Associazione Culturale Tapirulan
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Prefazione di Alessandro Sesto
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Introduzione di Guido Casamichiela
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Felini o cretini racconto di Marco Ghizzoni illustrazione di Chiara Dattola
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Il fiore di Bastiani racconto di Marco Ragaini illustrazione di Giovanni Scarduelli
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Devi solo portare il foglio della Marghe in camera sua racconto di Flavia Montecchi illustrazione di Davide Baroni
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Un giorno andrò in collina racconto di Oscar Tison illustrazione di Matteo Cuccato
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Il gorilla racconto di Elvis Crotti illustrazione di Alessandro Ripane
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Il volo di Morb racconto di Jacopo Narros illustrazione di Federico Maggioni
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Gli uomini calvi racconto di Adalberto Mainardi illustrazione di Arianna Papini
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Uova racconto di Francesco Ceccoli illustrazione di Marina Girardi
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La giostra racconto di Matteo Pelliti illustrazione di Giacomo Cardelli
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Denti racconto di Anna Stella Poli illustrazione di Matteo Anselmo
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L’amico racconto di Marco Viale illustrazione di Andrea Gualandri
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Piani racconto di Marco Ragaini illustrazione di Alberto Ipsilanti
Prefazione
di Alessandro Sesto vincitore della precedente edizione
Caro lettore, questa raccolta si intitola Az, che in turco vuol dire “poco”. Dei numerosi racconti arrivati a Tapirulan per la quinta edizione del suo concorso, la giuria ne ha scelti solo undici per formare questa antologia, privilegiando la sobrietà dello stile. Ai suddetti undici se n’è aggiunto un dodicesimo dello scrittore Marco Ghizzoni, presidente di giuria del concorso. Az, quindi, è composta di pochi racconti brevi, che descrivono con un linguaggio secco e antiretorico degli eventi minimi, anzi quasi dei “non eventi”. In un contesto così parsimonioso, avere una prefazione potrebbe sembrare un barocchismo assurdo, ma questa è una prefazione molto corta, e il prefatore è un coglioncino sconosciuto. Quindi, tutto quadra. Buona lettura!
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Introduzione
di Guido Casamichiela
Lo sai io come mi chiamo? Non lo sai? No? Davvero non lo sai? Mah, ero convinto di sì. Non lo sai? Tu non sai il mio nome? No? Non mi stai prendendo in giro? Questa poi. Ho un nome corto, io. Ho quasi il nome più corto tra tutti i nomi corti. Ora hai capito qual è il mio nome, giusto? No? Non basta neanche questo suggerimento? Strano. Ho un nome corto, te lo ripeto, ma ho un nome infinito. Sì, infinito. Ti sembra esagerato? Non è esagerato. Come lo chiameresti tu un nome che abbraccia tutto l’alfabeto? Io lo chiamerei nome infinito, e tu? Va bene, tu no. Ma io sì. Lo sai io che ci sto a fare qui, adesso? Non crederai che sono qui solo per dirti quanto è corto e infinito il mio nome, vero? Non hai un’opinione così bassa di me, no? Dimmi di no, e dimmi che sei sincero. Dimmelo. E non mentire. Sono qui a raccontarti storie.
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L’avevi capito? Davvero l’avevi capito? Facile dirlo ora, ma io mica sono sicuro che l’avevi capito. Comunque lasciamo perdere, facciamo finta che ci credo. È più semplice. Di storie io ne so quante ne vuoi. Ne vuoi cento? Te ne racconto cento. Te ne bastano dodici? Te ne racconto dodici. Le storie che racconto sono come me. Sono corte. Sono infinite. Mi sentirei a disagio a raccontare storie diverse da me. Mancherei di credibilità, non credi? Mah, mi sa che non sei convinto. D’altronde di credibilità cosa vuoi mai saperne tu? No, non ti offendere. Si fa per parlare. Qualcosa bisogna pur dire. Raccontare storie lunghe e finite per me sarebbe un incubo. E non sarebbe proprio un incubo, ma neppure un sogno di quelli da incorniciare, raccontare storie corte e finite. Oppure storie lunghe e infinite. Io posso raccontare solo storie corte e infinite. Lo capisci? Ne dubito, la tua faccia la dice lunga, ma non voglio approfondire. Corte e infinite. A te sembrerà contraddittorio, ci scommetto, ma la sai la verità? La verità è che le cose, le storie sono tutte contraddittorie. Tutte. Eccome se lo sono. Le cose smettono di essere contraddittorie solo nella testa di quelli che non vogliono complicazioni. Ma la sai un’altra verità? Un’altra verità è che le complicazioni esistono anche se non le vuoi. Le complicazioni e le contraddizioni. E più cerchi di essere coerente, e di essere semplice, più scopri che non sei coerente, e non sei semplice, no, tu sei complicato, e contraddittorio. E allora tanto vale che accetti le cose come stanno senza ribellarti. Adesso smetti di guardarmi così, lo so che non sei convinto, non ci vuole un genio per capirlo, ma facciamo che per ora sospendi il giudizio e stai a sentire le storie che ho da raccontarti. Tutte. Tutte e dodici.
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La storia di chi aspettava qualcuno da così tanto tempo che ormai non aspettava più nessuno, eppure qualcuno arrivò. La storia di chi conobbe tutta la verità per tutto il tempo che la conobbe, e poi smise di conoscerla. La storia di chi non ricordava più se era immaginario oppure reale, e poi capì che era entrambe le cose. La storia di chi poteva fare una cosa, ma poteva anche non farla, e poteva anche non decidere mai se farla o non farla. La storia di chi fece un giro di quattro minuti che non sembravano quattro minuti, eppure erano proprio quattro minuti. La storia di chi poteva andare in collina e infatti andò al mare. La storia di chi prese qualcuno per qualcosa, oppure viceversa. La storia di chi non voleva fare quello che faceva, ma lo faceva lo stesso e lo faceva bene. La storia di chi capì che volo e sotterraneo erano parole che potevano anche stare assieme. La storia di chi aveva una teoria stravagante, ma forse non era una teoria e non era neppure tanto stravagante. La storia di chi verificò che l’anestesia funziona, ma mica sempre e mica per tutti i dolori. La storia di chi vide che l’unica cosa che si può avere sotto controllo è la certezza di non poter avere niente sotto controllo. Storie corte. Storie infinite. Sei pronto? Comincio.
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FELINI O CRETINI racconto di Marco Ghizzoni illustrazione di Chiara Dattola
La battuta di caccia era iniziata presto quella mattina, troppo per il maresciallo Bellomo che si era presentato sull’argine di Boscobasso con la piega del cuscino ancora sulla faccia. Orario giusto per la caccia a un felino, gli aveva assicurato il sindaco Ferraroni da intenditore qual era, non a caso era stato avvistato da dei pescatori appostati lungo il Po ben prima che il sole sorgesse. Orario in cui lui dormiva, aveva obiettato il maresciallo, il quale non credeva affatto a quella storia strampalata raccontata dal Reseghini e dal Marelli, abili narratori quanto instancabili bevitori. E infatti, quando si erano recati in caserma per la deposizione, l’alito non aveva tradito le attese e nel giro di pochi minuti l’aria nell’ufficio si era fatta irrespirabile. Stando al loro racconto, i due si erano da poco sistemati sulla golena sotto l’argine a pescare le alborelle per il pranzo, quando un rumore sospetto nel silenzio del primo mattino aveva attirato la loro attenzione. Rumore a cui era seguito il movimento furtivo di un’ombra scura. Su un argine, alle quattro di mattina, difficile vedere qualcosa di chiaro, era stato il commento del Bellomo, ma li aveva invitati a continuare.
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«E niente» aveva proseguito il Reseghini, «abbiamo lasciato lì le canne e ci siamo appostati. Si sentivano solo le cicale chiamare il caldo, gli uccelli non avevano ancora iniziato a cantare. Il fiume, calmo e tranquillo...» Il maresciallo l’aveva interrotto e aveva chiuso e riaperto i pugni facendogli capire di stringere. «L’abbiamo vista» era intervenuto il Marelli. Cosa? «La pantera nera, no? Quella avvistata anche a Casalbuttano.» Ah, proprio la stessa? E quante pantere potevano aggirarsi per la campagna cremonese? Per il Bellomo, nemmeno una, ma il sindaco Ferraroni era di tutt’altro avviso e lo aveva costretto alla levataccia che lo aveva portato lì sull’argine, prima dell’alba, con le zanzare che banchettavano con i centimetri di pelle non coperti dalla divisa. Sapeva, il maresciallo, che di lì a poco il sole sarebbe sorto e la temperatura si sarebbe fatta via via insopportabile. Pertanto, prima finivano e meglio era. Aveva dato disposizione ai due sottoposti di tenersi in contatto radio con lui e di non dire nulla nella remotissima ipotesi in cui avessero avvistato qualcosa. Due o tre ore, non di più, questo il tempo che il Bellomo aveva intenzione di buttare in quell’inutile battuta di caccia. Appuntato e brigadiere avevano annuito, quest’ultimo deciso a sdraiarsi sotto un pioppo per riprendere il sonno interrotto. A dar man forte ai carabinieri, l’intera comunità di Boscobasso. Ognuno armato di volontà, pazienza e, a seconda delle possibilità, di un fucile da caccia o di un semplice bastone. Il sindaco era tra i primi, carico di energia come mai lo avevano visto. «Vedrà che la prenderemo» disse al Bellomo battendogli una mano sulla spalla. Sì, una cantonata, pensò il maresciallo ammazzando una zanzara dietro il collo con un colpo secco e preciso.
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Crrr, la radio gracchiò. L’appuntato Cannizzaro aveva notato qualcosa. «Mannaggia a te» sbottò il Bellomo tra i denti, «cosa ti avevo detto?» Non c’entrava nulla la pantera, lo rassicurò il sottoposto. E cosa, allora? Pescatori di frodo, o almeno credeva. «Appuntato, credere non basta.» «Ho visto un’ombra scura infilarsi tra gli alberi.» Pure lui. Quel caldo stava dando alla testa a tutti. «Vai a controllare, svelto.» Il Bellomo non fece in tempo a finire la frase, che due colpi di arma da fuoco esplosero nel silenzio pesante e umido e un verso agghiacciante tolse ogni dubbio ai presenti: l’avevano colpita, la pantera era stata abbattuta. Decine di persone accorsero sul luogo degli spari, pochi metri all’interno del bosco. I più coraggiosi davanti, guidati dal Ferraroni, gli altri dietro seguiti da un incredulo e spaventato Bellomo. Tra gli sbuffi dei meno allenati, raggiunsero una radura dove con ogni probabilità aveva riparato la bestia, sanguinante a giudicare dalla scia sul terreno. Il Ferraroni rallentò e fece cenno agli altri di fare lo stesso. «Ssst, piano, potrebbe essere ovunque.» Trattennero il fiato e avanzarono lentamente. In lontananza si udivano dei lamenti e un tramestio. Superarono un gruppo di alti gelsi bianchi e ciò che videro aveva dell’incredibile. L’appuntato Cannizzaro se ne stava accovacciato accanto a una figura che del felino non aveva proprio nulla: tozza, grassottella, indossava un paio di scarpe e una divisa da carabiniere. Il brigadiere Mancuso era stato raggiunto nel deretano da alcuni pallini sparati dal sindaco Ferraroni in persona e se ne stava lungo disteso all’ombra di un grosso pioppo, vivo ma dolorante. «Chiamiamo il 118?» domandò il Reseghini. Meglio il manicomio, gli fece il verso il maresciallo Bellomo.
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IL FIORE DI BASTIANI racconto di Marco Ragaini illustrazione di Giovanni Scarduelli RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO
Chiamano: «Bastiani, vieni». Bastiani si alza, si passa le mani sul petto come se fosse la prima volta che tocca la stoffa ruvida, e le pieghe, e quel bottone che continua a staccarsi. Ha uno sguardo smarrito che affida agli altri due uomini nella stanza. Riccardi è svaccato sullo sgabello davanti al tavolino e solleva appena la testa prima di rimettersi a piegare la stagnola delle sigarette. Sta facendo un drago, pezzo molto difficile che richiede almeno due cartine, una per il corpo e l’altra per le ali. Quando lo avrà finito, lo appoggerà nel museo, sulla mensola dove stanno le tazzine e i cucchiaini a destra e, a sinistra, le sue creazioni. Guai a toccargli gli origami, perché si incazza. Ma Bastiani lo sa, e se ne guarda bene. Lo sa anche Capuozzo, che però adesso è catturato dallo sguardo incerto di Bastiani. Lo trattiene e glielo restituisce un po’ più sicuro. Capuozzo fa la faccia che gli viene nelle occasioni importanti, due sopracciglia a virgola, un po’ cocker un po’ John Belushi, dice «Vai, cazzo. Non vorrai farlo aspettare?» Riccardi sbuffa, non gli riesce una piega o è infastidito
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da Bastiani. Difficile sapere cosa infastidisca Riccardi, a volte basta un niente e scatta, comincia a urlare e a minacciare. L’altro giorno era per la pioggia. Un’altra volta ancora per la cena, che era fredda. Non c’è un motivo, o ce ne sono troppi. Forse, semplicemente, a Riccardi sta stretto questo posto. Come del resto a Bastiani e Capuozzo, ma loro si sono abituati e poi sono amici, è diverso. Chiamano ancora: «Allora, Bastiani? Mi hai preso per il maggiordomo?» Ma Bastiani non può, non ancora. Passa in rassegna la camera sperando possa aiutarlo. Si china ai piedi del letto. C’è un sacchetto che una volta doveva essere stata una federa. Ci fruga dentro e ne sfila un paio di calze scure. Si siede sul letto per infilarle. Capuozzo, che è grasso, deve farsi da parte per lasciagli lo spazio. Riccardi invece è alto e magro, sembra un tisico, però sta sempre sdraiato o seduto, occupa poco posto. A Bastiani tremano le mani, il calzino si rifiuta di srotolarsi. Bestemmia. Finalmente riesce, infila i piedi nelle ciabatte, quelle in gomma con la banda a X sopra. «Tanto non si vedono», si giustifica. «D’accordo, Bastiani, gli dico di tornare a marzo.» «E dai, un attimo. Sono pronto.» Si alza, si guarda nello specchio, si piega, si torce perché lo specchio è piccolo e non riesce a vedersi tutto, allora si guarda negli occhi dei due amici. Stavolta anche Riccardi smette quello che sta facendo e lo osserva. Con un cenno del capo approvano entrambi. Incoraggiano: «Vai», in coro. «Arrivo, arrivo». Bastiani si dirige verso la porta, ma si vede che non è convinto. Torna indietro un paio di passi, quelli che lo separano dal lavandino, apre l’acqua e si inumidisce le mani, le passa nei capelli, li aggiusta. Si guarda ancora nello specchio chinandosi sulle gambe, si sistema la camicia. «Eccomi.»
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Ma di nuovo si ferma. Si guarda la mano. Quel maledetto bottone è saltato proprio ora. Ancora si rifugia nello sguardo degli amici, li esamina. «E minchia», dice Riccardi. «No», dice invece Capuozzo, che ha capito. «Dai, è nuova; te l’hanno mandata per Natale. Fammi fare bella figura.» «Ti va grande, chiedi a lui», prova a schivare Capuozzo indicando Riccardi. «Nemmeno riesco ad allacciarla, la sua. E poi il marrone non mi piace; la tua è allegra.» «Bastiani, vieni così o chiudo.» «Dai, Capuozzo. Che ti costa?». E già Bastiani si sta spogliando senza aspettare la risposta. Butta la camicia sul letto mentre Capuozzo è ancora indeciso, perché è un regalo della moglie e gli scoccia che qualcun altro la usi al suo posto. Pensava di metterla a febbraio, quando la vedrà, anche se qui non è che ti avvisano prima. Così cede e la sfila dalla testa slacciando solo il primo bottone, per fare più in fretta. Fa freddo e a torso nudo tremano. Bastiani la indossa e la sistema con cura nei pantaloni, è dimagrito e gli vanno larghi. «Ci vorrebbe la cintura», osserva. Si sente addosso l’odore di Capuozzo ma non gli dà fastidio, ci è abituato: sono insieme da quasi tre anni. Essere amici è anche conoscere gli odori. «Finalmente, pronto Bastiani? O vuoi che chiamo il barbiere?» Bastiani pensa che avrebbe davvero voluto andarci, dal barbiere. Ma c’era troppo da aspettare e fino a settimana prossima non potrà. Il fatto è che non sapeva che sarebbe venuto a trovarlo proprio oggi, altrimenti si sarebbe preparato per tempo. Ma sa che qui è così, che non può mai programmare nulla. Ha imparato a improvvisare. Nella camicia nuova di Capuozzo si sente bellissimo, an-
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che se forse gli va un po’ larga. Si avvia verso la porta. Tende i polsi. «Aspetta», dice Riccardi dal fondo della cella. Quando Riccardi parla, gli altri ascoltano. Anche la guardia non dice nulla. «Un attimo solo», chiede Bastiani. Quello sbuffa, ma si vede che un po’ lo capisce. Anche lui è quasi in isolamento su questa maledetta isola, che per andare e venire ci vuole la barca, e per i parenti è una condanna in più. E il figlio di Bastiani da quanto è che non viene a trovarlo? Sarà almeno un anno, e sarà cambiato. Anche la guardia ha un figlio, più o meno della stessa età. Ma non ci pensa nemmeno a dirlo a Bastiani, che poi i detenuti se ne approfittano di queste cose, provano a farti commuovere per avere favori. Così fa la faccia dura e dice solo: «Basta». Riccardi è in piedi, ha preso un piccolo fiore di stagnola dal museo, chiama Bastiani e glielo appunta al taschino della camicia.
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DEVI SOLO PORTARE IL FOGLIO DELLA MARGHE IN CAMERA SUA racconto di Flavia Montecchi illustrazione di Davide Baroni
Che poi lo lasci sempre lì. Ti dici: prendilo e portalo alla Marghe. Ti dici che lo prendi e lo porti alla Marghe, che oggi è pure nella sua camera. Bussi, ciao Marghe, ti volevo dare questo foglio qui. E glielo dai. Poi basta, te ne ritorni in camera tua e sulla scrivania il foglio della Marghe non c’è più. E invece sta lì, sta ancora sopra tutte le cose che lasci sulla scrivania. Che non ti va ora di portarlo alla Marghe anche se sta in camera sua. Non ti va, cominci a pensare che poi ci devi parlare, con la Marghe, se le porti il foglio che è sulla tua scrivania. Ha la polvere di una settimana di finestre aperte e tapparelle che salgono, scendono, salgono. Comincia a piegarsi l’angolo destro, che è quello più interno. Sopra ci appoggi il cellulare, i libri. Ci casca pure il caffè, si macchia. Si appiccica, quel foglio della Marghe che lasci ancora sulla tua scrivania. Ma che ti costa prenderlo e portarglielo in camera? Che oggi sta pure in camera sua, la Marghe. Invece lo guardi, neppure lo fissi troppo a lungo. Invece fissi il portatile vicino al foglio. Poi lo accendi. E ora sei al computer, come fai a portare il foglio della Marghe alla Marghe che oggi sta pure in camera sua? Hai da leggere la posta che hai scor-
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so velocemente sul cellulare. Poi devi fissare un punto fuori dalla finestra e accorgerti che stai fissando il vuoto, mettere in carica il cellulare e fissare un altro punto nel vuoto diverso da quello che hai fissato prima. Basta che siano comunque entrambi lontani dal foglio della Marghe. Che poi, sul foglio della Marghe, ma che ci sarà mai scritto di così importante che deve saperlo, magari anche il più presto possibile? Chi è che scrive una cosa alla Marghe su un foglio che ha dato a te che devi portare a lei? Perché lui non l’ha dato direttamente alla Marghe, questo foglio qui? Ma poi, il lui è un lui o una lei? Quindi torni a guardare il foglio, ma non troppo, ti venisse l’istinto di prenderlo, poi dovresti portarglielo davvero, alla Marghe. Da lontano leggi diverse frasi, poi delle cifre. Forse numeri di telefono. Poi fissi il punto nel vuoto, un altro, diverso da quei due punti di prima. Fissi il punto nel vuoto sul pavimento, poi cambi prospettiva, abbassi lo sguardo e capiti sul cesto dei panni sporchi. Ti accorgi che il cesto è stracolmo. Allora ti alzi per fare una lavatrice. Devi farla, la lavatrice, altrimenti non hai più calzini. E nemmeno mutande. Non hai più calzini e mutande pulite da metterti nel caso decidessi di prendere il foglio e portarlo alla Marghe, che oggi è pure in camera sua. Tra l’altro. Che mica ci puoi andare senza le mutande, dalla Marghe, per portarle il foglio. Quindi prendi il cesto e vai a fare una lavatrice. Ma è finito il sapone per i panni. Allora ti metti le scarpe con i calzini sporchi, non ti cambi mutande ed esci per andare a comprare il sapone per la lavatrice, così avrai i calzini puliti, le mutande pure e poi potrai andare a portare il foglio alla Marghe, che però nel frattempo potrebbe non essere più in camera sua. Questo sarebbe un grave problema. Rientri, hai comprato un bottiglione da ventisei lavaggi. Cominci con la prima centrifuga, ci svuoti il cesto: quaranta gradi, mille giri. Start. Poi torni in camera tua e la prima cosa che vedi è il foglio della Marghe sulla tua scrivania. Non
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puoi prenderlo ora, non sta bene prendere le cose degli altri quando non si è puliti. Davvero puliti. Allora, già che ci pensi, potresti anche farti una doccia, mentre si lavano i tuoi calzini e le tue mutande. Entri nella doccia, ti lavi bene le ascelle, ti insaponi i capelli e la schiuma ti scivola sulla schiena. Quando torni in camera dopo che ti sei asciugato la testa e la lavatrice ha finito i suoi giri, la prima cosa che vedi sulla tua scrivania è il foglio della Marghe. Allora ti viene un istinto animale, prendi il foglio, sei ancora in accappatoio, goccioli schiuma dai capelli perché te li sei asciugati male e bagni tutto in giro, pure quel foglio della Marghe. Ma ormai non t’importa, ce l’hai in mano e alla fine lo porti in camera sua senza stendere i panni che poi puzzeranno di bagnato al chiuso. Di quel bagnato umido al chiuso come quando non li hai stesi subito per portare il foglio della Marghe alla Marghe, che dalla tua scrivania è finito poi sul tuo letto. Perché la Marghe, quando hai bussato per dirle: ciao Marghe, ti volevo dare questo foglio qui, alla fine era uscita. E tu, che sei tornato indietro, prima di stendere i panni puliti hai aspettato lo stesso tempo che hai fatto aspettare al foglio della Marghe, che è ancora in camera tua, ma non sulla scrivania, sul letto, che poi è uguale.
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UN GIORNO ANDRÒ IN COLLINA racconto di Oscar Tison illustrazione di Matteo Cuccato
Domani, se sarà una bella giornata, mi voglio spingere fino al mare. Al bar mi hanno detto che è oltre la torre della Sony, dopo la barriera dell’autostrada, alla fine dei campi di mais. Basta andare sempre dritto, senza curarsi dei cartelli e senza guardare il sole: i primi mentono, il sole ti potrebbe accecare. Porterò con me una bottiglia d’acqua per dissetarmi lungo il cammino, quando sarò arrivato berrò l’ultimo sorso seduto sulla sabbia e poi riempirò la bottiglia spingendola contro le onde. Non deve essere lontano: mi dicono che gli abitanti delle colline riescono a vederlo, certi giorni. Neppure sulle colline sono mai stato, ma quelle le guardo ogni mattina e, per adesso, mi basta: andare in collina è cosa da ricchi e io non lo sono. Non ancora. Al mare ci voglio andare domani, perché è sabato e non lavoro. Faccio un lavoro importante, me lo ha detto anche la Lina, lei è una che conta, in fabbrica, lavora alle presse, il capo le dice sempre che è brava. Lei sorride, sembra soddisfatta, io lo sarei se qualcuno mi dicesse che sono bravo; ma un
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giorno l’ho vista piangere, stava nascosta dietro una pila di scatoloni, singhiozzava in silenzio. Avrei voluto avvicinarmi e consolarla, ma non ne ho avuto il coraggio. Mi piacerebbe che venisse al mare con me, la strada è più corta se si è in compagnia e il sole picchia di meno, deve dividersi per quanti siamo, a me basterebbe essere in due. Devo fare un piano di viaggio, per essere preparato; e anche un piano di fuga: la signora Giovanna non deve accorgersi che vado via, non me lo permetterebbe, chiamerebbe la polizia come quella sera che volevo andare al circo. Mi hanno trovato che ero quasi arrivato, sentivo già la musica e camminavo a passo di danza, mi hanno preso perché ero distratto, guardavo la bandiera, era una bella bandiera, tutta colorata, svettava dalla cima del tendone. Era rossa e gialla e blu, la notte l’ho sognata. Quando andrò in collina, non porterò con me la signora Giovanna. Chiederò alla Lina se vuole venire, starò bene attento che non ci siano scatoloni in giro e neppure presse. Se riuscirò ad arrivare fino al mare, saprò di poter fare qualsiasi cosa, come una volta. Una volta sapevo di avere tutte le strade aperte davanti, sapevo come tirar calci ai sassi che avrebbero voluto farmi inciampare. Poi, è successa quella cosa. È successa a me. Forse un altro si sarebbe scrollato la polvere di dosso, avrebbe rivolto all’intorno un sorriso tra l’imbarazzato e lo spavaldo e avrebbe continuato il suo cammino. Io invece sono rimasto a terra, attonito, mi pareva di avere un velo davanti agli occhi, il medico ha detto che avevo battuto la testa cadendo, ma non era vero. Ero caduto a terra, quello sì, ma in testa non avevo neanche un bernoccolo, è stato quello che ho visto a bloccare il mio cervello. Da quel momento è come se stessi sempre al cinema, senza intervalli, arrivo all’ultima scena e il film ricomincia, sequenza per sequenza, di continuo rivedo il coltello, la mano che l’impugna, il sangue.
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La signora Giovanna è, dal giorno che sono caduto, la mia tutrice. Quando le arriva l’assegno per il mio mantenimento è molto contenta, invita le amiche e si mettono in salotto a giocare a carte. Le sento dalla mia cameretta, ridono, parlano di uomini, giocano a carte e bevono. Dice che si sente responsabile delle mie azioni e che dovrei essere contento di questo, ma io non lo sono mica tanto, vorrei uscire e andare al bar qualche sera, magari al cinema, o solo passeggiare lungo il corso a confondermi con la gente, sedermi su una panchina e guardare le ragazze camminare leggere. Al bar mi hanno detto che al mare ci sono molte ragazze, stanno distese sulla sabbia per permettere al sole di scurire la loro pelle, entrano nell’acqua e giocano. Mentre raccontavano mi guardavano e ridevano, mi sono sentito cretino perché non lo sapevo, ho bevuto l’aranciata e sono andato via, ci vediamo stasera, ho detto, pur sapendo che non sarei potuto uscire. E poi devo riposare, domani sarà una giornata pesante. Ho messo la sveglia alle quattro, anche il sole si alza presto di questa stagione, mi illuminerà la strada e non avrò paura. Quando andrò in collina, saranno in molti a voler venire con me, perché in collina ci vanno i ricchi; ma, visto che domani nessuno mi vuole far compagnia, neanche la Lina, ci andrò solo. È giunto il momento, e non ho dovuto aspettare la sveglia: sono rimasto tutta la notte con gli occhi sbarrati, imprigionato tra la paura e i ricordi. Non paura per il viaggio che mi aspetta, ma che abbiano ragione gli altri, a dire che non ci sto con la testa. Li ho sentiti, anche se lo sussurrano. Vorrei vedere loro, vivere con il mio film infinito, senza neanche le pause della pubblicità a interrompere il flusso, a fermare il coltello, a farmi andare a pisciare e perdere una scena. Senza una goccia di pioggia a sbiadire l’immagine, senza una lacrima.
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Per tutta la notte ho rivisto la testa china di mio padre, il suo passo strascicato mentre lo portavano via, mia madre distesa a terra, immobile, uno straccio che il sole scaldava, ho rivisto me stesso paralizzato, immobile contro la scena, incredulo. Non avevo mosso un dito per impedire che accadesse. Quando sarò al mare, getterò i ricordi sul bagnasciuga e lascerò che le onde li portino via mischiati al bianco della schiuma, così si scioglieranno e verranno corrosi dal sale. Sarò libero. Esco piano, la signora Giovanna non mi deve sentire. Ho nello zaino tutto quel che posseggo, non è molto, ma potrò viaggiare più leggero. Getterò anche lo zaino tra i flutti, per farlo mi spingerò più al largo che potrò, lo osserverò cadere verso il fondale. Poi, alleggerito di tutto, volgerò finalmente lo sguardo alle colline. Sulle colline ci vanno i ricchi, quando l’afa scende tra i palazzi, si impadronisce delle strade, ti insegue e ti attacca la camicia alla pelle. Sulle colline bisogna saper camminare, evitare le forre e gli inciampi, bisogna essere allenati. Per andarci farò il giro lungo, eviterò persone e luoghi che conosco, devo rimpiazzare i ricordi. Ecco, ho chiuso piano la porta. Ecco, sono partito.
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IL GORILLA racconto di Elvis Crotti illustrazione di Alessandro Ripane
Dalla finestra del mio ufficio guardo l’orizzonte: le gru circondano il luogo dove sorgerà il grattacielo di Isozaki. Sullo sfondo, le cime ravvicinate e spioventi del Resegone sono coperte di neve. Abbasso lo sguardo sulla città, sopra le case, i viali di alberi ormai spogli, i piccoli giardini deserti. Le auto ferme riflettono il lento movimento delle nuvole. Questa mattina l’esubero numero 15 mi ha parlato delle sue tartarughe in letargo. Il numero 12 è un ingegnere appassionato di canto. La figlia del numero 14 sogna di andare in Australia. L’esubero numero 13 ha dichiarato che senza lavoro la vita sarebbe ancora più triste. Il numero 15 ha concluso chiedendo: «Perché proprio io?» Appena mi incalzano con domande insidiose, cambio strategia, tono di voce, postura. Mi avvicino all’interlocutore, spalanco leggermente gli occhi e infrango le sue speranze. «Ogni anno, l’azienda perde fatturato. La sua professionalità non è strategica. Deve farsene una ragione: non abbiamo più bisogno di lei.» Alla consegna della lettera osservo le loro reazioni. Soltanto pochi minuti prima mi credevano una persona indulgente.
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Sollevo i manubri, guardo allo specchio la mia faccia stremata dalla fatica. Isolo la contrazione dei bicipiti osservando una ragazza bionda correre sul tapis roulant. A fine esercizio ammiro la rotonda perfezione dei suoi seni, la simmetria delle clavicole, il riflesso del suo corpo propagarsi negli specchi. Carla, pochi metri più in là, non si è accorta di nulla. Il personal trainer le massaggia la schiena, lei sorride impacciata. Una smorfia leziosa del viso rivela la sua momentanea predisposizione al sesso. Questa notte, sul televisore, scorrono le immagini ravvicinate di una litografia di Hartung: graffi d’inchiostro nero soffocano un fondo colorato di giallo. L’opera potrebbe intitolarsi: Milano autunno 2013. Carla, questa sera, ha preferito tornare a casa sua, sfinita da questa relazione senza eredi. Prima di addormentarmi, affino le tecniche persuasive rileggendo il ringhioso commiato degli esuberi. Il numero 13 mi ha liquidato dicendomi: «lei è come tutti gli altri». Il 12: «I tagliatori di teste non mi sono mai piaciuti». Il numero 14: «Potevo immaginarlo, basta guardarla in faccia». Infine, la numero 15: «Lei è uno stronzo». C’è un odore umido di muschio e ruggine, la sensazione sgradevole di avere una lisca di pesce ancorata in fondo alla gola, come quando sto per piangere. Stringo la mano a pugno nella mano di mia madre. Lei mi scruta dall’alto, cammina svelta, senza nessuna esitazione. Stiamo attraversando a piedi lo zoo. Fatico a starle accanto, le calze abbassate alle caviglie, i capelli che mi cadono sugli occhi. Ho le gambe nude. Incurvo le spalle. Vorrei fermarmi a osservare tutti gli uccelli, le piume colorate, leggere la loro provenienza sulle targhette di metallo appese alle voliere. Lei invece si dirige spedita verso l’area dei primati, guidata dal verso terrificante di una scimmia urlatrice. I nomi delle specie si susseguono in gabbie sempre più grandi: Macaco di Taiwan, Bertuccia, Babbuino, Scimpanzé. Lei allunga ancora il passo, mi trascina per qualche metro prima di fermarsi davanti alla gabbia del gorilla. Oggi la
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bestia è nella penombra, gli occhi incassati, i capezzoli scuri spuntano dal torace peloso, gli arti inferiori arpionati alle sbarre. Quando ci vede, si solleva disperatamente su due zampe battendo i pugni al petto, prima di emettere un grido spaventoso. Mi sveglio senza fiato. L’incubo si confonde con i ricordi. Deve ancora sorgere il sole. All’orizzonte, piccole luci intermittenti delimitano nel cielo i contorni spigolosi dei nuovi grattacieli di Porta Nuova disegnati da Cesar Pelli. L’amministratore delegato mi consegna una nuova lista: Graziella 46 anni, Angelo 50, Luca 53, Barbara 42. Leggo i loro curriculum. Cerco un punto di approdo per la mia strategia. Mi passo la mano sul cranio, sistemo il colletto della camicia, sfioro con la punta delle dita le squame di pelle morbida della cintura. L’esubero numero 16 accudisce cinque gatti. Il numero 18 è un informatico appassionato di ciclismo. Il 17 dipinge quadri con la sabbia. Barbara, l’ultima prescelta di oggi, indossa una camicetta bianca stretta sul seno, un paio di jeans, ballerine blu. Sedendosi, allaccia per pudore il bottone della camicia e m’incalza: «Perché proprio io?» La sua voce lieve e quel gesto così pudico confondono la mia linea di condotta. Lei distoglie lo sguardo, spezza la mia incerta indulgenza. Serra le labbra, smette di sorridermi. Carico sessanta chili sul bilanciere, mi sdraio sulla panca. Fuori, cumuli di nuvole battagliano, illuminate dalla luce dei lampioni. Della ragazza bionda nessuna traccia. Carla sta eseguendo l’ultima serie di addominali. Ha il respiro rotto dalla fatica, l’espirazione somiglia al mugolio di un animale ferito. Il personal trainer la incita a bassa voce, le sfiora le spalle, non stacca gli occhi dalle sue cosce strette in un paio di leggings viola. Lei sorride esausta. Da terra, mi saluta con la mano in un gesto imbarazzato e infantile: il distillato nitido e inconsapevole di un addio imminente. La fatica accentua il grado di solitudine. Patisco gli aperitivi con il management, le auto aziendali bianche, le partite a
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golf per definire le strategie di riduzione costi, i pacchetti vacanze offerti al raggiungimento dell’obiettivo. Una settimana premio a Dubai per 58 licenziamenti nella sede di Milano. Cade una pioggia sottile. È sera inoltrata. Da fuori, la palestra è una collezione lucente di attrezzi disumani illuminati dai riverberi azzurri della piscina. Apro la portiera dell’auto. «Posso rubarti un minuto?» Ferma, di fronte a me, c’è una ragazza sgraziata con una borsa di tela che ciondola dalla spalla destra. «Dimmi.» «Lavoro in una comunità di recupero. Siamo in trentacinque ragazzi. Ti chiedo se puoi aiutarci. Esco da un brutto periodo.» Fisso quegli occhi che cercano, tremanti, il mio sguardo. «Quindi?» Si sposta di lato, scuote la borsa, rovista con una mano alla ricerca di qualcosa. «Quindi dovresti fare un’offerta. In cambio posso darti due spugne gialle.» «E quanti soldi dovrei darti?» Sposta il peso da un piede all’altro, cerca di trovare le parole giuste. «20 euro.» «20 euro, per due spugne?» Mi sfioro il cranio, la guardo con quell’aria distaccata acquisita nel corso della vita. «Mi spiace, non mi hai convinto.» Appoggio la testa al volante. Chiudo gli occhi e resto immobile ad ascoltare il rumore della pioggia. Il viale ghiaioso è deserto. «Non mi dirai che hai ancora paura del gorilla?» sussurra mia madre. Faccio cenno di no con la testa. «Aspetta qui come un bravo ometto.» Obbedisco, non so fare altro, mentre la vedo addentrarsi con uno sconosciuto in un bosco di betulle.
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Sfioro le sbarre della gabbia con le dita. Il capo branco mi scruta diffidente. Dietro la sua mole, nell’ombra in fondo alla tana, intravedo il cucciolo protetto dalla femmina. La pioggia cade a scrosci sulla terra. Il gorilla abbassa la testa, la fronte pronunciata nasconde due orecchie lucide e umane. Nell’ombra, la femmina accarezza il cucciolo. Rabbrividisco, quando mi accorgo che le mie mani aggrappate alle sbarre non sono più mani di bambino: sono mani di uomo. Anche il corpo esile si è trasformato nel corpo muscoloso di un quarantenne. La pioggia bagna il mio cranio lucido. Resto stordito dallo sguardo amorevole del gorilla. Il fragore di un tuono irrompe nell’appartamento. Mi risveglio, sono sdraiato sul divano, la camicia sbottonata, il piatto con gli avanzi appoggiato al tavolino. Ritrovo la consapevolezza del respiro. Guardo il televisore, c’è una ragazza a quattro zampe distesa su un copriletto maculato, il filo bianco del telefono le scorre in mezzo alle cosce. Assomiglia alla bionda della palestra, indossa un perizoma nero. Nell’inquadratura allargata irrompe un’altra donna dalle gambe bellissime, con le dita si titilla i capezzoli, un telefono rosso appoggiato alla pancia. Le due donne sorridono maliziose davanti alla telecamera, appena celate dalla scritta in sovraimpressione: Monelle Perverse. Compongo il numero di Carla. Il telefono squilla tre, quattro, cinque volte. Poi risponde, la sua voce sembra arrivare da un altro mondo. La prego di venire, di fare presto. Lei ride, sembra ubriaca, qualcuno le respira accanto. «Tommaso, è troppo tardi per noi ormai». Riesce soltanto a dirmi queste poche parole, prima di riattaccare.
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IL VOLO DI MORB racconto di Jacopo Narros illustrazione di Federico Maggioni
Il costruttore di molle è un perfezionista. Quando è arrivato alla cabina telefonica sotterranea scassata, subito il suo occhio ballerino ha fatto un valzer sui cardini scomposti della porta a soffietto. Con tutti quei guasti è difficile che torni di sopra, si è detto. Si è tratto di tasca (è molto organizzato) un cacciavite a stella e ha messo una vite al cardine in basso. Eccolo, è lì che la avvita con gusto, è lì che spreme, che sembra che munga quasi una mucca, quando tlin!, cade la vite del cardine di sopra. Il costruttore è un tipo metodico e non si scompone, raccoglie la vite. Quando ha quasi finito di avvitarla con cura al cardine in alto, ecco che tlin!, cade quella che aveva fissato in basso. Si mette allora ad avvitare di nuovo quella in basso. Si alza, rimane un secondo in attesa. Sembra che non caschi più nulla. Oh! La prima cosa da dire, pensa il costruttore di molle, è che siamo davanti a un pregiatissimo modello Morb, un ascensore che è una perla: ne aveva visti così quando era bambino, e iniziava a lavorare nelle miniere. Capitava infatti che l’attività di estrazione si spingesse molto in fondo giù nella terra, e che gli operai scendessero anche per delle set-
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timane di fila. La discesa poteva essere estenuante, in cabina c’era spazio a malapena per un piccone, una corda, e allora una ditta aveva avuto l’idea e brevettato il modello Morb che aveva applicato un telefono, così che gli operai potessero fare chiamate a chi volevano. La cosa all’inizio aveva ridotto di qualche mole la depressione che si espandeva nelle teste: c’era chi chiamava a casa, chi chiamava la mamma. Ma la discesa era lunga! E dopo dieci minuti al telefono coi cari, non si sapeva più cosa dire. Andò a finire che si scoprirono gli scherzi telefonici, e la discesa mineraria divenne un’orgia carnevalesca di doppi sensi e battutine. Il modello Morb venne ritirato dal mercato. «Morb...» sospira il costruttore, facendo scorrere il naso su uno stipite. Ah, il profumo d’infanzia! Ma su, si ricompone in fretta, deve aggiustare il guasto. Ecco che si guarda intorno, esamina da fuori l’esemplare di Morb, entra dalla porta a soffietto, cammina su dei documenti e degli appunti finiti per terra. Poi apre una valigetta: è la valigetta della ditta Don Orione, che commercia in materiali per ascensori. Estrae una batteria, dà un paio di martellate all’antenna ricevente, pianta un chiodo qui, uno là. Applica un meccanismo di freno per la velocità di rotazione, un trasmettitore televisivo, delle batterie solari. Prende un po’ di silicone e lo passa nelle commessure tra le griglie della cabina e i vetri giallognoli, esce con un foglietto, lo guarda, si gratta la testa, guarda l’esemplare di Morb, ancora il foglietto, poi monta alla base della cabina dei razzi per l’accelerazione della velocità di rotazione. Entra dentro ancora, cerca di fare un po’ di ordine, piazza il regolatore della forza centrifuga. Oh! Si dice. Manca solo il generatore sincrono ausiliare per l’elettronica televisiva, poi l’ascensore dovrebbe essere a posto. Il costruttore di molle accarezza con due dita della ma-
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no sinistra la borsa di cuoio con sopra la targhetta metallica della ditta Don Orione, mentre con le restanti tre dita della mano sinistra e due della mano destra regge il manuale di istruzioni per la corretta funzionalità degli ascensori. In realtà c’è scritto, in piccolo nella prima pagina, che la ditta si occupa di vari marchingegni che esulano dal ramo tecnico specifico propriamente detto degli ascensori: gli ingegneri Don Orione si fregiano infatti del merito di essere responsabili della costruzione e manutenzione anche di argani, idropompe, microchip per tartarughe, ponti levatoi, macchine per ufficio e altri ritrovati tecnologici. I pannelli fotovoltaici sono stati avvitati con attenzione, la consolle di comando occupa una porzione dignitosa dello spazio angusto sovraccarico di fogli e appunti dell’esemplare di Morb. Il costruttore è seduto molto comodamente su una pila di plichi davanti alla consolle, e compulsa il manuale Don Orione, che raccomanda di procedere alla prova dei fumi dopo aver chiuso per bene le porte. A pagina 15 c’è scritto anche di indossare gli occhiali da saldatore in dotazione perché i gas potrebbero irritare gli occhi, e infatti il costruttore li indossa: tira un’occhiata quindi alla porta a soffietto; dopo di che pigia il pulsante amaranto che dovrebbe innescare la prova dei fumi. Aspetta un attimo, ma non succede niente; schiaccia ancora il pulsante: senza la prova dei fumi, si legge a pagina 37, non si può sapere se la cabina-ascensore è stata aggiustata a puntino oppure se è destinata a sfasciarsi di lì a poco al primo urto con un altro corpo solido. Ma un formicolio prende ora a salirgli per i piedi, gli striscia su per le gambe come un’edera rampicante, sembra che tanti piccoli sassolini gli rotolino nelle vene e nei capillari. Poi anche i fogli incominciano a tremare, un calore strano gli evapora fino alle cosce e alle braccia, ora la vibrazione è più intensa e si accompagna a un gorgoglìo nelle orecchie. Il costruttore intanto cerca se il manuale di istruzioni
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parla di queste formiche circolatorie riguardo alla prova dei fumi, quando c’è un fischio, poi un urlo roco! Si sente schiacciato di colpo a terra dalla cosa più grande che potrebbe sederglisi sopra, si trova capitombolato con la faccia sul pavimento dell’ascensore, mentre una luce abbagliante ma non troppo filtra dai vetri un po’ meno giallo senape puliti in precedenza. Il modello Morb, spinto dai quattro razzi montati alla sua base, lascia la pancia della terra sfrigolando e facendo scintille contro le pareti di roccia, parte come un tappo sparato verso il cielo. Se il costruttore fosse stato un alieno, un ibrido biomeccanico con un occhio posto sopra alla carcassa di acciaio montante, avrebbe visto un puntino di luce spalancarsi come una bocca, per ingoiarlo e fagocitarlo poi in un ventre amplissimo, la pancia di un altro mostro di gran lunga più grosso e coincidente col mondo, pieno di sabbie e sassi e oggetti diversi; in questa pancia l’alieno ibrido si sarebbe gettato come una piccola pastiglia, cercandone e tentandone il fondo di aria con velocità vertiginosa. Ma gli occhi del costruttore sono atterriti quanto il loro possessore legittimo, e possono scorgere oltre i vetri solo un confuso sciacquìo di venti, abbandonato nella stiva di questo siluro traballante che ora va per i cieli. Ma sarà questa la prova dei fumi? Si domanda il costruttore. Lì per lì infatti la sua mente è solleticata da dubbi e scetticismo. Con una mano riesce a spostare un po’ di ciarpame, e vede, da rasoterra, dai vetri più bassi, lo spettacolo incredibile che si lascia di sotto. Via dai suoni, inglobati dai motori rombanti, da tutto! Prospettive risucchiate a terra, in solitudine, sopra la testa degli uccelli in volo, che passano come la neve, come lo scoppiettìo lontano di un fiammifero.
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GLI UOMINI CALVI racconto di Adalberto Mainardi illustrazione di Arianna Papini
Narra Erodoto che presso gli Sciiti vivevano degli uomini sacri agli dèi: si nutrivano di latte e frutta ed erano completamente calvi. Gli Sciiti li onoravano con le primizie del raccolto. Anche i popoli vicini portavano loro offerte e doni. Nessuno comprendeva la loro lingua. Essi, infatti, parlavano la lingua degli dèi. Quando gli Sciiti avevano necessità d’interrogarli, si facevano accompagnare da sette interpreti. Ecco: questa donna ha un’unica figlia che sta morendo, chiede un rimedio al suo male. La supplice si rivolge al primo interprete. Gli racconta la sua pena. Il primo interprete traduce la sua domanda nella lingua del secondo interprete, e il secondo in quella del terzo, e così via, fino all’ultimo interprete, che la traduce all’uomo calvo seduto sulla soglia di casa. E l’uomo calvo parla agli dèi. Gli dèi rispondevano sempre. Gli uomini calvi allora davano il responso al settimo interprete, che lo traduceva al sesto, che lo traduceva al quinto, che lo traduceva al quarto, che lo traduceva al terzo, che
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lo traduceva al secondo, che lo traduceva al primo, che lo traduceva alla donna in pianto. E la risposta la consolava. Nessuno metteva in dubbio la perizia degli interpreti, né sospettava che la supplica giungesse distorta all’orecchio divino, o che l’oracolo fosse alterato nella catena delle traduzioni. Ma un giorno i cavalieri armati salirono dal deserto (altri dicono ch’erano venuti di là dal mare). Sottomisero i popoli della steppa. Con sé portavano un libro, con le risposte a tutte le domande. Lo aveva scritto Dio. Questo semplificava i problemi. I cavalieri insinuarono che gli interpreti mentivano, che le sette lingue erano inutili finzioni, e gli uomini calvi erano degli impostori. L’unica verità era scritta nel libro. Per dimostrarlo, convocarono i capi di tutte le tribù sciite, aprirono il libro davanti a loro e vi lessero: «Maledetto chi non porta i capelli». E passarono a fil di spada tutti gli uomini calvi, che non si difesero. Solo un’ombra di stupore attraversò loro il viso prima di morire, e ad alcuni parve che sorridessero. Da allora nessuno parla agli dèi, e gli uomini hanno cessato di comprendersi tra di loro.
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UOVA racconto di Francesco Ceccoli illustrazione di Marina Girardi
Che io, pur sapendo che non sarebbe mai arrivato nessuno, sia rimasto in piedi fuori dal gazebo di questa discoteca abbandonata, fino a quando il freddo e il buio sono giunti a grattarmi la schiena e sospingermi via senza mostrarmi dove mi stavo dirigendo. Che il fatto di scorgere mio padre che guardava La febbre dell’oro, un vecchissimo film, mi abbia fatto commuovere, senza capirne la ragione, e senza poter in alcun modo fermare le lacrime. Che le persone perlopiù ignorino certi miei atteggiamenti che sono da considerarsi sintomatici di una personalità instabile, come ad esempio l’ossessione per le forme ovali, e che quando illustro tale mia ossessione i miei interlocutori rimangano, con mio grande sconcerto, perlopiù incuriositi. Che la mia stessa personalità possa arrivare ad essere definita con l’aggettivo “ovale” e che io passi ore a cercare la prospettiva migliore per tramutare le mie manie mediocri in segnali di geniale follia. Che io abbia conosciuto persone malate di mente, e abbia disperatamente cercato di riprodurre meccanicamente ed esteriormente i loro tic, nella speranza di divenire pure io malato di mente. 51
Che all’età di sedici anni sia rimasto traumatizzato per aver assistito al rifiuto improvviso, da parte di una gallina, di covare le sue stesse uova, attraverso le quali già si intravedevano le fattezze di piccoli pulcini, che morirono di freddo senza poter fare alcunché. Che all’età di dieci anni abbia sottratto un uovo a una gallina ed abbia cercato di tenerlo al caldo per una notte intera, alitando sul guscio e avvolgendolo con un maglione di lana, e che il mattino dopo l’uovo si sia rotto per disgrazia lasciando il povero pulcino senza speranza di sopravvivere. Che sempre all’età di sedici anni abbia cominciato a considerare la gallina, animale incapace di accudire i propri piccoli al di là dei propri istinti programmati, nonché in grado di divorare un suo simile a pochi minuti dalla morte di quest’ultimo, la creatura più razionale e adatta alla realtà delle cose. E abbia cercato disperatamente di trasporre gli atteggiamenti del volatile all’interno delle relazioni umane, con risultati demenziali e drammatici. Che io, pure in questo preciso istante, mentre mi allontano dal gazebo di questa discoteca abbandonata, col freddo e il buio che mi grattano la schiena, stia ancora pensando che la cosa migliore per me sarebbe incontrare una persona che ha gli istinti profondi ed innati accostabili a quelli di una gallina. Che l’espressione “cervello di gallina” utilizzata per definire una persona stupida sia completamente fuorviante ed inadeguata, che mi sia fatto costruire un letto a forma di enorme paniere e che nel mio bagno ci sia una vasca da bagno a forma di guscio d’uovo, e che io consideri le teorie di Lorenz sulla guerra fredda e le oche selvatiche come inoppugnabili e perfettamente condivisibili, e che, mentre attendo il pullman che mi riporta in città, cerchi di simulare un dialogo tra due esseri umani utilizzando esclusivamente chiocciate e crocchiate. Che mia zia si sia suicidata davanti ai miei occhi, ingollando un quantitativo eccessivo di sonniferi, lasciandomi crede52
re di essersi addormentata, e lasciando che io mi appisolassi, e dormissi, col suo cadavere che si freddava progressivamente, per sei ore filate. Che io, da questo episodio, non sia rimasto più traumatizzato della volta in cui vidi la gallina rifiutarsi di covare le proprie uova. Che mio padre, durante una conversazione avuta con me anni fa, abbia tentato di spiegarmi le motivazioni del suicidio di sua sorella, e che io abbia convenuto che se mia zia avesse affrontato la situazione secondo la prospettiva di una gallina sarebbe ancora viva. Che mio padre abbia interrotto ogni relazione con me dopo quella conversazione e che ora si occupano di me mia sorella e la mia ex moglie. Che la mia ex moglie abbia deciso di chiedere il divorzio dopo aver constatato che le mie idee educative su nostro figlio differivano notevolmente dalle sue, e prevedevano l’utilizzo di incubatori e granaglie, nonché un differente approccio comunicativo. Che il mio ostinarsi sul valore di una teoria assurda riguardante galline e pennuti sia un triste tentativo di rifuggire la realtà, e che questo intento sia chiaro ed evidente a tutte le persone a me più vicine, compreso me stesso, e che, nonostante ciò, rimanga schiavo di questa personalità compulsiva che mi spinge tutti i giorni a cercare conforto nelle forme ovali: sassi, teste (la testa della mia ex moglie era un ovale perfetto), lampade, vasche, galassie, bocche, pesci, e che il gazebo di quella discoteca abbandonata abbia la forma di un ovale perfetto. Che io non abbia avuto, a detta di tutti, nessuna ragione valida per rifuggire la realtà, e che questa mia ossessione venga considerata da quelli che mi circondano come poco più di un capriccio e che questo atteggiamento nei miei confronti abbia contribuito al protrarsi dell’ossessione stessa. Uova.
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LA GIOSTRA racconto di Matteo Pelliti illustrazione di Giacomo Cardelli
La bambina obesa poggia il piede sulla tazza di plastica gialla, la tazza rotante della giostra; scarta i cavalli con la criniera spelacchiata, l’elefante elicottero, lo scuolabus in miniatura e l’apecar del gelataio. Poggia il piede sicura sul bordo della tazza, che si flette scricchiolando sotto il suo peso. La bambina ha circa otto anni, un’ombra scura di basette, l’incarnato olivastro e una treccia lunga e nera. Al polso porta un braccialettino di plastica con attaccati otto cuori, ognuno di un colore diverso, che valgono come gettoni per i giri sulla giostra. A inizio giro il giostraio salirà su, passando in rassegna i bambini per riscuotere il cuore di plastica. La bambina indossa abiti che richiamano una moda adatta a ragazzine adolescenti e che finiscono per rendere ancora più evidenti le sue forme eccessive. La madre siede al bordo della giostra e sfoglia una rivista. Ha circa trent’anni, ma il trucco, sovraccarico, le incolla sul viso quindici anni di più, mentre gli abiti sportivi, gli stessi che indossano le ragazze della tv fotografate nel giornalino che sta sfogliando, vorrebbero riportarla indietro nel
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tempo a molti, molti giri di giostra fa. La madre tiene lo sguardo basso sulla rivista, ogni tanto gira un poco la testa verso il bancone del giostraio e i due si guardano per qualche istante; poi lei riprende a leggere. Alza un braccio per salutare la figlia, quasi senza sollevare il viso per guardarla. La giostra è partita. Primo giro. La bambina afferra il volante al centro della tazza e ne aumenta la velocità a ogni rotazione di giostra, sempre più veloce, gonfiando gli avambracci grassi sotto la maglia a righe, nello sforzo di aumentare la forza centrifuga della tazza rotante. Poi si alza, ancheggia, sbanda, inizia un balletto sulla musica che esce dagli altoparlanti. La bambina fa un gesto con le mani rivolto alla madre: è la coreografia del Ballo del Qua-Qua. Mentre la giostra gira, la bambina alterna la rotazione del volante con la sua danza rivolta alla madre. Che non la guarda, che ogni tanto annuisce, che sbircia spesso il telefono e controlla con la coda dell’occhio il giostraio seduto dietro al bancone, per poi immergersi di nuovo nel giornaletto, come in attesa di qualcosa. Secondo giro. Non è il Ballo del Qua-Qua la canzone che fa da colonna sonora ai gesti della bambina; la musica che accompagna ogni giro di giostra è la riedizione di un vecchio brano di Raffaella Carrà. Come un mantra circolare, il remix da discoteca rimbalza nella giostra mescolandosi alla voce di Raffaella Carrà che canta: Ah-ah-ah-ah, a far l’amore comincia tu. Il tempo sghembo martella col basso ossessivo, con la cassa della batteria elettronica in primo piano, e poi la voce a nastro, campionata. La bambina balla, in piedi nella tazza gialla, estranea a tutto ciò che la circonda, anche alla canzone, tranne che alla forza centrifuga alimentata dai suoi avambracci gonfi. Si dimena, agita la testa in un’ellisse immaginaria, la sua treccia nera sbatte sul sedere fasciato nei pantaloni viola elasticizzati.
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Terzo giro. La madre ha quasi finito di leggere il giornaletto, controlla l’ora come se il bordo giostra fosse una fermata del bus e il numero di giri un grande orologio segnatempo. Ogni giro dura quattro minuti esatti. La giostra inizia a rallentare verso lo scadere del quarto minuto, e a tutti quel rallentare comunica, inevitabilmente e in modo identico, un senso di tristezza, di fine, di vuoto incolmabile. O meglio, colmabile solo da un nuovo giro. Ma il vuoto colmato dal giro in più ha anche sempre qualcosa che lo mette in contatto con un vuoto di natura più universale, e questo vuoto è incolmabile: la giostra che rallenta vale il rallentare della vita stessa. Per questo non esiste bambino che non sia triste quando le giostre rallentano, perché l’essenza del bambino e l’essenza del rallentare della giostra sono completamente opposte. Queste cose la bambina obesa non le sa ancora, mentre è impegnata a farsi notare dalla madre che non la guarda: è presa dal telefono, dal giornaletto e dal giostraio, che intanto è uscito da dietro il bancone, dopo aver suonato il campanello d’avvio della giostra, sparendo in un ripostiglio due gradini dietro la cassa. Quarto giro. La madre segue il giostraio nel ripostiglio. Lancia un’occhiata verso la giostra prima di scivolare giù, aspetta che la tazza gialla scompaia alla vista. Raggiunge il giostraio nella penombra dello sgabuzzino: qui i due scopano vestiti, in piedi, per i quattro minuti del quarto giro. Il giostraio ha le unghie sporche di giostra e sulla testa un piccolo riporto corvino che, nella concitazione, si sposta ondeggiando come la criniera spelacchiata dei cavalli della giostra. A un certo punto, intorno al secondo minuto, sincronizzano un poco, ma involontariamente, i loro movimenti col remix della Carrà. Poi ha la meglio una fretta cieca. Per il poco tempo restante. Quinto giro. La madre riemerge dallo sgabuzzino; qualche istante dopo la segue anche il giostraio, che deve torna-
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re al bancone per suonare il campanello e azionare l’avvio del nuovo giro. L’uomo sale sulla giostra per raccogliere i gettoni a forma di cuore dai bambini. Si avvicina alla bambina impegnata ad aumentare la forza centrifuga della tazza a forza di bracciate, le fa una lenta carezza col dorso della mano lungo la peluria scura della basetta. Poi prosegue il giro di raccolta. Si destreggia facilmente in mezzo ai corridoi stretti, con l’equilibrio reso sicuro dalla ripetizione infinita del gesto, quel giro di raccolta gettoni sulla giostra in movimento che per lui, ormai, è ferma anche quando gira. Sesto giro. Da dietro lo scuolabus in miniatura spunta la schiena di un uomo molto alto. La giostra è ancora ferma. È un ragazzo nordafricano con la pelle di colore caramella mou. Indossa una polo dello stesso colore della pelle. Rimprovera in italiano una bambina magra dal viso pallido. La bambina è sua figlia e si chiama Jasmine. Le dice di restituire subito i gettoni che ha in mano, li sospetta caduti dal braccialetto della bambina che siede accanto alla figlia. La bambina rimane muta, con lo sguardo rivolto verso il basso, stringe con forza i gettoni nella mano. Accanto a lei una bambina bionda, poco più piccola, osserva l’interrogatorio. La giostra si avvia, il nordafricano scende e si siede, agitato, in un angolo. A fine corsa un altro padre si avvicina allo scuolabus e presta testimonianza. Ha visto la scena, i gettoni caduti appartengono effettivamente alla bambina che li stringe nella mano: è innocente, i gettoni sono i suoi. Il padre caramella mou sospira. Poi estrae la figlia dallo scuolabus, le sorride e la issa su uno dei due cavalli dalle code spelacchiate. Settimo giro. La madre della bambina obesa ha cambiato giornaletto. Ora non rivolge più lo sguardo al giostraio che, intanto, si è messo a rifornire un distributore automatico di bibite e merendine. Dietro al bancone, una serie di palloncini colorati e qualche supereroe gonfiabile. I supereroi so-
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no in vendita, i palloncini colorati, invece, sono gratis; sono dati in omaggio ai bambini quando stanno per uscire dalla porta della giostra. Il giostraio chiede se vogliono una caramella o il palloncino, e tutti chiedono il palloncino. Un po’ perché è più bello e dura di più. Un po’ perché i bambini assecondano la diffidenza ansiosa dei genitori verso le caramelle che stanno nella ciotola. In fin dei conti, nessuno ha mai coniato il comandamento “Non accettare palloncini colorati dagli sconosciuti”. Ottavo giro. Un bambino molto piccolo, un anno, un anno e mezzo, sta seduto sull’elefante volante. Il padre gli sorregge la schiena. Ha lo sguardo vuoto, fisso oltre i vetri che circondano la giostra, è visibilmente a disagio nel girare sulla giostra. Si guarda intorno e poi, ogni tanto, avvicina la testa alla propria ascella, prima la sinistra, poi la destra, per sondare il grado di sudorazione; come se ogni ascella potesse produrre un grado di odore differente. Sposta il bicipite e annusa. Poi torna a guardare fuori dai vetri della giostra. Non sposta mai il bambino dall’elefante. Il bambino è troppo piccolo per protestare, per manifestare una volontà propria di cambiare attrazione. La bambina obesa ha finito gli otto cuori di plastica del braccialettino. Scende dalla tazza gialla, che si flette scricchiolando un poco. La madre la prende per mano e si avviano al bancone. Il giostraio le dice di scegliersi un palloncino colorato o di prendere una caramella. Le parla in modo artificiosamente gentile, come fanno gli adulti che non sanno trattare con i bambini. La bambina indica il cestino delle caramelle. La madre fa un cenno poco convinto con la testa e poi guarda da un’altra parte; la bambina affonda la mano nel cestino ed estrae una manciata di caramelle alla frutta. Il giostraio sorride. La madre e la bambina escono dalla giostra, entrambe ancheggiando. Il remix riparte da capo.
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DENTI racconto di Anna Stella Poli illustrazione di Matteo Anselmo
Il primo dente Julius me lo tolse senza anestesia. Forse, pensò, sarebbero bastati i suoi occhi verdi, con delle strane ombre a forma di foglia, quasi ci crescesse dentro la giungla intera. Puzzava di acquavite. Trovavo le sue pupille a un livello di combustione superiore. Dopo aver fatto l’amore mi confessò che non era sicurissimo che l’estrazione fosse del tutto necessaria. Certo, denti ne avevo tanti. L’aveva fatto, diceva, più che altro per tenermi lì vicina. Era l’unico modo per tirarti fuori un po’ di sangue, no, chiquita? Rifacemmo l’amore. Di quel dente, non mi pentii. Il secondo credo fosse un giudizio superiore. Li avevo tenuti tutti nell’eventualità non dimostrata che mi dessero davvero, una volta spuntati, un bonus di giudizio, come una riserva accumulata di buon senso. Il medico di Lima non aveva nulla di Julius, era grigino e sovrappeso, molto gentile, con tutta un’impressione di morbido e appiccicaticcio. Fu veloce e professionale. Non mi sembrò, nemmeno negli anni successivi, che la dote di giudizio ne risultasse particolarmente compromessa.
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Da piccola mi capitava spesso di sognare che i miei denti si confondessero: che cadessero quelli definitivi e non quelli da latte a fianco. Mi svegliavo in preda all’ansia. Come potevo spiegarmi ai miei denti? Poi capitò. Mi cadde un giorno, di colpo, un incisivo superiore. Avevo ventisette anni. Ricrebbe. Non lo dico per fare quella che va spesso a Shangai. Fosse per me, a Shangai, non ci andrei proprio. Troppe luci, troppa voglia e troppa fede nel progresso, troppe poche persone disposte ad abbracciarti. Mi trovavo lì, comunque, era martedì notte e dovevo spiegare che avevo una carie mal curata che mi trapanava dalla mandibola tutta la fascia sinistra della testa, con radicamenti nel collo. Non piangevo nemmeno, per non muovermi troppo. Non capirono, o se capirono, non collaborarono. Provai una droga andina. Tamponò. Trovai poi un abbraccio e un chirurgo. Uno mi si scheggiò cadendo dalle scale. Molti lividi e un graffio superficiale ma molto sanguinante. Mi accompagnò Andrea al pronto soccorso. Notai gli sguardi dei medici sul suo fisico da ex canottiere. Mi tradiva, sfacciatamente, quasi fosse un suo diritto acclarato. Quando si allontanò le domande si fecero insistenti. Capii che non avrei mentito, i cliché avrebbero giocato per me. Ripetei molte volte no, cadendo dalle scale, no, sono stata io. Lo trattennero poi per accertamenti. Sorrisi: non mi spiaceva. L’ultimo non lo levarono proprio. Lo incapsularono. Il contrario di un intarsio, capisce, signora? Non tanto, ma detestavo chi mi chiamava signora: smettevo di ascoltare, pur non muovendo – forse appena tirando un po’ sui margini – un sorriso d’ordinanza. La ceramica costò moltissimo, ci vollero due sedute, tre anestesie, un provvisorio di una strana sfumatura color abito da sposa di raso. Era un canino. Rima-
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se sempre un pochino più lungo, rispetto a prima. Non lo si notava, a colpo d’occhio. Nei segni sulla pelle, lì sì che si notava, arrivava prima degli altri, restava più violetto.
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L’AMICO racconto di Marco Viale illustrazione di Andrea Gualandri
Mentre osservava lo yogurt che dal cucchiaino scivolava sulla tovaglia, pensò che ad Alberto lo yogurt non piaceva. Aveva gusti particolari, Alberto. Mentalmente fece l’elenco delle cose che non gli piacevano: yogurt, fette biscottate, marmellata di arance, minestra di verdura, riso al pomodoro, pesce bollito, carote, spinaci, pollo... La voce di sua madre squillò, interrompendo la lista. «Giulia, hai finito lo yogurt? Cerchiamo di non fare tardi anche oggi!» Alberto si sporse in avanti per raggiungere l’orecchio di Giulia. «Dai Giulia, questa mattina non dobbiamo farla arrabbiare.» Poi le strizzò l’occhio con complicità. Giulia sorrise, andò in bagno, si lavò i denti e si lasciò infilare senza protestare la giacca, quella rossa, gli stivali di gomma e, benché non facesse ancora così freddo, il berretto di lana. Poi uscirono. Giulia notò sul bordo del vialetto molte più foglie secche del giorno precedente; l’autunno quell’anno era arrivato in anticipo. «E il tuo amico? Come si chiama, Alberto, lo vedi anco-
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ra?» le domandò sua madre, calcandole ancora di più il berretto sulla testa. «Questa mattina abbiamo fatto colazione assieme, non gli piace lo yogurt» rispose seria Giulia. Sua madre aspettò un po’ a rispondere, come per non dare troppa importanza alla cosa. «A certi bambini lo yogurt non piace.» «Ma Alberto non è un bambino. Alberto è grande, te l’ho già detto!» La voce di Giulia prese un tono acuto. Le succedeva sempre quando le toccava ripetere cose già dette. Mentre saliva sullo scuolabus, notò Alberto dalla finestra della cucina che la salutava con la mano. Se solo ne fosse stata capace gli avrebbe fatto una torta alle nocciole. Alberto andava matto per le torte alle nocciole. Si sedette al suo posto senza rivolgere la parola a nessuno. La madre attese che lo scuolabus partisse e lo seguì con lo sguardo fino a quando non sparì dietro la curva, poi rientrò in casa rabbrividendo nel golfino leggero. «Andata?» chiese Alberto. «Andata» rispose la mamma di Giulia. «Domani ritorna tuo marito, sai già quanto si fermerà?» La caffettiera iniziò a gorgogliare, spandendo nella cucina un forte aroma. «Passami lo zucchero» disse Alberto. Poi bevvero il caffè, in silenzio.
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PIANI racconto di Marco Ragaini illustrazione di Alberto Ipsilanti
Antonio sarà a casa verso le diciotto, a meno che non decida di fermarsi in rosticceria e dal fiorista; in tal caso rientrerà intorno alle diciotto e trenta, ma questo dipende dalla telefonata che aspetta da Sara. È uscito alle otto e un quarto, in ritardo rispetto al suo solito perché la sera prima ha avuto amici a cena; al lavoro ha l’orario elastico e può recuperare il quarto d’ora in uscita. La casa resterà dunque disabitata per poco meno di dieci ore, o per poco di più se Antonio passerà in rosticceria. In questo lasso di tempo l’appartamento, un monolocale di trentasette metri quadri al quarto piano di un condominio decoroso, subirà lente evoluzioni spontanee o meccaniche. Uscendo, Antonio ha avviato la lavapiatti, caricata con cinque piatti fondi, sei piani, nove bicchieri (cinque da acqua, quattro da vino), una pentola da due litri, una padella, diverse posate, un vaso da fiori in vetro. Ha impostato il lavaggio ecologico, che consuma meno ma è più lento e durerà fino alle dieci e venti. Un bicchiere da vino con la sua gora rossa è rimasto dimenticato sulla mensola del calorifero: occorrerà lavarlo a mano prima di rimetterlo in lavapiatti. In-
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torno alle undici si avvierà automaticamente la lavatrice, programmata con il timer dopo aver impostato il ciclo cotone trenta gradi. È il bucato del mercoledì – il secondo si fa la domenica con la tariffa weekend –: contiene i vestiti degli ultimi due giorni e le lenzuola del letto matrimoniale, ancora pulite ma che Antonio ha preferito cambiare nell’eventualità che Sara venisse a cena e che la cena portasse ad altro. Antonio non è ancora sicuro che lei accetti il suo invito. In realtà avrebbe già dovuto venire ieri sera con gli altri amici, ma all’ultimo ha declinato perché non si sentiva bene. Alla domanda se avrebbero potuto fare un’altra sera, magari anche la successiva, Sara ha risposto magari, ci sentiamo. Antonio sa che quando le donne dicono magari, forse, vediamo, generalmente poi ti bidonano all’ultimo minuto, però tiene così tanto a vedere Sara da continuare a crederci ancora un po’ dopo che ha chiuso la telefonata. Antonio sa anche che Sara lo trova noioso, troppo metodico e ripetitivo. In realtà vorrebbe apparire ai suoi occhi protettivo e rassicurante, per questo se stasera ceneranno insieme le farà trovare ogni cosa in ordine e curata. Quando i suoi amici si sono congedati, sarà stata mezzanotte, mezzanotte e mezzo, Antonio si è sentito triste e vuoto anche se era stata una bella serata. Ha preso a riordinare la casa portando i piatti nella zona cucina, rassettando il divano, sollevando le sedie e passando la scopa anche negli angoli. Ha gettato i fiori e messo in lavapiatti il vaso. Non è riuscito a scacciare il pensiero di come sarebbe stata la cena se lei fosse venuta. Ha trovato il sonno con fatica. In attesa che Sara telefoni, un velo impalpabile di polvere – sgretolature di suole degli ospiti, particelle di asfalto, cellule epiteliali morte, cenere di sigaretta – si depositerà sul pavimento e sui piani orizzontali, visibile per esempio sul pianoforte laccato nero, soprattutto di mattina presto quando il sole, entrando dalla finestra esposta a est, lo illuminerà di taglio.
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Accanto alla stessa finestra, la terra del vaso del ficus seguiterà a seccarsi perché Antonio ha dimenticato di innaffiarlo. Se ne ricorderà in ufficio e questa dimenticanza assumerà per lui un sapore dolceamaro perché non ama dimenticare le cose – lo vive proprio come una sconfitta personale –, però si compiace di averlo fatto a causa di Sara. Le ha mandato un messaggio di buongiorno per ricordarle dell’invito mentre era sulla porta di casa, così non ha fatto attenzione alla pianta e nemmeno al bicchiere da vino sulla mensola del calorifero. Scendendo ha buttato il sacchetto della spazzatura con gli avanzi della cena e il mazzo di fiori ancora freschi nel bidone dell’indifferenziata. Al lavoro, un lavoro ripetitivo e prevedibile che però richiede attenzione e precisione, Antonio guarderà spesso il telefono per verificare l’arrivo di messaggi o mail di conferma. Il fatto che non ce ne siano non sarà un buon segno, ma nemmeno pessimo perché è nelle abitudini di Sara comunicare poco o niente. I primi tempi questo angosciava molto Antonio e più di una volta è stato sul punto di ritirarsi da quella corte discreta sentendosi poco gradito. Ma poi è sempre successo qualcosa – ricorda per esempio un suo messaggio di auguri per il compleanno – che lo ha convinto a persistere. Nel pomeriggio Antonio si farà più inquieto. I colleghi lo vedranno concentrato, invece dentro di sé starà già cucinando e sorridendo, come se per essere ricambiati negli affetti bastasse crederci. Intanto gli elettrodomestici entreranno in stand-by, il diffusore a spruzzo avrà vaporizzato nell’aria una fragranza alla vaniglia, dolce ed economica, la luce del sole lascerà il riquadro della finestra scomparendo nel muro e la casa aspetterà il suo padrone come un gatto. Verso le diciassette il flessibile del lavandino della cucina inizierà a perdere; sibilerà come pipì di bambino e dopo un’oretta scoppierà bagnando il sottolavello e poi il pavimento. Essendo la casa un piccolo mo-
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nolocale, occorrerà meno di mezz’ora perché sia allagata completamente e l’acqua inizi a filtrare da sotto la porta di ingresso e a ruscellare sulle scale. La vicina del piano di sotto è una vecchia sgradevole di nome Piera, che tollera Antonio perché è un tipo silenzioso e ordinato, e perché al contrario della famiglia Pagani non lascia mai i sacchetti di spazzatura davanti alla porta, abitudine che attira i topi e fa disordine. Tuttavia non gli ha mai perdonato quella sera di oltre due anni fa in cui invitò in casa una ragazza – la badante dello zio, una rumena di nome Olga – e la serata si prolungò oltre l’orario abituale. Antonio era fisicamente attratto da Olga e la sua solida, materica corporeità gli dava un senso di sicurezza. Immaginava che la ragazza sarebbe stata disponibile e l’aveva invitata per questo, ciò che però non poteva prevedere è che Olga avesse l’abitudine di gridare a pieni polmoni. Questo dettaglio, e il modo convulso di muoversi a letto facendolo cigolare, avevano indispettito la vicina, che il mattino seguente non aveva mancato di fare osservazione sul trambusto notturno piuttosto imbarazzante che le aveva impedito di prendere sonno. Anche per questa ragione Antonio è inquieto: immagina Piera che lo guarda mentre fa l’amore con Sara, se mai dovesse accadere. Il sole oggi tramonterà alle diciassette e quarantacinque e Sara non avrà telefonato né scritto. Antonio uscirà dall’ufficio scoraggiato ma in orario. Inizierà a piovere. Sulla via di casa, si fermerà ugualmente in rosticceria perché è un uomo prudente. Comprerà un nuovo mazzo di fiori, uguali a quelli di ieri. Sono le diciotto e venti quando Antonio arriva all’angolo del suo isolato e vede il camion dei pompieri e, accanto, la vicina Piera con l’ombrello e la vestina a fiori che si sbraccia allarmata. Sente salire un fiotto di ansia, accelera il passo con
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il pacchetto della rosticceria ancora caldo che gli dondola al polso, la borsa e i fiori nell’altra mano. Domanda cosa succede, la vicina risponde non avevo il suo numero e aggiunge hanno rotto la porta, è colata l’acqua fino ai garage per non dire a casa mia chi è che adesso mi pagherà tutto? Antonio alza lo sguardo, cerca la sua finestra e un po’ di pioggia gli bagna il viso. Alle diciotto e trenta Sara gli manda un sms. Antonio lo legge sul pianerottolo, all’incirca nello stesso punto in cui dieci ore prima le aveva scritto. I pompieri hanno rotto la porta a colpi di ascia, spazzato l’acqua con la scopa. Il pavimento è pieno di macchie di fango e impronte di scarponi. Sara scrive a che ora stasera? Porto qualcosa?
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Matteo Anselmo Nato nel 1985, vive e lavora a Genova. Muove i primi passi sporcandosi le mani di pittura, sperimentando e partecipando alle prime mostre. Da allora ha vinto diversi concorsi (nel 2014 il Premio Popolare nel Concorso di illustrazione di Tapirulan). Lavora con case editrici e riviste. Non abbandona il mondo della pittura ma lo contamina con quello della musica, collaborando con locali e musicisti, realizzando grafiche per eventi, poster, illustrazioni e spettacoli di live painting. Dal 2016 è parte di Rebigo, studio di illustrazione di Genova. pinterest.com/matteoanselmo
Giacomo Cardelli Toscano, nato nel 1977, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Illustratore per varie case editrici, lavora nel mondo dei cartoni animati per film, cortometraggi e pubblicità. La sua satira è stata pubblicata su giornali sia nazionali che esteri, e dal 2008 è membro del sito Cartoonmovement.com. Attualmente pubblica per Capitello Editore di Torino e lavora come animatore al documentario Io e Lui prodotto dallo studio Insekt film di Arezzo. www.cartoonmovement.com
Davide Baroni Attualmente risiede in provincia di Bergamo, ma è nato a Sassuolo (Mo). Laureato in Storia dell’Arte all’Università di Parma, si è specializzato in illustrazione per l’editoria frequentando corsi al MiMaster di Milano e alla Escola Massana di Barcellona. Selezionato dall’Associazione Illustratori per l’Annual 2013 e 2014, ha pubblicato con Rockit, Squame e Jazzit. Nel 2014 ha ricevuto la menzione speciale Museo del Cinema di
Torino al concorso That’s a mole ed è stato selezionato per la mostra e per il calendario del concorso di illustrazione di Tapirulan. www.davidebaronistudio.com
Francesco Ceccoli Sammarinese, bel terrazzo, amante della cultura, istruito, reddito modesto, cospicua collezione di videogames, amabile conversatore, grande estimatore di tutte le arti, automunito, in regolare possesso di diplomi, lauree e master, vista sui monti, grande conoscitore del galateo, futuro erede, tv a 42 pollici, ottimo metabolismo, proprietario di mucca pezzata, fervente lettore, pelle liscia e morbida, rispettoso degli spazi altrui. Elvis Crotti Informatico, turista inconsolabile, lettore appassionato. Ha scoperto, da qualche anno, che ci sono storie che meritano di essere raccontate. I suoi racconti si possono leggere su alcune riviste letterarie e diverse antologie. La casa editrice Excogita ha pubblicato nel 2012 la sua raccolta di racconti intitolata Juke-box per uomini soli. Nel 2015 ha partecipato alla scrittura del Repertorio dei matti della città di Milano. Abita tra Sulbiate e Milano. Non possiede animali domestici. Matteo Cuccato Nato a Bolzano il 17 luglio 1984 dove studia Design e Arti. Lavora come illustratore, grafico e character designer. La passione per il disegno – contaminata dagli studi musicali in viola e violino – gli permettono di declinare forma, ritmo, tono e colore sul piano visivo. Ha collaborato con realtà indipendenti come Monipodio! e Passenger Press e collet-
tivo Dr.Ink. Tra le recenti collaborazioni Nickelodeon, Foot Locker, Wacom, Adobe, Microsoft, Faber-Castell, Pictoplasma, Illustri, Huffington Post, Yahoo Sport, Selle Royal. www.matteocuccato.com
Chiara Dattola Nata a Varese nel 1978, vive e lavora a Milano. È appassionata di art brut, psicologia, antropologia, arte, illustrazione e boxe. Le sue immagini compaiono su magazine, libri, quotidiani, manifesti, francobolli, etichette di vini... Ha realizzato mostre in Italia e all’estero. È docente presso l’Istituto Europeo di Design di Milano. Ha lavorato per Le Monde, Corriere della Sera, Internazionale, Plansponsor, Campus, Pèlerin, Les Echos, Philip Morris, Messaggerie Libri, Yeowon, Kyowon Media, Montessori Korea, Hansol, Ricochet Jeunesse, Faber-Castell. www.chiaradattola.com
Appennino e Tutta discesa. Per la casa editrice Topipittori Capriole e per Becco Giallo ha realizzato L’argine, a quattro mani con Rocco Lombardi. Insieme a Rocco Lombardi ha creato anche Nomadisegni: un progetto di laboratori di fumetto per raccontare le storie nascoste dentro al paesaggio. Vive e lavora sull’Appennino bolognese. www.magira.altervista.org
Andrea Gualandri È nato a Reggio Emilia nel 1978. Si diploma all’Istituto d’Arte di Parma e si laurea all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2003 la giuria della 22a Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte di Tolentino lo seleziona per partecipare alla mostra e lo inserisce nel catalogo. Nel 2005 vince il primo premio e nel 2011 ne diventa direttore aristico. Attualmente lavora come atelierista in una scuola dell’infanzia. www.andreagualandri.it
Marco Ghizzoni Vive a Cremona, dove è nato nel 1983. Sua madre è stata proprietaria per quasi vent’anni di un bar in un piccolo paese della provincia di Cremona, crocevia di storie e personaggi che animano la serie di Boscobasso, cominciata con Il cappello del maresciallo (2014), e proseguita con I peccati della bocciofila (2015) e L’eredità del Fantini (2016), tutti pubblicati da Guanda. Marina Girardi Autrice di storie a fumetti e canzoni illustrate. Il suo lavoro si nutre di incontri e osservazioni che nascono durante vagabondaggi in giro per l’Italia, soprattutto in luoghi dove l’uomo e la natura sanno parlare tra loro. Per Comma 22 Editore ha pubblicato Kurden People,
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Alberto Ipsilanti Nasce a Milano dove vive e lavora. Usa la matita da sempre sperimentando tutte le tecniche e tutti gli stili possibili. Dopo gli studi si specializza nell’illustrazione tecnica imparando a disegnare le righe diritte, collabora con le più quotate case editrici del settore automobilistico, nautico e turistico. Nel 2004 ritorna alle linee curve e diventa uno dei titolari di Capricorn, un’agenzia creativa che fa parte del gruppo VM6 - il luogo delle idee. www.vm6.it
Federico Maggioni Classe 1944, inizia la sua carrieranel 1969 quando viene assunto a La Domenica del Corriere. Segue un periodo al Corriere dei Piccoli e
poi nella redazione del Corriere dei Ragazzi. Nel 1980 pubblica il suo primo libro, Là, nel selvaggio West, realizzato insieme a Tiziano Sclavi. Ne seguiranno molti altri pubblicati dalle maggiori case editrici italiane. I suoi disegni appaiono su testate come Corriere della Sera, Epoca, Amica, Grazia, Brava, Salve, Internazionale e Abitare. Ha organizzato laboratori per adulti e ragazzi in diverse edizioni del Festival della Letteratura di Mantova. www.federicomaggioni.com
Adalberto Mainardi Nato giusto mezzo secolo fa a Milano, dove ha studiato filosofia e pianoforte. Da piccolo, come quasi tutti i ragazzini, ha scritto un’innumerevole quantità di poesie, che fortunatamente sono andate perdute. Ha imparato il russo, e da quella lingua ha tradotto un certo numero di libri, tra cui i Racconti di un pellegrino russo. Ora vive insieme con altri fratelli in un monastero in mezzo al bosco, per guadagnarsi il pane traduce libri e fa un certo numero di altri lavoretti. Gli piace ascoltare le storie, e le più belle le trascrive, nella speranza che anche altri si rallegrino con lui. Flavia Montecchi Flavia, 1985, bilancia, scrive. Da Roma, ma migrante. Viaggia. Lavora con la musica e le persone. Ascolta, racconta, raccoglie, sorride. La leggete qui: Repertorio dei matti della città di Roma, a cura di Paolo Nori (Marcos y Marcos, 2015); Generosità parsimoniosa del tempo (Soglie, anno XVI n.2, 2014); Non vi può più essere produzione, ma solo rottura. Dialogo sull’arte contemporanea (Arte e Critica n.74, 2013). flaviamontecchi.wordpress.com
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Arianna Papini Scrittrice, artista e arte terapeuta, ha studiato al Liceo Artistico, alla Facoltà di Architettura di Firenze e alla Scuola Art Therapy di Bologna. Per 25 anni è stata direttore editoriale e artistico di Fatatrac. Tiene corsi di narrazione e arte, corsi di aggiornamento e gruppi terapeutici per ogni età presso il suo studio a Firenze. Insegna Illustrazione all’Isia di Urbino. e collabora con i Master di Macerata, di Firenze, di Milano e di Padova. Ha scritto e illustrato un centinaio di libri, alcuni coediti in vari paesi, con i quali ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Andersen e il Premio Compostela. Ha partecipato a diverse mostre personali e collettive, in Italia e all’estero. www.ariannapapini.com
Matteo Pelliti Nato a Sarzana nel 1972, vive a Pisa, dove si è laureato in Filosofia. Ha pubblicato le raccolte di poesie Versi ciclabili (Orientexpress, 2007) e Boicottando mongolfiere e ghigliottine (Tapirulan, 2013) e i racconti Giocattoli (Felici, 2010). Del 2015 le poesie Dal corpo abitato (Luca Sossella Editore) con le illustrazioni di Guido Scarabottolo e un cd audio con la voce di Simone Cristicchi, cantautore col quale collabora stabilmente. Per Montalcino FermentiInscena, ha scritto con Manfredi Rutelli lo spettacolo teatrale Tacabanda, racconto musicale per voce recitante e ottoni di paese. www.coltisbagli.it
Jacopo Narros Nato nel 1990, ha scritto Il Senzaventre (Tapirumé, 2013) e altri racconti brevi per alcune riviste, tra cui Nuova Tèchne. Ha curato e tradotto la Bibliografia dei folli di
Charles Nodier (Quodlibet, 2015), e ha scritto nel Repertorio dei matti della città di Milano (Marcos y Marcos, 2015) e nell’Almanacco 2016. Esplorazioni sulla via Emilia (Quodlibet, 2016). Anna Stella Poli Mi chiamo Stella, lo trovo un nome bellissimo. Mi sono laureata in Lettere perché mi piacevano le storie. Quando, da piccola, qualcuno me le raccontava, non volevo mai dormire, perché mi piacevano le storie. Faccio un dottorato in filologia moderna a Genova, ora, perché insieme alle storie perdo la testa per il mare. Compro troppi libri usati. Scrivo poesie che perdo quasi sempre. Sono implacabilmente felice il primo secondo dopo essermi tuffata in acqua, quando qualcuno mi abbraccia stretta e le sere che torno in bicicletta d’estate e non fa freddo. Le volte che sono implacabilmente triste è più complicato. Marco Ragaini Cinquant’anni tondi, lavora nel magico mondo dell’editoria e cerca di coltivare le sue passioni fatte di scrittura e immagini. Ha un sito che si chiama pochestorie.it. Vive a Milano, ma ha vissuto anche altrove. www.pochestorie.it
Alessandro Ripane Nasce a Genova nel 1989. Per tutto il periodo dell’infanzia è stato un esperto di animali feroci e di supereroi, conoscenze che si sono rivelate ben presto inutili, visto che nella sua amata città natale non è presente nulla di tutto ciò. Molte cose sono cambiate da allora, anche se ogni tanto un Batman fatto male lo disegna ugualmente. www.alessandroripane.com
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Giovanni Scarduelli Ventitré anni, illustratore e graphic designer, musicante, lettore e provinciale. Ama Batman, perché riesce sempre a fare tutto quello che deve fare. Ha collaborato con La Repubblica, Liber, Terre di Mezzo, Tapirulan, ‘Tina. behance.net/giovanniscarduelli
Oscar Tison Nato nel 1950 in provincia di Belluno, vive e lavora in Cadore. Ha pubblicato: Poesie (Rebellato Editore, 1975) e Soliloquium (Benvenuto Editore, 1983). Più recentemente ha pubblicato l’e-book 99% - novantanove racconti di cento parole esatte. Ha collaborato a varie iniziative culturali e pubblicato testi sia di poesia che di narrativa in varie antologie e riviste, oltre che articoli su periodici locali. Ha vinto diversi premi, sia di poesia che di narrativa. Marco Viale Sono nato in un posto di mare, dove si va in vacanza, d’estate. Dalle mie parti, non era necessario chiamare l’estate con il suo nome, bastava dire la stagione e non c’è mai stato qualcuno che la confondesse con un’altra. A me, la stagione, così calda e rumorosa, è sempre piaciuta. Anche la confusione che c’era mi piaceva, tutti si davano un gran daffare per guadagnare i soldi che servivano per campare in inverno. Così, per non perder tempo, il mio compleanno, invece che in agosto, veniva festeggiato a novembre. Oggi vivo ancora in un posto di mare, ma non è lo stesso posto dove sono nato. Anche la stagione non è più la stessa stagione. Il mio compleanno, però, continuo a festeggiarlo a novembre. Sono un abitudinario. www.marcoviale.it
az Antologia del concorso di racconti Tapirulan Quinta edizione © 2016 Tapirulan www.tapirulan.it info@tapirulan.it racconti@tapirulan.it Segreteria organizzativa Rosa D’Onofrio Presidente di giuria Marco Ghizzoni Redazione Tommaso Bola, Enrico Cantino, Guido Casamichiela, Massimo Cauzzi, Nicola Degani, Rosa D’Onofrio, Marco Sartori, Roberto Stradiotti, Marta Tedolfi Progetto grafico French Stampa Fantigrafica Cremona, ottobre 2016 Confezione Legatoria Venturini Edizioni Tapirulan ISBN 978-88-97199-64-9