Bombeiros

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Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it


Bombeiros Antologia del «Concorso di racconti Tapirulan» © 2012 Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it info@tapirulan.it | racconti@tapirulan.it Presidente di giuria Gianluca Morozzi Redazione Alberto Calorosi, Enrico Cantino, Guido Casamichiela Giorgia Cavazza, Roberto Stradiotti, French Progetto grafico French Stampa Fantigrafica, Cremona, ottobre 2012 Si ringrazia João Vaz de Carvalho Vigili del Fuoco di Cremona Edizioni Tapirulan ISBN 978-88-97199-14-4


Indice

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Prefazione di Guido Casamichiela

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Little Tony contro gli alieni racconto di Gianluca Morozzi illustrazione di Lucio Villani

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Eleonora racconto di Alessandro Sesto illustrazione di Daniele De BattĂŠ

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Ferrania Pancro racconto di Marco Alfano illustrazione di Guido Scarabottolo

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Il Bar sotto la neve racconto di Trap illustrazione di Dimitri Fogolin

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Le mie chiappe e il mio smalto racconto di Maurizio Perelli illustrazione di Andrea Gualandri


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Valzer per marionette racconto di Luca Dore illustrazione di Luca Fabbri

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Le sorelle racconto di Francesca Marchegiano illustrazione di Arianna Papini

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Giovanni “John” La Guaina racconto di Roberto D’Agostin illustrazione di Daniela Volpari

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Io sono l’altra racconto di Edoardo Brosio illustrazione di Faber

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La begonia racconto di Rosanna Spinazzola illustrazione di Margherita Allegri

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Dissertazione attorno alla lettura di un quotidiano da parte di un malvivente racconto di Andrea Cirillo illustrazione di Claudio Arisi

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La scheggia nella salsa racconto di Donatella Azzollini illustrazione di Giuseppe Braghiroli

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Autobiografia per E.C. racconto di Franjo Matanovic illustrazione di Giorgio Fratini

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Scrittori e illustratori Note biografiche


Nota Introduttiva

Bombeiros è il minore di quattro fratelli. I fratelli più piccoli, si sa, sono i più coccolati. I più viziati, forse. Ma sono anche quelli da cui ci si aspetta le cose più grandi. Bombeiros condivide coi fratelli maggiori Cyclette, Bufanda e Souvlaki il medesimo patrimonio genetico: una raccolta di racconti selezionati attraverso un concorso e illustrati da artisti nominati dagli scrittori stessi. Di diverso ha un presidente nuovo di zecca, lo scrittore e musicista Gianluca Morozzi. La gestazione di Bombeiros è stata difficile. Difficile selezionare solo dodici racconti tra gli oltre cinquecento pervenuti in redazione; difficile scegliere il vincitore del concorso tra tante opere così diverse per tematica e stile. Ma ora Bombeiros è nato. Oltre ai magnifici dodici contiene un racconto inedito di Gianluca Morozzi. Abbiatene cura. Bombeiros saprà spegnere la vostra sete di storie, saprà estinguere il fuoco sacro delle parole che vi brucia dentro. Ora accostatelo all’orecchio. Ascoltate. Riuscite a sentire il suono della sirena che si avvicina?



Prefazione di Guido Casamichiela

Ecco: i Nostri sono tornati. I Nostri sono cambiati. Oddio cambiati, i polpacci sono sempre quelli – anni e anni di cyclette glieli hanno forgiati duri come acciaio temperato –, il collo è ancora pieno di pallini di lana che provengono da quella vecchia sciarpa spagnola da cui non si sono mai separati, il ventre porta i segni delle pantagrueliche abbuffate di spiedini greci degli ultimi anni. Ma ora i Nostri hanno sentenziato: basta, siamo cambiati. Quando i Nostri hanno capito di essere cambiati si sono detti: ve’, e se per suggellare il cambiamento ci iscrivessimo a un corso per pompieri? Qualcuno ha aggiunto: dai, facciamo i pompieri portoghesi! Forse quello ingenuo, coi capelli a scodella e gli occhi cisposi, ma che sia investito da un autopompa in retromarcia se sono sicuro che fosse lui. Qualcun altro, non ricordo chi, forse quello stralunato, col naso a becco d’anatra e i baffi a manubrio, ha chiesto: com’è che si fa a fare i pompieri portoghesi? Forse non pagando il corso da pompieri?

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Nessuno degli altri, pare, ha mai risposto a quel doppio interrogativo. Quel che è certo è che quando alla fine quel corso da pompieri i Nostri hanno deciso di farlo – e che possa scendere giù dal palo dei pompieri in mutande e canottiera ed essere scambiato per un lap dancer se qualcuno di loro l’ha poi pagato, quel corso per pompieri portoghesi – di prove da superare gliene sono toccate tredici, non una di meno. Prima prova: salvataggio botanico. L’insegnante del corso ha ordinato ai Nostri di arrampicarsi sopra un balcone: c’era una begonia che stava morendo affogata. I Nostri hanno eseguito. Tutto procedeva al meglio, ma quando stavano per scendere uno di loro – quello passivo, con le occhiaie sudate e le unghie delle mani mangiate fino all’osso – si è preso un calcio da una bambina arrabbiata, anche se non con lui; forse con la mamma, o col papà. E va bene, è andata così. Seconda prova: disseppellimento nevoso. I Nostri si sono catapultati a salvare un gruppo di giocatori di carte bloccati dentro un bar sepolto nella neve. Campioni di ingratitudine più che di briscola, i giocatori li hanno cacciati in malo modo: si vede che non avevano voglia di essere salvati, o che non avevano ancora finito la partita. Stavolta la pedata se l’è buscata quello avido, col petto di piccione e la bava rappresa agli angoli della bocca.Vai a far del bene. Terza prova: ispezione impianto elettrico. I Nostri si sono recati in una casa di riposo per fare un sopralluogo. C’era stato un black out, la notte di Capodanno: si era rovesciato dello spumante sui cavi elettrici della sala da pranzo. Quella volta ai Nostri non è andata malissimo. Li hanno ringraziati tutti tranne un vecchio che li ha guardati di traverso, ancora col bicchiere in mano, senza dire una parola. Ormai erano abituati. Se l’è presa solo quello permaloso, col mento asburgico e le scapole estroflesse.

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Quarta prova: estrazione schegge. I Nostri sono stati chiamati per rimuovere una scheggia in un appartamento. Uno di loro – quello scaltro, con gli occhiali equivoci e le guance scavate – era molto su di giri all’idea di togliere delle schegge; ma quando poi sono arrivati e hanno verificato che si trattava di una scheggia finita non si sa come nella gola di un tizio, hanno abbandonato l’appartamento precisando: noi siamo il 115, mica il 118. Quinta prova: spegnimento bollori. I Nostri hanno ricevuto l’ordine di intervenire per fermare una coppia troppo focosa. Arrivati sul posto – questa volta a essere su di giri era quello subdolo, con le spalle scese e le labbra esangui – hanno trovato un uomo e una donna che evidentemente avevano già terminato di essere focosi: fumavano una sigaretta, guardavano un accendino sorridendo. I Nostri hanno battuto la ritirata non prima di aver ricordato di non scherzare col fuoco. Il ruolo glielo imponeva. Sesta prova: salvataggio animali anomali. I Nostri si sono precipitati in un parco: era giunta voce che una strana bestia stava appollaiata su un sicomoro. Una volta raggiunto il parco, sono saliti con la loro brava scala allungabile sull’albero, ma non hanno trovato nessuna bestia. C’era solo, appallottolata, la pagina di cronaca di un giornale. Si parlava di una rapina. Non ci hanno capito niente, soprattutto quello tardo, con la faccia ottagonale e un pallottoliere sempre in tasca. Settima prova: telefono amico. Si è messa in contatto coi Nostri una certa Boo, chiedeva di salvare sua sorella Boo prima che si sposasse col poliziotto. La donna era in evidente stato confusionale. Farfugliava di un filo rosso, di centomila manichini, di un linguaggio speciale che la legava a Boo, o a Didi, o chissà a chi. Anche questa volta i Nostri brancolavano nel buio più buio; tutti tranne quello trasanda-

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to, con la barba piena di molliche e il gilet bucherellato, che pensava di aver capito ma si sopravvalutava. Ottava prova: gestione segnalazioni acrofobiche. Un signore trafelato ha segnalato ai Nostri un ragazzino in una posizione pericolosa perché prossima a un parapetto. Che posizione? Gli ha chiesto quello inaffidabile, con i peli sulle braccia distribuiti a caso e i polsini della camicia sporchi di taleggio. Una verticale, ha risposto il signore. Una verticale? E da quanto la fa, la verticale? Ha chiesto sempre l’inaffidabile. Eh, saranno ormai cinquant’anni. Ha detto il signore. I Nostri gli hanno indicato l’uscita. Nona prova: soccorso infantile. I Nostri sono corsi in aiuto di una bimba sul ciglio di una strada. La bimba cercava la sorella. Uno dei Nostri – quello capzioso, con gli zigomi ammaccati e le palpebre trasparenti – le ha domandato se per caso sua sorella si chiamasse Boo. La bimba non ha risposto niente, li ha guardati a lungo e poi ha ripreso a camminare lungo il ciglio della strada. I Nostri si sono sentiti inutili come idranti prosciugati. Decima prova: neutralizzazione grafomaniaco. I Nostri hanno ispezionato un caseggiato, dentro c’era un ragazzo grafomane che scriveva sui muri, sul pavimento, sulle pareti, dappertutto. I vicini dicevano che era un pazzo sociopatico. Uno dei Nostri – quello polemico, con il collo taurino e le sopracciglia albine – gli ha chiesto perché diavolo non la smetteva. Per tutta risposta il grafomane gli ha scritto qualcosa sulla fronte in una lingua sconosciuta. I Nostri hanno annuito all’unisono.Tanto per fare. Undicesima prova: accerchiamento e disarmo. I Nostri hanno ricevuto l’indicazione di raggiungere piazza Cavour. C’era un uomo che sembrava un incrocio tra il ragionier Ar-

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turo de Fanti e Clint Eastwood. Aveva una pistola in mano e tanta gente intorno. Circondiamolo ragazzi, ha detto quello decisionista, con le dita delle mani palmate e le ginocchia femminili. Ma quell’uomo era già circondato da tutta quella gente, allora per non creare intralcio sono tornati in centrale. Dodicesima prova: incarico ufficiale. L’insegnante – mancava poco alla consegna degli attestati – ha chiesto ai Nostri di seguirlo per una specie di incarico ufficiale. Si stava recando presso l’abitazione di una sua amica, una certa Eleonora, perché ne aveva perso le tracce e voleva capire cosa fosse accaduto. Venite con me, ragazzi? Ha chiesto l’insegnante. Ci spiace capo, ma è il quintultimo giorno del corso e non ci sentiamo più di rischiare, ha risposto quello vigliacco, con le tempie pustolose e le clavicole zigrinate. Peggio per voi, ha detto l’insegnante. Sarà, hanno detto loro. Tredicesima prova: missione impossibile. I Nostri stavano per ritirare il loro attestato di pompieri portoghesi, un attestato con tanto di bollo e ceralacca, quando l’insegnante, ancora indispettito per la faccenda di Eleonora, se n’è uscito con un ricatto bello e buono. Voi non avrete nessun attestato se non portate a termine almeno un’azione degna di questo nome. Per esempio? Ha chiesto quello diabolico, con la voglia vinaccia sulla testa e la scritta Glasnost tatuata sui glutei. Per esempio, salvare Little Tony dagli alieni. Ha risposto l’insegnante. I Nostri hanno sogghignato, si sono scambiati un cenno d’intesa, hanno strappato gli attestati dalle mani dell’insegnante e sono scappati facendo forza sui potenti polpacci. Direzione Lusitania.

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Little Tony contro gli alieni racconto di Gianluca Morozzi illustrazione di Lucio Villani

Nessuno, neppure Nostradamus, avrebbe mai pensato a Little Tony. E dire che Nostradamus, nel suo modo oscuro e sottilmente vago, tante cose le aveva indovinate. Ma in nessuna delle sue quartine, anche a leggerle con attenzione, si fa riferimento all’interprete di Riderà, Cuore matto, Bada bambina o La spada nel cuore. Quando non ci si può più fidare neppure di Nostradamus, significa davvero che è arrivata la fine del mondo. E infatti questo era accaduto, il giorno che Antonio Ciacci detto Little Tony si era fatto avanti senza paura, aveva alzato il dito e aveva fatto una domanda: era arrivata la fine del mondo. Cioè, se proprio ci avessero detto: il primo essere umano che parlerà con gli alieni sarà un famoso cantante, magari avremmo pensato a Bono Vox. E se ci avessero detto: no, Bono Vox non va bene, dev’essere italiano, magari avremmo pensato, mah, a Battiato. Ce l’ha l’aria di uno che è abituato a parlare con gli alieni.

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Certo, più lui di Little Tony. Perché altrimenti, se ci avessero chiesto: chi sarà il primo essere umano a parlare con gli alieni, anche non cantante?, forse avremmo pensato, non lo so, al Dalai Lama. O a Obama. O magari a Garcia Marquez. Che forse, chissà, se un veggente fosse andato da un bambino di dieci anni di nome Antonio Ciacci, a Tivoli, nel 1951, e gli avesse detto Ragazzo, sappi che tra qualche anno prenderai il nome d’arte Little Tony, ispirandoti al celebre cantante Little Richard, avrai un enorme successo con canzoni quali Riderà, Cuore matto, Bada bambina, La spada nel cuore, sulle soglie dei settant’anni non solo sarai ancora in giro con il tuo ciuffo e la tua chitarra a cantare Riderà, Cuore matto, Bada bambina e La spada nel cuore, ma sarai pure il primo uomo a parlare con gli alieni, mah, secondo me, a occhio, Antonio Ciacci – di anni dieci – avrebbe preso la fionda e bombardato il veggente con dei sassi raccolti sulla strada. E invece era andata proprio così. In spregio a Nostradamus. In quel momento storico, quando Little Tony si era fatto avanti col ditino alzato per fare una domanda ai due alieni, la situazione era leggermente surreale. Cinquantasei milioni di italiani erano ammassati dentro un’astronave piuttosto grande. Decisamente grande. Indubbiamente grande. Dentro quest’astronave, cinquantasei milioni di italiani stavano più larghi di come sarebbero state cinquantasei persone in un vagone della metropolitana di Roma alle sette e mezzo di un lunedì mattina. Tutti quei cinquantasei milioni di italiani, tutti, gli operai, i professori, gli studenti, i tranvieri, i perdigiorno, gli installatori, i terzini della Sampdoria, le pupe, i secchioni, i killer della mafia, i palazzinari, i corruttori, i servizi segreti deviati, il cast di Boris, i Diaframma, gli ex membri dei Diaframma, i

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Litfiba, gli ex membri dei Litfiba, i finalisti del premio Strega, la giuria del premio Strega, i killer della camorra, lo scrittore Roberto Saviano, i killer della camorra che guardavano di sottecchi lo scrittore Roberto Saviano improvvisamente nervosissimo, la cuoca de La prova del Cuoco, i conduttori di Forum, la squadra azzurra di Amici, il centrocampo del Cesena, Paolo Villaggio, i Nomadi, gli ex membri dei Nomadi, tutti quei cinquantasei milioni di italiani, strappati senza preavviso dalle rispettive attività, se ne stavano a naso in su in quella specie di enorme navata di luccicante metallo a guardare una piattaforma sospesa a mezz’aria, e su quella piattaforma, a braccia conserte, c’erano Stan Laurel e Oliver Hardy. Meglio noti, ai più, come Stanlio e Ollio. Stanlio e Ollio, in realtà, non erano affatto Stanlio e Ollio. Lo avevano spiegato subito, per bocca del più grasso dei due. «Chiariamo subito una cosa», aveva detto quello con le sembianze di Oliver Hardy. «Queste non sono le nostre sembianze. Noi siamo alieni. Il nostro vero aspetto, senz’altro, avrebbe provocato crisi di panico e moti di terrore nei più impressionabili di voi.» «Anche nei meno impressionabili», aveva aggiunto Stan Laurel, alias Stanlio. «Anche nei meno impressionabili», aveva continuato Ollio. «Quindi, per spiegarvi la situazione con calma e tranquillità, senza dovervi sedare artificialmente, abbiamo deciso di presentarci a voi con l’illusorio aspetto di due icone rassicuranti. Il nostro megacomputer dice che tutti amano Stanlio e Ollio, che tutti, alle loro apparizioni in tv, sfoderano un caldo e grato sorrisone. Il mio collega» e aveva guardato storto Stanlio, che aveva scosso la testa come a dire Che vuoi da me? «dicevo, il mio collega dubitava di questa soluzione, diceva: Bel modo di tranquillizzare la gente, presentarsi con le sembianze di due comici morti da più di quarant’anni, ma a giudicare dalla vostra reazione, be’, che ne

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dite, gente? Ho avuto ragione o no?» Da qualche angolo della sterminata folla era partito un piccolissimo e timido applauso, subito sedato nella vergogna generale. Dopo un istante di pausa, Ollio proseguì. «Allora, visto che non vi siete fatti prendere dal panico fin qua, mi raccomando, per favore, cercate di non avere un attacco isterico dopo quello che vi dirò tra poco. Siete pronti?» Nessuno fiatò. «No, dico: siete pronti?» Qualcuno, timidamente, annuì. «Bene. La cosa che devo dirvi è... ragazzi, davvero, non prendetevela, niente di personale, ma può anche darsi, oh, chiaro, non è detto, eh?, non abbiamo ancora deciso, però, ecco, in via ipotetica... be’, Stanlio, dai, dillo tu.» «Perché devo dirlo io?» «Perché, be’, ti ricordi cosa aveva detto il megacomputer, no?, aveva detto che i magretti con la bombetta fanno ridere qualunque cosa dicano, per quanto tragica sia...» «Veramente il megacomputer ha detto che i ciccioni con i baffetti fanno ridere qualunque cosa dicano, per quanto tragica sia.» «Ah. Quindi tocca a me, eh?» «Certo che tocca a te, sciocco ciccione.» Ollio si schiarì la voce. Più di cento milioni di occhi sgranati erano fissi su di lui, in angosciosa attesa. «Insomma, gente, eh, come dirlo, vabbè, può darsi che, uhm, ah ah, ecco, domattina all’alba forse distruggeremo il vostro pianeta. Ho detto forse, eh?» Nell’astronave scese un silenzio definibile soltanto come sepolcrale. Ollio guardò Stanlio, che fece un gesto come a dire Vai, vai, ce li hai in pugno. «Dunque» continuò Ollio, con voce appena esitante «vedete, io e il mio collega qui di fianco, siamo esponenti di

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una razza leggermente più avanzata della vostra...» «Leggermente?» protestò Stanlio «Siamo milioni di anni più evoluti di queste stupide scimmie!» Ollio lo gelò con lo sguardo. «Per piacere. Primo, si dice razze diversamente evolute, non stupide scimmie, secondo, o parlo io, o parli tu.» «Parla tu.» «Perfetto.Vi dicevo, noi siamo esponenti di una razza che si è posta un compito difficile ma, a nostro insindacabile parere, assolutamente indispensabile. Noi siamo gli spazzini dell’universo.» Non ci furono reazioni dalla folla muta. Ollio continuò. «... ecco, dicevo, gli spazzini dell’universo. Noi ci siamo assegnati il compito, difficile, sì, ma non impossibile, di spazzar via la stupidità eccessiva dal cosmo. Attraversiamo le galassie in lungo e in largo, e appena incontriamo una razza troppo stupida per esistere, ehm, la annientiamo. Ma senza cattiveria, eh? Senza far male a nessuno. Un raggio disintegrante, tutto lì. Mezzo secondo di raggio disintegrante, il pianeta non c’è più, gli stupidi nemmeno. Nessuno soffre, nessuno si accorge di niente.» «Noi, però, un poco godiamo» ghignò Stanlio. «Per piacere!» lo rimproverò Ollio «Dicevo, il nostro è un fine nobile, sapete? Immaginate un pianeta di stupidi che improvvisamente, a un certo punto, per caso, scopre il viaggio intergalattico. Miliardi di stupidi che, anziché limitarsi a far danni nel loro ambito ristretto, iniziano a navigare tra le stelle e a importare la loro stupidità tra i pianeti più evoluti. La stupidità è contagiosa, sapete? Non è tollerabile un simile stato di cose!» Silenzio assoluto. A Ollio parve persino di sentire una lontana eco sul fondo dell’astronave, qualcosa tipo... cose... cose... cose... Continuò.

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«Ovviamente, noi non siamo barbari. Prima di spazzar via un pianeta, ragioniamo. Meditiamo. Valutiamo. La patente di pianeta stupido non la diamo via così, a caso, in modo superficiale. Si fa un attento esame della sua popolazione, prima.» «La parte più tremenda» disse Stanlio, e nel dirlo fece una faccia disgustata, la faccia di chi ha dovuto valutare svariati miliardi di stupidi, negli ultimi tempi, e ne ha ormai la nausea. «Ora, il nostro metodo per valutare la stupidità di un pianeta è: parcheggiamo l’astronave invisibile in un limbo di spaziotempo vicino al pianeta, studiamo, analizziamo, e poi chiediamo al megacomputer di fornirci un campione rappresentativo della popolazione. Preleviamo quel campione rappresentativo e lo portiamo sull’astronave per informare i soggetti. Dopodiché, facciamo i test.» «La parte più angosciosa.» «Non me li spaventare, per favore, Stanlio. Dunque, noi abbiamo chiesto al megacomputer di selezionare un campione di umanità particolarmente interessante. Un campione inclassificabile, curioso, disomogeneo, con picchi altissimi verso l’alto e spaventosi abissi verso il basso. Il megacomputer ci ha suggerito di analizzare la popolazione degli Stati Uniti d’America.» «Ma erano troppi.» «Eh, no, non ci stavano tutti, nell’astronave. Perché sembra grande a vederla così, ma in realtà ha una capienza limitata. Più di sessanta milioni di persone, qui dentro, non ci entrano.» «È un modello vecchio» si giustificò Stanlio. «Già. Allora abbiamo ripiegato sulla seconda scelta, un campione che andava bene anche dal punto di vista numerico. Ovvero, la popolazione italiana.» Silenzio assoluto. «C’è da dire che, prima di teletrasportarvi tutti qua, vi abbiamo studiati. Le vostre trasmissioni televisive, per esem-

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pio. Il mio collega, qui» e indicò di nuovo Stanlio, che replicò il gesto che significava Cosa vuoi da me? «ad essere sinceri, dopo aver visto una di queste trasmissioni televisive, aveva proposto di saltare un passaggio e annientarvi subito. Io però sono per il rispetto delle regole e delle procedure, e non ho dato il via libera all’annientamento. Neppure dopo aver analizzato di persona un’intera puntata di una cosa che si chiama Ciao Darwin.» Ci fu un piccolo tumulto, a quel punto, nella folla. Qualcuno urlava «Uccidiamolo!», inseguendo un tizio con gli occhiali che cercava riparo dietro la squadra di rugby di Viadana. Ollio con un gesto imperioso riportò la calma. Continuò. «Insomma. Come avrete capito, se il nostro giudizio sarà negativo, eh, annienteremo il vostro pianeta, ma...» Fu in quel momento che si fece avanti Little Tony. Little Tony, con il suo ciuffo, il giubbotto di jeans, il ditino alzato, uscì dalla folla per fare una domanda. «Mi scusi?» disse, a voce alta. «Sì?» rispose Ollio, in tono educato. «Ecco, mi scusi, sa, ma io ho letto su Focus che la fine del mondo è sì prevista dal calendario Maya, ma è prevista per il dicembre del duemiladodici, e ora siamo in ottobre. Non le sembra un po’ scorretto, mi perdoni, anticipare un evento non di una settimana, non di due, ma di quasi tre mesi? Come se mi ingaggiano per suonare in un locale, non so, un venerdì sera, io arrivo mercoledì a mezzogiorno e pretendo di trovare il palco montato e il catering pronto. Lei capisce, è una cosa poco carina da fare, non le sembra?» Una cosa è certa. Se Nostradamus avesse detto: Il primo dialogo della storia tra umani e alieni si terrà tra il cantante Little Tony e due alieni camuffati da Stanlio e Ollio, i suoi colleghi veggenti gli avrebbero stracciato la tessera dell’ordine.

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Di fronte all’obiezione imprevista, Ollio guardò Stanlio. «E questo chi è?» domandò. «Sto controllando» rispose Stanlio, consultando un piccolo globo di metallo. Quasi subito alzò gli occhi. Fissò Little Tony. «Lei è Antonio Ciacci detto Little Tony?» domandò. «Sono io.» «Mi scusi se glielo chiedo, ma lei è cittadino italiano?» «Io? No. Di San Marino. Lo sanno in pochi, ma...» «Ah» sorrise Stanlio. Un attimo dopo, Little Tony sparì. Stanlio alzò gli occhi. Guardò la folla spaventata. «Ue’, ragazzi, tutto bene» li rassicurò «Non lo abbiamo mica disintegrato. Lo abbiamo rimandato a casa sua. Non è italiano. È di San Marino.» Si udirono cinquantasei milioni di sospiri di sollievo. «Detto questo» riprese la parola Ollio, e fece una pausa drammatica ghiacciando il sangue dei cinquantasei milioni di cui sopra. «La cosa funzionerà così. Noi, portandovi qua, abbiamo raccolto informazioni su ciò che siete, sulla vostra psiche, sul vostro modo di vivere. Analizzeremo i dati, ma, nel frattempo, seguiremo un soggetto sul campo.» «Uh?» dissero all’unisono i cinquantasei milioni. «Sceglieremo uno di voi. Soltanto uno. E lo terremo d’occhio per alcune ore della sua vita, a sua insaputa. Per vedere come vive. Ma senza farglielo sapere.» I cinquantasei milioni si guardarono l’uno con l’altro, centravanti del Catania e chitarristi dei Baustelle, vigili urbani e tassidermisti. «Capite» concluse Ollio «se il prescelto sapesse che lo stiamo seguendo, cercherebbe di barare. Di dare di sé e della vostra razza l’immagine migliore possibile. Di dipingersi come amante dell’arte, della bella musica, della poesia, della natura e degli animali. Be’, ragazzi, vi rivelo una novità: noi siamo alieni. La nostra scala di valori è tutta diversa dalla vostra. Non sapete quali saranno i nostri criteri di giudizio.Voi

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pensate: ah, ha fatto una battuta su Ciao Darwin, allora odia la tv spazzatura. Non è detto: non sapete se Ciao Darwin ci ha fatto venir voglia di distruggere la Terra per il suo valore artistico, o solo perché il colore della giacca del quinto spettatore in terza fila per noi alieni è un affronto intollerabile. Non sapete niente. In ogni caso, sapere di essere osservato porterebbe il soggetto a comportarsi in modo innaturale. Quindi, funzionerà così: al termine del sorteggio per selezionare il prescelto, tutti, lui compreso, sarete riportati sulla Terra senza memoria di questo momento. Terminati gli esami, be’, se sarete tutti salvi, anche se non vi ricorderete nulla, vorrà dire che il soggetto ha superato il test.» Il sorteggio del prescelto si svolse in un terrificante silenzio. Alla fine, il sorteggiato fu invitato a fare un passo avanti. Era un tizio con pochi capelli, la maglietta dei Pearl Jam e uno spicchio azzurro nell’iride marrone di un occhio. «Nome e cognome?» domandò Ollio. «Gianluca Morozzi.» «Occupazione?» «Uh, scrivo.» «Gianluca Morozzi!» disse Ollio «Ora verrai riportato alla tua vita, senza memoria di questa conversazione e delle tue responsabilità. Tutto quel che devi fare è vivere. Se la tua vita sarà considerata degna, il pianeta sarà salvo.» «Ma...» provò a dire lo scrittore con la maglietta dei Pearl Jam, ma non finì la frase. Quattro secondi dormiva nel suo letto. Lui, come i cinquantasei milioni di italiani riportati alle loro vite. Mentre Little Tony, nella sua casa di San Marino, pensava Ma tu guarda che razza di sogno.

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Eleonora racconto di Alessandro Sesto illustrazione di Daniele De Batté RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO

Henry Bergson nel saggio Il riso afferma che ridere è la reazione a un’incongruenza. Sempre secondo Bergson, la più grande e quindi più comica incongruenza possibile, è vedere il meccanico, il materiale e il ripetitivo nell’essere umano, che sarebbe invece essenzialmente libero, spirituale, irripetibile. Per questo, dice il filosofo francese, ridiamo quando qualcuno inciampa e cade: durante la caduta l’uomo non appare più come un soggetto con una volontà imprevedibile, ma piuttosto come un oggetto nelle mani della forza gravitazionale. Il riso ebbe molta eco ma pochi consensi. Non tutti ridono per le stesse cose. Bertrand Russell, vedendo un malcapitato che scivolava, commentò: «Ecco le cose che fanno ridere Bergson.» Eleonora entrò in un ospedale per la prima volta all’età di tredici anni, per visitare suo nonno. Il nonno risultò essere malato terminale, e la famiglia stabilì dei turni di assistenza, coinvolgendola. Lei accettò senza entusiasmo ma anche senza lamentarsi. Dopo le prime esperienze però chiese di

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aumentare le sue ore di assistenza. Col tempo subentrò interamente al fratello, e quasi interamente allo zio. Nel corso dei sette mesi di degenza del nonno, Eleonora presenziò al suo letto molto più assiduamente di ogni altro familiare, e non per devozione, ma per gusto. Aveva infatti scoperto che stare in ospedale le piaceva. In particolare amava l’inserzione di parti meccaniche come cateteri, tubi, valvole, fili, punti metallici, nel corpo umano. Trovava affascinante anche l’effetto di analgesici e tranquillanti, specie quando la somministrazione era regolare e i pazienti avevano un altrettanto regolare ciclo di attività e dolore, gemiti e maledizioni crescenti e discendenti con ritmo e modalità costanti nel tempo. Tutto quello che concerneva i corpi malati l’attraeva, e anche semplici operazioni come un banale cambio della sacca delle urine le davano una gioia segreta. Il tempo trascorso in quell’ospedale di provincia senza scintillii ebbe un potente effetto sulla sua immaginazione, e determinò in essa la formazione di un concetto dell’uomo come di un macchinario molto manchevole, che si guasta facilmente e viene riparato in qualche modo con dei ricambi di fortuna. Questa convinzione non era il frutto di una riflessione intellettuale ma di un’intuizione. Divenne un sentimento radicato, che ebbe l’effetto quasi religioso di una forza liberatrice rispetto ai turbamenti della vita terrena. Eleonora non riusciva più a prendere sul serio i suoi genitori, i compagni di scuola, i professori, il Manzoni, il Leopardi e tutti gli altri. Tutti macchinari. Il suo rendimento scolastico e la qualità delle sue relazioni sociali precipitarono, cosa che però tutti attribuirono al decesso del nonno, che Eleonora aveva dimostrato di amare con una devozione superiore ad ogni aspettativa. Le persone che le erano più vicine intuirono che Eleonora era entrata in una fase di distacco mistico, ma pensarono che si trattasse di misticismo nella forma tradizionale e che sarebbe svanito col trascorrere del tempo. Non fu così.

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A due anni di distanza, precocemente per il suo ambiente sociale, Eleonora iniziò ad avere rapporti sentimentali e sessuali. Il suo potere attivante nei confronti del pene e, seppure in modo più mediato, nei confronti dell’intero comportamento dei suoi primi ragazzi, la sprofondò ulteriormente nella sua personale religione meccanicista. Ansiosa di sperimentare nuovi automatismi fu molto promiscua, apprese ed esercitò ogni forma di manipolazione attraverso il sesso e l’amore romantico. Come molti mistici, non fu compresa dai contemporanei, il cui giudizio sostanzialmente si riassumeva in quello del suo primo fidanzato, che icasticamente la qualificò come «una grande troia.» Dopo l’università Eleonora non desiderava studiare oltre, e ancora meno lavorare. Era bella, ma non abbastanza da farsi mantenere da un uomo davvero ricco, salvo orientarsi verso persone molto vecchie o con difetti sgradevoli. Sfruttato il sostegno familiare finché possibile, infine fece innamorare di sé un bel ragazzo, Matteo, più giovane di lei, di buon carattere e di famiglia benestante. Matteo in realtà non era in condizione di mantenerla, né d’altronde vi era un motivo socialmente accettabile per cui lei non dovesse lavorare, quindi dopo un mese di relazione Eleonora gli disse di avere la leucemia e di essere bisognosa di cure fino alla sua morte, che assicurava sarebbe stata prossima. Lui le dedicò quindi tutto il suo tempo e le sue energie, caricando sui suoi genitori, che vivevano in un’altra città, l’intero onere finanziario della loro sopravvivenza. L’aveva conosciuta mentre i genitori lo mantenevano all’Università di Lettere, e il padre accettò la novità continuando a sostenerlo senza indagare troppo. Era infatti vero che il figlio aveva abbandonato gli studi per questa fidanzata, ma non erano già prima studi proficui, e il decesso di una malata di leucemia appariva un evento più prossimo e più certo dell’ottenimento della laurea. La coppia visse quindi un lieto periodo di amore tragico senza la noia di

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impicci quotidiani quali lavoro o studio. Dopo quattro anni i genitori però, indispettiti dalla longevità di lei, la confrontarono severamente chiedendo cartelle cliniche e prove concrete della sua malattia, di cui asserirono di dubitare. Eleonora inizialmente reagì con indignazione, ma infine dovette ammettere di non avere la leucemia. Tuttavia non si arrese, non aveva la leucemia, ma aveva evidentemente una malattia mentale che la portava ad affermare falsamente di avere la leucemia, il che non era forse altrettanto grave ma insomma quasi, ed era comunque sempre una situazione bisognosa di cure. Bella e, quando parlava in suo beneficio, appassionata, fu molto convincente. Con grande sgomento di Matteo, che continuava ad amarla con la devozione di sempre, pochi mesi dopo il padre lasciava la moglie per trasferirsi in un appartamento dove si recava a vivere con lui la stessa Eleonora. Il dottor Airoldi aveva infatti subito il fascino romantico della donna giovane e tormentata, e se ne era invaghito. Insieme a questi sentimenti giovanili conviveva d’altronde la più matura considerazione che, dovendo comunque mantenere quella donna, la situazione più giusta e naturale era che se la scopasse lui. Si sposarono appena poterono. Così Eleonora trascorse i successivi dodici anni, finché il dottor Airoldi si ammalò di tumore al pancreas e morì. Eleonora, godutasi il periodo di assistenza al moribondo, da vedova condusse un’esistenza casalinga e solitaria, diventando grassoccia e sviluppando una leggera dipendenza dai social network. La pensione di reversibilità le garantiva un’esistenza tranquilla di televisione, biscotti al cioccolato, chiacchiere e flirt online. Come è noto, i mezzi di comunicazione via internet sono provvisti di numerosi gadget che consentono di esprimere in forma semplificata emozioni positive o negative: figure sorridenti o aggrottate, piccoli pollici alzati o versi, punti di reputazione positiva o negativa. In qualche mo-

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do la rappresentazione grafica e il medium elettronico esaltavano il meccanicismo degli utenti. Eleonora sapeva condizionare quelle emozioni di pixel, e la sua nutrita truppa di ascoltatori e ammiratori online suppliva efficacemente al bisogno costante di verificare la rassicurante disumanità degli esseri umani. Oltretutto, la sapiente elaborazione delle proprie immagini le permise di mantenersi molto più giovane e bella per la comunità telematica di quanto avrebbe potuto fare per persone in carne e ossa. Giunse a eliminare del tutto i contatti personali. All’età di 58 anni scivolò da uno scaletto mentre cercava di pulire sopra la credenza, e si ruppe la testa. Le cose che fanno ridere Bergson. Eleonora rimase a lungo cosciente mentre, immobilizzata, perdeva sangue. Ora mi spengo anche io, si disse, ma non immaginava una candela, piuttosto un tostapane. Prima di morire pensò che se avesse potuto filmare la sua rovinosa caduta e postarla su youtube avrebbe avuto un sacco di contatti, la gente adora le cadute. Eppure ormai la natura meccanica dell’uomo è già data per scontata dai più. Magari non è tanto il vedere l’uomo che diventa un pupazzo a interessare, quanto l’uomo che si fa male, che soffre. Infine dovette abbandonare questi ragionamenti perché non affluiva più sangue al cervello. La comunità telematica cui apparteneva si interrogò per oltre una settimana sui motivi della sua scomparsa dal web.

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Ferrania Pancro racconto di Marco Alfano illustrazione di Guido Scarabottolo

Io sono quello in alto a destra. Il ragazzino coi pantaloni corti che fa la verticale vicino al parapetto. Più lontano, dal lato delle antenne, c’è Lucia, la ragazza che sta a servizio dai Castelli – noi all’epoca le chiamavamo le serve, oggi non si usa più. Lucia sta stendendo la biancheria, e si vede solo la schiena, che si piega in avanti verso il catino che sta per terra. In primo piano, Antonio, il portinaio, con gli occhiali e il berretto – tutti i portinai portavano il berretto, qualcuno pure la divisa, nei palazzi dei ricchi. Questo non è un palazzo di ricchi, certo, ma neanche di poveri. Sotto la superficie del terrazzo – si vede nella foto l’ammattonato, con le piastrelle di cotto, un piccolo lusso – si estendono verso il basso cinque piani, ognuno con tre appartamenti. E in questo momento, nel momento in cui è stata scattata la foto, quasi in ogni casa c’è qualcuno. A cucinare, a lavorare, a letto con la febbre. A vivere. Le rare televisioni, posate su autorevoli catafalchi, si accenderanno solo la sera, le trasmissioni cominciano alle cinque.

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Fosse una giornata come le altre, dovrei essere a scuola, ma la mia classe oggi è andata in gita d’istruzione a Pompei, e io, che sono allergico alla polvere e alle cose vecchie in genere, sono stato esentato. La fotografia l’ha scattata Martino, il figlio grande di De Curtis, il ragioniere. Ha una bella macchina moderna per fare le istantanee, una Leica che gli ha regalato il cugino che sta in Germania, e oggi aveva voglia di usarla. Ci ha convocati tutti qui sul tetto, anzi sul terrazzo, che stamattina c’è una bella luce, e si vede pure un po’ di mare, in fondo. Quelli disponibili a salire su erano pochi, anzi quasi nessuno: solo Antonio e io, che gli stavo appresso in portineria, a far domande sui postini e i francobolli, sul telefonino e l’ascensore, ad aiutarlo a infilare le buste nelle buche allineate all’ingresso del palazzo. Lucia era già lì, e quando le abbiamo chiesto se voleva farsi fotografare ha risposto che no, che si vergognava, e che poi doveva stendere i panni, non poteva perdere tempo, aveva un sacco di cose da spicciare. Di tempo ne aveva poco. Pure io, anche se non lo sapevo ancora. Martino ci ha messi in posa, o quasi. Ci ha inquadrato. Eccoci qui. Fermi. Ha scattato. Io sono fermo, faccio la verticale. Sono fermo a fare la verticale da quarantotto anni. Lucia da allora è curva sui panni da stendere, e Antonio sorride instancabilmente, col cappello in testa. Da tutto questo tempo noi tre condividiamo una strana condizione, che non avremmo mai potuto immaginare, quando non eravamo ancora morti, come adesso. Morti e immobili: Lucia, Antonio ed io. Antonio ebbe un brutto male, e se ne andò dopo quattro anni. Lucia, che smise presto di lavorare, per l’artrite, e non riuscì a prendere marito, è morta l’anno scorso, in un ospizio. Io però fui il primo. Un mese dopo aver fatto quella verticale, finii per distrazione sotto le ruote di un autocarro mentre attraversavo la strada. Ero quasi arrivato a scuola.

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Da quel momento vivo – se questa è la parola giusta, ma forse non lo è – dentro questa foto. Posso vedere il mondo che ne è contenuto, anche in quei piccoli dettagli che nella pellicola sono invisibili, e posso guardare pure il vostro, di mondo, quella che dovrebbe essere la realtà, attraverso la cornice quadrata che ho di fronte. Che ha fatto scomparire Martino, la sua giacca larga, la macchina nera davanti al viso. E che sembra un piccolo palcoscenico, una finestra strana, alle volte perfino uno specchio. Certo, quel che vedo, lo vedo capovolto. Non è comodissimo, ma mi ci sono abituato. E ho imparato ad avere uno sguardo non ortodosso, ad osservare, letteralmente, le cose da una diversa angolazione. Sempre. Quando qualcuno si avvicina a guardare ne vedo il volto attento, gli occhi in basso con le due sopracciglia simili a baffoni, la bocca in alto. E capisco lo stupore di ciascuno senza bisogno di raddrizzare la prospettiva. Prima che ci incorniciassero – questa foto è esposta da nove mesi in un museo, in una collezione permanente – capitava anche che qualcuno capovolgesse la foto per poter vedere meglio la mia faccia concentrata nello sforzo. Erano piccoli momenti di vacanza, di ritorno al consueto, che ora non ho più. Ma non mi mancano troppo. Sono, siamo stati fortunati. Potevamo restare chiusi per l’eternità o quasi nelle oscurità polverose di una scatola o di un album, e avremmo avuto di fronte a noi (Lucia di spalle) soltanto un rettangolo nero e immobile. Saremmo stati costretti a passare il tempo sbirciando qua e là solo nel nostro scenario congelato, dove i colori sono assenti, tranne forse il giallo, che minimamente, poco alla volta, sta prendendo possesso del cielo, della terrazza, delle mattonelle, delle nostre facce e di tutto il resto. Ci è andata bene. Guardiamo immobili, senza farci notare, verso quel che c’è oltre il riquadro dal bordino bianco. Anche Lucia ci riesce: un frammento di vetro del finestrone

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del locale delle cisterne, che è caduto a terra, riflette quel che appare alle sue spalle. Lucia, anche se ha ossa deboli, ha sempre avuto una buona vista, e va bene così. Vi vede piccoli, distanti e un po’ sbiaditi. Ma per noi non è poi così diverso. Io lo so. So tutto questo. Lo so perché con Antonio e Lucia posso parlare. Quando nessuno ci guarda, e le luci della sala dove siamo appesi sono spente. Mi sono chiesto spesso – mi chiedo, ci chiediamo molte cose in tutto il tempo che abbiamo, dobbiamo occupare l’eternità in qualche modo – perché noi tre ci ritroviamo proprio qui, in questa particolare fotografia e non nelle altre che pure ci hanno fatto, in questo istante del tempo che abbiamo vissuto, tra i miliardi di secondi che abbiamo attraversato senza farci caso. Il motivo, chissà, è vicino a quello per il quale siamo stati sottratti al limbo del cassetto, incorniciati e messi in esposizione. Un dettaglio, magari. Che non abbiamo notato, presi com’eravamo dalla nostra posa, o dalla nostra occupazione. Quale? Non il dirigibile con la réclame dei pneumatici, che pure dà un tocco particolare allo scenario, quell’ellisse grigia nel cielo chiaro. Non la sottile curva nera sul bordo del sole, minima e quasi impercettibile eclissi, durata pochi secondi, e che noi ignoravamo. Non quel puntino rilucente al limite estremo del riquadro, riflesso della navicella sovietica che sta ritornando sulla terra dopo averci girato intorno, col suo carico di cani eroici e affamati. Neppure il fumo in lontananza, sopra il mare, prodotto dall’esplosione di una nave all’ancora nel porto. No. L’insieme di questi impossibili particolari, la sua invenzione. L’arbitrio di averli messi insieme. Nulla di tutto questo c’era davvero nel cielo, quella mattina. Neanche quel pelo sottilissimo finito sulla lente dell’ingranditore, e che sembra un punto interrogativo quasi invisibile, sopra di me. Quei dettagli sono stati presi altrove, da

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alte foto, in altri momenti. Ce li ha messi Martino. Martino che dicono sia diventato un artista, per essere stato il nostro demiurgo, l’artefice del nostro piccolo presepe fasullo in bianco e nero. Martino che non abbiamo mai piĂš visto, da allora. Di cui ignoriamo la vita e conosciamo solo un’opera. Martino che non sappiamo dire se sia una uomo o una divinitĂ , che cammina sulle mani come me, ed ha testa di cinghiale nero. Martino che odiamo con tutte le nostre forze, fino a bestemmiarlo. Martino che si è dimenticato di noi. Di toglierci da dove siamo. Di raddrizzare la schiena dolente di Lucia, di togliere il cappello dalla testa accaldata di Antonio e di farlo smettere di sorridere beota, di farmi tornare a star diritto sulle gambe, a me, che sono quello che sta in alto a destra, quello che fa la verticale.

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Il Bar sotto la neve racconto di Trap illustrazione di Dimitri Fogolin

La solita partita a scopa della domenica pomeriggio: un orecchio alla radiolina per le partite, un occhio alla schedina sul tavolo. E quattro al gioco: i montanari sono gente semplice e onesta, ma se capita l’occasione, la mossa furba la fanno. Tanto, più nessuno va al bar con la roncola. Prima sì, ma erano altri tempi, tempi che tra un bicchiere e l’altro si giocava alla mura; tempi che certa gente s’era dovuta ritirare dalle competizioni: un falegname con tre dita riesce ancora a lavorare; giocare a mura, no. Quel giorno il Tone pitùr faceva coppia fissa con il Piero soèr; l’Angelì del’ortaia era invece il socio di Pippo cavrér. Di solito lui faceva coppia con l’Aldo masadùr, che però in quel momento era a letto con la badante della mamma, che aveva il pomeriggio di libertà. Le partite di calcio erano finite da un pezzo, insieme ai loro sogni di vincite milionarie. Che poi, mica sapevano cosa farci con tutti quei soldi. Una domenica che pioveva che

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Dio la mandava, al Tone gli era venuta la malinconia; per mandarla via, Pippo gli aveva chiesto: «Te cosa fai se vinci mettiamo due miliardi al Totocalcio?» Loro, di euro, nemmeno volevano sentir parlare. «Pota, la casa ce l’ho già; la macchina, ce n’abbiamo due; a cena fuori c’andiamo quando ci pare e piace; le ferie, non c’abbiamo l’abitudine in famiglia; l’orologio d’oro me l’hanno regalato per i cinquant’anni...» Era rimasto lì un po’ a pensarci su, poi gli era venuto il mal di testa. Non era nato per fare il milionario, e neanche gli altri tre. Ecco perché non vincevano mai. A un certo punto l’Achille, il padrone del bar osteria Maià e bif, tirò lì un sacramentone che anche quelli della Tivù fecero gli occhi così. «Porcapelanda, ecco perché entra più nessuno... ha messo giù un metro di neve!» I quattro, imperterriti, finirono la partita, poi andarono a controllare. Aperta la porta, si trovarono davanti una muraglia bianca e gelida: il vento aveva schiaffato lì un paio di metri di neve, non c’era verso di uscire. «Pota, tocca che ci dai la cena!» rise il Tone. La Margherita, moglie dell’Achille, ci mise niente a scaldargli il minestrone e un pollastrello nostrano con le patatine arrosto. Il Maià e bif era già un buco di suo; con quella siberia c’erano solo loro quattro insieme ai proprietari e alla figlia, la Luisona: mica tanto sveglia, ma faceva il caffè che venivano anche dai paesi vicini a berlo. Sarà che c’aveva due tette che quando ci buttavi dentro l’occhio, prima di tirarlo fuori avevi bevuto tanto di quel caffè che potevi vincere i campionati mondiali di nervoso. Alle nove di sera aveva messo giù un altro metro e mezzo di neve, non si usciva neanche dalle finestre. Dopo la scopa erano passati alla briscola; l’Achille c’aveva dato dentro col

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camino, loro con qualche calicino di rosso della casa. Il bar sembrava proprio un rifugio di montagna: aveva ancora i tavoli e le sedie di una volta, tarli compresi, che si erano ambientati così bene da mettere su uno spaccio di segatura: la smerciavano all’oste in cambio dell’ospitalità. Brave bestiole, non davano tanto fastidio, appena un po’ quando facevano le riunioni di condominio.Volevano che l’Achille gli serviva da bere, ma reclamavano sempre: a loro il vino piaceva solo se sapeva di tappo. Fortuna c’erano appena quattro tavoli piccoli e uno grande, per quando venivano le nonne a giocare a tombola, che consumavano spuma e mangiavano il favoloso ciambellone fatto in casa dalla Margherita. Il segreto stava nella lavorazione tutta a mano: impastava la Luisona, due mani e due braccia che sembravano delle presse. Tre giorni che giocavano a carte; la neve era a più di quattro metri. La tivù aveva detto: «Ancora isolato il paese di Prato Chierico, in particolare la località Boàl.» Proprio quella dove si trovava il Maià e Bif. L’elicottero non poteva volare e i muli erano tutti in pensione. La Protezione Civile stava cercando di organizzare i soccorsi, ma gli abitanti della zona gli avevano mandato a dire di prendersela comoda: avevano buon rifornimento di viveri e di liquidi, e stare un po’ in casa al calduccio mica gli faceva schifo. A quelli del bar non gli mancava proprio niente, avevano solo il problema della carta igienica, dopo tre giorni di minestrone e vino rosso: il Maià e Bif non era attrezzato per queste emergenze. Meno male che c’erano in giro un bel po’ di Gazzette vecchie. Stanchi della scopa, della briscola e del tresette, erano passati alla briscola chiamata: siccome si gioca in cinque, presero dentro anche l’Achille.

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Saranno state le nove della sera, che bussarono alla porta. Chi vuoi che bussi, con la neve che c’è?, pensarono tutti e tirarono diritto la partita. Bussarono di nuovo. «Luisona, vai a vedere chi che c’è» grugnì l’Achille. Lei smadonnò, che stava leggendo la Cronaca Vera, ma strisciò le ciabatte fino alla porta. La sua vocina da autista di caterpillar disse: «C’è qui un pupazzo di neve che vuole entrare.» «Luisona, raccontagliela a tua sorella.» «Ma io ce l’ho mica una sorella!» «Appunto!» scoppiò il papà. E giù a ridere, con gli altri che facevano il coro. Dalla porta entrò una folata di vento ghiacciato che corse a scaldarsi le mani al fuoco. «Sera fò la porta!» urlò il papà. «Lo faccio entrare o mica, il pupazzo?» L’Achille si girò di scatto per dirgliene quattro ma cadde dalla sedia. «Po-pota, gua-guardate là!» balbettò. Sulla porta stava un pupazzo di neve, con sciarpa e cuffia di lana; sbarbellava dal freddo. «Fate entrare, per Allah! Io non uomo di neve, io spaventapasseri di Etiopia. Niente lavoro. Stronzi uccelli poco mangia, non vola, non scappa, non spaventa. Muore tutti di fame e lascia me disoccupato. Trovato questo lavoro, ma non bello. Durare poco e mangiare carote e freddo. Qui caldo, profumo minestrone e bella tettona. «Alà, porsèl!» gli gridò l’Achille «Vieni dentro, dai, che ti scaldi e con un goccio di rosso buono prendi un po’ di colore.» Gli mise una sedia sotto il culo; la Margherita gli servì il minestrone con dentro una bella crosta di parmigiano. Il rosso no, perché era musulmano. Loro invece erano tutti cristiani, che il Signore benedicesse le loro mamme. «E dove l’è la Tiopia?» domandò Pippo.

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«Et-tiopia!» singultò l’immigrato, già mezzo sconfitto dall’ubriachezza passiva. «Quella roba lì, insomma. Fa niente: ti prometto che quando ti scade il contratto ti assumo come spaventapasseri nella mia campagna. Vitto e alloggio gratis e ti metto su anche le marchette.» Sul punto di alzarsi in piedi per applaudirlo, decisero che non era necessario tutto quello spreco di energie: fecero un caloroso brindisi da seduti. Poi la Luisona portò l’ultimo giro del suo caffè prima di andarsene a nanna in compagnia della Margherita. I maschi rimasero incollati alle loro sedie: tirarono le due a cantare e raccontarsi storielle. Quelle del forestiero erano così piene di sole e di deserto che agli uomini gli si seccava la gola. Fortuna che non mancava il liquido per tenerla umida. Sarà stato per quello che dormirono tutta notte come sacchi di legna stagionata. La mattina, l’omarino bianco c’era più: vicino al camino, una pozza di acqua, e basta. I cinque ci rimasero male: va bene andar via senza salutare, ma la pipì almeno falla al gabinetto. Peccato: era anche simpatico, a parte che per il vino. «Ma tutte le religioni c’hanno i loro precetti» sentenziò la Margherita. «La nostra lascia bere il vino perché è come se fosse il sangue di Nostro Signore: tonifica e salvifica.» Gli uomini semplici di fronte al sacro non sanno che ammutolire. Uscirono a spalare la neve.

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Le mie chiappe e il mio smalto racconto di Maurizio Perelli illustrazione di Andrea Gualandri

Sono quasi le otto di sera. Io e mio marito siamo in macchina. Direzione, casa dei suoi. Ascoltiamo un vecchio cd di Jovanotti. Lui tira fuori il pacchetto di Marlboro che tiene nella tasca della giacca. Si accorge che gli sono rimaste solo cinque sigarette. Bestemmia. È sempre nervoso, quando deve vedere sua madre. L’analista gli ha spiegato che lei ha rischiato di rovinargli la vita. Mica ci voleva l’analisi, per capirlo. Non mi sembra una tragedia, gli dico, fermati in una tabaccheria. Prima che chiudano, però, sennò col distributore automatico ci serve la tessera sanitaria e ci tocca perdere un sacco di tempo, e già è tardi. La mia soluzione gli pare coerente al problema. Alla prima T nera che incrociamo, accosta in seconda fila. Scende di corsa rischiando di farsi tirare sotto da un autobus. Dopo neanche trenta secondi risale, col pacchetto e un accendino. Ci fermiamo a un semaforo, l’ennesimo, rosso. Tiro fuori dalla borsa le mie Pall Mall. Prendo l’accendino che ha appena comprato e poggiato nella buchetta vicino al freno a mano. È uno di quelli con le

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foto attaccate sulla plastica. Ne fanno di tutti i tipi: col faccione quadrato del Duce, con lo sguardo nel futuro del Che, con la faccia matta di Lennon, con le pecorelle. Il modello che ora ho in mano, invece, è di quelli coi culi. Leonardo si scusa, di fronte alla mia espressione allibita. «Manco ci avevo fatto caso... mi sembrava uno normale», dice sottovoce per giustificarsi. Taccio. Guardo le natiche sode; su quella destra c’è stampata una mano con le unghie smaltate di rosso. Non mi dà fastidio che abbia comprato un accendino del genere. Non sono arrabbiata. Non sono così bigotta, ringraziando Dio. Accendo la sigaretta e torno col pensiero indietro nel tempo, a una quindicina di anni fa... Sono una studentessa universitaria fuori sede. Al verde, perché i miei da casa non possono mandarmi tanti soldi. A Milano la vita costa un occhio e io frequento ragazzi e ragazze che, invece, beati loro, se la passano bene. Lavoro come cameriera in un pub, il mercoledì e il venerdì. Anche gli esami vanno male, quando mi ricordo di darli. Un mio compagno di corso mi dice che c’è un’agenzia fotografica che cerca belle ragazze. Tutti mi considerano una niente male, lo so. Sono consapevole delle potenzialità del mio corpo: quando cammino per strada i maschi si voltano. I più rozzi fischiano pure. Mi assicura che è una cosa seria, nulla di sporco, che il fotografo è un amico del padre di un amico di suo cugino. Mi dà il numero. Telefono. Dall’altra parte la voce di una donna mi dice che sì, hanno bisogno di una bella ragazza per delle fotografie e che la paga è buona. Prendo appuntamento per il giorno dopo. Ho bisogno di soldi. Non sto facendo nulla di male, in fondo. È un lavoro come un altro. Sono in periferia. Per arrivare ci sono voluti tre cambi di autobus. Cerco il nome dell’agenzia fotografica sul campanello di un palazzone di cemento. Suono. Seminter-

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rato, mi dice la stessa voce del telefono. Non sapendo come vestirmi mi sono messa jeans e maglietta. Mi apre una tarchiata, la proprietaria della voce, che ora ha anche un volto. Inespressivo. Si presenta: è la segretaria o qualcosa del genere. La stanza è disadorna. Ci sono soltanto una scrivania, un telefono, un computer, un telo bianco e dei faretti. Tra poco arriva il fotografo, mi dice quella, e intanto riprende il solitario su Windows che il mio arrivo aveva interrotto. Chiedo informazioni. Mi spiega scocciata che lì si fanno foto che poi finiscono in un archivio online, disponibili per la vendita. Non capisco bene, e per non fare la figura della scema, taccio. Dopo una mezz’ora arriva il fotografo. Quarantenne, mal messo, con la pancia. Cerco di saperne di più. Praticamente, mi dice, qui facciamo fotografie che poi delle aziende compreranno per usarle. Sono scettica. Lui intanto mi guarda con occhio clinico. Mi dice che si tratta di nudi artistici. Sono una ragazza seria, gli dico. Lui mi rassicura: è tutto ok, non devo preoccuparmi, uno scatto mille lire. Posso tirarne su anche una cinquantina, perché non sono male, a sentirlo. Mi dice che non scatterà foto al mio viso, che nessuno ne saprà mai nulla. Ho un po’ di timore. Faccio la fame. Mi faccio convincere. Mi spoglio tra le pareti di cemento. Sono imbarazzata. È freddo, tra l’altro. La tarchiata non mi fila. Lui, forse è gay, mi dico, per tranquillizzarmi. Penso di essermi cacciata in un casino. Dopo neanche un minuto mi ritrovo sotto i flash. Mettiti così, girati, toccati il seno, tira fuori il culo, bravissima. Bello smalto che hai. Guarda, fai una cosa: afferrati la chiappa con una mano... Peeerfetto. Dopo un po’, mi diverto anche. Alla fine mi paga. Sessantaduemila lire. Mi dice che ci risentiamo. Io penso di no, che può bastare così. «Elisa, che hai? Sei sovrappensiero», chiede mia suocera durante la cena.

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«No, niente... scusatemi...» Mi alzo per andare sul terrazzo a fumare. Chiedo a mio marito da accendere. Mi ripassa il mio culo. La mamma nota l’accendino, chiaramente disapprova. Esco. Me lo rigiro tra le mani. Me lo infilo in tasca. Torno di là. Dopo, in macchina, lui mi chiede da accendere. Gli dico che gliel’ho ridato. Dice di no. Insisto. Si arrende. Del resto li perde di continuo, gli accendini. La notte, a letto, non dormo. Alle cinque mi alzo. Vado in salotto. Mi rigiro il mio sedere tra le dita. Proprio sopra il mio culo c’è scritto Foltro. Accendo il computer e immetto questa parola senza senso in Google, il quale mi indirizza a una pagina web di un’azienda di Ascoli Piceno che vende all’ingrosso oggettistica spicciola. Nella homepage c’è scritto che fol sta per Follini e tro per Troiani, i due proprietari della baracca. Torno a letto. Dormo malamente. Il pomeriggio seguente mi decido. Scrivo una mail simpatica dove spiego a Follini e a Troiani l’assurda situazione. Sono curiosa, voglio saperne di più. Descrivo dettagliatamente il modello di accendino, culo e smalto. Invio. Controllo ripetutamente la mia casella per tre giorni. Dopo mille spam e duemila notifiche Facebook, la Foltro finalmente mi risponde: Gentile signora Elisa tutto quello che possiamo dirLe è che l’accendino per cui Lei hai posato è prodotto a Fozhou, in Cina. Non sappiamo quanti ce ne siano in giro per il mondo. Per l’Italia la Foltro ha l’esclusiva sull’intera linea. Stimiamo una presenza, tra residui di magazzino e venduto, di circa cinquantamila pezzi. Questa è forse la mail più assurda che abbiamo mai scritto.

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Salgo in macchina e torno in quella tabaccheria. Il mio culo è ancora lì, nell’espostiore sul bancone. È circondato da altre arrapanti anatomie di ragazze probabilmente inconsapevoli quanto me di essere commercializzate da due soci di Ascoli Piceno. Vedo il prezzo: un euro. Compro un pacchetto di sigarette. Cinquantamila euro è il valore del mio culo. In Italia, per lo meno. Ma di certo, paesi musulmani a parte, sono praticamente in tutto il mondo. Non io, giusto le mie chiappe e il mio smalto. Rido, tornando a casa. Forse è isteria. Sono un oggetto riprodotto. Sono un elemento in una catena di montaggio. Sono un oggetto doganale. Ho il culo venduto in chissà quante valute. Le mie belle natiche sono state comprate dai cinesi. E forse sfruttano il lavoro minorile. Leonardo rientra che sono passate le otto. La cena è pronta. Dopo il caffè tiro fuori l’accendino, che nel frattempo ho conservato, ovviamente, come una reliquia. «L’ho ritrovato. Cosa pensi, di questo culo?» Teme una scenata di gelosia. Insisto.Tace. Insisto. Ha paura. Si scusa. Insisto. «Si, non è male... ma non volevo comprarlo! Che palle...», sbotta, stremato. «Ti piace di più questo o il mio?» «Il tuo, perché è vero» risponde sicuro, di getto. Sorrido. Lo abbraccio. Lo bacio. Non gli spiego tutta la storia. Se è andata così, mi dico, ho proprio un bel culo.

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Valzer per marionette racconto di Luca Dore illustrazione di Luca Fabbri

Sono le cinque quando accendono le luci del refettorio. È il momento del cenone di mezzanotte per tutti quelli che, come te, riescono ancora a raggiungere la sedia senza deambulatore, per quelli che riescono ad aprire le confezioni di plastica dura e bucare con la forchetta il cellophane della mensa. A te le infermiere e le ausiliarie sorridono ancora; di fronte agli inabili invece le vedi infastidite agitare le mani e divellere le linguette con stizza, avvicinare le sedie al tavolo e dire Non ti sporcare e infilare fazzoletti di spugna dentro il collo dei pullover. L’infermiera giovane è quella che di solito ti versa l’acqua e non te lo fa pesare, forse perché quando torna a casa la sera ha ancora vent’anni. Andavi a cavallo tu, a vent’anni. E il cenone di mezzanotte cominciava a mezzanotte. E non c’era valzer che non fosse per voi, per quella libellula dalla risata sottile che era bello veder danzare senza stancar-

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si fino alle cinque del mattino. Cosa ti fa pensare che qualcosa sia cambiato da allora? In fondo andavate a letto alle cinque del mattino e oggi cenate alle cinque di sera. Qualcuno in modo barbaro ha semplicemente spostato le lancette, ha rallentato gli ingranaggi, ha invertito gli AM e i PM. Qualcuno ha deciso che l’ultima goccia di vigore presente nel tuo corpo ti permetta ancora piccoli movimenti senza ambizione, anche se le parole, quelle che un tempo facevano di te il re della conversazione, quelle sono rimaste saldate per sempre alle pareti della gola e nulla viene fuori che non sia un rantolo, un sospiro, un colpo di tosse, certe volte un Bah! Per stasera vi hanno promesso il vino, se vino può definirsi questa alchimia beffarda di uva e gassosa. «Oggi ci sbronziamo forte...» dice il tizio a fianco a te, sputandoti in faccia un soffio violento che, se avesse ancora i denti, potrebbe rivelarsi una risata. Tutti conficcati dentro al piatto, come maiali all’abbeveratoio, distratti dal neon che di tanto in tanto si concede piccole scosse. Col solito carosello di cucchiai e risciacqui di bocca, come se non fosse nemmeno l’ultimo dell’anno, procede naturale e senza intoppi anche questa serata. Almeno fino a quando l’aiutante delle infermiere, quella specie di zotico mezzo scemo che viene a dare una mano alla mensa alle feste comandate, quel figlio di cretini che non è altro si mette in testa di far suonare un disco per allietarvi la cena. È il modo migliore per farvi sentire tutta la pesantezza del momento. Perfino la forchetta sembra di piombo fuso. Ma chi gliel’ha detto? Chi lo ha permesso? Quel pazzo criminale ha deciso la tua serata. Con la sua faccia da guappo e con quel disco di valzer triste e polveroso, che pensavi di aver dimenticato per sempre. Non lasciarti coinvolgere.

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Fatti accompagnare dall’infermiera giovane fino alla camera e ordinale di spegnere la luce. Obbligala a chiudere la porta. Non vuoi sentire altro se non i tuoi capelli che graffiano sul cuscino. Tutte storie. Sai bene che è troppo tardi; sei già coinvolto. Quel valzer maledetto è il diavolo che l’ha mandato. E forse l’aiutante delle infermiere è un suo suddito, emerso dall’inferno per costringerti a ricordare. Con la sua faccia da scampato alla meningite fa girare il disco ed è come se ti portasse a braccetto nel vostro salone luminoso di venti, trenta, cinquant’anni prima, addobbato a festa per il Capodanno di paese. Scendi le scale con tua moglie, e tutti applaudono e fischiano al re e alla sua regina e molti non vedono l’ora di ballare, che gli organetti sembrano animati a manovella da quanto corrono. C’è tutto il paese, come ogni anno. E voi avete fatto arrivare i fiori migliori, e quintali di dolci secchi e avete tirato fuori il vino nuovo e gli agnelli. Il primo valzer è il vostro e sembra interminabile. Dopo di voi tutti possono ballare, anche i figli con le mogli straniere con le macchine straniere coi nipoti che non parlano italiano. Maledetto. Il vostro valzer nelle mani di un minchione che beve birra appoggiato allo stipite della porta. Nemmeno un’infermiera che si avvicina a pulirti il muso. Le vostre cento luci della sala delle feste raggrumate in un neon ronzante e velenoso. I vostri dolci sbriciolati, brutalizzati, condensati nel biscotto che l’infermiera sta per spingervi in bocca. Il vostro vino umiliato in questo piscio rosaceo che sa di medicina. Tu preferisci fissare il pavimento e la fetta di pane che ti è caduta all’inizio della cena e che troverai nello stesso punto domattina. Anziché piangere come fanno più o meno tutti in questo

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momento, mediti vendetta. Sei deciso a spendere l’ultima risorsa di vita sollevandoti e stringendo nelle mani il bicchiere di vetro, concesso ancora a chi può reggerlo. Vorresti la mira di un tempo per centrare il minchione sulla fronte, ma subito un’infermiera ti si fa accanto per sostenerti. Per sgridarti. Per punirti. Vorresti sfigurargli il viso, cancellarlo dalla vista. Ma dimentichi che sei solo una marionetta fiacca, dal giorno in cui una nuvola nera ha portato via lo spirito di tua moglie e le ha mangiato l’anima, e ti sei ritrovato nel salone delle feste a piangere da solo il fatto che la donna al tuo fianco non ti riconoscesse più. Non troverai la forza per ricacciare all’inferno quel valzer maledetto e il suo dannato banditore. «Cosa c’è?» ti chiede un’infermiera, «Cosa c’è?» incalza. «Si sieda» fa un’altra. «Cosa vuole fare?» ti chiedono, come si usa coi bambini. Tu col bicchiere in mano ingoi una lacrima di rabbia e lasci che si mescoli al passato di verdure e al vino e alla gassosa. Ti guardi intorno e non sei più nemmeno convinto del tuo gesto. Falliresti. Sono finiti i tempi della caccia al cinghiale, del braccio fermo, del girovagare per tutto il paese con la bestia sopra il carro. Evita finché sei in tempo. Il bicchiere finirebbe a cinque centimetri da te, sui calzoni di lana grigia del compagno di mensa. Ma al centro della sala, gravata della tensione nervosa delle infermiere, sei in ostaggio del tuo stesso imbarazzo quando senti improvvisa una fiamma che attraversa la gola. Stanno ritornando, anche se per un momento. «Cosa vuole fare?» urla l’infermiera. Parole. È un miracolo. Un miracolo di rabbia.

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È il tuo regalo per l’ultimo dell’anno da parte di Nostro Signore: un pugno di parole, mentre tutti ti osservano sbigottiti; alcuni si fanno accompagnare a letto perché non resistono allo spettacolo di una vecchia marionetta che muove gli occhi con cattiveria e sputa fuori bava. Il tuo dono improvviso: un pugno di parole. Non sprecarle. La bocca è una vecchia bara che si schiude dopo secoli di buio. «Un brindisi», dici soltanto. E un attimo dopo tutti ridono e piangono e dicono auguri e buon anno.

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Le sorelle racconto di Francesca Marchegiano illustrazione di Arianna Papini

Ti ho camminato dietro e tu avevi un vestito bianco a maniche corte uguale al mio, ma di quattro taglie più grande. E avevi la scollatura che era un principio di essere donna, anche se nove anni, solo nove ti stavano sulle spalle. E avevi i capelli raccolti per sembrare signora, ma a me sembrava la cresta di un gallo tutta dritta così. E avevi in mano il ventaglio di cocco della nonna. Lo tenevi sempre tu. Era uno scettro, faceva la differenza. Era l’ala spezzata di un gabbiano, che battuta con forza ti avrebbe portata fin sopra le onde. Ti camminavo dietro e tutt’e due andavamo sul bordo della strada, proprio sulla riga tra l’asfalto e l’erba. Tra l’andare a scuola e il giocare. Tra i piedi nudi e le scarpe. Camminavi dritto e io ti venivo dietro inciampando nel mio vestito, bianco come il tuo. Anzi, proprio il tuo, che da poco ne avevi un altro. Così me lo tiravo su, stringendo pugni di stoffa. Camminavi davanti perché eri più grande e veloce, e perché avevi il ventaglio di cocco. Passavamo sotto un filare di

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palme, verdi asterischi contro il grigio del cielo, mentre dalle case usciva odore di banane fritte e di pollaio dai cancelli senza la porta. Tu camminavi ed eri contenta che eri più alta, che avevi il vestito nuovo e che io dietro sembravo la tua damigella.Tenevo un invisibile strascico: quattro anni di differenza, quaranta centimetri d’altezza, quattrocento domande che iniziavo a fare e di cui tu già sapevi ogni risposta. Anche da dietro ti vedevo il sorriso, perché le guance ti salivano tonde fino alle orecchie. Con guance così, i tuoi occhi sempre luccicavano neri. Mi camminavi davanti ed eri un faro con i punti più scuri dei gomiti. Anche ad occhi chiusi avrei potuto seguire la strada, perché strisciavi le infradito di gomma sopra l’asfalto. Con quei talloni chiari alla fine di gambe carruba. Camminavi così, e intanto una macchina grigia dal fondo si faceva più grande e dal centro della strada di lato. Il tuo, il nostro. Ma tu continuavi il passo deciso e la macchina anche, ma sempre più piano che le si vedevano le ammaccature davanti e il vetro con due mezze lune pulite, tra polvere e sabbia. Mi si è slacciato il fiocco, quello dietro la schiena. Mi sono fermata a guardare i nastri bianchi, che improvvisi pendevano ai fianchi. Visti così sembravano lunghissimi e impossibili da far tornare dietro senza l’aiuto di un grande. Il tuo, quello della mamma. La macchina intanto era ferma. Ho alzato la testa per chiederti di aspettarmi e allacciarmi. Tu eri lì, senza più guance vicino alle orecchie. Lì con il ventaglio in fuori come a dover colpire una palla. Ho guardato in su, ma niente cadeva dal cielo. Nella macchina un uomo sorridendo si è abbassato di lato, poi si è aperta la portiera dove non era seduto nessuno, e il sorriso è tornato dritto dietro il volante. Teneva una bambola in mano, piccola e rosa. Con i capelli colore del mais, non crespi e ricci com’erano i nostri. Sembrava sua figlia, aveva la pelle dello stesso colore. Le ha fatto fare Ciao

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con la mano verso di me, alzandole il braccio. Le ha accarezzato la testa. Io ti ero ferma alle spalle, a tanti passi quant’era la distanza di un vestito slacciato. Ho provato a farci il nodo da sola, mentre camminavo verso la macchina per vedere da vicino la bambola. Ma tu hai detto No!, a quella voce all’interno dell’abitacolo. Che forse avevo sentito nella nostra cucina, qualche notte che eravamo già a letto e poi si tendeva un filo dritto di luce dov’era la porta, e la mamma ti chiamava di là. E poi non si sentiva più niente. Hai continuato con Sì e con No e silenzi che non erano nostri. Con me non abbassavi mai la testa così. Anch’io la tenevo bassa, con gli occhi sulla pancia, per riuscire a stringere in fretta quei nastri. Bassa per lo sforzo, per fare presto e raggiungerti. Poi la portiera ha fatto rumore di nuovo. E quando ho alzato la testa, c’era solo una riga lunghissima che divideva l’asfalto dall’erba.

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Giovanni “John” La Guaina racconto di Roberto D’Agostin illustrazione di Daniela Volpari

Gli speroni agli stivali producevano un suono quasi natalizio. I quattro vecchi al tavolo interruppero la partita a carte per voltarsi e guardarlo: di certo quell’uomo non era di lì. Un passo alla volta si avvicinò al bancone e vi appoggiò il cappello. Aveva la gola secca come quella di un dannatissimo canyon. «Whiskey», disse. Bevve il bicchiere d’un fiato, poi si ficcò un sigaro in un lato della bocca con una specie di smorfia di disgusto. Prese un fiammifero dal taschino della camicia. Lo sfregò sul bancone. Si accese il sigaro. «Mi scusi signore», disse il barista indicando un cartello appeso al muro, «non è consentito fumare nei locali pubblici. Dal gennaio del 2005.» «Sto cercando Clemente Bianchini», disse lentamente Giovanni La Guaina, ignorando le parole del barista. «Temo che il povero Clemente sia morto proprio ieri, signore, mi dispiace», gli rispose il barista. «E, per favore, vada

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a fumare fuori.» Giovanni La Guaina socchiuse gli occhi in un’espressione controsole e li rivolse a un orizzonte immaginario. Poi, riportando lo sguardo al barista, si tolse il sigaro di bocca, lo gettò per terra e lo disintegrò con ripetuti passaggi in senso orario e antiorario della punta dello stivale. Uscì, montò su un cavallo dal destino di bistecca dura e stoppacciosa, e trottò maldestramente verso la direzione che scelse l’animale. Arrivò alla città vicina un paio d’ore più tardi. Quando il cavallo decise di fermarsi, Giovanni La Guaina ormai credeva di non avere più il culo. Una volta sulle sue gambe, cominciò a perlustrare i muri della città in cerca di affissioni che gli indicassero i fuorilegge da restituire alla giustizia. Benché il bingo nel vecchio west non esistesse ancora, quando trovò il suo ricercato disse proprio «Bingo!» e, come d’abitudine, decise per prima cosa di informarsi al saloon, anche perché aveva la gola secca come quella di un dannatissimo canyon. Appena entrato, fu preso in giro per il suo abbigliamento da certi ragazzi che tirarono in ballo il ristorante indiano a fianco. Giovanni La Guaina si limitò ad avvicinare la mano al cinturone e ordinare un whiskey che bevve come fosse acqua, malgrado una forte gastrite. «Sto cercando Carmelo Della Vedova», disse rivolto al barista. «È mio nonno», disse uno dei ragazzi, di colpo serio. «Anzi, lo era. È morto ieri.» Giovanni La Guaina, aprendo appena la bocca e stringendo fra i denti un nuovo sigaro, farfugliò qualcosa che suonava come «maledizione.» Cominciava ad essere un po’ ubriaco. Non era facile abituarsi a tutti quei whiskey di prima mattina. Uscì dal locale barcollante, imprecando a bassa voce contro quel suo misterioso rivale che da giorni lo precedeva sistematicamente e senza sbagliare un colpo. Poi si guardò intorno non sapendo bene cosa fare .

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In fondo alla strada, proprio in mezzo alla strada, vide un uomo che lo fissava con insistenza. «È lui. Non può che essere lui», pensò, benché si trattasse della statua di Cavour. «È lui, e a quanto sembra vuole togliermi di mezzo.» Con lentezza risoluta si piazzò a sua volta in mezzo alla strada, proprio sulle linee di sorpasso, e lì aspettò, pronto ad afferrare la pistola al primo percettibile movimento di Cavour e infilargli una pallottola in mezzo agli occhi. Mentre le macchine gli passavano vicino strombazzando e mandandolo al diavolo, i passanti cominciarono a raggrupparsi incuriositi sui marciapiedi, facendosi domande, riprendendo la scena col telefonino, o semplicemente chiamando i vigili urbani. Qualcuno l’aveva riconosciuto, l’aveva già visto da qualche parte su YouTube. C’era chi diceva fosse una trovata pubblicitaria, chi una candid camera. I cinefili l’avevano preso a simbolo citazionista, i neosituazionisti a simbolo neosituazionista, i gay a icona gay e via dicendo. Poi arrivarono i giornalisti e anche i vigili urbani, che nel dubbio che quella fosse una vera Colt non sapevano bene come comportarsi. In tutto questo Giovanni La Guaina aspettava teso e concentrato, le braccia sospese lungo i fianchi e la faccia in primissimo piano, trasformando i clacson in scacciapensieri e gli insulti in cori epici. I minuti passavano. Pian piano, Giovanni cominciò a ricordare. Ritornò con la mente a quando aveva deciso di rivedere Per un pugno di dollari in lingua originale sotto una dose sconveniente di un allucinogeno fatto in casa. Si rivide mentre indossava un vecchio costume da cowboy e comprava un cavallo al macello, mentre si spostava di paese in paese e di città in città scambiando gli annunci mortuari per wanted poster, ossessionato da un immaginario rivale che altri non era se non la morte stessa. Ora era in mezzo alla strada, e quello laggiù era Cavour. Mentre arrivava a questa conclusione, lo specchietto laterale del 27 barrato

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lo colpì in piena nuca. Quando riprese conoscenza, Giovanni La Guaina era di nuovo convinto d’essere un bounty killer sistematicamente preceduto da un infallibile rivale che noi sappiamo essere la morte. Riaperti gli occhi, si vide circondato da infermieri, qualche giornalista regionale e un paio di cinefili che trovavano la scena irresistibilmente postmoderna e lo riprendevano col telefonino. Una giornalista poco distante spiegava al microfono e alla telecamera, quindi ai telespettatori, che Giovanni La Guaina, da poco soprannominato “John”, lavorava in un negozio di abbigliamento femminile. Uno psicologo trovato lì per lì sosteneva di essersi da sempre battuto contro i rischi del cinema western; un altro psicologo, nemico dell’altro, riteneva invece che il caso fosse da interpretare come una naturale reazione alle voci sulla sua omosessualità. Giovanni La Guaina detto “John” si alzò, si spolverò la camicia e si ricordò immediatamente del rivale con cui stava duellando poco prima e che noi sappiamo essere la statua di Cavour. In quell’istante, un uomo vestito di nero che stava perdendo l’autobus e che poteva effettivamente ricordare un po’ Cavour gli sfrecciò accanto reggendosi il cappello. Giovanni La Guaina detto “John” non ci pensò su: afferrò la pistola, si piegò sulle ginocchia in una posizione da surfista e fece fuoco. Dopo un primo spavento generale tutti capirono che la sua era una pistola giocattolo, di quelle che fanno solo rumore di petardo. Ma quel breve momento di panico fu fatale a un anziano curioso che si accasciò a terra, colpito presumibilmente da infarto. Allora il gruppo di persone che attorniava Giovanni La Guaina detto “John”, composto da curiosi, infermieri, giornalisti e cinefili che trovarono la scena molto realistica, si spostò uniformemente di qualche passo ad attorniare il povero anziano. Giovanni La Guaina detto “John” si fece largo tra le persone che aumentavano sempre di più. Riuscì ad avvicinarsi al povero anziano pro-

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prio mentre gli infermieri ne annunciavano la morte. Ci fu un lungo silenzio. Uno dopo l’altro tutti si voltarono a guardare Giovanni “John” La Guaina, che in fondo era il responsabile di quella tragedia. Giovanni se ne accorse, mentre gli occhi gli si inumidivano; si portò il cappello al petto e cominciò a parlare. «Giudicatemi» disse «giudicatemi pure, perché oggi ho capito una cosa. Non bisogna voler essere a tutti i costi ciò che non si è. Un cowboy vive a stretto contatto con la morte, la cerca, a volte la procura, e non importa se a fin di bene. E una società senza regole o basata sulla legge del più forte è una società della morte. La morte invece mi spaventa e mi fa soffrire. La dipartita, il trapasso, il decesso, la scomparsa, comunque la si chiami, è una cosa brutta. Tutti dobbiamo morire, sì, anche tu, ragazzino, e nessuno può vincere la propria personale battaglia con la morte. Ma possiamo vincerla tutti insieme, generando più amore e gioia di quanto dolore e odio lei riesca a procurare a noi. Ora diamoci la mano e stringiamoci in cerchio attorno a questo cadavere di anziano curioso, e diciamo tutti insieme no alla morte!» «No!» urlò in un boato la folla che ormai riempiva tutta piazza Cavour.

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Io sono l’altra racconto di Edoardo Brosio illustrazione di Faber

E così vado all’appuntamento, santo cielo. E Boo è lì che mi aspetta, con la sua aria alla Holly Golightly, davanti a questo negozio di abiti da sposa: un atelier di periferia con sette vetrine di manichini senza testa che sembra un rivenditore di macchine usate. Si è tagliata i capelli, quella strega. Se li è tagliati davvero, santo cielo. E allora le dico Boo, prova soltanto a dirmi che l’hai fatto per quello stupidissimo tizio con cui hai passato la notte e giuro che ti uccido. Boo si vede con un poliziotto. Non è ridicolo, santo cielo? Non so nemmeno se questo tizio ha un nome, perché lei non fa che chiamarlo il poliziotto. Me lo immagino alto e coi baffi, una specie di spilungone in bianco e nero scappato fuori da una comica a due rulli. Deve essere romantico, a modo suo, e terribilmente goffo. A Boo piacciono i tipi così. A Boo piacciono gli uomini che le siedono accanto nervosi e a un certo punto le afferrano la mano e tentano di infilarle un anello al dito sbagliato. Lei salta su dicendo che non è affatto uno stupido, e che

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sì, ha passato la notte con lui, e che magari se lo sposa anche, il poliziotto, perché lui ha davvero un modo meraviglioso di essere nervoso ogni volta che si baciano in pubblico. Io nemmeno la sto a sentire. Chi non parlerebbe di matrimonio davanti a un negozio di abiti da sposa? Eppure sarà per via del suo nuovo taglio di capelli, ma mi viene spontaneo trattenere il fiato. Da piccola, tutte le volte che cadevo dalla bicicletta, per la paura smettevo di respirare e poi svenivo. Questa storia del poliziotto è come una caduta dalla bicicletta: vorrei battere la testa sul marciapiede e non pensarci più. Ma faccio finta di non dare importanza alle sue chiacchiere e inizio a tormentarla un po’ su questo suo meraviglioso fidanzato, al che lei attacca a raccontarmi una storia assurda su un certo film di Buster Keaton e un tizio a cui dobbiamo correre dietro con addosso degli abiti da sposa presi a nolo, che poi è il motivo per cui siamo qui; così va a finire che mi trascina dentro il negozio e del poliziotto non ne parliamo più. Un passo oltre la soglia dell’atelier ci investe un odore dolciastro di fiori appassiti da togliere il fiato. Il pavimento è una distesa di manichini spogliati e fatti a pezzi, una gran confusione di braccia e gambe e busti di plastica, e ovunque giri lo sguardo ci sono ragazze con i capelli rossi che si provano abiti da sposa. Quando Boo si mette in testa di coinvolgermi nelle sue storie bizzarre, io non discuto. O magari sì, magari metto su una luna di traverso e faccio di tutto per rovinarle la giornata; ma poi, santo cielo, lei è mia sorella, lei è Boo, e io non riesco nemmeno a respirare, se non ce l’ho tra i piedi. Boo non si chiama davvero Boo. Si chiama Didi. Siamo Sara e Didi, ma io la chiamo Boo e lei fa lo stesso con me. Quando eravamo piccole abbiamo pensato che, visto che eravamo identiche, non c’era ragione perché avessimo due

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nomi diversi. Che assurdità, santo cielo: perché Sara e Didi, quando potevamo essere entrambe Boo? Ci siamo sempre capite al volo, io e Boo. Nemmeno avevamo bisogno di parlare, una volta. Per anni non abbiamo fatto altro che giocare a confonderci e a confondere gli altri. Se qualcuno mi chiedeva chi sei delle due?, rispondevo sempre io sono l’altra, e Boo faceva lo stesso. Cerco un posto per sedermi e prendere fiato, ma Boo mi mette un abito da sposa in mano e mi dice provati questo. Mi accorgo che lei ne ha già indossato uno che le sta divinamente e inizio a sentirmi davvero male, peggio di prima se è possibile, perché lei sembra al settimo cielo e so che potrebbe anche decidere di non toglierselo più. Ed è a questo punto che vedo le due ragazzine. Due deliziose gemelle con i capelli rossi. Nemmeno si accorgono della baraonda che sta loro intorno, prese come sono a disegnare chissà cosa su un album che, ci scommetto, deve essere pieno di scarabocchi meravigliosi. Sembrano tenute assieme da un filo invisibile, santo cielo: legate da un filo rosso come il colore dei loro capelli. Anche io e Boo ne abbiamo uno uguale, ma ultimamente, ogni volta che ho bisogno di lei, mi tocca percorrerlo tutto, e praticamente è un po’ di tempo che non faccio altro che essere terrorizzata dall’idea che prima o poi non troverò più nessuno all’altro capo e me ne starò lì, a fissare il niente, con un grosso gomitolo rosso in mano, senza più la forza di andare da nessuna parte. E allora prendo su il mio vestito e mi metto in cerca di Boo, e quando la trovo provo un po’ a piagnucolare e le dico Boo, tesoro, è proprio il caso che mi metta addosso questo vestito?, ma visto che non attacca insisto e le dico santo cielo vuoi darti una calmata e spiegarmi per filo e per segno in che cosa ci stiamo cacciando?

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Ma di nuovo non c’è tempo per le spiegazioni. Le spose con i capelli rossi si riversano in strada e io cerco solo di stare dietro a Boo, che già non sta più nella pelle e che se potesse schizzerebbe via a rotta di collo fino a casa di quel poliziotto di cui è tanto innamorata. Ogni tanto qualcuna delle ragazze mi si avvicina e tenta di scambiare due parole, ma io me ne sto zitta e mi tiro giù il velo o fuggo avanti fingendo di essere presa dalla faccenda della corsa, come se provassi qualche scatto per vedere se così conciata riuscirò a fare la mia parte. Sembra che quella scappata fuori da un film muto sia io, quella che se non è chiusa dentro la sua pellicola non sa come comportarsi e sembra una svitata o che so io. L’unica cosa che mi viene in mente e che potrei dire è che io sono l’altra, io sono l’altra, anche se poi nessuna di loro capirebbe. Nessuna di loro ha il minimo dubbio su chi sia io delle due. Quanto a Boo, lei nemmeno fa lo sforzo di capire la mia situazione, e sembra quasi che se ne stia un po’ alla larga, come si vergognasse del disastro che sono. Lei parla con le ragazze e si fa grandi risate e tutto quello che riesco a pensare mentre la guardo è che il gomitolo sta diventando sempre più grosso e che, se tanto mi dà tanto, manca davvero poco alla fine del filo. Ci fermiamo di fronte a un vecchio stabile che cade a pezzi, ma non c’è bisogno di aspettare tanto, perché senza che nemmeno riesca a vederlo far capolino dall’ingresso, un ragazzo è già schizzato fuori dal portone e sta correndo via, con la strada che gli scivola via da sotto le suole delle scarpe e noi che gli andiamo dietro, agitando i nostri bouquet, come un esercito bizzarro. Ai lati della strada c’è tutta questa gente, che lo guarda fuggire e guarda noi che lo inseguiamo e intanto ride. Io mi incollo a Boo e cerco di prenderla per mano, ma lei si stacca e dice che se le sto addosso a quel modo non riesce a correre. Allora le grido dietro Boo, io questo vestito vorrei

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proprio togliermelo, adesso, santo cielo. Le dico basta, levati quel velo dalla testa. Le dico torniamo a casa, ora, ti prego. Ma lei niente, non accenna a rallentare. Le chiedo se ha notato quelle due ragazzine, al negozio; se le ha viste bene, santo cielo, e se ha fatto caso a quanto si assomigliavano, loro due. Se non le manca qualcosa, di quella vita, del gioco di confondersi e confondere gli altri. Lei si gira verso di me e non dice una parola: mi guarda e basta. E allora mi fermo. Basta un attimo che già l’ho persa di vista, e non c’è modo ora di riconoscerla in mezzo a tutte le altre, tutte queste ragazze che sanno il suo nome, che la chiamano Didi, che non si sognerebbero mai di chiamarla Boo. Non lo so più se Boo esiste. Lei è Didi. Didi che parla, Didi che sa parlare, Didi che è stata la prima ad abbandonare quel linguaggio tutto nostro, che nemmeno era fatto di parole; come se quel cinema muto in cui ci eravamo rinchiuse non le bastasse più, come se le parole degli altri fossero la sua unica chance di poter essere riconosciuta, distinta da me. È a quel punto che giro i tacchi. Ho voglia di tornare al negozio, cercare quelle due deliziose ragazzine, dare un’occhiata al disegno che hanno fatto, ricordarmi ancora una volta cosa significa essere così legate assieme da confondersi e dimenticare chi si è delle due. Non me n’è rimasto uno, di quelli che abbiamo fatto io e Didi, quando avevamo la loro età. Un giorno li butti via, quegli scarabocchi, e mica ci pensi che potresti averne bisogno ancora, per tentare di cavarci fuori un sorriso. Dirò loro di conservarlo. Prima o poi ne avranno bisogno. Quando anche il loro filo inizierà ad allungarsi, a diventare più sottile. Quando una si fermerà davanti ai negozi di abiti da sposa e l’altra cercherà di trascinarla via. Quando una correrà dietro all’amore e l’altra cercherà in ogni modo di scapparne via. Quando tutto questo accadrà anche a loro.

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La begonia racconto di Rosanna Spinazzola illustrazione di Margherita Allegri

Con le mani sui fianchi guardo lo spazio vuoto tra un vaso e l’altro. Deve essere stato il vento di cui hanno parlato i telegiornali a farlo cadere, la coda di una specie di ciclone con il centro a diversi chilometri da qui, con i suoi temporali periferici. Deve essere stato quello. Ma è impossibile, perché non ci sono cocci rotti per strada, in basso, oltre la balaustra. C’è una stufa. Incredibile cosa tenga la gente sul balcone. Era la pianta preferita di Luca: una rosa Baccarà. Mentre prendo la paletta e lo scopettone per pulire i resti di terriccio di forma circolare, penso che potrei buttare via le altre e farla finita, una volta per tutte. Ma come spiegarlo a Elvira? Lei, la mia bambina, che è così contenta di vedere sbocciare le rose a primavera. E l’ibisco, i gerani, i ciclamini. Tutti i suoi dodici anni racchiusi in queste stupide piante che infestano la casa. E d’un tratto gliele strappo via? No, non potrei farlo. Non io.

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Il rubinetto dov’è attaccata la pompa innaffiatrice gocciola anche quando la rotella è chiusa. Dovrei sostituire la guarnizione, se solo sapessi farlo. Era Luca quello bravo con le riparazioni, non io. Io facevo il resto. Lui aggiustava le cose rotte, e faceva crescere le piante. Le loro foglie si arrampicavano sulle pareti del suo mondo. Ne delimitavano i confini. Per questo lo amavo. Ne avevo bisogno: non di lui, ma di essere riparata, e di fiorire come una camelia. Qualcosa deve essere andato storto. Fin dall’inizio, ora lo so; tuttavia ho atteso a lungo prima di accettare che non c’era mai stata terra sufficiente per le mie radici, in quei vasi. Io odio le piante. Non le sopporto perché con me non durano, non ho il pollice verde.Tutto quel fiorire ogni volta mi sbatte in faccia i miei limiti. Stanno morendo, una dopo l’altra. Ci ho provato a prendermi cura di tutte queste foglie, del terriccio e dell’innaffiatura. Ci ho provato, davvero. Ma la verità è che mi tolgono l’aria, mi rubano lo spazio. Mi sento in competizione. La scopa nello sgabuzzino ha il manico arrugginito e ogni tanto perde lo spazzolone. Si stacca. Dovrei smettere di cercare di ripararla e comprarmene una nuova. «Dov’è la rosa?» «Andata.» Gli occhi di Elvira si riempiono di lacrime, di colpo. «Cattiva!» Cattiva, io? Io sono quella buona, quella che è rimasta. Quello cattivo è andato via. Elvira piange a singhiozzi con il viso affondato nel cuscino del divano. Proprio non mi riesce di riparare le cose.

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Il ticchettio della pompa non mi faceva dormire. Ho escogitato un sistema per attutirlo: ci ho infilato sotto la begonia. Così magari si strozza da sola, goccia dopo goccia, liberandomi. Un buon inizio. Non successe di notte, fuori non pioveva, niente tuoni e fulmini, nulla di catastrofico. Pomeriggio, sole, profumo di caffè. Guardavamo le foto del matrimonio, di Elvira, dei nonni. «Me ne vado.» Tutto qui. Stretta tra le mani, una foto della prima fioritura di quella maledetta Baccarà, con i suoi petali quasi neri. Non afferrai immediatamente il senso di quelle parole. «Me ne vado» ripeté. «Ho capito» risposi sottovoce. Ma non avevo capito niente. «Hai tolto tu la rosa di papà, vero?» ha continuato a chiedere Elvira. Oppure «È tornato a prendersela? Dimmelo.» Di notte dormo sul divano così non devo battere contro lo spazio vuoto del letto matrimoniale. Mi addormento davanti alla tv, con le briciole di patatine sulla maglietta e sulle pantofole. Una di queste notti ho capito cos’era andato storto, perché non mi aveva coltivata con altrettanta devozione, perché avevo aspettato invano. Sentivo il ticchettio della pompa e mi sono alzata a controllare. La begonia era stata rimessa al suo posto e l’acqua gocciolava sulle piastrelle. Elvira. Ho capito che è una questione di limiti. Nessuno può vedere il sole oltre il proprio orizzonte. Il mattino dopo ho gettato via la scopa e ho telefonato a un idraulico per farmi riparare la pompa. Fuori, c’era un temporale.

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Dissertazione attorno alla lettura di un quotidiano da parte di un malvivente racconto di Andrea Cirillo illustrazione di Claudio Arisi

Il mattino seguente il rapinatore comprò il giornale. La matematica certezza che lo fece per leggervi le sue peripezie non la possiamo avere. Forse era solo interessato alla pagina sportiva o forse era un uomo al quale piaceva tenersi informato. Pur non essendo degli esperti ipotizziamo che debba essere importante per un malavitoso sapere, ad esempio, dove è previsto il rifacimento del manto stradale o la posa delle tubature per il teleriscaldamento. È chiaro, però, come oggigiorno alletti tutti apparire sui media. Se il narcisismo è stato tolto dall’elenco dei disturbi mentali da parte dell’autorevole American Psychiatric Association un motivo deve pur esserci. Sappiamo comunque che arrivato a pagina sette si fermò e lesse con attenzione i due articoli che lo riguardavano. Occupavano due terzi della pagina ed erano posti tra: una schematica tabella riportante il numero e la tipologia dei delitti sul territorio in data 20 agosto, un articolo su una cantina adibita ad abitazione e la pubblicità di un noto ca-

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seificio locale. Non avendo ottenuto il consenso dall’autore né dalla redazione del quotidiano, ci troviamo impossibilitati a riprodurre in parte o in toto (cosa che peraltro non avremmo fatto) tali articoli. Ci basti sapere come essi siano stati ritenuti dal medesimo rapinatore lacunosi e imprecisi. Nella comodità della sua cucina, seduto al tavolo davanti a una tazza di caffè, una brioche alla crema e un succo d’arancia, vide riportate le sue azioni in modo dozzinale, tra un’abbondanza di refusi e uno stile al quale egli stesso associò l’espressione “alla minchia”. Si descrivevano solo sommariamente le due rapine delle quali era stato protagonista la sera precedente. La prima, avvenuta in una farmacia, era l’oggetto del secondo articolo. Gli si mettevano in bocca parole che non aveva mai pronunciato e laddove erano azzeccate le parole, non lo erano le motivazioni. La ragione per cui aveva detto alla commessa «Fuori i soldi, questa è una rapina» non era certo stata per scuoterla dallo shock. Pur essendo avvezzo all’uso d’armi da fuoco sa perfettamente che non è cosa da tutti i giorni avere una semiautomatica puntata in faccia e non poteva biasimare la reazione della donna, ciò nonostante non spettava a lui consolarla. No, se aveva detto quella frase era stato per sé, per ricordarsi che quella era in tutto e per tutto una rapina, per non perdere il contatto con la realtà, cosa che purtroppo gli capitava sempre più spesso. La routine, di qualsiasi natura essa sia, può portare a spiacevoli distrazioni. Poche righe più avanti, nello stesso articolo, lesse poi una cosa ridicola, ovvero, di come egli, dopo aver prelevato il misero incasso della farmacia, fosse scappato nel nulla. Immergendo la brioche nella tazza e mordendone la punta imbevuta di caffè, egli ebbe una reazione che noi non esitiamo a definire proustiana (anche se di un “proustianesimo” senza dubbio eterodosso). Si figurò un uomo col mantello camminare nella nebbia fitta fino a divenire invisibile. Un’immagine a metà tra un racconto gotico e un trucco di

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prestidigitazione. Sulla falsariga di questo – scoprì seguitando a leggere l’articolo – veniva detto che il denaro era sparito nelle sue tasche, cosa che trovò più che ridicola, paradossale. Nulla era sparito. Corrispondeva al vero il fatto che avesse chiuso i dipendenti nel bagno per garantirsi una migliore fuga, ma era un’illazione dubitare della serietà della sua semiautomatica, accostandola addirittura a una banalissima scacciacani e a un gioco per bambini. Era ben conscio di non essere un Lupin, un Robin Hood o di non far parte di una di quelle bande di rapinatori di lusso che andavano di moda al cinema appena qualche anno fa, ma sentiva di avere comunque una sua professionalità. L’ultimo paragrafo, poi, lo seccò a tal punto da innescargli un pugno sul tavolo così potente da scaravoltare la tazzina, fortunatamente già vuota, e da far straboccare parte del succo d’arancia. Veniva infatti riferito come, sebbene il rapinatore non avesse nessuna flessione particolare, non fosse meno probabile che si trattasse di uno straniero, con l’ampia descrizione di un precedente in cui un russo aveva riprodotto perfettamente l’aspirata fiorentina per depistare le indagini. Il primo articolo, quello che parlava della seconda rapina, non era migliore, ma la cosa non poté stupirlo. Bevendo ciò che rimaneva del succo d’arancia, lesse come il rapinatore – cioè, ma questo ormai è noto, egli stesso – si fosse impadronito senza pagare di prodotti tecnologici all’interno di un supermercato. Veniva sottolineato più volte che due rapine, entrambe a mano armata e a poca distanza temporale e geografica non potevano essere una coincidenza. Il rapinatore rifletté a lungo su questa parola e concluse che invece proprio di questo si trattava, di una coincidenza. È coinciso, per esempio, che il supermercato in quell’ora non fosse già chiuso e che solo una cassa fosse rimasta aperta. È coinciso che il bottino della farmacia fosse risultato di gran lunga inferiore alle sue speranze. È coinci-

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so che farmacia e supermercato distassero appena qualche minuto d’auto uno dall’altro. È coinciso che il giorno precedente il cellulare gli fosse disgraziatamente sfuggito di mano mentre telefonava affacciato alla finestra, disintegrandosi quattro piani più giù. Pensò: la vita è fatta di coincidenze. E scrollò le spalle. Una volta terminato anche il succo d’arancia, il nostro proseguì nella lettura del quotidiano estremamente deluso per come quel giornalista – del quale si ometteva la firma – avesse trattato le sue scorribande. Più di tutto non concepiva come si potesse liquidare in poche righe la frase con cui era uscito di scena dal supermercato. Riconoscendo anche noi l’errore, ci sentiamo in dovere di riportare tale vicenda nella sua completezza. Alle 19.50, con un telefono di ultima generazione sotto la giacca e in testa un berretto militare, il rapinatore si avviò verso la sola cassa rimasta aperta e posò sul nastro un pacchetto di salviette marca Chilly. Le forti luci al neon contrastavano con l’oscurità che si stagliava al di là delle vetrine, mentre una voce registrata, interrompendo la hit del momento, avvisava che il supermercato era prossimo alla chiusura. Non c’era più nessun cliente e il poco personale rimasto era impegnato a ordinare le scansie e a fare di conto. La cassiera, una ragazza poco più che ventenne, con capelli rossi e occhi azzurri, ormai alla fine del turno e alienata dal passare prodotti sul lettore ottico, non sorrise, non lo guardò, non gli chiese se avesse la tessera fedeltà. Aspettò il segnale acustico e disse stancamente il prezzo. Il rapinatore prese gli spiccioli dalle tasche dei jeans, afferrò le salviette e fece per andarsene, ma naturalmente la placca antifurto rimasta attaccata alla confezione del cellulare, passando nella torretta antitaccheggio innescò l’allarme. La cassiera alzò la testa e ogni suo commento fu reso superfluo dalla vista del nero abissale della canna della pistola. Fu a questo punto che il rapinatore disse: «Questo è il mio

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scontrino». Una frase che conveniamo essere calzante – e suggestiva, un’istantaneità e una seduttività che farebbero invidia a un poeta o a un pubblicitario – e che ci rimanda a certa letteratura pulp. Le fece poi un segno con gli occhi, un segno di compassione per come si erano messe le cose. Ma il cappello era forse troppo calato e il nero della pistola troppo nero.

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La scheggia nella salsa racconto di Donatella Azzollini illustrazione di Giuseppe Braghiroli

Una folata improvvisa andò ad animare il fuoco sotto i bidoni. Una nuvola di polvere si alzò dal viale, lo scirocco umido carico di presagi era arrivato per scompigliare cenere e capelli. Margherita, voltandosi verso il vento, non si accorse che il cucchiaio di legno si stava sbeccando nella macinatrice. Galleggiavano le schegge nella conca azzurra dove si raccoglieva la salsa e lei, piuttosto che toglierle a pelo e con cautela, le aveva spinte nel magma di pomodoro, sperando che nessuno, almeno in quel momento, se ne accorgesse. Tutti erano impegnati nelle proprie postazioni: Margherita macinava i pomodori cotti e suo padre, mastro fuochista, controllava il bollo mentre tra fuoco e sole la faccia gli evaporava in mille gocce di sudore, rivoli lungo la fronte spaziosa, tra le pieghe del naso e sulle basette grigie. Poi c’era chi tappava le bottiglie, preferibilmente uno zio. Anche quello era un lavoro di concetto: una cattiva chiusura avrebbe condotto all’entrata di aria nella bottiglia e dun-

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que all’avaria della salsa stessa. La mamma di Margherita e le zie travasavano, lavavano gli arnesi e preparavano il pranzo. I bambini, oltre a bazzicare goliardicamente intorno al fuoco, sfidando le ire di Peppino mastro fuochista, andavano a caccia di lucertole e cicale, mentre le bambine infilavano il basilico nelle bottiglie oppure raccoglievano rucola da mettere nell’insalata. I fratelli e i cugini di Margherita, che esplodevano di giovinezza, arrivavano per pranzo, impegnati com’erano, a volte con un segno di cuscino sulla guancia, altre volte con uno stampo di rossetto sul colletto. Arrivavano con le scarpe pulite e si lagnavano sempre per qualcosa. Margherita, prima di pranzo, si nascondeva sotto le vigne, in un angolo dove dalla casina non poteva vederla nessuno, si toglieva gli abiti chiazzati di salsa e con le unghie grattava via dalle gambe le bucce secche di pomodori, poi si lavava con l’acqua fredda della bacinella. La regolarità degli eventi, la loro liturgica ripetitività a volte concedevano a Margherita una serenità quasi profetica. Si poteva declinare al futuro il tempo passato e viceversa. Avrebbero mangiato il ragù con la salsa nuova e qualcuno prima degli altri l’avrebbe elogiata come la migliore delle salse possibili, si sarebbero intessute le lodi dei pomodori e della loro resa. «Com’è venuta quest’anno non è mai venuta», avrebbe glorificato Vincenzo mastro fuochista, masticando le penne rigate intrise di sugo, e tutti in coro con le giaculatorie ausiliarie. Altre volte quel mondo attorno non bastava a togliere a Margherita la sete improvvisa e indefinita che le palpitava subito sotto i capezzoli: smaniava, ansimava come i cuccioli di cane lupo pronti a recuperare un bastone. Era stesa sotto i pampini esuberanti a togliere dai piedi le spine di vasapiìd e sentiva poi qualcuno chiamarla «Margherii... Margheriiitaaa», di solito sua madre, e allora correva con i capelli bizzarri come tralci arrotolati e i seni liberi sotto la maglia, acini acerbi e sodi.

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«E tu il fidanzato ancora non ce l’hai, Margherì...» «Se sta sempre qua non se lo troverà mai... dove se lo deve trovare, in mezzo alla vigna?» «Sai quante cose si possono fare in mezzo alla vigna!» E ridevano gli uomini della tavola. «Tenetevi la forchetta per il secondo e state zitti voi... che niente ancora avete concluso. Lasciatemela stare un altro poco a Margherita», diceva la mamma mentre toglieva i piatti sporchi per rimpiazzarli con quelli puliti. Margherita ascoltava in silenzio. Avrebbe voluto dire che lei al fidanzato non ci pensava proprio, che le piaceva la campagna e ricamare e volare sulla bicicletta, che non vedeva l’ora di ritornare a casa della signorina Burdi per chiacchierare e ridere con le sue amiche e imparare a fare come si deve il punto a intaglio. La bolla in cui si trovava, però, non le consentiva di far arrivare le parole all’esterno per come realmente le avrebbe volute dire, ma sempre attutite e diverse, come deformate. E nemmeno riusciva a percepire in modo limpido e chiaro le voci degli altri, anche queste stravolte all’entrata della bolla.Allora restava zitta e magari rideva anche lei, perché il silenzio non sembrasse ostile, perché voleva stare in pace. Poi in un pomeriggio di salsa, arrivò nella campagna di Pozzo Pulicchio compare Nino a fare una visita di cortesia. Portava in dono una cassetta di pesche appena colte dal frutteto che tenevano non lontano da lì. Al suo seguito, commara Gina con un cesto di cetrioli lucidi e poi Anita dalla postura irriverente, l’espressione imbronciata e l’odore amaro della rucola. Quando Margherita li vide, sentì la sua sete aumentare. Ogni volta che la vedeva, aveva una reazione strana. Sulla scollatura di Anita i moscerini si affaccendavano, attirati dal lucido giallo limone della camicetta, andavano e venivano leggeri come le chiacchiere che in paese facevano sul suo conto, erano chiacchiere pesanti e cattive e lei le portava con una leggerezza sfrontata.

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A Margherita, poi, piaceva guardare le gambe lunghe di Anita, olivastre e lucide, e quel giro vita così stretto che sembrava potersi spezzare. Le piaceva così tanto che lei fosse lì di fronte che avrebbe voluto abbracciarla e tirarle i pizzichi. «Ho detto a Nino: passiamo un poco da Vincenzo che gli portiamo due pesche.» «Accomodatevi che facciamo un caffè: fai un caffè, Margherì.» Il fuoco sotto i bidoni era ormai spento e si aspettava che le bottiglie, dopo il bollo, diventassero tiepide al punto giusto per essere messe nelle cassette e conservate nel garage o nello sgabuzzino come provvista per l’inverno. Buona salsa per buone formiche. Margherita avrebbe potuto giocare ad anticipare nella sua testa le chiacchiere prevedibili che si stavano srotolando tra un caffè e un nespolino, ma non poteva ascoltare niente oltre al sussurro dell’aria che Anita muoveva sventolandosi la gonna, incantata dalla luce dei gelsi maturi che portava come occhi. «La figlia dei compari è una lecca-fiche, stai attenta, Margherì... ancora finisci come lei!», le avevano detto fratelli e cugini. Margherita ne risentiva l’eco e le pareva di vederli mentre a tavola si toglievano con l’unghia del mignolo un pezzo di carne dai denti e raccontavano tra loro, a voce non troppo bassa, della fimmina che avevano montato la sera prima. Margherita per buona parte si sentiva spuria, come se la polvere servita per i fratelli non fosse bastata, come se la madre avesse preso un altro po’ di terra sotto la vigna di Pozzo Pulicchio, una terra un po’ più friabile, per infilarsela nel grembo gravido. «Margherì... vai a fare due nocelle che se le portano i compari.» Il tono perentorio non aveva smosso Margherita, persa in divagazioni tanto ascetiche quanto carnali. Allora qualcuno le prese un braccio gridandole «Ahó... che stai a dormire?!».

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E Margherita, come svegliata all’improvviso, ebbe un sussulto di fastidio che si fece sorriso quando vide le labbra di Anita scoprire i denti e allargarsi in una risata. Tornarono masticando nocelle, Anita e Margherita, con risate intime e lievi del tipo di quelle che svelano, senza volerlo, un nodo appena stretto, un’intesa nuova e fresca. I genitori stavano già in piedi, vicino al cancello. Margherita incrociò per un attimo gli occhi di sua madre riconoscendone la velatura di rimprovero e paura, ma la sua felicità era troppo densa per essere mischiata con la preoccupazione. Da quel giorno Margherita prese a incontrare Anita nelle mattine lunghe della villeggiatura in campagna. Si davano appuntamento in un vecchio trullo non troppo distante da lì. Margherita saliva in bici con la scusa di andare a fare rucola o di riempire il cinque-litri di acqua alla fontana. Pedalava per un paio di chilometri tagliando a metà il cicaleccio e il vento fresco e l’odore silenzioso delle vigne, sovrana indiscussa delle cuccuvasce e delle nolche, regina delle discese sulla via Appia-Traiana. Il più delle volte Anita era già lì, appoggiata sul trullo abbandonato, a sgranocchiare qualcosa o a succhiare una radice di liquirizia. Margherita si stendeva e si raccontava come non aveva mai fatto, riuscendo ad abbandonarsi in Anita e nelle sue labbra attente, in un modo dolcissimo e corposo. A volte lo scricchiolio di qualche foglia o il tonfo di un fiorone, troppo maturo per stare sul ramo, spaventavano Margherita. Il silenzio della campagna aperta amplificava le sensazioni, le pareva di vedere la sagoma minacciosa del fratello o di un cugino e sentirne i passi e la voce pesante. La figlia dei compari è una lecca-fiche, lecca-fiche, lecca-fiche. Le melagrane avevano preso ormai l’abito rosso pergamenato, Anita e Margherita pensavano a come poter stare insieme quando sarebbero tornate al paese, così abituate al-

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la liquidità contadina. E la gente, la gente in qualche modo avrebbe parlato. Era uno dei primi giorni di settembre quando Margherita scoprì che le ruote della bici erano a terra, ma non per un buco da vasapiìd o da pietra, di quei buchi che sapeva ben riparare con una bacinella e un po’ di mastice, le ruote erano state tagliate con spacchi di cinque o sei centimetri, visibilmente fatti con un coltello. Allora Margherita cominciò a correre con tutto il fiato che aveva in corpo come quando pungi un cavallo e quello s’imbizzarrisce. Corse verso il trullo, con un terrore che non poteva dire, né spiegare, ma che l’aveva catturata all’improvviso come un’intuizione. Anita era in pericolo, qualcuno aveva tagliato le ruote perché lei non potesse raggiungerla. Quando Margherita arrivò al trullo non la trovò, si lasciò cadere e cominciò a respirare forte, fino in fondo ai polmoni. La faccia s’avvampava per la corsa e per la rabbia, il cuore pompava violento il sangue nelle tempie e nella spina dorsale. Per terra una radice di liquirizia ancora da succhiare. Allora Margherita corse, corse, e ancora corse fino al frutteto di compare Nino. Coi muscoli tesi delle cosce, i capelli bagnati sulla fronte, l’affanno che, a ritmo accelerato, gonfiava e sgonfiava il petto umido di sudore. La recinzione del frutteto era chiusa. «Anitaaa,Anitaaa!» La voce di Margherita correva tra i peschi carichi, inciampava nei tronchi contorti degli ulivi, affondava nelle zolle appena arate sino a cadere, rotta dai singhiozzi, in un mandorleto. Quando Margherita tornò a Pozzo Pulicchio, la tavola era già apparecchiata e i fratelli si lagnavano per le cose solite. Sua madre la guardò in malo modo, troppo indaffarata per indugiare in rimproveri. Sembrava volesse dirle dopo facciamo i conti.

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«Stamattina al paese ho incontrato compare Nino», disse il fratello. «Dice che hanno anticipato il ritorno al paese perché la figlia gli dà dei problemi e lui deve un po’ registrarla, forse la mandano da una zia a Bari, per un po’», e il fratello ripassò il fondo del piatto con l’ultimo maccherone e, ben intriso di sugo, se lo infilò in bocca. Ma Margherita non ebbe il coraggio di parlare, non disse niente. Solo sperò che il fratello si strozzasse con quel boccone, che una scheggia nascosta nella salsa s’infilasse dentro il maccherone e poi nei tessuti molli della gola.

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Autobiografia per E.C. racconto di Franjo Matanovic illustrazione di Giorgio Fratini

Riguardo alla data della mia nascita: alcuni dicono una cosa altri un’altra e Mile Rakic che lavorava all’anagrafe mi dava il certificato ogni volta dopo che gli pagavo la tassa di un litro di slivoviz; il che vuol dire che la data è insicura, ma l’anno potrebbe essere giusto. Per quanto riguarda le scuole ne ho cominciato diverse, ma finita nessuna. Alla fine mi sono iscritto alla scuola della vita con la speranza di finirla. Per ciò che attiene allo scrivere incominciai ancora prima delle scuole. A quei tempi mi nascondevano carta e matite perché non facessi le mie prime poesie. Nemmeno oggi è diverso, ma ci sono tante fabbriche di carta e di matite. Non sono stato mai premiato. Al contrario il grande premio l’ho ricevuto quando ho dovuto scrivere mille volte “io voglio bene a Jelena” alla quale avevo tirato un poco i capelli. Io lo avevo scritto per due mille volte e sono stato castigato perché avevo sprecato la carta. Mi hanno sempre multato, ovunque e per ogni cosa.

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Uno dei più grandi castighi in giovinezza fu quando mi elessero presidente della classe. Avrebbero potuto nominarmi re o imperatore della classe perché nelle favole non ci sono presidenti. Perciò non mi piacciono queste moderne denominazioni. Riguardo alle pubblicazioni: nei primi tempi scrivevo sui muri della scuola, sui recinti, incidevo sugli alberi e ovunque dove arrivavo. Poi pubblicavano in tutta la scuola chi era l’autore delle scritte e quanti castighi ho meritato. Dopo pubblicavo autoedizioni che facevo con la mia vecchia macchina da scrivere e poi nella fabbrica di carri armati fotocopiavo e le davo a tutti. Quasi tutti ridevano anche se non capivano, ma poi dopo quando alcuni del governo e della polizia capirono mi dissero che non si poteva fare così nella SFR Jugoslavija perché tutto doveva essere chiaro e non che alcuni capissero il giorno dopo, altri dopo cinque e altri mai. Poi in Bosnia hanno pubblicato le mie poesie e questa è una storia a sé: quando era finita l’ultima guerra in Bosnia ed era arrivata tutta questa democrazia hanno cercato nella mia Bosnia qualcuno a cui stampare un libro. Hanno cercato con tutti i mezzi: con i kalasnjikov e i carri armati, con la radio e i giornali e poi qualcuno si è ricordato che io avevo scritto sui muri della scuola ed ecco, il libro fu pubblicato. La tiratura era di cinquecento copie, il libro l’ho dato a tutti quelli che conoscevo e cerco ancora a chi darlo e in tanti scappano via da me per paura di me e dei miei libri. Adesso sono qui, lontano dalla Bosnia ma tra bosniaci di tutte le razze, confessioni e nazioni, faccio tubi per le navi e su ogni tubo scrivo una poesia d’amore. Ma poi tutto viene verniciato e avvolto con ogni cosa, ma sotto sotto intorno al mondo naviga il fatto che l’amore è incompreso, ma è l’unica cosa che rimane per sempre.

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Scrittori e illustratori


Note biografiche

guito vari corsi di perfezionamento con Svjetlan Junakovic, Linda Wolfsgruber e Javier Zabala. Si occupa di didattica del fumetto e dell’arte collaborando con il Centro Fumetto A. Pazienza e l’Associazione Mus-e. Collabora come illustratrice con Il Messaggero dei Ragazzi. Ha partecipato a molte rassegne nazionali e internazionali di umorismo ottenendo vari premi e menzioni speciali. www.margheallegri.com

Claudio Arisi Nato a Torricella del Pizzo (CR) nel 1957, vive e lavora a Cremona. Attivo in vari campi espressivi: realizza installazioni, opere grafiche e illustrazioni. Produce in proprio comics underground; vincitore nel 2004 del concorso Centro Fumetto Andrea Pazienza. Marco Alfano Nato nel 1964 a Napoli. Ha lavorato come musicista con i Panoramics, realizzando anche lavori per cinema, tv e teatro collaborando tra gli altri con Mario Martone, Peppe Servillo, Andrea Renzi, Enzo Moscato. Nel 2003 Diego De Silva lo ha selezionato tra i vincitori del concorso Angoli di strada della Scuola Holden di Torino. È stato finalista di diversi premi letterari e i suoi racconti sono stati pubblicati in varie antologie, su L’Unità e su Roma. Fa parte del laboratorio di scrittura creativa Lalineascritta, per il quale cura il sito e i corsi in webconference. www.cronopio.info

Margherita Allegri Nata a Codogno (LO) nel 1977. Diplomata al liceo artistico e laureata in Conservazione dei Beni Culturali all’Università di Parma. Ha se-

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archivioimpossibile.blogspot.it

Donatella Azzollini 34 anni, è nata a Terlizzi, in provincia di Bari. È laureata in Filosofia e in Scienze della Formazione. Insegna nella scuola primaria. Ha lavorato in pizzeria e, per un po’, è stata assessora ai vigili urbani. Vive in campagna con un marito, due figlie, un cane e una quantità sterminata di donne, mamme, sorelle, amiche, piante. Legge molto più di quanto non scriva. Le piacciono le passeggiate in bicicletta, le scrittrici, la parmigiana, il mare, camminare. Ha scritto diversi racconti, alcuni dei quali in corso di pubblicazione. Sta lavorando al suo primo romanzo. Giuseppe Braghiroli Nato a Parma nel 1967. Dopo il diploma all’Istituto d’Arte e gli studi in Architettura al Politecnico di


Milano, lavora come grafico e illustratore. Nel 2007 apre con la moglie Monica Monachesi l’atelier OfficinaFantastica e inizia a collaborare con diverse case editrici (Franco Cosimo Panini, Kite, Bohem Press) e con la Mostra Internazionale d’Illustrazione Le immagini della fantasia - Sàrmede (TV). Sue illustrazioni sono state selezionate ed esposte in diverse mostre e manifestazioni di settore. Ha illustrato vari titoli per Giunti, Il Castoro, Città Nuova. Conduce corsi e laboratori sul disegno e l’illustrazione. foglienuvole.blogspot.it

Edoardo Brosio Nato a Sanremo nel 1975, vive da sempre a Torino. Ha iniziato a scrivere a 25 anni. Nel 2000 ha pubblicato il romanzo breve Bersaglio perfetto (ed. Studio Dedalo). Nel 2004 è stato tra i vincitori del concorso Un racconto per la Scienza, organizzato dalla Scuola Holden di Torino e dal CNR. Nel 2005 e nel 2006 ha frequentato i corsi di Racconto e Romanzo e l’Holden Club presso la Scuola Holden di Torino e da allora ha pubblicato alcuni racconti brevi su diverse antologie. Come fotografo è attivo dal 2002. www.aviewofchance.com

Andrea Cirillo Nasce nel 1982 e vive a Parma. È laureato in lettere e si sta specializzando in giornalismo. Ha pubblicato su riviste come La luna di Traverso e Maltese Narrazioni, su quotidiani e siti internet. Alcuni suoi lavori sono stati inclusi su antologie: Trenta secondi di universo e Frecce verso l’altro entrambe edite da Marcos y Marcos nel 2010; Star (2007,

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ed. Tapirulan); Souvlaki (2010, ed. Tapirulan); I lunatici (2006, Mup editore). Ha un blog, dove si interroga sulla letteratura e la scrittura. storiadelirantedellaletteratura.wordpress.com

Roberto D’Agostin Nasce in una piccola città del Friuli famosa per i suoi anagrammi. Forse è anche per questo che a Bologna si laurea in Lettere. Ma poi fonda un duo di finta elettronica, con cui esplora l’Italia dal punto di vista dei circoli Arci. Milano non gli piace, e vi si trasferisce per dedicarsi al mestiere di pubblicitario. Daniele De Batté Nasce a Genova nel 1976. Appassionato di arti grafiche e design, inizia a lavorare come grafico freelance. Ama il disegno e attraverso le sue illustrazioni dà vita a storie nonsense e a curiosi personaggi. Nel 2003 fonda, insieme a Davide Sossi, Artiva Design. Artiva lavora in diversi settori del design grafico e della comunicazione multimediale. www.danieledebatte.it

Luca Dore Nasce nel 1977 a Sassari, dove tuttora vive con moglie e due figli. Da sempre cerca di gestire il proprio tempo con la necessità implacabile di scrivere. Autore di romanzi, racconti, poesie e canzoni, nel 2008 esordisce con un noir, Il segreto di Muma, presentato al Festival Mediterraneo del giallo e del noir. Appassionato di musica e letteratura, ama raccontare la propria città. Il fiore di pietra (ed. Taphros) è il suo primo lavoro per ragazzi, mentre il suo nuovo romanzo uscirà nei prossimi mesi (ed. Voltalacarta).


Luca Fabbri Nato a Roma nel 1964. È architetto e lavora presso un dipartimento della Sapienza, Università di Roma. Parallelamente all’attività professionale si è sempre dedicato al disegno, all’illustrazione, alla fotografia e alla pittura. Negli ultimi anni ha esteso la propria attività anche al campo della grafica incisa. www.box64.net

Faber Nato a Cremona nel 1973. Laureato in Architettura al Politecnico di Milano con una tesi incentrata su spazio, percezione e fragilità dal titolo 6 gradi di separazione, con relatore Beppe Finessi. Si occupa di pittura, installazione, fotografia, poesia e musica. Nel 2008 il progetto Bluesman è stato selezionato per partecipare al BAC! 08 Réveille-toi!, IX Festival Internazionale di Arte Contemporanea di Barcellona (al CCCB Centre de Cultura Contemporània de Barcelona). Da piccolo avrebbe voluto essere Capitan Harlock. Attualmente vive e lavora a Barcellona. Dimitri Fogolin Pare che il suo imprinting risalga a una mostra di Altan ma non si sa quando né come... Nel 1996 fonda, insieme ad altri compagni, il magazine a fumetti faMe!. Nel 1997 nasce la casa editrice Fame Comics. Poi incontra Stefano Ratti, autore delle sceneggiature di Fame Nera, Don Salvo e Diabolic, strip umoristiche di cui diventa il disegnatore. Pubblica inoltre Turno di notte, sceneggiato da Gianfranco Camin. In seguito inizia la collaborazione con Luca Malisan e Paolo Francescutto che ha portato alla costituzione del Go-

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tem Studio, che lavora per editori francesi e americani (Glénat, Delcourt, Dargaud, Marvel, Vertigo). Nel tempo libero progetta strategie per la conquista del mondo dei fumetti e dell’illustrazione. www.kromolab.it

Giorgio Fratini Nato a Prato nel 1976, si è laureato in Architettura a Firenze dove vive e lavora. È illustratore e autore di fumetti. Nel 2008 esce la sua prima graphic novel, Sonno Elefante I muri hanno orecchie (ed. BeccoGiallo), che ha ricevuto il premio come Miglior libro di scuola italiana al Festival del Fumetto e della Animazione di Roma, Romics. Come illustratore ha collaborato con riviste e aziende pubbliche e private. giofratini.ultra-book.com

Andrea Gualandri È nato a Reggio Emilia nel 1978. Si diploma all’Istituto d’Arte di Parma e si laurea all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Nel 2003 la giuria della 22a Biennale Internazionale dell’Umorismo nell’Arte di Tolentino lo seleziona per partecipare alla mostra e lo inserisce nel catalogo. Nel 2005 vince il primo premio e nel 2011 ne diventa direttore aristico. Attualmente lavora come atelierista in una scuola dell’infanzia. www.andreagualandri.it

Francesca Marchegiano Scrivo perché m’interessano i cornicioni, le zone di confine, il bordo dei trampolini. Sulla carta si può arrivare a sporgersi, a guardare giù legati a una corda d’inchiostro. Per questo scrivo. E scrivere mi fa felice, e siccome mi fa felice è an-


che il mio lavoro. Scrivo per il teatro, per i bambini, per le aziende e la pubblicità. Racconto e ascolto storie, le sbroglio, rattoppo, ritaglio, confeziono su misura. Lo faccio anche in reparti di ospedale, quelli dove la vita si misura col contagocce. Ma sempre, per un momento, le storie fanno “Liberi tutti!”. www.francescamarchegiano.com

Franjo Matanovic Nato nel 1964 in Bosnia-Erzegovina. Dal 1992 vagabonda lavorando prima lungo la costa dalmata e poi in Germania. Dal 1997 vive in Italia. Pubblica i primi lavori negli anni Ottanta sul periodico Brodolom e su diversi giornali e antologie croate. Usando l’esempio del “samizdat” russo ha prodotto piccole autoedizioni delle sue poesie che distribuiva in tutta la ex Jugoslavia partecipando nel contempo a vari eventi letterari. Dal 2008 riceve una serie di riconoscimenti e di premi per le poesie tradotte in italiano. Molte sue poesie sono incluse in antologie italiane. nedostajemiviski.blogspot.com

Gianluca Morozzi Nato a Bologna nel 1971. Ha esordito il 12 settembre 2001 con il romanzo Despero (ed. Fernandel). I giornali, quel giorno, hanno parlato pochissimo di quel brillante esordio. Il suo quinto romanzo Blackout (ed. Guanda) è diventato un film di produzione statunitenese. E la Bologna del romanzo è diventata Miami. Il suo ultimo romanzo è Chi non muore (ed. Guanda). Arianna Papini Vive a Firenze, è laureata in Architettura e ha effettuato la forma-

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zione in Art Therapy a Bologna. Dal 1988 lavora per la casa editrice Fatatrac, attualmente come direttore artistico. Scrittrice, illustratrice e pittrice, collabora con scuole e biblioteche.Tiene ogni anno numerosi laboratori artistici con i bambini e corsi di aggiornamento per insegnanti. Ha scritto e illustrato più di sessanta libri (per La Nuova Italia, Fatatrac, Edicolors, Lapis Edizioni, Città Aperta, Carocci Editore, Avvenire), con i quali ha vinto numerosi premi. Ha partecipato a più di cinquanta mostre tra personali e collettive, in Italia e all’estero. È volontaria ospedaliera, alcuni suoi testi sono messi in scena dall’attrice Miriam Bardini nei reparti pediatrici degli ospedali. www.ariannapapini.com

Maurizio Perelli Figlio di Settimio e Rita, nasce a Rieti nel 1982. Sa manovrare discretamente una moto-pala, cosa che da bambino non avrebbe mai immaginato. Ha letto qualche centinaio di libri ma ancora non ha deciso qual è il suo preferito. Considera impresa ardua scrivere una sua breve autobiografia ed è indeciso se far menzione della laurea in Antropologia Culturale. Sua madre gestisce una baita in montagna e lui ha la nomea del tutto meritata di essere un oste scontroso. Gli dispiace terribilmente di non aver avuto l’occasione di abbracciare forte Fernanda Pivano. Guido Scarabottolo Nato a Milano nel 1947. Si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano. Lavora dal 1975 come illustratore e grafico, ha collaborato con i principali editori e agenzie di pubblicità, la RAI, quotidiani e rivi-


ste internazionali. Attualmente progetta tutte le copertine per Ugo Guanda Editore e ne illustra alcune. Vive e lavora a Milano. www.guidoscarabottolo.com

Alessandro Sesto Nato a Napoli nel 1970, vive a Verona da oltre trent’anni. È laureato in Legge e fa l’impiegato. Ha iniziato a scrivere da poco, per diventare ricco e famoso in tarda età. Rosanna Spinazzola Nasce in Lucania in una chiassosa famiglia di umili origini. Divora i romanzi che il padre le recupera all’oratorio e quando a otto anni legge Un canto di Natale di Dickens decide di diventare scrittrice. Supera indenne un’adolescenza ribelle e parte alla volta dell’Urbe dove, grazie a una borsa di studio, frequenta Sociologia e dimora nel magico e rocambolesco mondo dello Studentato. Dopo la laurea e alcuni brevi lavoretti, “si spegne” nell’ufficio fatturazione di una multinazionale. Un giorno, guardandosi allo specchio, non si riconosce più: parte così alla ricerca della sua identità perduta, che ritrova dopo molte peripezie dentro una casa di carta in una foresta di inchiostro. È lì che si trova ancora oggi. rosannaspinazzola.blogspot.it

Trap Coetaneo di Miguel Bosè e di Veronica Lario (nessuno è perfetto), Trap è un GIP (Grigio Impiegato Pubblico). Anonimo per nascita e vocazione. Consuma vita e suole delle scarpe nell’Urbe, dopo aver guadato non poche nebbie in terra orobica. Non ha mai dato libri né alla luce né alle stampe. Una trentina di racconti

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in antologie tematiche e non; dodici concorsi vinti in prosa e due in rima; sei secondi posti; una ventina tra piazzamenti, segnalazioni e menzioni varie. Troppo poco per il Nobel. Lucio Villani Nato a Roma il 17 marzo 1980. Veterano di ambienti underground lontani dalla grande distribuzione, scarsissimo diplomatico, antitesi del presenzialismo, riesce a non disegnare (pur volendo) per medio-lunghi periodi in virtù di una credibile copertura di contrabbassista grazie alla quale riesce a finire spesso in posti ai confini della realtà, testimone dell’improbabile. Autoproduzioni realizzate dal 1999: Lampi Grevi 1 e 2, Krakatoa A, B e C, Marziano NO, Manuele Bambinello, Ominotondo contro i Cristoidi. Fonda con Alessio Spataro, Valentina Pettinelli, Tuono Pettinato e Federica del Proposto il gruppo Baffi. www.bombilozombi.com

Daniela Volpari Nata nel 1985 a Roma. Dopo il liceo artistico si diploma con il massimo dei voti alla Scuola Internazionale di Comics al corso triennale di Illustrazione. È stata selezionata in diversi concorsi del settore quali Scarpetta D’Oro, Illustrissimi, Lucca Comics & Games e nel 2010 si aggiudica il Premio della Critica al concorso Calendario Duemila10 di Tapirulan, la cui giuria era presieduta da Sergio Toppi. Principalmente illustratrice per bambini e ragazzi, ha all’attivo alcune pubblicazioni in Italia e all’estero (Francia, Canada, Nuova Zelanda). Attualmente sta collaborando con diversi editori francesi. danielavolpari.blogspot.it



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Edizioni Tapirulan Cyclette Star Bufanda Res Bunker Souvlaki Bolle Kona Bombeiros

N.B. Se trovi questo libro – o qualsiasi altro libro delle Edizioni Tapirulan – in giro, in un bar, su una panchina, per strada, in treno, in autobus, dentro un tombino, sotto una sedia, in mezzo al mare, insomma ovunque, portalo via con te, leggilo, se vuoi commentalo, correggi gli errori, fai un tuo disegno, e poi rimettilo in circolo; abbandonalo in un luogo qualsiasi, altre persone potranno trovarlo e leggerlo. Puoi anche collegarti a www.tapirulan.it e scriverci un tuo parere o dei consigli.


ISBN 978-88-97199-14-4


€ 10,00 9 788897 199144 >


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