e uccidendo almeno 19 persone.

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Una nuova violenta scossa di magnitudo 7,3 alle 12:50 di martedì 12 maggio ha interessato la stessa area, con epicentro fra Kathmandu ed il Monte Everest, al confine con la Cina. Questo il freddo linguaggio dei media di mezzo mondo. Che Kathmandu si trovi in un'area geologicamente ad altissima pericolosità sismica lo dimostra, tra l'altro, la lunga lista di terremoti di forte intensità e gravità attraverso i secoli. Vediamola assieme: - 1255 Un terzo dei 100.000 abitanti di Kathmandu rimase sotto le macerie, compreso il re Abhaya Malla. - 1408 Molti i templi e gli edifici distrutti. Migliaia le vittime. - 1833 26 agosto. Magnitudo 7,7. Più di 500 i morti. La scossa fu avvertita anche a Delhi e a Kolkata. - 1866 23 maggio. La scossa di magnitudo 7,0 con epicentro a nord di Kathmandu, pur facendo ballare tutta la valle, non causò gravi danni. - 1916 28 agosto. Epicentro nel Nepal occidentale con danni materiali. - 1934 15 gennaio. É stato definito il 'Big One'. Di magnitudo 8,0 con epicentro nella regione indiana del Bihar, confine meridionale col Nepal. Uccise 17.000 persone, di cui 4.500 nella sola Kathmandu. Fu avvertito fino alla lontana Mumbai, costa occidentale dell'India. La lista dei terremoti si allunga, ad intervalli sempre più brevi: 1936 (magnitudo 7,0); 1954 (magnitudo 6,5); 1962 (6,0); 1964 (6,2); 1965 (6,1); 1966 (6,0). - 1980 29 luglio. Magnitudo 6,8 con circa 200 morti. - 1988 21 agosto. Ancora di magnitudo 6,8 con epicentro nello stato indiano di Udaipur. 900 vittime in Nepal. Danni nel vicino Sikkim. Avvertito a Delhi. - 1991 9 dicembre. Magnitudo 6,2 nel distretto occidentale di Bajura, Nepal. Non furono riportate vittime.

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* * * Sbuffi e poi grandi volute di polvere si alzarono da più parti della città ed in pochi minuti avvolsero tutta la valle con una coltre uniforme di colore marrone. La storica città di Bhaktapur, ad est, sembrava inghiottita da una tempesta di sabbia. Kathmandu era scomparsa. Il sabato mattina così freddo e piovoso era apparso decisamente fuori stagione. Mi trovavo con altri dello staff a fare una scampagnata sulle colline sovrastanti la città. Il cielo era nuvoloso ed eravamo delusi per non poter ammirare la maestosa catena himalayana a nord. Uno spettacolo impagabile nelle belle e limpide giornate di sole. Alcuni di noi osservavano come la città si fosse ingrandita fino a coprire buona parte della valle e discutevamo sulla sua crescita troppo rapida e disordinata. Mentre scendevamo lungo il crinale, all'improvviso ci fu una grossa scossa. Tutta la montagna cominciò a sussultare come se galleggiasse su di un oceano in burrasca. Riuscivamo a malapena a restare in piedi. “Questo è il Big One”, pensai. Kathmandu detiene il poco invidiabile primato di trovarsi al primo posto in un elenco di città ritenute più ad alto rischio terremoti al mondo. Ogni anno, verso la metà del mese di gennaio, in Nepal si celebra la giornata nazionale della sicurezza, per commemorare il terribile terremoto che rase al suolo Kathmandu nel 1934. Il nostro giornale, per l'occasione, quest'anno ha dedicato ampio spazio all'evento, evidenziando la necessità di essere meglio preparati ad affrontare un terremoto. La sensazione di shock che ci colse ben presto si tramutò in spavento al pensiero delle nostre famiglie. Le previsioni più fosche di un probabile terremoto di magnitudo 8 a Kathmandu parlavano di 100.000 morti, 300.000 feriti e di una città totalmente distrutta. Ci abbracciammo l'un l'altro. Alcuni piangevano. Ci attaccammo ai cellulari. Le linee erano interrotte.

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Un'ora dopo, mentre stavamo ancora scendendo, vi fu un'altra scossa. Mi sembrò di essere stato strattonato in avanti di un paio di metri. Tutta la montagna sembrava tremare con noi. Altre nuvole di polvere si alzarono. Quando si diradarono, notammo con il binocolo che la maggior parte delle aree residenziali della città sembravano intatte. Il che ci procurò un po' di sollievo. Alcuni di noi erano riusciti a contattare i familiari. Ma non per quattro di noi, così ci affrettammo a scendere. Recuperammo l'auto parcheggiata e ci dirigemmo verso la città. Fummo costretti ad aggirare i muri caduti al suolo e gli edifici pericolanti. La gente si riuniva negli spazi aperti o al centro delle strade, il più lontano possibile da qualsiasi cosa che potesse crollare. Davanti ad un ospedale i pazienti giacevano su materassi allineati sul marciapiede. Verso sera apparve chiaro che, sebbene in città le vittime fossero numerose ed i danni molto gravi, particolarmente nei siti dichiarati patrimonio comune dell'umanità, gli effetti del terremoto non sembravano così devastanti come temevo. I miei familiari stavano tutti bene. Abitiamo nella zona residenziale di Patan, dove gli edifici sono più resistenti. Penso che gli effetti saranno stati molto più gravi nelle aree montuose prossime all'epicentro, a circa 80 km a NO della capitale e nei distretti limitrofi. Già trapelano notizie di interi villaggi cancellati dalla faccia della terra, di fiumi ostruiti da frane e di strade inagibili. Centinaia di migliaia di persone a Kathmandu e nelle aree limitrofe hanno trascorso sabato notte in strada. Io ho dormito in tenda assieme alla mia famiglia, nel cortile dietro casa. Sono passate più di 24 ore dalla prima e più potente scossa e da allora lo sciame sismico ne ha prodotte più di 50, alcune di forte intensità, secondo i miei calcoli. Eppure non vi è segno di panico alcuno. Domenica la gente del vicinato ha fatto scorta di acqua e di sacchi letto e ha atteso con calma, accovacciata sulle ginocchia e sui talloni, la seconda notte all'aperto. Kunda Dixit,The Earthquake from above, #756 NEPALI TIMES, May 2015

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Così scriveva Kunda Dixit nel suo editoriale apparso sul NEPALI TIMES, un settimanale in lingua inglese di opinione e politica, economia, cultura, viaggi, società e costume. Kunda Dixit ne è il fondatore e l'editore. Esce sia in edizione cartacea che online. Io lo leggo regolarmente con attenzione ed interesse. Firma inoltre interventi su prestigiose testate internazionali. La sua è una testimonianza preziosa, vissuta in prima persona, “in diretta”, diremmo oggi con il linguaggio dei media, di quel sabato 25 aprile 2015. Ma al di là dei dati statistici, che pure sono indispensabili per una lettura corretta dei vari fenomeni naturali, è opportuno soffermarsi per un attimo sulle vicende delle singole persone coinvolte in drammi simili. Ne ho scelte alcune fra le tante riportate dalla stampa locale. Sono storie, per così dire “a lieto fine”, fin troppo semplici nella loro crudezza. Storie che coinvolgono a livello emotivo. Storie di gente comune, fatte di personaggi che vivono la propria vita quotidiana, scandita da ritmi lenti e immutati da sempre. Eccole:

Lacrime di gioia

Il terremoto che ha scosso il Nepal con una violenza di magnitudo 7,8 non si può neppure lontanamente misurare con quello che Rasmila Awal deve aver provato in quel giorno fatale. Rasmila si era recata in un negozio vicino poco prima di mezzogiorno, lasciando i due figli, Soniya di 10 anni e Sonit di quattro mesi, a casa. Soniya guardava la TV mentre il piccolo Sonit dormiva. La casa iniziò ad oscillare pericolosamente e le prime crepe si aprirono sui muri. Soniya si precipitò fuori. Si rese conto che il fratellino era dentro, ritornò con il fiato sospeso, lo afferrò e di nuovo si diresse verso l'uscita. La casa si sbriciolò improvvisamente, intrappolandola per i piedi. Aveva il fratellino stretto al petto quando la credenza le rovinò addosso strappandole il piccolo Sonit... Soniya non ricorda nulla di quanto sia successo poi. Rasmila tornò di corsa a casa solo per vederla rovinare al suolo in una nube di polvere. Le tremarono le gambe. Voleva piangere, urlare, ma dalle labbra non uscì

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suono alcuno. I vicini scavarono tra le macerie per trovare i bambini. Mezz'ora dopo spuntò una piccola gamba, ricoperta di polvere. Di Soniya. Era viva ma priva di sensi. Sonit era introvabile. Cercarono di consolare Rasmila dicendole che almeno sua figlia era salva. Rasmila non aveva lacrime per piangere. Non riusciva a profferire parola. Se ne stava immobile come una statua. Alle nove di sera i vicini si prepararono a trascorrere la notte all'aperto. Fu allora che si udì il pianto di un bambino levarsi dalle macerie. Arrivarono dei militari e tutti ripresero a scavare. Ma le speranze di Rasmila scemarono lentamente con il passare del tempo. La notte non chiuse occhio, ogni secondo era per lei un anno. Il mattino dopo prima dell'alba, gli scavi a mani nude ripresero. Si sentì ancora il pianto di un bambino. Erano le dieci quando il soldato Dipak Rai tirò fuori Sonit da quel cumulo di rovine. Erano trascorse esattamente 22 ore dal crollo. Ricoperto di terra, incapace di aprire gli occhi, ma vivo e sorprendentemente illeso. Rai gli pulì gli occhi e gli tolse la polvere di dosso. Sonit aveva fame. Si succhiava le piccole dita. Rasmila lo sollevò tra le sue braccia e lo strinse forte forte. Improvvisamente riuscì a piangere. Ma questa volta erano lacrime di gioia. Sudeep Shrestha, Tears of Joy, #758 NEPALI TIMES, May 2015

Il salvataggio di Sonit Awal sulla prima pagina del Nepali Times, Maggio 2015. La foto, di Amul Thapa, con Sonit tra le braccia del suo soccorritore, ha fatto il giro del mondo.

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'Di:ka Di:ka'

Il piccolo Kritak, anni quattro, è così traumatizzato che si sveglia ancora oggi all'improvviso, la notte, gridando 'Di:ka... Di:ka'. Aveva udito la madre, Chandra Laxmi Prajapati, urlare quelle parole la settimana prima, quando quella violentissima scossa aveva danneggiato una parte della loro casa a Bhaktapur. La madre si era inginocchiata e, appoggiando con forza i pollici sul pavimento, aveva urlato con tutte le sue forze 'Di:ka... Di:ka'. Aveva continuato ad urlare durante quegli interminabili ottanta secondi e poi tutti avevano avuto la possibilità di uscire e salvarsi. Chandra Laxmi, anni trenta, aveva protetto con il braccio il piccolo Kritak. La parola in lingua Newari 'Di:ka... Di:ka' significa 'fermati' e Chandra Laxmi stava chiedendo alla terra di smettere di tremare quel 25 aprile. “Non so se sia vero.” Dice. “Me l'ha insegnata la mamma quando ero bambina.” Nel vicolo di Bhaktapur dove si trova la sua casa, più del 90% degli edifici, tirati su a forza di mattoni, fango e sudore, sono crollati o seriamente danneggiati. E almeno venti sono stati i corpi recuperati da sotto le macerie sparse ovunque. “Crolli dappertutto. Se solo avessi provato ad uscire con i miei figli, ora saremmo probabilmente morti.” Aggiunge. A sentir lei, tutte le donne del vicinato urlavano 'Di:ka... Di:ka'. Alcune erano state fortunate. Altre erano rimaste sepolte.

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Il noto studioso di letteratura Newari, Tejeswor Babu Gwong, afferma che cercare la salvezza urlando quella parola appartiene ad una cultura antica e diffusa nella locale comunità della valle. In particolare sono le donne ad usarla durante i terremoti. La terra è la Grande Madre e le donne, proprio perché madri, la implorano. Le chiedono di fermarsi e con quella parola intendono proteggere i loro figli. La si potrà chiamare superstizione, ma la linea di confine fra cultura e superstizione è, a volte, molto sottile. Per Ajeyndra Laghu, docente di fisica, invece, è probabile che tale comportamento istintivo sia

una forma primordiale di autodifesa, laddove, in

mancanza di un rifugio sicuro, rannicchiarsi a terra potrebbe rivelarsi l'unica cosa giusta da fare. Om Astha Rai, 'Di:ka... Di:ka', #756 NEPALI TIMES, May 2015

Chandra Laxmi con il figlio Kritak e la figlia Kritika nella loro casa a Bhaktapur. Foto di Om Astha Rai

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Grazie alla Dea Vivente

Quando sabato, qualche istante prima di mezzogiorno, la terra cominciò a tremare, a casa della famiglia Bajracharya, in Patan, il pranzo era appena terminato e stavano ancora seduti a tavola. Alla prima scossa, come gli altri abitanti della valle del resto, cominciarono tutti ad urlare e a voler scappare da quell'inferno, in preda al panico. Ma la Dea Vivente, la figlia di sette anni, Yunika, dal suo altare cerimoniale, disse loro di restare calmi e di non precipitarsi fuori. “Aveva gli occhi chiusi come in trance. Ci disse che nulla sarebbe accaduto”, ricorda il padre, Ramesh. Il pavimento sussultava con inaudita violenza sotto ai loro piedi e le pareti, come fossero squassate da un immane gigante, vibravano con fragore. Si strinsero gli uni agli altri e assieme pregarono. Quando la scossa finì, Ramesh accese le lampade votive e raggiunse la figlia, la Dea Vivente, in meditazione ed in preghiera. “Sapevamo che se la Kumari Majhu ci aveva detto che niente ci sarebbe accaduto, nulla di male sarebbe successo. In verità eravamo tutti salvi in quella stanza, grazie alla sua fede”, aggiunge. Quando arrivarono le scosse di assestamento, non erano così preoccupati come prima, perché sentivano che il peggio era passato. “Se la prima, violentissima scossa non aveva fatto crollare l'edificio, eravamo fiduciosi che le successive, di minore intensità, non ci avrebbero fatto alcun male”.

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In veritĂ , mentre gli altri templi ed edifici erano crollati, la Casa-Tempio della Kumari non subĂŹ danno alcuno. Neppure una tegola del tetto cadde a terra. Allo stesso modo, mentre i quattro templi principali di Durbar Square in Kathmandu furono rasi al suolo, il Tempio della Kumari di Kathmandu fu interamente risparmiato... MercoledĂŹ sono andato a ringraziare la Kumari. La devastante scossa di sabato 25 aprile mi aveva quasi sbalzato dal balcone di casa mia. Allora, avevo preso la macchina fotografica, avevo chiuso il rubinetto del gas ed ero scappato di corsa con la moglie ed il figlio. Quando ritornammo, il balcone dove stavo prima, penzolava pericolosamente. Min Ratna Bajracharya The Living Goddess Lives Through the Quake, #756 NEPALI TIMES, May 2015

Yunika Bajracharya, la Dea vivente, 7 anni

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Sopravvissuti due volte

Bhuyu Maharjan, un arzillo vecchietto quasi novantenne, stava sbucciando l'aglio sul terrazzino quel sabato mattina, quando un rumore di tuono fece oscillare violentemente la sua casa. Si aggrappò alla ringhiera istintivamente. Appena la scossa cessò, scese al piano terra e si diresse verso la camera della figlia. Era sotto shock. Non riusciva a muoversi. Maharjan era ancora un bambino nel gennaio del 1934, l'anno della grande scossa che solo a Kathmandu fece 4500 morti. Sebbene di magnitudo superiore, la paura di allora non era stata così profondamente sentita. «Sono sopravvissuto per due volte a due grandi terremoti. Ma questa volta ho avuto più paura. Non potevo fare un passo, non riuscivo a stare ritto in piedi!», dice. Maharjan e la famiglia hanno trascorso la notte all'aperto vicino casa ed il giorno dopo si sono trasferiti dal figlio che vive in periferia. Ma persino lì, le continue scosse di assestamento ed i vicini in preda al panico lo hanno spaventato ancora di più, costringendolo a passare altre due notti fuori e sotto la pioggia. «Nella mia casa non c'è nessuno ma ho paura di tornare. E se arriva un'altra scossa così forte?». Aggiunge con voce tremante. Diversamente da Maharjan, Chirmai Awale, che aveva solo 12 anni nel 1934, questa volta si è quasi divertita. «È stato come andare in macchina!», sorride, uscendo da un ricovero di fortuna nei giardini reali dietro Piazza Durbar, a Patan.

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Allora Awale stava giocando con i fratellini vicino al tempio di Ganesh mentre i genitori erano assenti. Un passante li aveva coperti con uno scialle e portati al sicuro, mentre ogni cosa veniva giù all'intorno. Ricorda che una grande nuvola di polvere si era levata alta nel cielo oscurando il sole. E che quattro giorni dopo era andata in sposa. Per Awale, la sensazione di déjà vu, di aver già vissuto quell'esperienza, le è stata di grande aiuto nel superare la paura di sabato 25 aprile. Comunque, ha avuto incubi notturni al suo ritorno a casa, dove si immaginava nuove scosse di assestamento. Sonia Awale, Two Earthquakes in One Lifetime, #757 NEPALI TIMES, May 2015

Foto di Sonia Awale

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Il coraggio per ricominciare A qualche settimana dal terremoto del 25 aprile il popolo del Nepal cercò di riprendersi le proprie vite. Frugando tra le macerie, per salvare le poche cose rimaste e recuperare materiali utili a ricostruire le proprie case: mattoni, travi, infissi. Intere famiglie all'opera: persino i più piccoli diedero il loro contributo. Sono allenati da sempre a fare da sé. Anche nella tragedia riescono a trovare il tempo per soffermarsi a sorridere ed offrire una tazza di the. Il terremoto non ha mai fiaccato la capacità di recupero e la fiducia insite nei Nepalesi nel ricostruire il proprio focolare, il loro patrimonio storico e culturale, la propria identità. Dopo poco più di un mese ricominciarono le lezioni in buona parte delle scuole, rese inagibili dalle devastanti scosse di terremoto del 25 aprile e del 12 maggio. Alunni e studenti di ogni età e grado ripresero a percorrere, nelle loro uniformi azzurre e blu, linde e stirate per l'occasione, le vie ancora ingombre dalle macerie. Una nota di colore su tanto grigiore, e donavano il sapore di un ritorno alla normalità. Per la regolare attività didattica, bisognò aspettare. Si organizzarono programmi culturali ed attività sportive, con il fine dichiarato di dare loro un minimo di serenità nei momenti di aggregazione sociale e culturale in comune. Basti pensare che nei 14 distretti maggiormente colpiti dal terremoto, cioè la valle di Kathmandu ed alcune aree rurali e montuose, si contarono 5000 edifici scolastici gravemente

danneggiati

o

distrutti,

con

un

bilancio

di

perdite

umane

particolarmente elevato. Furono 45 gli insegnanti e 478 i giovani in età scolare che persero la vita. Ricordo infine, che il sabato in Nepal non c'è lezione, essendo giornata festiva per le scuole e per gli uffici pubblici. Una vera fortuna. Il numero delle vittime sarebbe stato molto, ma molto più alto.

* * *

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Ed oggi? A poco più di un anno e mezzo di distanza dalle due devastanti scosse di terremoto del 25 aprile e del 12 maggio, la ricostruzione verso la normalità sta facendo i primi timidi passi. Delle 800.000 case parzialmente danneggiate o distrutte, solo una parte delle macerie è stata rimossa. Al di fuori della capitale molti sono i villaggi dove le rovine tuttora ingombrano le strade e quasi nulla è cambiato. Il governo, ostacolato dalle lungaggini burocratiche, stenta a muoversi, trovandosi ancora nella fase di progettazione degli interventi. Gran parte dei fondi disponibili in milioni di dollari, dovuti a donazioni di istituzioni pubbliche e private, non sono fruibili sia perché giacciono trascurati da qualche parte, sia perché, nella migliore delle ipotesi, sono sempre in possesso dei donatori, ai quali non vengono offerti i canali giusti per intervenire. Il governo centrale aveva promesso ad ogni capofamiglia la somma di 200.000 rupie, pari a 2000 dollari, per la ricostruzione della propria casa. Di questo sussidio è stata consegnata una prima parte, corrispondente ad un quarto circa della cifra. E se a Kathmandu le cose vanno meglio, nelle aree rurali e montuose ben poco è stato fatto in questo senso. Le due stagioni monsoniche, 2015 e 2016, hanno reso, se possibile, ancora maggiore il disagio per i terremotati nel vivere in precari ricoveri di fortuna, siano essi tende o baracche temporanee in legno e lamiera. A tutto ciò si aggiungono altri problemi di non poco conto. La ratifica della Nuova Costituzione, avvenuta il 20 settembre 2015, ha causato proteste, scioperi e violenze di vario genere, con morti sul terreno. I leader dei maggiori partiti politici hanno avuto il loro bel da fare per accordarsi sui vari punti in discussione. La nuova suddivisione del territorio, in sette grandi provincie, ha scontentato gli abitanti della pianura del Terai, confinante con l'India, in particolare l'etnia dei Madhesi, a loro dire non sufficientemente tutelati. Ancora. Il blocco dei rifornimenti di carburante da parte dell'India stessa, durato oltre quattro mesi, ha aggiunto problemi a problemi. Il Nepal dipende totalmente da essa e solo ricorrendo alla Cina ha potuto, in piccola parte, colmare il proprio fabbisogno. Delhi ha addossato la colpa dei disordini, avvenuti presso i suoi confini, alle proteste di massa dei Nepalesi in quell'area, contrari alla Nuova Costituzione. Tale mossa, fra l'altro, è stata percepita dal governo del Nepal come una indebita ingerenza nei propri affari interni. Ma chi sono i Madhesi? Sono

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storicamente i primi abitanti indigeni del Terai, la vasta regione a sud, a cavallo di Nepal ed India. Essi si sentono vicini culturalmente agli abitanti degli stati indiani del Bihar e Uttar Pradesh, con i quali condividono taluni aspetti nella pratica religiosa e nelle festività. Il loro stesso nome “Madhesh”, cioè “Terra-di-Mezzo” in sanscrito, fa riferimento all'area geografica in cui sono presenti, il Terai appunto. Geograficamente situato fra il Nepal antico e l'India attuale. Da ricordare un particolare non da poco. La regione, una grande pianura, è la più produttiva del Nepal, con le maggiori industrie del paese e dove una florida agricoltura dà riso, frumento, legumi, canna da zucchero, iuta, tabacco e mais. Data l'importanza dal punto

di

vista

economico,

i

Madhesi

vorrebbero

essere

maggiormente

rappresentati nelle istituzioni, nella società e in Parlamento.

Un discorso a parte va fatto per i templi ed i monumenti, cioè i centri del potere spirituale nella Valle di Kathmandu. Parimente venerati da Induisti e Buddhisti, sono 'finestre sul regno degli dei. Fonte di rivitalizzazione spirituale e rinnovamento psichico,'* secondo la felice intuizione di Keith Dowman. Il ruolo di questi manufatti nella vita quotidiana dei Nepalesi, indipendentemente dalla fede di appartenenza, va ben al di là della pura creatività artistica, per tradursi in momenti di raccoglimento e preghiera in ogni momento della giornata. Una religiosità profondamente sentita, che si esprime in molteplici modi: dalla venerazione di spiriti di antichissima tradizione e memoria, che dimorano negli alberi, nelle rocce, nella terra, nelle acque, all'adorazione di divinità femminili, alla presenza costante di potenti divinità maschili quali Shiva e Vishnu, fino ad arrivare al simbolismo buddhista. Le leggende raccontano che il Buddha visitò la valle, ma della sua presenza esistono testimonianze nelle pratiche religiose e meditative ovunque. Nella città di Patan e nella stessa Kathmandu si trovano tutt'oggi numerosi

monasteri

buddhisti.

E

Avalokiteshvara,

il

Bodhisatwa

della

Compassione, è anche il protettore della valle. Per non parlare delle innumerevoli edicole ospitanti statue o raffigurazioni sacre, ed altre immagini sparse nelle strade, piazze, cortili e vicoli. ___________________ *Keith Dowman, Power Places of Kathmandu, Thames and Hudson Ltd., London 1995

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Testimoniano della presenza di un dio o di una dea che vi risiede e, in quanto tali, oggetto di culto da parte dei devoti. Come dicevamo, anche le piante meritano venerazione. Nel raggiungere l'Hotel Harati, in Chhetrapati, dove soggiornavamo, si incontra un maestoso pipal (ficus religiosa). Albero sacro per gli Induisti, è l'incarnazione stessa di Vishnu, ponte ideale tra la terra e il cielo. Mentre per i Buddhisti è oggetto di venerazione perché Siddhartha Gautama, il futuro Buddha, raggiunse lo stato di Illuminazione, dopo un periodo di meditazione, sotto una di queste piante... Lo guardo con il naso all'insù tutte le volte che ci passo vicino e mi soffermo per qualche istante. Riposare sotto le sue articolate fronde dona non solo refrigerio ma anche purifica da ogni peccato.

Chhetrapati: il grande pipal (ficus religiosa), albero molto comune in Nepal, trova sempre un posticino per crescere, anche nella caotica Kathmandu.

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PRIMA E DOPO SWAYAMBHUNATH. È fra i luoghi sacri maggiormente colpiti dal sisma. Il mito delle sue origini è anche il mito delle origini della valle di Kathmandu, quando il Bodhisatwa Manjushri vi giunse dalla Cina e con la spada tagliò in due la collinetta a sud del lago, da dove defluirono le acque. E su quella modesta altura sorse il primordiale stupa Swayambhu. All'odierno visitatore che, ansante, sale gli ultimi ripidi scalini che portano sulla spianata, appaiono, in successione, il pinnacolo terminale... il parasole... la guglia con i tredici cerchi dorati... mentre dalla sua bocca esce un sospiro di sollievo. Lo stupa è sempre lì. Tutto intero. E gli occhi del Buddha dipinti sui quattro lati della torretta, harmika, incrociano ancora i suoi occhi... Merito forse del recente restauro effettuato nel 2008 che ne ha rinforzato la struttura. Ma se volgi lo sguardo intorno, ti accorgi che lì il terremoto ha colpito duro. Sconvolti i monumenti reliquiari (chaitya) che ospitano i resti dei venerabili. Crollate le vecchie case, residenza della piccola comunità che qui ha il compito di prendersi cura del complesso monumentale e dei rituali che da generazioni si svolgono quotidianamente. Il Karmaraj Mahavihar, il monastero che ospitava una gigantesca statua del Buddha, recuperata per fortuna, ha subito danni così ingenti da richiedere una completa ricostruzione. Ridotta ad un mucchio di pietre anche Anantapur, una delle due torri dalla struttura a 'shikhara', ai lati dello stupa. La seconda torre, Pratappur, invece, ha subito solo lievi danni alla base. Sembra che ogni energia negativa diretta verso lo stupa venga prima assorbita da queste due torri... e ha funzionato, direi. È andato perduto anche Purano Gomba, il monastero accanto al tempio a pagoda dedicato alla divina Harati, mentre quest'ultimo è stato risparmiato. La dea hindu, che protegge da tutti i mali, ha operato il miracolo. È questa la convinzione dei locali... nessuna vittima tra di loro... merito della potenza benefica della dea? Attualmente risultano effettuati i restauri minori. Resta ancora molto da fare. I restauri importanti procedono con l'intervento dell'UNESCO e del Dipartimento di Archeologia.

La ricostruzione intera di quanto perduto nel sisma necessita di

finanziamenti dall'estero.

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Swayambhunath: ottobre 2013. Al centro lo stupa con, ai lati, le due torri a shikhara.

Veduta aerea di Swayambhunath. In primo piano a sx la torre Anantapur, ridotta ad un cumulo di macerie e, a dx, il monastero Karmaraj Mahavihar, l'edificio giallo, parzialmente collassato. [26 aprile 2015 – Fonte: CNN]

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BOUDHANATH. Le origini storiche di questa struttura sono incerte, ma da secoli continua ad essere il punto di incontro di una moltitudine di devoti, in particolare durante le due principali festività: il Lhosar, il capodanno tibetano tra la seconda metà di gennaio e la prima metà di febbraio di ogni anno, e la grande festa, ogni dodici anni, per commemorarne la durata della costruzione. Imponente, si eleva in altezza per quaranta metri e si estende su un'area di cento metri di diametro. Il luogo è diventato il ritrovo dei rifugiati tibetani, in particolare dopo l'invasione cinese del 1951.

Da qui la sua particolare importanza che lo distingue da

Swayambhunath. Penso sia interessante riportare almeno due tra le molte versioni sulle sue origini arrivate a noi dalla notte dei tempi. Una, forse la più curiosa, narra di una giovane donna assai devota, che voleva onorare degnamente il Buddha. Spinta da una profondissima fede, si recò dal re per chiedere in dono un pezzo di terra. Il re acconsentì, aggiungendo che le avrebbe dato un appezzamento dalle dimensioni di una pelle di bufalo. Allora la donna tagliò la pelle in sottilissime strisce, le unì le une alle altre e le pose sul terreno in modo da delimitare un'ampia superficie. Era diventata la sua terra e vi costruì il tempio. Un'altra versione ci parla di un'epoca in cui una povera ragazza di nome Jyajima viveva in un misero villaggio. La giovane diede alla luce quattro figli maschi e, con il loro aiuto, accumulò tante e tali ricchezze da desiderare qualcosa di grande e meraviglioso. Pensò di erigere uno stupa e si recò dal re per esporgli la richiesta. Il re accettò di buon grado. Con l'aiuto dei figli si dedicò all'immane impresa, alla quale dedicò gli ultimi anni della sua vita e, prima di morire, si fece promettere dai figli di completare l'opera. Oggi quel tempio si presenta in tutta la sua magnificenza come monumento al Buddha, rappresentato con 'gli occhi che tutto vedono', a guardare nei quattro punti cardinali, sopra l'enorme cupola. La struttura ha subito solo danni nella parte superiore, sufficienti comunque a richiederne la ricostruzione. Tutta la parte sovrastante la cupola è stata rimossa e sono subito iniziati i lavori di restauro. Minimi danni invece hanno subito gli edifici circostanti che danno sulla kora, intorno allo stupa. Di certo i lavori di consolidamento, precedentemente effettuati, sono stati decisivi per la salvaguardia

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dell'intero complesso. La kora ha a che fare con il movimento di rivoluzione della Terra attorno al sole e con la rivoluzione del nostro sistema solare all'interno della galassia. La kora del pomeriggio, che continua fino a sera, è particolarmente sentita. Monaci e monache, e devoti provenienti da ogni parte, si affollano in una processione circolare, senza fine, durante la quale recitano i mantra, si prostrano a terra tra visitatori e turisti chiacchieroni.

Boudhanath: l'imponente struttura raggiunge in altezza i 40 metri. Ottobre 2013.

Pomeriggio inoltrato. Un momento della kora, il giro che i fedeli compiono attorno al sacro tempio in senso orario. Ottobre 2013.

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La guglia, dopo i gravi danni causati dal sisma, è stata totalmente rimossa. Questa fase ha richiesto alcuni mesi. Qui l'inizio dei lavori di ripristino, 3 novembre 2015. Foto di Christopher J. Fynn – Own work, CC BY-SA 4.0 – wiki commons

22 novembre 2016. Rinato a nuova vita. Lo stupa di Boudhanath durante la cerimonia di purificazione di tre giorni. Foto di Niranjan Shrestha / AP

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PASHUPATINATH. Pashupati, “il Signore dei greggi”, è uno degli appellativi con cui gli Induisti identificano Shiva, Dio tra gli Dei, Signore di tutti gli esseri viventi, fonte di ogni beatitudine e di eterna pace. Il tempio a lui dedicato si trova a cinque chilometri da Kathmandu, sulla riva destra del fiume Bagmati. Occupa una vasta area costellata di templi antichi, monasteri, stupa, eremi e monumenti, importanti sia dal punto di vista archeologico che architettonico. Nello Skandapurana, testo religioso-filosofico hindu, si legge che agli albori del mondo, Shiva e l'amatissima consorte Parvati giunsero nella valle di Kathmandu dal Monte Kailash, loro abituale dimora e residenza degli dei. Shiva rimase talmente colpito dalla straordinaria bellezza della lussureggiante foresta, che decise di stabilirvisi. Le due divinità presero le sembianze di due antilopi. Erano immensamente felici. Dopo qualche tempo, gli dei notarono la loro assenza e cominciarono a sentirne la mancanza. Così si misero a loro volta in viaggio, alla loro ricerca. Cercarono e cercarono. Invano. Si diressero infine verso la valle di Kathmandu, presso le rive del fiume Bagmati. Fiori d'acqua d'ogni genere ne ricoprivano la superficie qua e là ed uccelli acquatici d'ogni specie nidificavano e prosperavano. Alla fine lo trovarono. Aveva le sembianze di una giovane antilope. L'afferrarono per l'unico corno doro lucente sulla fronte. Il corno si ruppe in tre pezzi. Il primo scomparve nel cielo, il secondo sprofondò nel terreno, mentre il terzo rimase nelle loro mani. Lo portarono con loro. Lo posarono su di un rialzo del terreno in una località di nome Gokarna, per segnalare la presenza del dio. Passò del tempo. Il pezzo di corno lasciò la sua dimora per stabilirsi permanentemente dove il Jyotirlinga, “l'apparso da sé”, oggi si trova. Rimase sepolto per secoli, finché fu dissepolto da un bovaro. Allora una vacca era solita versare abbondanti gocce del suo latte, sempre nello stesso luogo, prima di ritornare a casa, dopo una giornata intera al pascolo. Il bovaro, insospettito per la scarsità del suo latte, la seguì e scoprì ogni cosa. Con l'aiuto di alcuni uomini scavò una profonda buca, al fondo della quale apparve un linga, profondamente infisso. Incapaci di sopportare la vampa di luce, si affrettarono a ricoprirlo. E sopra vi installarono un linga... Oggi un grande tempio, dal duplice tetto a pagoda in rame, rivestito di una lamina d'oro, si erge in tutta la sua altezza, oltre i due ponticelli che collegano le

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due sponde del fiume, permettendo così il passaggio, dall'una all'altra parte, ai fedeli e visitatori. Il sanctum sanctorum del tempio ospita il Jyotirlinga, secondo la tradizione. Idolo fallico, simbolo universale di Shiva, è il fulmine, il fascio di luce primordiale,

il

principio

fecondatore

maschile

che

fertilizza

lo

yoni,

rappresentazione del sesso femminile e simbolo della forza vitale. L'accesso e la visita al tempio è consentito solo agli Induisti e ai Buddhisti. È un vero peccato per noi non poter accedere all'interno per ammirare i tesori che vi sono custoditi. Non abbiamo documenti che ci dicano quando il tempio dedicato a Shiva sia stato costruito. Si può ipotizzare che agli inizi fosse una semplice struttura in pietra, modificata poi molte volte nel corso del tempo. Sappiamo che tale struttura fu provvista di un tetto dorato dal re Shiva Deva III nel XII secolo e che due secoli dopo raggiunse la forma attuale ad opera della

dinastia Malla. Oggi l'intero

complesso è sotto la tutela di una Fondazione (PADT) che provvede alla sua cura e manutenzione. E sono proprio le cremazioni che attirano i visitatori in questo sacro luogo. I fedeli si accalcano sulle sue rive per le loro abluzioni, per chiedere benevolenze agli dei ed implorare la guarigione per i malati. I morti vengono deposti su delle piattaforme per la cremazione ed il cerimoniale prevede riti diversi a seconda della casta sociale di appartenenza del defunto.

Il sacro tempio hindu dal tetto dorato, dedicato a Lord Shiva, in pratica non ha subito danni. Foto di Thapa Laxman – wiki commons

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Hanno avuto seri danni, invece, i numerosi tempietti sparsi sulla riva sinistra del fiume e sulla collina adiacente, facilmente raggiungibile a piedi da ampie gradinate. Fatti costruire da fedeli facoltosi, vogliono essere un ricordo anonimo del loro passaggio sulla terra. Nella foto accanto un linga, “segno” o “fallo”. Considerato una forma di Shiva, ne rappresenta il principio creatore. Il piedistallo, su cui appoggia, rappresenta l'organo femminile, lo yoni. Entrambi simboleggiano l'unione degli opposti. Le foto di questa pagina sono di © Anna Mazzaro 2016

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* * *

Durbar Square è il nome che genericamente viene dato alla piazza e all'area antistanti i rispettivi palazzi reali nelle tre antiche città-stato, Kathmandu, Bhaktapur e Patan, prima dell'unificazione del Nepal, ad opera del re Prithvi Narayan Shah, nel XVIII secolo. Durbar deriva dal persiano darbār, ed identifica il luogo dove la popolazione si radunava e tuttora si raduna, in occasione delle varie cerimonie pubbliche e religiose. Troviamo infatti una Piazza Durbar a Kathmandu, a Bhaktapur ed a Patan. Tutte e tre sono state dichiarate patrimonio mondiale dell'umanità dall'UNESCO. Questi i danni maggiori causati dal sisma del 2015.

Kathmandu Durbar Square Templi completamente distrutti: Kasthamandap - Biseshwori Mahadev - Maju Dewal - Narayan Temple - Trilokya Mohan Narayan Temple. Seriamente danneggiati: la Torre Basantapur a nove piani - l'antico palazzo reale Hanuman Dhoka e Gaddi Baithak, il bianco palazzo. Rovinata al suolo la statua del re Pratap Malla davanti a Hanuman Dhoka.

Nella cartina sono evidenziati con un cerchio nero i templi principali andati completamente distrutti nel sisma del 25 aprile.

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Durbar Square. In primo piano a sx, il tempio Maju Dewal (XVII sec.) poggia su di una base a nove gradoni in mattoni ed è il piÚ imponente della piazza. A dx il tempio Trilokya Mohan Narayan (1690). Ottobre 2011.

La stessa, aprile 2015. i due templi al suolo, completamente collassati. Al centro, il tempio a Shiva e Parvati è stato risparmiato. A dx la parte nuova (Gaddi Baithak) del palazzo reale, in stile neoclassico bianco importato dall'Europa, aggiunta nel 1908 sotto il regno di Prithvi Bir Bikram Shah. Foto di Narendra Shrestha / EPA

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Gaddi Baithak, lato sud. In secondo piano, al centro, il tempio a pagoda Trilokya Mohan Narayan. Ottobre 2011.

Lo stesso, aprile 2015. Foto: Min Ratna Bajracharya

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Bhaktapur Durbar Square “Città dei Devoti”. “Città della Cultura”. “Prezioso scrigno della Cultura del Nepal”. Sono solo alcuni degli appellativi più comuni di cui si fregia Bhaktapur, un tempo una delle tre città-stato della valle, assieme a Kathmandu e a Patan. Città storica, si trova a dodici chilometri ad est di Kathmandu. Il taxi è il collegamento più pratico e rapido. Costa poco, duecento rupie (due euro), se si è bravi nella contrattazione. Permette una full immersion nel traffico rumoroso, coloratissimo, caotico della grande periferia e due parole con l'autista sono sempre utili e piacevoli. È assai probabile che il suo inglese non sia come quello della regina Elisabetta II, ma ciò che più conta è far passare il messaggio comunicativo. Fondata nel XII sec. dal re Anand Dev della dinastia

Malla, con i suoi 82.000 abitanti, è un centro

culturalmente e storicamente vivace. Piazze, strade e vicoli sono pavimentati con mattoni e offrono un ampio e variegato campionario di templi e palazzi, monasteri e monumenti. Durbar Square, la piazza principale, ospita, fra l'altro, il Palazzo delle 55 Finestre edificato dal re Malla Bhupatindra, sede della famiglia reale fino al 1769. Ora, in parte, è la sede della National Art Gallery. Il Palazzo delle 55 Finestre è inoltre famoso perché Bernardo Bertolucci vi girò la scena finale di “Il Piccolo Budda” nel 1993. I numerosi templi di Bhaktapur, come del resto tutti gli altri della valle di Kathmandu, dedicati alle divinità hindu, sono vietati alle persone di fede diversa e si possono quindi ammirare solo dall'esterno. I veicoli di fatto non possono accedere alla città vecchia. Si vedono solo rari motocicli e piccoli curiosi trattori a tre ruote per il trasporto di merci. Bandito il traffico pesante. L'aria è decisamente assai più respirabile che a Kathmandu e si può passeggiare tranquillamente, godendo dei colori degli innumerevoli piccoli negozi che affollano le sue vie e piazze ed ammirando le innumerevoli opere d'arte a cielo aperto. Bhaktapur, l'antica Bagdaon, conserva tuttora il fascino e l'aura della città murata medievale di un tempo e te ne rendi immediatamente conto non appena i tuoi piedi calpestano le sue antiche vie lastricate in cotto. Collassati Vatsala Durga e Fasidega (dedicato a Shiva), mentre il tempio a Siddhi Lakshmi (Lohan Dega) ha subito danni notevoli. Parte della città vecchia è andata distrutta.

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La Piazza Durbar di Bhaktapur prima del terremoto. In primo piano a sx la Porta d'Oro (Sun Dhoka) ed il Palazzo delle 55 finestre; al centro la colonna con la statua del re Bhupatindra Malla; a dx il tempio a shikhara Vatsala Durga.

Il tempio a shikhara Vatsala Durga completamente collassato dopo il sisma del 25 aprile. Le foto sono del Department of Archaeology (DOA) Š http://doa.gov.np

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Il tempio a Siddhi Lakshmi (XVII sec.) si trova nell'angolo sudorientale della piazza. Lo stile a shikhara prende il nome dalla struttura terminale curvilinea di derivazione indiana. Sui gradoni del basamento stazionano i guardiani del tempio (part.). Il tempio ha resistito ma necessita di un lungo e profondo restauro. Ottobre 2011.

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Patan Durbar Square Fra le più popolose città del Nepal, è situata a pochi chilometri a sud di Kathmandu, sulla riva meridionale del fiume Bagmati. Conta 220.000 abitanti. Patan, la vecchia Lalitpur, è di origini molto antiche. Secondo alcuni, i primi insediamenti si fanno risalire addirittura al III secolo A.C. Di certo, è la città più antica fra quelle che si trovano nella valle di Kathmandu. Patan ha una leggenda che ne identifica l'origine. Si narra che tre persone, in rappresentanza dei tre regni della valle, venissero da una località dell'India in tempi assai remoti, recando con loro una sacra immagine del dio Rato Machhindranath. Uno di questi si chiamava Lalit, un contadino. Allora nella valle imperversava una siccità terribile e la divinità serviva proprio per propiziare la pioggia. Fu proprio Lalit che, fra i tre, più si prodigò affinché il dio fosse trasportato in quel luogo. Così il nome Lalitpur deriva da Lalit e da Pur, cioè “città”. Gli abitanti si dedicano soprattutto ai prodotti dell'artigianato e al suo commercio. Né mancano i contadini che sono occupati nella coltivazione della verdeggiante vallata di Kathmandu. Come Kathmandu e Bhaktapur, anche Patan offre al visitatore la superba piazza, Durbar Square. È il centro storico e culturale per eccellenza, con i palazzi più affascinanti, espressione di un'arte nobile ed antica. Hari Shankar e Char Narayan sono fra i templi più importanti interamente collassati .

Nella pagina accanto. Sopra: Durbar Square, una gemma incastonata nella pietra. Di piccole dimensioni, ospita alcuni dei palazzi più affascinanti dell'architettura newari. Tutti allineati, uno di fianco all'altro, in parata, a fronte del complesso residenziale reale, dimora dei Malla di Lalitpur. In primo piano il Krishna Temple (Chyasim Deval), a pianta ottagonale (1723), dedicato a Krishna. Al posto dei mattoni e del legno comunemente usati, è tutto in pietra scolpita, e testimonia dell'influenza dei templi in pietra dell'India. Foto scattata dalla terrazza di un ristorante, ottobre 2011. Sotto: panoramica aerea della stessa dopo il sisma del 25 aprile. La devastazione ha interessato buona parte dei templi. Non hanno subito praticamente danni il Krishna Temple a dx nella foto ed il Krishna Mandir a sx, stesso stile architettonico. Risparmiato il sontuoso palazzo residenziale dei Malla, al centro foto.

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APPENDICI


LA REGIONE DELL'ANNAPURNA CON GLI ITINERARI

LEGENDA tempio, monastero villaggio = passo

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NAR-PHU E TILICHO LAKE – IL PROGRAMMA

Giorno Itinerario di massima

Mezzi

06/10

Arrivo a Kathmandu nel pomeriggio

Volo Francoforte-Delhi-Kathmandu

07/10

Kathmandu

08/10

Ktm-Besisahar-Chyamche

bus + jeep

09/10

Chyamche-Dana

jeep + trek

10/10

Dana-Koto

trek

11/10

Koto-Meta

trek

12/10

Meta-Phu Gaon

trek

13/10

Phu Gaon acclimatazione/recupero

14/10

Phu Gaon-Nar Gaon

15/10

Nar Gaon acclimatazione/recupero

16/10

Nar Gaon-Kang La-Ngawal

trek

17/10

Ngawal-Manang

trek

18/10

Manang-Khangsar (o Shree Kharka) trek

19/10

Khangsar-Tilicho Lake

trek

20/10

Tilicho-Mesokanto La-Yak Kharka

trek

21/10

Yak Kharka-Jomsom

trek

22/10

Jomsom-Muktinath

jeep

23/10

Muktinath-Jomsom-Pokhara

jeep + volo

24/10

Pokhara-Kathmandu

volo

25/10

Kathmandu

26/10

Kathmandu

27/10

Kathmandu-rientro

trek

Volo Kathmandu-Delhi-Francoforte

‌ ma gli eventi atmosferici decideranno altrimenti..

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Tabelle tempi – Dislivelli - Distanze Giorno

Tratti

Tempi con soste

Kathmandu – Besisahar 760m Besisahar – Chyamche 1430m

bus (ore 6½) jeep (ore 3½)

9/10

Chyamche - Dharapani 1860m Dharapani – Koto 2600m

trek (ore 3½) jeep (ore 1½)

655m

180m

km 11,8 km 14,5

10/10

Koto – Meta 3560m

trek (ore 8½)

1285m

330m

km 14

11/10

Meta - Phugaon 4080m

trek (ore 9)

1030m

595m

km 16

12/10

Phugaon (acclimatazione)

13/10

Phugaon – Naar Phedi 3480m

trek (ore 7)

650m

1110m

km 15

14/10

Naar Phedi (sosta forzata causa pioggia)

15/10

Naar Phedi – Koto 2600m

trek (ore 7½)

450m

1320m

km 15

8/10

Dislivello +

Dislivello -

Distanza

km 29

15 ottobre: Koto. Snowland Hotel. Intirizziti e bagnati... sei ore e mezza sotto la pioggia incessante, a tratti violenta, con un cielo ostinatamente chiuso e plumbeo. Il cattivo tempo ha fatto saltare il Kang La. Quasi certamente anche il Tilicho Lake ed il Mesokanto La saranno sacrificati. Siamo raccolti a tavola per la cena, accanto alla cucina, unica fonte di calore ed in attesa del primo ed unico pasto caldo della giornata. Che fare l'indomani? Il gruppo si dividerà. Carlo Michelini cercherà di raggiungere Kathmandu in giornata. Deve ritornare in Italia, lo aspetta il lavoro. Renato ed io rientreremo a Besisahar e raggiungeremo Pokhara. Gli altri sono dell'idea di superare il Thorung La, un passo tranquillo, per scendere a Jomsom.

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KOTO-POKHARA-KATHMANDU

Giorno

Tratti

Tempi con soste

Dislivello +

Dislivello -

Distanza

16/10

Koto - Dharapani 1860m

trek (ore 4)

km 14,5

17/10

Dharapani - Syange 1100m Syange - Besisahar 760m

trek (ore 5) jeep (ore 2½)

Km 25 km 16

18/10

Besisahar - Pokhara

bus (ore 4½)

Km 80

19/10

Pokhara: visita della città e dintorni

taxi

20/10

Pokhara: lungolago e Parco dell'Amicizia

21/10

Pokhara - Sarangkot

taxi

22/10

Pokhara - Kathmandu

aereo (½ ora)

… mentre Renato ed io facciamo vita beata in quel di Pokhara, gli amici Carlo, Anna, Flavia, Nicoletta e Maurizio, con Dorje Sherpa, Marseng ed i portatori, prendono il sentiero che porta a Manang. Salgono verso il Thorung La, il passo a quota

5416m

che,

pur

essendo

così

elevato,

non

dovrebbe

destare

preoccupazioni. Non presenta difficoltà alpinistiche con il bel tempo. Di certo non mancano freddo intenso e forte vento, anche con il sole. Superato il passo, una discesa interminabile li porta a Muktinath e poi giù, Kagbeni, Jomsom e Marpha... dove il clima è molto più gradevole. Basti pensare che Marpha, ridente villaggio a 2670m, è famoso per la produzione delle sue mele... un po' come la nostra Val di Non, nel Trentino...

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KOTO-THORUNG LA-MARPHA-POKHARA-KATHMANDU Dal diario di Carlo Venturini 16/10 Koto - Humde 3280m: trek ore 7,5. Ha fatto pioggia tutta la notte. Partiamo senza pioggia. A Chame acquisto dei sacconi di plastica per noi e per i portatori, che utilizziamo come mantelle per un paio d’ore. A Dhikur Pokari, dove ci fermiamo per il pranzo, c’è un po’ di sole. Proseguiamo oltre Pisang per ridurre al minimo la tappa di Manang. 17/10 Humde - Manang 3600m: trek ore 2,5. Colazione presto perché oggi la figlia del gestore del lodge si sposa! Camminiamo con calma, breve sosta a Braga e poi subito a Manang per far asciugare i vestiti ancora bagnati. A Manang si possono avere informazioni sulla situazione meteo: niente di buono sul Tilicho. Oltre un metro di neve e la salita è entro una valle ad alto rischio di valanghe. Non ci resta che il Thorung La. 18/10 Manang - Ledar 4200m: trek ore 5. Lasciamo Manang in salita lenta e costante. Facciamo due soste a Ghusang e Yak Kharka. Intorno alle 13:30 siamo a Ledar. A sera si discute dove sia opportuno fare tappa prima del Thorung La. 19/10 Ledar - Thorung Phedi 4450m: trek ore 3. Nevischio al mattino. Nicoletta preferisce salire all’High Camp. I rimanenti quattro ci fermiamo a Phedi per riposare meglio. 20/10 Thorung Phedi - Thorung La 5410m - Muktinath 3750m: trek ore 8,30. Sveglia alle 3 e partenza alle 4 perché si prevede vento in quota. Nevica. Al passo sono le 9:15. Dall’alba si è aperto un po’ il cielo, ma un’ora dopo il passo si è richiuso di nuovo. In discesa si cammina prima nella neve e poi nel fango. A Muktinath ci fermiamo a visitare l’area dei templi, poi scendiamo in paese all’hotel “Best Step Inn”. 21/10 Muktinath - Kagbeni 2800m: trek ore 3,30. Preparato i bagagli e consegnati ai portatori. Li lasceranno a Kagbeni e proseguiranno per Kathmandu.

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Con noi rimarrà solo l’aiuto guida Marseng. Raggiungiamo Kagbeni alle 13. Pomeriggio di visita al villaggio, gompa e asciugatura dei vestiti, finalmente al sole. 22/10 Kagbeni - Marpha 2670m: trek ore 6. Dopo la puja delle sei al gompa, ritorniamo al lodge per la colazione. I bagagli sono caricati su due cavalli e partono seguiti da Marseng, l'aiuto guida, che ci attenderà a Marpha. A Marpha acquisto i biglietti per la corriera di domani per Beni. 23/10 Marpha - Beni - Pokhara: bus ore 13. Partenza alle 7:30: i tempi sono quelli nepalesi, fatti per le strade nepalesi ed i mezzi nepalesi. Arrivo a Beni alle 17:00 con schiena a pezzi e lividi dappertutto. Da qui un bus pubblico che parte quando è strapieno e non si sa quando arriva, ci porta a Pokhara. Sono le nove di sera. Alloggio all'Hotel Oasi. 24/10 Pokhara: giornata a disposizione. Flavia e Nicoletta ne approfittano per fare parapendio. 25/10 Pokhara - Kathmandu: al mattino giro sul lago. Alle 11:30 in aeroporto per il volo delle 13:00, in ritardo. A Kathmandu siamo di nuovo all’Hotel Harati dove incontriamo Renato e Ruggero, come convenuto. 26/10 Kathmandu: visita al gompa buddhista di Boudhanath. 27/10 Kathmandu - Italia

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Breve bibliografia ragionata Libri  Ammann O. e Barletta G., Nella terra degli dei, Dall'Oglio, Varese 1982  AA.VV., Nepal, La Bottega del Caffè Letterario, Roma 2011  Deshayes L., Storia del Tibet, Newton Compton Editori 2006, Traduzione e note a cura di Lucio Chiavarelli

 Dowman K., Power Places of Kathmandu, Thames and Hudson Ltd., London 1995

 Fantin Mario, Sherpa Himalaya Nepal, Tamari Editori Bologna 1971  Gogna A. e Raggio A. (a cura di), Annapurna, la dea dell'abbondanza, Priuli & Verlucca, Borgaro Torinese (TO) 2008

 Harrer H., Sette anni nel Tibet, Garzanti 1956  Landon P., Nepal, 2 voll., AES Reprint, New Delhi 1993  Mayhew B., Nepal, Lonely Planet, 10a ediz., lingua inglese, dicembre 2015  Id., Trekking in the Nepal Himalaya, Lonely Planet, 10a ediz., lingua inglese, gennaio 2016

 Snellgrove D., Himalayan Pilgrimage: a Study of Tibetan Religion by a Traveller Through Western Nepal, Oxford: Bruno Cassirer, 1961

 Stevenson A., A Nepalese Journey, The Mountaineers, Seattle 2002  Id., Annapurna Circuit, Srishti, New Delhi 2007  Tilman H.W., Nepal Himalaya, Cambridge University Press 1952  Tucci G., Tra giungle e pagode, La Libreria dello Stato, Roma 1953

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Pubblicazioni varie – An Ethnographic Note On Nar-Phu Valley, Nareshwor Jang Gurung, in Kailash, A Journal Of Himalayan Studies, Vol.V, No.3, 1977

– Back to Kang Guru, Padam Ghale, in Nepali Times, #306, July 2006 – Di:ka... Di:ka, Om Astha Rai, in Nepali Times, #756, May 2015 – History's House, Kapil Bisht, in ECS Nepal, May 2012 – Il mistero di Phu, Paolo Civera, in Rivista Avventure nel Mondo, Anno XXXXI – n.1 Gennaio/Luglio 2014

– Khembalung:The Hidden Valley, Johan Reinhard, in Kailash, A Journal Of Himalayan Studies, 1978

– Lama and the Leopard, Sraddha Basnyat, in Nepali Times, #150, June 2003

– Tears of Joy, Sudeep Shrestha, in Nepali Times, #758, May 2015 – The Earthquake from Above, Kunda Dixit, in Nepali Times, #756, May 2015 – The Great Unifier, Hemlata Rai, in Nepali Times #76, January 2002 – The Living Goddess Lives Through the Quake, Min Ratna Bajracharya, in Nepali Times #756, May 2015

– Two Earthquakes in One Lifetime, Sonia Awale, in Nepali Times #757, May 2015

Carte geografiche – Around Annapurna, Scale 1:100,000, Trekking Map, Himalayan Map House, Kathmandu September 2011

– Kathmandu - Patan & Bhaktapur, Scale 1:15,000, Pocket Map, Himalayan Map House, Kathmandu July 2009

– Naar Phu - The Lost Valleys, Scale 1:75,000, Trekking Map, Himalayan Map House, Kathmandu July 2013

– Pokhara - City & Lake Side, Scale 1:25,000, Pocket Map, Nepal Map Publisher Pvt. Ltd.,

235


Video – Beyul: Sacred Hidden Valleys of the Himalaya, The Mountain Institute 2006, You Tube

– Journey to Yarsa, Dipendra Bandhari, 2011 DVD – Tibet - Tesori dal tetto del mondo, Giorgio Bughetto, DVD – Zero Hour - The Royal Massacre, Clive Maltby, 2006 Siti internet utili – www.doa.gov.up DOA Dipartimento di Archeologia con sede a Kathmandu. – www.gurkhamuseum.org.np È il museo dedicato ai soldati Gurkha con sede a Pokhara.

– www.internationalmountainmuseum.org

È il museo internazionale della

montagna con sede a Pokhara –

www.nepaltourism.info

– www.worldbank.org World Bank. La Banca Mondiale ha per obiettivo la lotta a favore della libertà e l'organizzazione di aiuti e finanziamenti agli stati in difficoltà. Ha sede a Washington.

– https://www.usaid.gov/nepal USAID (United States Agency for International Development) è un ente governativo istituito da J. F. Kennedy nel 1961 con l'obiettivo di sostenere i paesi sottosviluppati nel mondo, con interventi umanitari di vario genere.

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Sommario

13 .................................................................................................... Prologo 15 …..................................................................... La Leggenda della Valle 21 …................................................................................. Hanuman Dhoka 61 …........................................................................ Tapai ko naam ke ho? 79 ….................................................................... Nar-Phu la Valle Perduta 145 …................................................................................. Turisti a Pokhara 187 …................................................................................................ Epilogo 189 …......................................................................... Quei giorni del sisma 227 …............................................................................................ Appendici 228 …........................................... La regione dell'Annapurna con gli itinerari 230 …......................................................Tabelle tempi – Dislivelli – Distanze 234 ….................................................................. Breve bibliografia ragionata

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“CAMMINARE È SOPRATTUTTO IL MODO PIÙ NATURALE PER SENTIRSI BENE, PER PERCEPIRSI COME CORPO, PENSIERO, EMOZIONI”.



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