Collana di “Etruscologia” 1
A Gianfranco Gazzetti
Studio in memoria di Ludovico Magrini
Ringrazio l’amico Giorgio Poloni , redattore di Nuova Archeologia, per il fattivo interessamento all’uscita del libro
In copertina. Graffiti dello specchio etrusco da Tuscania (IV – III sec. a.C.). La scena si svolge a Tarquinia: il divino Tagete insegna a Tarconte (il fondatore di Tarquinia) come leggere il fegato aruspicino. Accanto a Tagete è Veltune (lat. Vertumnus o Voltumna), il dio della Federazione Etrusca, a significare che siamo nel centro federale della nazione (il Fanum Voltumnae). Tagete ha alle spalle il sole che sorge (Est): questa doveva essere la posizione dell’aruspice durante le sedute. Lo stesso orientamento ha il fegato che è in mano a Tagete: la parte alta (testa del fegato) è al centro ed è rivolta ad Est, la parte sinistra (processo piramidale e cistifellea) è rivolta a Sud, la parte destra (presenza) è rivolta a Nord, la parte bassa (dove il fegato si divide nelle due sacche di sinistra e di destra) è rivolta ad Ovest.
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Alberto Palmucci
ARUSPICINA
ETRUSCA
ED ORIENTALE A CONFRONTO
TARQUINIA e i LIBRI TAGETICI con traduzione dei frammenti greci e latini
PATROCINIO “GRUPPO ARCHEOLOGICO GENOVESE” DEI “GRUPPI ARHCEOLOGICI D’ITALIA”
Roma 2010
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R.S.P. Beekes, professore emerito di linguistica indeuropea comparata presso l’Università di Leiden, scrive: ”A. Palmucci (in Anatolisch und Indogermanisch, Meid, 2001, 311ss) argues that there is evidence that the story of Aeneas in Italy was preceded by a version where the journey from Troy went to Etruria. If this is correct, it is of great importance: the Romans will not have made such a story, so it will be an Etruscan story, telling that 1 they came from Troy...” . *** Valeria Forte, docente all’Università di Dallas (Texas, U.S.A.), in un suo studio, dice di includere “the opinion of today’s renowned contemporary etruscologists such as Pallottino, Palmucci, Munzi and others” (p. 4). Fra le altre cose, spiega: “Alberto Palmucci, a prominent Etruscologist living in Italy,” ha aperto “ a dialogue with European and American scholars in both academic papers and electronic blogs (p.42). In essence, Palmucci argues that although genetic testing on both humans and bovines has revealed similarities between ancient Etruscan DNA and the DNA of people and cattle found today in eastern regions, this study does not conclusively determine Etruscan origins. Palmucci introduces a very intriguing element to the debate of Etruscan origins when he argues that we should not assume that a common genetic DNA between Etruscans and Near Eastern populations proves the origin of the Etruscans in Asia Minor. Palmucci states that Etruscans may have moved from the Italian peninsula toward the eastern lands, and this migration may have taken the form of a circular pattern of departing from and returning to the Italian coasts. To validate this hypothesis Palmucci provides toponymical data, linguistic analysis, and references to the most spectacular archaeological artifacts left by the Etruscans (p. 43). Dopo aver ricordato “the writing of Virgil, according to whom the Etruscans departed from Còrito (later called Tarquinia) sailing east and then returning to etruscan shores” (p. 49), la Forte conclude infine che “Palmucci is one of the most active classicists ... and one who engages in the Etruscan debate at many levels: his comments and opinios are supported by his impressive knowledge of the Etruscan civilization and he expresses them in the form internet blogs in which he debates 2 experts from around the world” (p. 50) .
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R. S. P. Beekes, The Origin of the Etrurians, Koninlijke Nederlands Akademia Van Wetensschappen, Amsterdam, 2003, p. 56. 2 V. Forte, Archeology and Nationalism: the Troian Legend in Etruria, The University of Texas at Arlington, Dicembre 2008.
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Alberto Palmucci NOTIZIE
BIOGRAFICHE
Alberto Palmucci, nato nel 1933, si è laureato all’Università di Roma. Ha insegnato a Civitavecchia dove ha trascorso la sua giovinezza. E’ stato direttore didattico a Rimini e a Genova. Per lunghi anni è stato docente presso l’Istituto Regionale di Ricerca, Sperimentazione e Aggiornamento Educativi (I.R.R.S.A.E.) della Liguria, dove ha pure svolto attività di ricerca filologica su Virgilio e Còrito (Tarquinia). Attualmente vive a Genova. Ha pubblicato numerosi saggi con l’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova, l’Università di Genova, l’Università di Bari e di Roma Tre, l’Università di Innsbruck, il Messaggero Italiano di Manchester (Inghilterra), i Gruppi Archeologici d’Italia, la S.T.A.S. di Tarquinia, e la Società Storica di Civitavecchia. Nel 1998, La S.T.A.S., con il contributo della Regione Lazio, ha pubblicato per lui il volume Virgilio e Corito-Tarquinia: La leggenda troiana in Etruria. Nel 2005, l’Assessorato alla Cultura della provincia di Viterbo ha sovvenzionato un secondo volume dal titolo Gli Etruschi di Corneto (oggi Tarquinia) fra mito e archeologia. Alberto Palmucci è anche autore di opere letterarie. Si è classificato al primo posto nel Premio di Poesia “Janua 1997”. Da anni i suoi lavori sono primi classificati in Internet (Google, Yahoo, ecc.). Vedi, per esempio, la voce Etruschi DNA.
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Opere di ALBERTO PALMUCCI STUDI VIRGILIANI E DI ETRUSCOLOGIA 1- Tarquinia e la virgiliana città di Corito, Silver Press, Genova, 1987; 2- La virgiliana città di Corito, “Atti e Memorie della Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova”, 56, 1988; 3- Il ruolo della città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie , cit.”, 58, 1990; 4- Analisi della mitologia propedeutica alla figura di Dardano e alla città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie, cit. “, 59, 1991; 5- Ancora sugli antecedenti mitologici della figura di Dardano e della città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, “Atti e Memorie, cit.”, 60, 1992; 6- La figura di Dardano e la città di Corito-Tarquinia nell'Eneide, in Latina Didaxis. Atti del Congresso, Bogliasco 28-29 Marzo 1992, Università degli Studi di Genova (Compagnia dei librai), Genova, 1992; 7- Corito-Tarquinia e il porto dei "Ceretani", “Atti e Memorie, cit.”, 61, 1993; 8- Gli Etruschi e Corito-Tarquinia nell'Eneide (Risvolti scolastici), “Bollettino Informazioni I.R.R.S.A.E. Liguria”, 26, 1994; 9- Virgilio e gli Etruschi, “Aufidus” (Università di Bari), 24, 1994; 10- Tarconte e Mantova, Virgilio e Corito-Tarquinia, “Atti e Memorie, cit.”, 62, 1994; 11- Mantova, Corito-Tarquinia e Roma (Mantua, Corito-Tarquinia and Rome), in Il Messaggero Italiano, 4, 25, Manchester, Gennaio, 1997; 12- Corito-Tarquinia, “Archeologia”, 5, 1997; 13- I Troiani a Corito-Tarquinia (13 Agosto), “Bollettino Società Tarquiniense d’Arte e Storia (da ora in avanti BollSTAS)”, 25, 1996; 14- Cori(n)to-Tarquinia e la leggenda di Dardano, “Aufidus”, 31, 1997; 15- Ulisse in Etruria, “BollSTAS”, 26, 1997; 16- Virgilio e Cori(n)to-Tarquinia. La leggenda troiana in Etruria, Tarquinia, S.T.A.S, 1988; 17- Enea, Tarquinia e Roma, “Archeologia” 7/8/9, 1998; 18- I re Tarquiniesi: Demarato Corinto e suo figlio Lucumone, “BollSTAS”, 28, 1999; 19- Gli Elogi degli Spurinna, “Archeologia”, 11/12, 2000; 20- Odisseo in Etruria, “Aufidus” (Università di Bari), 42, 2000; 21-Corneto (oggi Tarquinia) Etrusca?, “BollSTAS”, 29, 2000; 22- Corneto Etrusca?, “Archeologia”, 1/2, 2001; 23- Odisseo e gli Etruschi. Fonti letterarie e documenti archeologici, “Archeologia”, 10/11, 2001; 24- La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia, 22-25 Settembre 1998 (Università degli Studi di Pavia, dipartimento Scienze dell’Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; 25- Tarquinia e i Tirreni del mar Egeo, “BollSTAS”, 30, 2001; 26- Gli Etruschi, Tarquinia e il vino, “Archeologia” 8/9, 2002. 27- L’elogio di Tarconte, “Archeologia”, 12, 2002;
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28- Le origini degli Etruschi nelle fonti etrusche, pubblicato in “BollSTAS”, 31, 2002; 29- La Corsica e Corneto, “Archeologia”, 2003, 1. 30- Corneto (Tarquinia) città etrusca davanti alla Corsica, “BollSTAS”, 32, 2003. 31- Gli Etruschi di Corneto, Tarquinia, 2005. 32- Il cielo di Tarquinia visto da Tagete, “Archeologia e beni culturali”, 2005. 33- I libri Tagetici. il calendario Brontoscopico, “BollStas”, 2005. 34- I Secoli Etruschi, “BollSocStorCiv”, 2005; 35- I Numerali Etruschi, “BollSocStorCiv”, 2006; 36- Tarquinia e i Libri Tagetici, “Nuova Archeologia”, 2006; 37- La leggenda di Odisseo in Etruria, “BollSocStorCiv”, 2006; 38 - Corito-Tarquinia, il DNA e l’origine degli Etruschi, pubblicato in “Nuova Archeologia”, 2006; 39- I libri Tagetici. La partizione del cielo e del fegato, pubblicato in “BollStas”, 2006; 40- Le mura premedioevali di Corneto (Tarquinia), “Nuova Archeologia”, (Luglio - Agosto), 2008; 39- Virgilio, Erodoto, il DNA e l’origine degli Etruschi (Corito-Tarquinia), “Aufidus” (CNR, Università di Bari e di Roma Tre), 66-67 (2007). Uscito nel gennaio 2009. STUDI MEDIOEVALI • • • •
Il “Trattato di pace fra i Cornetani e i Genovesi”, “BollSTAS”, 23, 1994; I rapporti di Genova e della Liguria con Corneto e l’odierno alto Lazio nei notai liguri tra 1186 e il 1284, “BollSTAS”, 24, 1995; Anno 1385: il Papa cede Corneto in pegno ai Genovesi, “BollSTAS”, 25, 1996; I rapporti fra Corneto e Genova nei secoli XII e XIII, in Atti del Convegno di Studi “I pellegrini della Tuscia medioevale: vie, luoghi e merci”, Tarquinia 4-5/10/1997, (STAS, 1999). OPERE LETTERARIE
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Poesie varie, in Poeti e Novellieri 1995, Genova, Silver Press, 1995. Poesie varie, in Fior da fiore, Genova, Golden Press, 1996. L’ultima Muraglia (poesie e racconti), Genova, Golden Press, 1997 (poesia prima classificata nel Premio “Janua 1997”). Poesie varie pubblicate nel Calendario dei Poeti, Genova, Golden Press, 1997. Alla mia terra, in Voci del 2000, Genova, Golden Press, 2000. Stelle e zanzare, in Voci del 2000 (ed. 2001), Genova, Golden Press, 2001. Bambino triste, in Voci del 2000 (ed. 2002), Genova, Golden Press, 2002. OPERE FILOSOFICHE
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La Filosofia e la Pedagogia di John Dewey, Roma, 2010.
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CAPITOLO PRIMO
ARUSPICINA BABILONESE, ITTITA, SIRIANA, GRECA, ROMANA ED ETRUSCA A CONFRONTO P R E M E S S A Presso gli Assiri Babilonesi, gli Ittiti e gli Etruschi, la comprensione della volontà degli dèi, e con ciò la predizione del futuro, era affidata soprattutto a quell’arte o scienza che in lingua etrusca si diceva nethśra3, ed in quella latina “haruspicina”. I Babilonesi chiamavano baru il sacerdore che la praticava. Gli Etruschi lo chiamavano netśvis, e i Romani haruspex4. L’arte si basava soprattutto sull’esame a scopo divinatorio delle interiora degli animali sacrificati, ma anche dei segni che venivano dal cielo, come tuoni, lampi e fulmini. Il concetto fondante poggiava sulla convinzione che ci fosse una perfetta corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo per cui nulla accade che sia fortuito; così la volontà degli dèi può manifestarsi sia nelle interiora degli animali sacrificati, soprattutto nel fegato, sia nei fenomeni atmosferici. La credenza che stava alla base dell’ispezione del fegato era che questo fosse la sede della vita. Del resto, gli Indù la ponevano e la pongono nel respi3
Alessandro Morandi, Nuovi Lineamenti di Lingua etrusca, Erre Emme, Roma, 1991, p. 158: vocabolo “formato verosimilmente con il suffisso -ra su una base neth- che ha varie rispondenze: gr. nēdùs (ventre), nēduia (intestini), germanico nati, nezi (pelle reticolata attorno agli intestini). 4 Secondo G. Devoto (Avviamento alla Etimologia Italiana . Dizionario Etimologico, le Monnier, Firenze, 1967) il vocabolo è “composto di – spex, nome d’agente della rad. SPEK (osservare; lat. specio) e di *haruparola indoeuropea connessa con sanscrito hira (vena)”. Haruspex però potrebbe anche derivare dal babilonese Baru (aruspice).
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ro, e gli Ebrei e i Testimoni di Geova la pongono ancora nel sangue. Fig. 1- Medio Oriente ed Asia minore
Le divinità tutelari dell’aruspicina assiro-babilonese erano Shamash, dio del sole, ed Adad, dio della tempesta. Il “Dio della Tempesta”, con altri nomi, era anche la suprema divinità maschile fra le popolazioni dell’Anatolia (f. 2): presso gli Urriti era chiamato Teshub, ad Hattusa si chiamava Tarhu, e in altre regioni era detto Taru, Tarhui, Tarhun o Tarhunt, ed era raffigurato spesso come un toro. In Anatolia, questa divinità, comunque la si chiamasse, era anche preposta alla fertilità, ai giuramenti, alla conclusione dei trattati ed all’osservanza del diritto. E’ al nome di questo dio che si riallaccia il nome anatolico di Taruntassa (una delle capitali dell’impero ittita), ed in modo particolare quello della città di Wilusa-Taruisa/*Tarhuisa (Ilio-Troia, della
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quale era protettore)5, Al suo nome si riporta pure il nome etrusco della città di Tarchuna (Tarquinia, della quale sembra fosse parimenti protettore) e del suo eponimo fondatore Tarchun (Tarconte): questi, come si diceva, era emigrato in Italia dall’Anatolia6. Al suo nome, infine si riallaccia quello di Tarchies (Tagete, il fanciullo divino che, emerso dalle zolle di Tarquinia, dettò a Tarconte i precetti dell’aruspicina). Agli inizi del secondo millennio a.C., l’aruspicina assirobabilonese si presentava già come un corpo ben costituito. Con aggiornamenti e commentari arriverà fino agli inizi della nostra era. Essa si diffuse fra molti popoli del medio e vicino Oriente. Ne abbiamo documentazioni archeologiche in vari luoghi fra cui Mari (Siria), Alalah (Siria orientale), Megiddo (Palestina), Tarso (Cilicia) ed Hattusa (capitale dell’impero ittita). Soprattutto gli Ittiti ebbero una ricca scienza delle predizioni. La grande maggioranza dei loro testi divinatori consiste di 5
Per la alternanza Taruisa *Tarhuisa vd. A. Palmucci, Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Dipartimento di Scienze dell’Antichità – Università di Bari; Dipartimento di Studi del Mondo Antico – Università di Roma Tre; CNR), 62-63, 2007, pp. 93126. Il "Dio della Tempesta" è menzionato fra le tre divinità protettrici di Ilio-Troia nell'atto di vassallaggio col quale Alaksandu, re di Wilusa (Ilio-Troia), nel 1280 a.C. chiese di rientrare nella protezione dell'imperatore ittita Muwatalli II. La predilezione per Ilio-Troia del Dio della Tempesta si ritrova anche nell’Iliade di Omero (IV, 46) dove il supremo Zeus, definito al momento “dio adunatore di fulmini”, afferma che la città di Ilio-Troia gli è cara più d’ogni altra perché i suoi abitanti gli avevano tributato da sempre onori e culti. 6 V. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Nogard, Roma, 1979; vd. pure A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università Studi Pavia, dipartimento di Scienze Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Dipartimento Scienze dell’Antichità – Università di Bari; Dipartimento di Studi del Mondo Antico – Università di Roma Tre), 62-63, pp. 93-126.
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copie ottenute da originali scritti in lingua babilonese, o di traduzioni. Questo materiale è per lo più anteriore alla fine dell’impero ittita che avvenne attorno al 1200 a.C. Fig. 2- Tarhui (il Dio della Tempesta)
Sono tali e tante, come vedremo, le somiglianze fra l’aruspicina mesopotamica, l’ittica, la greca e l’etrusca che è lecito pensare che la pratica dell’aruspicina sia passata dalla Mesopotamia in Anatolia e da qui in Grecia, in Palestina e sulle coste occidentali dell’Italia centrale al tempo delle leggendarie migrazioni che intercorsero fra l’oriente e l’Italia. Oggi, peraltro, i genetisti hanno trovato qualche somiglianza fra il DNA degli Etruschi e quello dei popoli
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compresi nel bacino orientale del mediterraneo. Non possiamo tuttavia escludere che gli Etruschi praticassero già una propria lettura del fegato degli animali: nel mito etrusco, Tarconte (cfr. Tarhunta), già istruito dal lidio Tirreno nell’arte dell’aruspicina, stava arando i campi di Tarquinia (cfr. Taruisa/*Tarhuisa “Troia”) quando da una zolla smossa più profondamente emerse un divino fanciullo chiamato Tarchies (cfr. Tarhui) che gli fornì “nuove informazioni sulle cose segrete” (vd. pp. 63-69). La figura di questo divino fanciullo, che spontaneamente emerge dalla zolle della propria madre terra, è significativo dell’elemento autoctono non solo dell’aruspicina, ma della stirpe; tuttavia il suo nome Tarchies (Tagete) e quello di Tarconte richiamano quello del dio anatolico-troiano Tarhui o Tarhunt. Si diceva, peraltro, che Tarconte, era figlio di Telefo (re della Misia) e di Iera o di Astioche sorella del re di Troia. Egli sarebbe venuto in Etruria dove avrebbe fondato Tarquinia ed avrebbe convissuto con Enea ventuto da Troia7. Gli Etruschi dovettero perfezionare la loro arte anche attraverso contatti diretti con la Mesopotamia. Una tarda occasione può essere stata ad esempio quella che si diede nel 323 a.C. quando una delegazione di Etruschi si recò a Babilonia per incontrare Alessandro8.
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Licofrone, Alessandra, v. 1240, ss. , con Parafrasi, Scòli e Commento di Giovanni Tzetze. 8 Arriano, La Spedizione di Alessandro, VII, 15,5.
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APPARATO
TECNICO
1. LA FACCIA VISCERALE DEL FEGATO. Per gli aruspici della Mesopotamia, la parte del fegato che aveva significanza ominosa era la faccia superiore, quella che oggi è chiamata “faccia vescicolare”. Era divisa in due settori, destro e sinistro, che i Babilonesi chiamavano Ali. I Greci e i Romani li chiameranno Lingue (gr. Glossai; lat. Linguae eminentes o Fibrae)9. Tutta la faccia era poi divisa in diverse sezioni che prendevano il nome sia dalla loro configurazione fisica che dal loro significato simbolico10. Ce n’erano di due tipi. - Sinu (carne), cioè le parti costituenti del Fegato come la Cistifellea, la Crescenza e il Dito. - Usurtu (disegno), cioè i segni e i solchi, come la Presenza e il Sentiero, che erano procurati dal contatto con altri organo interni; oppure i legamenti, come la Forza e la Base del Trono, che connettevano il fegato ad altri organi anatomici; oppure parti del sistema vascolare. Gis-hur, che significa disegno, è un termine generico che a volte indicava tutte le sezioni della facciata.Ogni sezione era divisa a sua volta in un centro (cioè il centro vero e 9
Esichio, Lexicon, s.v. Glossai (lingue): “Suoni, e parti ominose del fegato nella divinazione”; A. Cornelio Celso (I sec.): “Iercur in quattuor fibras dividitur”; Festo (I sec.), s.v. Fiber: “Genus bestiae quadripes. Plautus: Sic me subes cottidie, quasi fiber salicem. Quo nomine extremae orae fluminis appellantur, unde et fibras iocineris et fimbrias vestimentarum dicimus» ;Paolo Diadoco : “laxis resonare fibris (risuonare con larghe corde vocali)”; Isidoro, Origines: “Fibrae iecoris sunt extremitates sicut extremae partes foliorum in vitibus, sive quasi linguae eminentes (Le fibrae del fegato sono le parti laterali come quelle delle foglie delle viti o meglio come lingue prominenti)”. 10 Alcuni elementi erano così sottili che oggi non hanno nome in anatomia.
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proprio e la sua area), una parte alla sua destra, ed un’altra alla sua sinistra. Ogni centro, ogni destra ed ogni sinistra era a sua volta suddiviso in una testa, una mezzeria ed una base. Così ogni sezione risultava composta di nove sottosezioni. Sulla base della forma fisica delle sue parti, il fegato fu dunque tappezzato da una molteplicità di sezioni, ognuna col suo significato simbolico positivo o negativo. Indicativamente, la parte destra era positiva, mentre la sinistra era negativa: La metà destra mi è pertinente, la sinistra è del nemico, quando tu fai un estispicio per il benessere del re, per le guerre, per la campagna, per prendere una città, per guarire il malato, per la pioggia, per intraprendere un’impresa e quant’altro11. Nel celebre modello di fegato del primo millennio, illustrato da Nougayrol, “destra” e “sinistra” sono in effetti sinonimi di positivo e di negativo. Ma quale fosse per i Babilonesi la parte destra e quale la sinistra del fegato è rimasto agli studiosi molto problematico, tanto più che ogni sezione aveva una propria particolare destra e un propria particolare sinistra, non sempre corrispondenti a quelle del fegato stesso12. Noi crediamo però che la cosa sia risolvibile. Vediamo.
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Vd. U. Koch Westenholz, Babylonian Liver Omens, The Carsten Niebuhr Institute of Near Eastern Studies (University of Copenhagen), Copenhagen, 2000, p. 38 e n. 6: (Multalbitlu, tavoletta 2-3,I, 59-61, “CT” 20, 43-48). 12 Sul modello (BM, 50494) riportato e illustrato da J. Nougayrol, “Revue d’Assirologie et d’Archéologie orientale”, (62), 31-50, è scritto: “la parte destra della cima della presenza è destra, la parte destra della mezzeria della Presenza è sinistra, la parte destra della base della mezzeria della Presenza è destra”.
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Nel modo in cui, nel museo di Atene, la statua (ca 410 a.C.) della sacerdotessa Diotima di Mantinea mostra nella mano sinistra un fegato divinatorio, la parte della faccia ominosa dell’organo che comprende il cosiddetto Dito del Fegato (processo piramidale) si trova alla sinistra del corpo della sacerdotessa, la parte destra alla sua destra, la parte superiore verso la sua testa, e quella inferiore verso i suoi piedi (fig. 3).
Così è anche per il fegato che è nella mano sinistra della statua (IV-III sec. a.C.) dell’aruspice etrusco di Volterra (f. 27) nonché per il fegato che è nella mano sinistra del divino Tagete, mitico fondatore dell’aruspicina, nella scena graffita sul celebre specchio etrusco di Tuscania (f. 18). Così è pure per il fegato di altre figure etrusche meno famose. Dai reperti iconografici esaminati ricaviamo dunque che per gli
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aruspici greci ed etruschi la parte sinistra del fegato che tenevano in mano per esaminare era quella che comprendeva il Dito del fegato e guardava la parte sinistra del corpo dello stesso aruspice13. Non possediamo corrispondenti documenti iconografici babilonesi ed ittiti di aruspici con fegato in mano. Abbiamo solo modelli di fegato. Anche questi, comunque, come quelli greci ed etruschi, presentano sempre quella sporgenza ch’essi chiamavano Dito o Pollice del fegato (processo piramidale). Per i Babilonesi, questa sporgenza era il simbolo del nemico (vd. oltre). Ora, poiché, per loro, la parte del fegato che “appartiene al nemico” era la sinistra, si può ragionevolmente supporre che, come per i Greci e gli Etruschi, anche per i Babilonesi e gli Ittiti la parte la parte sinistra del fegato fosse quella che conteneva il Dito. Come si vede, lo studio dell’aruspicina babilonese potrebbe illuminare quella etrusca, e viceversa.
Il fegato poteva anche presentare variazioni morfologiche dovute sia a malattie che ad influenze esterne. Si tratta dei 13
La Kock Westenholz (op. cit. , p. 39 e n. 107) sostiene invece che “il fegato era visto come appariva nel sacrificio animale adagiato sul dorso”, e vorrebbe che anche le rappresentazioni etrusche mostrassero “gli aruspici che ispezionano il fegato con l’orlo dorsale lontano da loro”.
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cosiddetti “segni fortuiti”. Questi avevano in genere valore negativo, specie se posti sul lato destro; ma, se posti sul lato sinistro, potevano assumere anche valore positivo. In pratica avveniva come nei nostri calcoli algebrici: (+ x + = +); (- x - = +); (+ x - = -); (- x + = -)14. Ulla Jeyes ha giustamente notato che il collegare alcune caratteristiche fisiche a valori positivi o negativi non è esclusivo dell’aruspicina mesopotamica, ma tocca un tasto della psicologia umana della percezione: è universalmente riconosciuto che il normale, il sano, il grande, il dritto, il lungo, il largo ed il lucido suscitano associazioni favoreli; l’anormale, invece, il rotto, il piccolo, lo storto, il corto, lo stretto e l’opaco suscitano associazioni sfavorevoli15. L’aruspice non poteva eludere di dichiarare favorevole o sfavorevole l’esito d’una consultazione; però poteva, all’interno dello stesso sistema interpretativo, trovare la possibilità per riflessioni creative ed espedienti politici. Presso gli Etruschi, addirittura, l’aruspice poteva cercare di render vano il responso negativo dichiarando che “Tagete, iniziatore dell’aruspicina, aveva finto quelle cose”16. *** La sequenza con la quale le sezioni del fegato venivano ispezionate fu stabilita fin dal Vecchio Periodo Babilonese, e rimase tale per tutti i successivi periodi17. Secondo la tavoletta Multabiltu, essa era la seguente: (1) la Presenza; (2) il Sentiero; (3) la Parola Piacevole; (4) la Forza; (5) la Porta del Palazzo; (6) il Benessere; (7) 14
Vd. U. Kock Westenholz, op. cit. p. 43. Se però, dice la Kock, la protasi contiene due o più termini, essi potrebbero essere trattati come elementi individuali, per es. (+ x -) x (- x +) = +; oppure essi potrebbero rinforzarsi l’uno con l’altro (+ x -) + (- x +) = -. 15 Vd. U. Yeyes, Old Babylonian Extispicy, Nederlands HistorischArchaelogisch Te Istambul, Istambul, 1989, p. 51. 16 Lucano, De Bello Civili, I, 584. 17 J. Nougayrol, “Journal of Cuneiform Studies”, 1967 (21), 232-233.
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la Cistifellea; (8) la Sconfitta dell’esercito nemico; (9) la Base del Trono; (10) il Dito o Pollice; (11) il Giogo; (12) la Crescenza. Con direzione antioraria, l’ispezione incominciava dunque dalla Presenza perché sul fegato questo segno poteva anche mancare; e se il segno mancava voleva dire che il dio invocato si rifiutava di rispondere e che era inutile procedere all’esame delle altre parti elencate. A sua volta, la Crescenza (processo papillare) era l’ultima ad essere ispezionata; e, per il fatto d’esser l’ultima, essa poteva riassumere ed anche condizionare tutto il significato ominoso dell’ispezione. Secondo testimonianze d’epoca tarda, poi, alle dodici sezioni del fegato corrispondevano i dodici mesi dell’anno babilonese (da marzo-aprile a febbraio-marzo) con i loro rispettivi segni zodiacali e dèi18. 18
Di questa associazioni non si conosce ad oggi alcuna fonte tradizionale: abbiamo solo un testo Tardo Babilonese proveniente da Uruk e riportato da Koch Westenholz (op. cit., p. 24). In esso le prime sei sezioni corrispondenti all’Ala Destra del fegato sono elencate nell’ordine d’ispezione tradizionale sopra riferito; le altre, corrispondenti all’ Ala Sinistra, sono invece elencate con qualche lacuna e confusione od errore. L’ispezione partiva dall’ Ala Destra e proseguiva in senso antiorario verso sinistra. (1) La Presenza - Enlil, dio dell’aria; Nisan (marzo-aprile); costellazione Ariete. (2) Il Sentiero - Shamash, dio del sole e protettore dei viaggiatori; mese Ayaru (aprile -maggio); costellazione Toro. (3) La Parola Gradevole – dio Nurku; mese Simanu (maggiogiugno); Orione. (4) La Forza – dio Ninurta; mese Dumuzu (giugno- luglio); costellazione Cancro. (5) La Porta del Palazzo – dio Belet-ekalli; mese Abu (luglioagosto); costellazione Leone. (6) Il Benessere – Adad, dio del tuono e della tempesta; mese Ululu (agosto-settembre); costellazione Corvo. (7) La Cistifellea – dio Anu; mese Tasritu (settemebre – ottobre); costellazione Bilancia.
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Esaminiamo ora le varie parti del fegato babilonese. 2. IL DITO O POLLICE (SU.SI - UBANUM / U). In anatomia è oggi detto "processo caudato” o “piramidale”. E’ simile a un Dito pollice rispetto a una mano; la Lerderer preferisce infatti chiamarlo Pollice. Nei modelli d’argilla babilonesi la sua forma fu a volte riprodotta come quella d’una piramide a tre lati (fig. 4). Questa fu divisa in varie parti non ancora ben identificate: pianura, palazzo, larghezza, territorio. Ognuna di queste parti, conformemente ad ogni altra del fegato, fu suddivisa in una testa, una mezzeria e una base, con relative parti destre, centrali e sinistre. Insieme, le tre teste delle tre parti formavano la testa del dito19. Il Thulin nel lontano 1900 credette che la testa del Dito corrispondesse a quella dell’intero fegato (vd. p. 40). Ma da nessuna fonte babilonese, o da altra che sia, risulta che il Dito avesse mai avuto quella denominazione. Esso, non era visto come una testa, bensì come un dito pollice per la sua posizione laterale; ed aveva sì una testa, ma la aveva solo in proprio così come in proprio l’aveva ogni altra parte ominosa del fegato.
(8)
Il Dito – dio ? - ; mese Arahsamna (ottobre-novembre); costellazione Scorpione. N.B. Secondo l’ordine canonico, avrebbe dovuto essere elencato al decimo posto. (9) N.B. Nell’ l’oridine canonico, qui ci sarebbe la Sconfitta dell’esercito nemico. (10) La Crescenza – dio ? - ; mese Tebetu (dicembreGennaio); costellazione Vega. N.B. Secondo l’ordine canonico, avrebbe dovuto essere elencato al dodicesimo posto. Qui avrebbe dovuto esserci il Dito. (11) Il Giogo – dio ? - ; mese Sabatu (gennaio - febbraio); costellazione Arturo. (12) Il Fiume del Fegato – dio ? - ; mese Addaru (febbraio – marzo); costellazione Pleiadi. N.B. Questo segno non appartiene all’elenco canonico delle dodici sezioni. Qui avrebbe dovuto esserci la Crescenza, che invece è al decimo posto. 19 H. Jeyes, op. cit. , p. 65 ss.; H. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 69-70.
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Fig. 5 – Fegato ovino
A - Processo papillare (babil. MAS o Sibtu = Crescenza, Cresta); gr. crotatos Lobòs = sommo Baccello; lat. Caput = Testa, capitale; etr. Methlum = Testa, capitale, centro federale). B - Vena porta, Porta del fegato (bab. Nar amuri = Porta del fegato; gr. Pylai = Porta). C - Cistifellea (babil. Martu = Vescica; gr. Chole = Bile; lat. Fel = Bile). D - Processo caudato o piramidale (babil. Ubanu = Dito). E - Impronta (babil. Manzànzu = Presenza divina; gr. Theos = Dio; lat. Deus = Dio). F - Impronta (babil. Padànu = Sentiero; gr. Keleythos = Sentiero). G - Legamento venoso (babil. Pittuliya = Nodo; gr. Desmos = Nodo).
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Il simbolo del Dito del fegato era “il nemico”, ed era opposto a quello della Crescenza (processo papillare; vd. oltre). Esempio: •
Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivolge verso il Dito, l’uomo trionferà sul suo nemico20.
Il simbolo del Dito, in quanto rappresentava il nemico, era anche opposto a quello della Cistifellea che simboleggiava il re, la sua famiglia e il trono. Esempi: • • •
Se la Cistifellea s’è voltata e ha circondato il Dito, il re occuperà il paese nemico. Se la Cistifellea s’è sollevata e s’è impadronita della testa del Dito, il re esproprierà una città straniera. Se il Dito s’è impadronito della testa della Cistifellea, il nemico prenderà il paese del principe21.
C’è poi una serie di responsi dove il Dito simboleggia anche il concetto di nascosto o sinistro, come quel che accade dietro le chiuse porte del palazzo reale: intrighi, menzogne, tradimenti, magia nera, trasgressioni sessuali e altre simili cose22. 3. IL GIOGO (NIRUM / SUDUM). Nel noto modello d’argilla illustrato dal Nougayriol (ff. 6; 7)23, esso, visto verticalmente, confina in basso con il Canale del Fegato, ed in alto con il bordo superiore del modello; visto orizzontalmente, confina alla sua sinistra con la zona della base del Dito del fegato, ed alla sua destra giunge fino all’estremità del mo20
A. Goetze, Old Babylonian Omen Testes, “Yale Babylonian Omen Textes” (10), 1947, p. 35, r. 7-8. 21 H. Jeyes, op. cit., p. 70. 22 H. Jeyes, op. cit., p. 70-71. 23 J. Nougayrol, Le foie d’orientation BM 50494, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale“, (62), 1968, pp. 31-50 e ff. 1-9.
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dellino. In verticale, il Giogo fu diviso in una Testa, una Mezzeria, e un Collo24. La Mezzeria è divisa dal Collo per mezzo del Nodo Destro (Kisirtu; gr. Desmos). Quest’ultimo corrisponde, in natura, al “legamento venoso” che, come un nodo, unisce le due ali della faccia superiore del fegato. La Testa del Giogo è divisa a metà dalla Crescenza (processo papillare). Un documento poi presenta il caso in cui •
il Giogo di fronte alla Crescenza è accuratamente diviso in due come i denti di un pettine25.
“Giogo” è il nome di una barra di legno che ha due incurvature laterali atte ad esser imposte sul collo d’una coppia di buoi per aggiogarla e tenerla unita. Lo stesso nome è stato traslato per indicare quella zona del fegato che, come un giogo, ne unisce e “governa” le due ali, sinistra e destra (ff. 6; 7)26. Ci sono poi alcuni responsi che utilizzano esplicitamente il simbolo dei buoi aggiogati27. Sono stati finora pubblicati solo pochi responsi tratti dall’osservazione del Giogo28. In genere, essi parlano di attacchi di varie specie di insetti e di genti nemiche come quelle che abitavano Elam e Subartu29. 24
R. D. Biggs, “Qutnu, masrahu” and related terms in Babylonian extispicy, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale ”, (63), 1969, p. 159 ss. 25 VAT 4102, 4, 6 in U. Jeyes, op. cit. , 162, n. 21. 26 M. I. Hussey, Anatomical Nomenclature in an Akkadian Omen Text, “Journal of Cuneiform Textes”, (2), 1948, pp. 21-32. 27 Ulla Koch-Westenholz, op. cit., p. 58. 28 Vd. documenti in Ulla Jeyes, op. cit., p. 71. 29 Vd. Elenco dei documenti in Ulla Koch-Westenholz, op. cit. , p. 57. L’Elam si trovava ad ovest del corso inferiore del Tigri, ed aveva per capitale Susa. Gli Elamiti ebbero da sempre stretti rapporti con Sumer e Babilonia, dove compirono incursioni e per qualche tempo dominarono. Infine furono sconfitti e sottomessi. Subartu era il nome della regione a nord della Babilonia comprendente più o meno l’Assiria e la Mesopotamia settentrionale.
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Altri responsi, infine, associano simbolicamente il Giogo alla città. La Jeyes, che lo ha notato, riferisce alcuni documenti: •
Se, nell’ispezione del fegato, manca il Giogo, la città e i suoi abitanti periranno […]; se, poi, sulla testa o nella mezzeria o sul collo del Giogo si trova una stella rossa, il fuoco divamperà nei sobborghi o nella parte interna o nel centro della città30.
Il fatto che città sia uno dei valori che i Babilonesi davano a quella parte di fegato ch’essi chiamavano Giogo, trova corrispondenza nell’aruspicina etrusca. Il Giogo si trova al di sopra della Crescenza (processo papillare); ora, nei modelli di fegato etruschi, nella zona contigua alla parte superiore della Crescenza è scritto Metlvmth (f. 34) che significa città31. La sua area, come quella del Giogo babilonese, sporge verso entrambi i lati sinistro e destro della facciata del fegato. Ne riparleremo a p. 36. Siamo di fronte a un nuovo caso (vd. p. 20-22) in cui lo studio dell’aruspicina babilonese può illuminare quella etrusca, e viceversa. In un tardo testo babilonese proveniente da Uruk, il Giogo è associato al mese di Sabatu (Gennaio), alla stella Arturo della Costellazione di Boote, ed alla costellazione dell’Acquario (21 genn. - 21 febbr. ; astri guida: Saturno e Urano), il gigante incaricato da Dio di rovesciare dal cielo sul mondo l’acqua del diluvio per punire le nefandezze degli uomini32. === 30
Vd. U. Jeyes, op. cit. , p. 71. G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi Etruschi”, 59, 1993. p. 130. 32 U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 24: “The Yoke [-------] the month sabatu, the Giant (Aquarius) [---] the costellation Yoke of the Land (Arcturus)”. 31
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Fig. 6 -. Modello di Fegato (BM 50494) da Babilonia (I millennio a.C). Londra, British Museum.
Nelle varie “caselleâ€? di questo modellino fittile i Babilonesi riportarono con scrittura cuneiforme tutti i nomi delle relative parti ominose del fegato. Purtroppo, il modello è mutilo. Nella fig. 7, leggi la traduzione delle iscrizioni della parte centrale del modello.
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Fig. 7 -. Modello di Fegato (BM 50494) da Babilonia (I millennio a.C). Londra, British Museum. Traduzioni delle iscrizioni della parte centrale.
Si noti che la Crescrenza non solo ha una Testa, ma è pure connotata come una “Testa” con relativa Spalla. In alcuni responsi essa ha pure una Fronte (vd. p. 34). Il Giogo, come quello di un bovino, le sovrasta tutte.
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4. IL NODO (K I S I R T I). Il Nodo di Destra (Kisirti imitti) è illustrato dal modellino del Neugayrol (ff. 6; 7)33 che ce ne fornisce l’esatta ubicazione: giusto il suo nome, esso unisce la mezzeria del Giogo del Fegato con il collo dello stesso Giogo34. Anche gli Ittiti, nelle loro pratiche divinatorie, lo chiamarono Nodo: Pittuliya nella loro lingua35. Pure i Greci lo chiamarono Nodo: Desmos nella loro lingua36. Nella moderna anatomia mantiene il nome di “legamento venoso”. Nei modelli etruschi (f. 34), corrisponde alla piega visibile lungo il nastro superiore del fegato, sopra la zona del Metlumt (città), nel punto in cui la casa del dio Veti tocca quella della dea Cilen, cioè dove le due ali del fegato, destra e sinistra, s’incontrano. Ne riparleremo a pag. 102. 5. I L FIUME E LA P ORTA DEL FEGATO (NAR AMUTIM o TA37 KALTIN, ABUL LIBBIM) . Quel che gli aruspici babilonesi chiamavano Porta e Fiume del fegato corrisponde in anatomia alla “vena porta” o semplicemente alla “porta”38. Quest’ultima, in particolare, è la fessura attraverso cui la 33
J. Nougayrol, Le foie d’orientation BM 50494, “Revue d’Assirologie et d’Archeologie Orientale“, (62), 1968, pp. 31-50 e ff. 1-9. 34 I documenti menzionano anche un Nodo di Sinistra (Kisirti sumeli) che doveva trovarsi fra la base del Dito, la testa e il collo della Cistifellea. In base a ciò, Ulla Jeyes ha suggerito di identificarlo con il legamento che unisce il rene destro al fegato (U. Jeyes, op. cit., p. 74). 35 E. Laroche, Sur le vocabulaire de l’haruspicine Hittite, “Revue d’Assirologie et d’ Archéologie orientale“, 4, 1970, p. 127, ss. 36 Esichio, Lexicon, s.v. Desmos. 37 U. Jeyes, op. cit., p. 74. 37 Secondo Neugayrol “Testes hépatoscopiques d’époque ancienne conservés on Muée de Louvre “, XLIV, 1950, pp.1-44), Nar Amutin / ID BA (fiume del fegato) e Takaltin / TUN (borsa) sono sinonimi. Vd. pure U. Jeyes, op. cit. p. 74. 38 R. D. Biggs, Qutnu, Masrahu and related terms concerning Holes, “Journal of Near Eastern Studies”, (33), 1974, p. 167. Vd. pure U. Jeyes, op. cit. p. 74.
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“vena porta” convoglia nel fegato il sangue ricco delle sostanze provenienti dall’assorbimento intestinale (fg. 5). Tali sostanze, attraverso il fegato subiscono importanti modificazioni biochimiche. Il sangue, infine, entrato dalla “porta”, e trasformato nel fegato, esce per ritornare al cuore. La “porta” è il centro topico e vitale del fegato. Nel modello del Neugayrol (ff. 6; 7), il Fiume è diviso in lato destro, centrale e sinistro, ed è posto sotto la Crescenza (processo papillare). La Porta, in particolare, è esattamente sotto la Crescenza. I Greci chiamarono Pothamos (fiume) e Pylai (porte) quel che i Babilonesi chiamavano Fiume del fegato e Porta del fegato. I Romani chiamarono Venae (Vene) il Fiume, e Cellae (Celle) le tre sezioni (destra, sinistra e centro) del Fiume e della Porta come le tre celle dei templi (vd. p. 46). Gli Etruschi, nella casella contigua al “processo papillare” del modello bronzeo di Piacenza scrissero Letham che pare possa essere la forma etrusca del nome di Lete, il fiume infernale che dava l’oblio ai trapassati prima di reincarnarsi (f. 34). 6. LA CISTIFELLEA (ZE O ES / MARTUM). La Cistifellea si divide in una testa, un centro e un collo39. In alcuni casi è chiamata Re‘um (Pastore), termine con il quale a volte è denominato il re. Essa, infatti, simboleggia il re, la sua famiglia e il trono. Gli Ittiti la chiamarono ZE (zehili “psiman”), i Greci Dochai Choles40, i Romani Fel. Pare che in qualche modo i Babilonesi connettessero la cistifellea anche alle acque41. Gli Etruschi la divisero in quattro
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Il “dotto cistico” è attaccato al Collo. Nel modello di fegato del Neugayrol, come d’altronde in natura, il suo peduncolo parte dalla Porta del fegato sotto la Crescenza. Il lato destro è quello alla sua destra, ed il sinistro è quello alla sua sinistra. 40 E. Laroche, “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, (64), 1970. p. 133; Esichio, Lexicon, s.v. Doche.
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caselle42, e la consacrarono a Nettuno e alla potenza delle acque marine: l’imperatore Augusto ne trovò una doppia il giorno in cui vinse la battaglia navale di Azio43. 7. LA CRESCENZA (MAS o SIBTUM)44. La Crescenza era l’ultima parte del fegato ad essere ispezionata (vd. p. 24); così poteva riassumere e addirittura condizionare il significato complessivo del responso. Il suo nome assiro vien fatto derivare da wasabu (crescere in dimensione)45. Parimenti, gli Ittiti la chiamarono Zi (Crescenza, Gomitolo)46. In natura, essa corrisponde al “processo papillare”47: si trova nella parte alta del centro del fegato, sopra la “vena porta” ed il peduncolo della Cistifellea. Il suo nome ancor oggi esprime l’immagine d’una Crescenza a forma di capezzolo ovvero piccola testa. Nel modello di fegato del Neugayrol, essa risulta divisa in lato destro e sinistro; verticalmente, poi, in una spalla e una testa (vd. f. 7). Alcune fonti menzionano pure una fronte (putum)48.
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J Nougaryol segnalò che una delle iscrizioni segnate sulla cistifellea d’un modello di fegato caldeo, trovatro a Mari, sembrava significare “e la pioggia nel paese nemico” (“Comptes rendus de l’Acadèmie des inscriptions et Belles Lettres”, 1955). 42 Perché vi compresero quella del dotto cistico, 43 Plinio, Storia naturale, XI, 195. 44 Il nome Sibtum è usato a volte come maschile, altre come femminile. 45 Vd. U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 64. Ne sono date varie traduzioni. J. Nougayrol: fr. Excroissance (Escrescenza); Ulla Jeyes: ingl. Increase (Aumento); R. Leiderer: ted. Auswuchs (Escrescenza). J. W. Meyer fa invece derivare il termine da sabatu (“Alter Orient und Altes Testament”, XXXIX, 1987, p. 172) che egli traduce con ted. Greifen (afferrare). Sotto questo aspetto, Sibtum potrebbe significare Mano oppure Dito medio della mano, contrapposto ad Ubanum inteso come Dito pollice. Un responso menziona, infatti, due Crescenze ditiformi. 46 Vd. Alfred Boissier, Mantique Babilonienne et mantique hittite, Parigi, 1935, p. 27, n. 3. 47 M. I. Hussey, Anatomical Nomenclature in an Akkadian Omen Text, “JCS”, 2, 1948, pp. 21-22. 48 U. Jeyes, op. cit., p. 74.
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Certi responsi, poi, distinguono una Crescenza e una Crescenza del Giogo (Sibut Nirim). Uno di essi dice: •
Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivolge verso il Dito, l’uomo trionferà sul suo nemico; ma se la Crescenza s’è mutata in un’arma e punta in direzio-
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ne della Crescenza del Giogo il suo nemico trionferà su di lui49. Nella sentenza appena citata, la sezione della Crescenza punta verso il Giogo; nel modello del Neugayrol (ff. 6; 7) sembra invece che la sezione del Giogo invada quella della Crescenza. In qualche modo, Il loro valore poteva essere intercambiabile50. Gli Etruschi infatti ne fecero un’unica zona: nel loro celebre modello bronzeo di “fegato di Piacenza” (f. 18), in quella parte che corrisponde al Giogo dei Babilonesi, e che corre lungo la base superiore della protuberanza che i Babilonesi usavano chiamare Crescenza (oggi “processo papillare”), gli Etruschi scrissero Metlvmth (f. 34). Questa parola, secondo G. Devoto e G. Colonna, significa “città” (lat. Urbs)51 o, meglio, a nostro avviso, “città capitale” (lat. Caput) (vd. pp. 103-105). Si tenga presente che, in alcuni responsi babilonesi, il Giogo simboleggia proprio la città (vd. par 3 a p. 29) e che, in taluni casi, la stessa Crescenza poteva avere la valenza di città capitale. Un modello con tre Crescenze presenta infatti la seguente didascalia: •
Presagio per Accad (capitale dell’antica Babilonia) concer-
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Vd. U. Jeyes, op. cit., p. 204, n. 206. Al centro del fegato, in alto, si legge “spalla della Crescenza”, alla sinistra della spalla si legge “testa della sinistra del Giogo”, e sotto la spalla si legge “testa della Crescenza”. Quest’ultima si trova in mezzo fra la “testa della destra del Giogo“ e una ripetizione della “testa della sinistra del Giogo”. Sembrerebbe che la testa della destra e quella della sinistra del Giogo occupino la posizione che dovrebbe spettare alla sinistra ed alla destra della testa della Crescenza. Tutta la sequenza di teste è comunque indicata con l’unico nome di Crescenza nella nomenclatura scritta lungo il Fiume del Fegato 51 G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi Etruschi”, 59, 1993. p.130. 50
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nente Rimus e Manastusu (sono i nomi di due re)52. Ma la Crescenza estendeva la propria valenza anche a quella di madre, di patria e di terra coi suoi prodotti e profitti; ciò diversamente dal Dito che simboleggiava il nemico. Presentiamo due significativi esempi di valore di ventre materno. • •
Se la Crescenza è simile all’uccello pietra, la moglie dell’uomo darà alla nascita un maschio53; se la Crescenza manca, e al suo posto usuale c’è un buco, il bambino non ancora nato della donna incinta morirà54.
La Crescenza poteva presentarsi anche doppia o multipla; e ciò nella stragrande maggioranza dei casi aveva significato positivo. Eccone alcuni esempi55. • • • • • •
Due Crescenze: l’uomo vedrà la ricchezza. Se due Crescenze sono consecutive, il piccolo tesoro dell’uomo diverrà grande, e l’uomo prospererà. Se ci sono due Crescenze e sono pieghettate come una fune, il […] siederà sul trono. Se ci sono due Crescenze, il raccolto del paese entrerà nel Palazzo. Se due Crescenze si succedono l’una all’altra, il piccolo tesoro dell’uomo diverrà grande, l’uomo prospererà. Se una Crescenza è sovrapposta all’altra, consumerai il raccolto della terra del nemico.
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M. Rutten, Trente-deux modèles des foies en argile inscrits provenent de Tell-Hariri (Mari), “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, (35), 1938, p. 41 e f. 2. 53 U. Jeyes, op. cit., p. 139, nn. 27-29. 54 U. Jeyes, op. cit., p. 146, nn. 41-43 55 Gli esempi che sono tratti da U. Jeyes, op. cit., pp. 72; 137-143.
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• • • • •
Se ci sono tre Crescenze, il […] prenderà il controllo e salirà sul [trono (?)]. Tre Crescenze: il re prenderà il controllo dei beni di qualcuno e li darà ad un altro. Se ci sono quattro Crescenze: significa cambiamento di direzione. Se ci sono cinque Crescenze, tu consumerai il […] del tuo nemico. Quattro Crescenze: le regioni si divoreranno l’una con l’altra56.
Due e a volte anche più Crescenze avevano dunque significato positivo. Nell’epatoscopia etrusca e romana la funzione positiva delle duplici Crescenze è svolta dalla presenza duplicata del Caput (testa) del fegato. La Crescenza simboleggia anche la vittoria e la salita al trono; ed è in contrasto col Dito (oggi processo piramidale) che è il simbolo del nemico e del rivale in genere: •
Se la Crescenza s’è trasformata in un’arma, e si rivolge verso il Dito l’uomo trionferà sul suo nemico57.
•
Se la Crescenza è grande come il Dito, il domestico sarà potente come il suo padrone, o il padrone della domestica l’amerà ed ella sarà pari alla sua padrona58.
Cattivo segno era invece se la Crescenza era bucata o divisa o mancante59: •
Se la Crescenza è forata, il pidocchio infesterà.
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Questi ultimi due esempi appartengono ai rari casi in cui la molteplicità delle crescenze ha significato negativo. 57 A. Goetze, Old Babylonian Omen Testes, “Yale Babylonian Omen Textes” (10), 1947, p. 35, r. 7-8. 58 In U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 23. 59 I responsi che seguono sono tratti da U. Jeys, op. cit. , pp. 72; 137-143.
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Se un buco si trova nella parte destra della Crescenza, l’uomo impazzirà. • Se un buco si trova nel mezzo della Crescenza, morirà una sacerdotessa o un sacerdote. • Se un buco si trova nella parte sinistra della Crescenza, i cani impazziranno60. • Se nella […] della Crescenza c’è un buco, e la Crescenza lo ricopre, il nemico riempirà i pozzi davanti a te (vuol dire che assedierà la città, e riempirà di terra i pozzi dei cunicoli che vi portano l’acqua). • Se sulla “fronte” della Crescenza ci sono sette buchi: una peste di roditori; • Se [la testa (?)] della Crescenza è divisa, il cittadino preferirà (vivere) in aperta campagna [e] l’uomo (il re della città) finirà in rovina; • Se la Crescenza è suddivisa, l’orzo mancherà; • Se la Crescenza manca, e al suo posto usuale c’è un buco, il bambino non ancora nato della donna incinta morirà. *** La stessa localizzazione anatomica e gli stessi significati ominosi della Crescenza (MAS/Sibtu) dei Babilonesi avrà quella parte di fegato che il Greci, nella loro epatoscopia, chiameranno Lobòs (Lobo) e, a volte, anche Kefalè (Testa). Oggi, noi, in anatomia, la chiamiamo “processo papillare” perché somiglia a una piccola testa (f. 5). Il poeta Nicandro (II sec. a.C.), trattando del fegato di maiale, spiegò: •
•
La cima del Lobo (acrotaton Lobòn) sporge dalla Tavola (Trapeze)61, e si protende (neyei) vicino la cistifellea (schedon Choles) e la Porta della Vena Porta (Pylàon)62.
60
Nel modello (BM 50494) illustrato da Neugayrol (op. cit., p. 40) la Spalla della Crescenza è chiamata anche Morso di Cane.
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Questo Lobo (Lobòs) di cui tratta Nicandro tende verso la Cistifellea e l’entrata della Vena Porta proprio come la Crescenza (oggi processo papillare) di cui parlavano i Babilonesi; e non va scambiata con il Dito (oggi processo piramidale), come fece Thulin (vd. pp. 25; 40; 96)63: la Crescenza è vicinissima alla Porta del fegato, mentre il Dito è discosto e si rivolge verso la parte opposta (f. 5). *** Platone sosteneva che c’è una parte dell’anima che non ascolta la ragione perché si lascia sedurre dalle apparenze. Un dio l’ha posta nel fegato perché, liscio e lucido e dolce e amaro com’è, potesse riflettere i comandi dell’anima appetitiva e rimandarli all’intelletto per suscitargli paura. Ciò perché ogni volta, dice Platone, l’anima appetitiva, servendosi dell’amarezza congenita nel fegato, si mostri a quella razionale con figura minacciosa, e diffondendo amarezza per tutto l’organo, vi presenti i colori della bile; e sia piegando da eretto (ex orthou) il Lobo (cioè l’equivalete della Crescenza babilonese) e torcendolo, sia ostruendo e chiudendo Serbatoi (dochàs) e Porte (pylas), provocasse dolori e nausee. Quando, al contrario, un’ispirazione d’intelligenza disegna immagini di dolcezza, e calma l’amarezza [...], essa dispone secondo le regole tut61
Vd. Esichio, Lexicon: “Dolou Trapeza = Epì toy epatos, semeion ev thytike (Tavola del Dolo = Sopra il fegato, segno in divinazione)”. Tavola del Dolo, cioè facciata della parte sfavorevole del fegato. 62 Nicandro, Theriaca , 560. 63 Per C. Thulin, si veda Realencyclopadie der Classicischen Altertumswissensschaft, s.v. Haruspices, col. 2452. Thulin citò il passo ove Nicandro parla del baccello che sporge dalla Tavola, ma omise con reticenza la parte ove Nicandro dice che lo stesso lobo si trova vicino alla porta del fegato. Thulin elude così di dover localizzare correttamente il Lobo nella zona accanto alla Porta: questa si trova nella parte centrale del fegato.
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to ciò che nel fegato è eretto (cioè il Lobo), liscio e libero (cioè i Serbatoi e le Porte del fegato)64. Il Lobo per i Greci, come la Crescenza per i Babilonesi (e, come vedremo, il Caput ovvero la Testa del fegato per gli aruspici etruschi di Roma) poteva presentarsi anche iperplastico, doppio o diviso in due, e anche staccato e perfino assente o confuso nelle malformazioni patologiche della vicina Porta e delle vena omonima. A seconda dei casi, il significato poteva essere fausto o infausto. L’eroe Prometeo, nella omonima tragedia di Eschilo (524-456 a.C.), dice di saper ben distinguere la forma fausta e varia della Cistifellea e del Lobo. Euripide (480-406 a.C.), a sua volta, ci descrive il caso in cui il Lobo non era congiunto alle viscere, e vicino ad esso (pélas), l’entrata della Vena Porta (Pylai) ed i condotti della Cistifellea (dochai chole) annunciavano funeste aggressioni per chi lo stava esaminando65. Senofonte (V-IV sec. a.C.) racconta poi di casi in cui i fegati delle vittime sacrificate erano stati trovati privi dei Lobi (aloba ierà)66. Nella Vita di Pirro, Plutarco (46 – 120 d.C.) racconta di fegati trovati senza Lobo (ek tōn ierōn alòbōn)67. 64
Platone, Timeo, 71b-d. Euripide, Elettra, 826 ss. 66 Senofonte, Elleniche, III, 4,15 e IV, 7,7. 67 Plutarco, Vita di Pirro, 30. 65
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Plutarco ricorda pure che quando ad Alessandro un indovino riferì che era stato trovato un fegato privo del Lobo (ēpar alobon), Alessandro esclamò: ahimè, è un cattivo presagio!68 Lo stesso Plutarco narrò pure che il console romano Marcello immolò due vittime, e nella prima il fegato non aveva la Testa (epar ouk echon Kēfalèn) [....]; nella seconda invece la Testa (kēfalè) mostrava uno sviluppo straordinario69. Come si vede, Plutarco chiamava sia Lobo (Lobòs) che Testa (kēfalè) quella protuberanza del fegato, che noi ancor oggi per la sua forma di piccola testa o capezzolo, chiamiamo “processo papillare”70. Plutarco infine, nella Vita di Silla, raccontò in greco che il duce romano ebbe il seguente presagio di vittoria: Presso Taranto fece un sacrificio, ed il Lobo che si presentò aveva la forma d’una corona d’alloro dalla quale si dipartivano due nastri71. Agostino, che rinarrò l’evento in lingua latina, si espresse così: 68
Plutarco, Vita di Alessandro, 73. Plutarco, Vita di Marcello, 29. 70 Ancora Plutarco (Vita di Cimmone, 18) narrò che durante un sacrificio si trovò che “il Lobo non aveva la Testa (ton Lobòn ouk echonta kēfalén)”. In questo caso, Plutarco dovrebbe riferirsi in modo specifico a quella che per i Babilonesi era la “Testa della Crescenza”. Appiano (Bellum Civile, II, 116), poi, preferì il termine Testa (kēfalè) a quello di Lobo (Lobòs): egli narrò che, prima della morte di Cesare, si trovò che “alle viscere mancava la testa (e kēfalè tois splagchnois eleypen). 71 Plutarco, Vita di Silla, 27. 69
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Quando Silla venne a Taranto e fece sacrifici in proprio favore vide sulla Testa del fegato (in Capite iecoris) del vitello qualcosa di simile a una corona d’oro72. I Romani dunque chiamavano Caput (Testa) del fegato quel che i Greci chiamavano Lobos (Lobo) o Kēfalè (Testa), gli Ittiti Zi (Crescenza oppure Gomitolo) e i Babilonesi MAS/Sibtum (Crescenza). Ancora oggi, questa parte del fegato, per la sua sporgenza a forma di capezzolo, si chiama “processo papillare”. Come già abbiamo detto, il Thulin credette invece erroneamente che la Testa del fegato, che tanta importanza aveva nell’epatoscopia greca, etrusca e romana, fosse ciò che i Babilonesi chiamavano Dito, e che noi oggi chiamiamo “processo caudato” (vd. p. 25). Questo Dito o “processo caudato” si trova peraltro nella parte laterale del fegato, mentre la Crescenza o Lobo o Testa o “processo papillare” si trova nella zona mediana lungo la linea che divideva il fegato in due parti: la familiare e la ostile. Di questa posizione mediana ed intermedia fra parte familiare e parte ostile abbiamo una riprova in Tito Livio quando racconta che durante una seduta d’aruspicina si trovò Che la Testa (Caput) del fegato era staccata dalla parte familiare73. Come, poi, nella epatoscopia babilonese, una duplice Crescenza aveva significato positivo, e la sua mancanza lo aveva negativo, così, nell’aruspicina etrusco-romana, una duplice Testa avevano significato positivo, e la sua mancanza lo aveva negativo. Tito Livio, nella Storia di Roma, scrisse che il console Marcello, il giorno prima d’essere 72 73
Agostino, De Civitate Dèi, II, 24. Tito Livio, Storia di Roma, IX, 1: “Caput iocineris a familiari parte cesu”.
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ucciso in battaglia, immolò due vittime, ed, uccisa la prima, il fegato fu trovato privo della Testa; nella seconda invece si mostrò normale, e la Testa apparve anche aumentata. Ciò veramente non piacque all’aruspice perché le viscere, già tronche e deformi, ora apparivano fin troppo di buon augurio74. Valerio Massimo (ca. 20/25 a.C. – dopo 31 d.C.), ripeté che il console Marcello immolò due vittime. La prima vittima cadde dinanzi al piccolo focolare, e si trovò il fegato senza Testa, mentre la seconda aveva una duplice Testa di fegato. Osservate queste cose, l’aruspice col volto triste rispose che le viscere non gli piacevano perché dopo le cose mutilate erano apparse le favorevoli75. Plinio (23-79 d.C.) ricordò ancora che in quell’occasione: nelle vittime mancò la Testa del fegato; e il giorno dopo ne furono trovate due76. Nella letteratura latina, oltre alle sopra riportate, le fonti che rilevano il significato negativo della mancanza della Testa del fegato sono numerosissime77. 74
Tito Livio, Storia di Roma, XXVII, 26: “Immolasse eodie quidam prodiere memoriae consulem Marcellum, et prima ostia caesa iecur sine capute inventum, in secunda omnia comparuisse quae assolent, auctum etiam visum in capite; nec id sane haruspici placuisse, quod secundum trunca et turpia exta nimis laeta apparuissent”. 75 Valerio Massimo, Memorabilia, 16, 9: “Prima Hostia ante foculum cecidit, eius iecur sine capite inventum est, proxima caput iocineris duplex habuit. Quibus inspectis Haruspex tristi vultu non placere sibi exta, quia secundum truncata, laeta apparuissent respondit”. 76 Plinio, Storia Naturale, XI, 189: “caput iecoris defuit in extis: sequenti deinde die geminum repertum est”.
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Significato negativo hanno anche due Teste quando siano sovrapposte ed ambedue staccate o comunque irregolari nella forma. Seneca, nella tragedia Edipo, così descrisse il fegato d’un toro sacrificato. Il fegato è marcio e secerne un nero fiele; e, segno sempre infausto per la unicità del potere (semper omen unico imperio grave), ne emergono due Teste di pari sporgenza; l’una e l’altra Testa è tagliata e ricoperta da una sottile membrana che però non ci impedisce di osservare i segreti significati; il lato ostile si gonfia con valida forza e spinge avanti (tendit) sette vene; le attraversa un solco trasverso (limes oblicus) che non consente loro di ritornare indietro (has omnis retro prohibens reverti limes oblicus secat)78. Il poeta Lucano (39-65 d.C.) scrisse che l’aruspice etrusco Arunte, dopo aver immolato una vittima, osserva il fegato umido di liquefazione, e scorge le Vene minacciose dalla parte ostile. […] Poi vede nella Testa delle Fibre crescere la massa di un’altra Testa: una parte è sospesa, marcia e malata, l’altra palpita e con rapido movimento muove le Vene in modo malvagio79. Nel merito, uno scoliaste spiegò: 77
Vd. gli ulteriori esempi riportati da G. Blecher, De Extispicio Capita Tria, Gissa, 1905, pp. 5-22. 78 Seneca, Edipo, 358 – 365. La faccia viscerale del fegato presenta tre solchi disposti a formare un H: un solco traverso e due solchi sagittali, destro e sinistro. Nel solco trasverso, che corrisponde all’ilo dell’organo, si trovano l’arteria epatica, la vena porta e i dotti epatici, oltre ai vasi linfatici e ai nervi, che costituiscono il peduncolo epatico. 79 Lucano, De Bello Civile, 621-625.
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Le Vene hanno ognuna un valore diverso, quelle che gli aruspici chiamano Celle: dei nemici, degli amici, ed un’altra di tal modo (destra, sinistra e centro). Quando essi dunque osservano il fegato rilevano quale Cella non si muova, e quale parte palpiti80. Da quest’ultimo importante documento si evince che gli aruspici ertrusco-romani, come già quelli Babilonesi, dividevano la Vena Porta e la Porta stessa in tre parti, destra, sinistra e centrale, che chiamavano Vene (Venae) oppure Celle (Cellae) come nella antica tripartizione dei templi (vd. par. 5 a p. 33). *** Noi abbiamo già visto che presso i Babilonesi la Presenza veniva indagata per prima. Ciò perché essa poteva mancare, e se mancava significava che la divinità interpellata si rifiutava di rispondere rendendo così vana la prosecuzione dell’indagine del fegato (vd. pp. 23; 49-50). Ciò avveniva pure presso i Romani (vd. pp. 49-50). Noi abbiamo anche visto (vd. p. 24) che presso i Babilonesi, la Crescenza veniva invece indagata per ultima così come il Lobo (Lobòs) o Testa (Kēfalè) presso Greci, e la Testa (Caput) presso i Romani. Ciò perché anch’essa, come la Presenza, poteva mancare; ma se era la Crescenza a mancare, ciò significava morte, e così condizionava negativamente ogni precedente interpretazione delle altri parti del fegato. Il Dito invece non aveva queste caratteristiche. Dunque, noi possiamo ancora una volta ribadire che ciò che i Greci chiamavano Lobo (Lobòs) e Testa (kēfalè), e i Romani chiamavano Testa (Caput) del fegato, e che noi ancor oggi chiamiamo “processo papillare” per la sua 80
Scolio a Lucano, De Bello Civile, 621-625: “Diversae sunt Venae, quas haruspices Cellas dicunt, hostium, amicorum et alia huiusmodi. Cum ergo aspiciunt iocinera intelligunt quae cella nec ait, que pars salit”.
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forma di piccola testa o capezzolo, corrisponde a ciò che i Babilonesi chiamavano Crescenza, e non a ciò che essi chiamavano Dito, e che noi oggi chiamiamo “processo piramidale. Il Thulin era in errore quando nel lontano 1900 credette di poter identificare nel Dito la Testa del fegato. Questo equivoco è diventato un grosso ostacolo per la comprensione di quale fosse nell’aruspicina il “centro del mondo (lat. Caput; etr. Methlum)” dal quale determinare quali fossero le parti favorevoli e quali le sfavorevoli del “mondo” stesso e del suo riflesso nel fegato degli animali. *** Caput, in lingua latina, significava testa, ma anche “Testa del fegato” e “città capitale”: Roma era caput mundi (capitale del mondo). L’equivalenza “testa” = “capitale” fu anche utilizzata nella pratica interpretativa propria della divinazione etrusca. Quando Tarquinio, re di Roma, fece scavare le fondamenta per la costruzione del tempio Capitolino, fu dissotterrata una testa umana ancora palpitante; il re inviò ambasciatori in Etruria acciocché l’àugure Oleno Caleno gli spiegasse il significato del prodigio; e Oleno sentenziò che il luogo dove era stata trovata la testa (caput) sarebbe divenuto la capitale (caput) del mondo (vd. p. 104). 8. LA PRESENZA (KI.GUB / MANZAZUM). Essa è la prima ad essere presentata negli elenchi canonici dei segni ominosi. Nei tardi testi del I millennio è connessa ad Enlil (dio dell’aria), al mese di Nisan (Marzo-Aprile) ed alla costellazione dell’Ariete81.
81
R. Labat, Un calandrier babylonien des travaux des signes et des mois, Libraire Honoré Champion, Parigi, 1965.
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La Presenza è stata identificata con il solco verticale che si trova sul lobo destro del fegato: nell’odierno linguaggio anatomico corrisponde all’ “impressione reticolare”. La sua zona consiste in questo solco e nella sua area circostante. Il solco è orientato verso il centro del fegato, e la base verso il bordo destro. Esso fu diviso orizzontalmente in tre parti82: 1. testa, cioè la parte rivolta verso il centro del fegato, divisa a sua volta verticalmente in un centro (positivo), una destra (positiva) e una sinistra (negativa); 2. mezzeria divisa verticalmente in centro (positivo), destra (negativa) e sinistra (positiva);
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La partizione che presentiamo è desunta da J. Nougayrol, op. cit. , p. 39; U. Koch-Westenholz, op. cit., pp. 52-53.
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3. base, cioè la parte rivolta verso il bordo destro del fegato, divisa verticalmente in centro (positivo), destra (positiva) e sinistra (negativa). La presenza del Manzazum significava che il sacrificio era stato accettato dalla divinità, e che, attraverso l’esame del fegato della vittima, essa avrebbe dato una risposta alla domanda del sacrificante. La sua assenza, invece, voleva dire che la divinità non si rendeva disponibile. E’ questo il motivo per cui essa veniva analizzata per prima. Dagli Ittiti la Presenza fu chiamata Sintahis e Sumuqan. I trattati che ci sono pervenuti menzionano una parte destra (favorevole), ed una parte sinistra (sfavorevole)83. Al babilonese Manzazu (Presenza divina) i Greci diedero i nome di Theos (Dio)84, proprio perché la presenza o meno di quel solco significava la disponibilità o meno del dio. Anche gli aruspici etrusco-romani lo chiamarono Deus (Dio). Lattanzio Placido scrisse: Nelle viscere c’è un segno che si chiama Dio (Deus). Se questo appare integro dimostra che il nume è propizio; se invece è dimezzato significa che il nume è irato o certamente non presente85. Non sappiamo come gli Etruschi chiamassero questo segno: forse Ais che nella loro lingua significava “Dio”. Esso è comunque presente, al centro dell’ala destra dei modelli di fegato etruschi come quello che si vede in mano a Tagete nello specchio bronzeo di Tuscania nonché in quello fittile di Faleri (f. 26) ed in quello bronzeo di Piacenza (f. 28). 83
Un testo specifica che “al di sopra della sede di Sumuqan si trova un Nodo (Pittuliya)” ( E. Laroche, op. cit., p. 131-132). Questo Nodo è il Nodo di Destra (Kisirti imitti) dei fegati babilonesi, ed univa la mezzeria del Giogo con il collo del Gioco. 84 Esichio, op. cit. , s.v. Theos. 85 Lattanzio Placido, ad Stat. Theb. , V, 176.
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In quest’ultimo, in particolare, esso è racchiuso entro una casella circolare posta al centro d’una ruota di altre e sei caselle contenenti nomi di dèi: 1 - Cilen (Fortuna), 2 - Selva (Silvano), 3 - Letha (Lete?), 4 - Tlusc (Tusco?), 5 - Lusl (?) e Velchans (Vulcano), 6 - Satres (Saturno). E’ probabile che si tratti d’una rosa di dèi che potevano o meno esser presenti nel sacrificio. Fig- 10
Scena di sacrificio. Rilievo neo-assiro (BM ANE 124548. Da uno degli edifici di Nimrud (ca. 860 a.C.).
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9. IL SENTIERO (GIR / PADANUM). Sentiero nei modelli di fegato orientali era il termine per il solco che corre orizzontalmente sotto la Presenza nella “impronta Absomal”. Era la seconda sezione del fegato ad essere ispezionata, subito dopo la Presenza. Essa a volte fu detta Corso (Kibsum) perché simboleggiava il corso della vita umana. Altre volte fu chiamata Campagna (Harranum) perché simboleggiava pure la campagna militare. Se il Sentiero si presentava doppio, era segno generalmente favorevole; se triplo era sfavorevole. Gli Ittiti lo chiamarono KASKAL-is ovvero Ka.gir, i Greci Keleytos86. Nel modello etrusco di Piacenza si trova all’interno della casella di Letham nel punto esatto in cui sul bordo esterno del fegato le caselle di Letham e di Tluscv s’incontrano87. Questo, come poi vedremo, è anche il punto che separa le due sequenze di scrittura usate dal costruttore dell’oggetto (ff. 30; 31; 33); qui, come pure vedremo, si trova il Nord del fegato etrusco. 10. ALTRE SEZIONI DEL FEGATO BABILONESE. •
La Cavità del Windcleft (Ruqqi Pitir Sarim) o Parola Piacente (Pu Tabu). E’ un solco orizzontale posto fra il sentiero e la fessura ombelicale. Simboleggia un responso piacevole.
•
La Forza ( Dananum) o il Segreto (Puzrum). E’ il solco che sta al di qua del lato sinistro della fessura ombelicale.
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E. Laroche, “Revue d’Assiriologie et d’Archeòlogie orientale”, 64, 1970. p. 133; U. Koch-Westenholz, op. cit. , p. 58, n. 171; Esichio, op. cit. , s.v. Acheleytha 87 La posizione delle sottosezioni del Sentiero è la seguente. La testa è alla destra, e la base è alla sinistra vicinissima alla fessura ombelicale; il lato destro del Sentiero costeggia la base della Presenza. Le sottosezioni erano: La Cavità del Crogiolo (abomasal impression) ed il Restringimento/Quartiere (il rilievo sotto il Sentiero, formato dalla absomal impression, simboleggiante il quartiere delle armi).
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•
La Porta del Palazzo (Bab Ekallim) o Porta della Città (Abullum). E’ la fessura ombelicale, simbolo del palazzo, del suo personale, delle sue rendite e della porta della città. Si conoscono due sottosezioni: il destro e sinistro Stipite della Porta, cioè le aree che sono a destra e a sinistra della fessura ombelicale. La Perdita d’un Servitore è un termine speciale per lo Stipite destro.
•
Il Benessere (Sulmum), detto pure il Sentiero a destra della Cistifellea (Padan Imitti Martim). Si tratta di un solco verticale che sta alla destra della cistifellea. E’ simbolo di sicurezza e prosperità soprattutto per la campagna. Era dedicato ad Adad (dio del Tuono e della Tempesta), e collegato al mese di mese Ululu (agostosettembre) ed alla costellazione del Corvo (vd. n. 15).
•
Il Sentiero alla Sinistra della Cistifellea (Padan Sumel Martim) o La Sconfitta dell’Esercito del Nemico (Mihis Pan Umman Nakrim). Corrisponde al solco verticale che è sull’ala sinistra del fegato, e alla sinistra della cistifellea. Simboleggia forse la campagna del nemico.
•
La Base del Trono (Nidi Kussem). E’ un solco che si trova nell’impressione renale, e simbolizza forse la vita privata del re.
*** Seneca, nella tragedia Edipo88, nomina il Limes Oblicus d’un fegato di toro sacrificato. Dovrebbe trattarsi di quello che oggi si chiama Solco Trasverso. In questo solco, che corrisponde all’ilo del fegato, si trovano l’arteria epatica, la vena porta e i dotti epatici, oltre ai vasi linfatici e ai nervi, che costituiscono il peduncolo epatico. *** Le fonti babilonesi e romane parlano poi di Fessum (Fessura/incisione) e di Fessa (Fessure/incisioni). Non sappiamo se con questi termini intendessero una particolare fessura con le sue parti di destra e di sinistra, oppure le fessure in generale. 88
Seneca, Edipo, vv. 345, ss.
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Fig. 11- Fegato siriano. Proveniente da Mari (Tell-Hariri). Fonte: Maggie Rutten, 1938.
Traduzione delle iscrizioni
Faccia 1: Se il nemico si impadronisce del fossato (appaiono questi segni sul fegato). Faccia 2: Se una celebre cittĂ declina in abitanti ed edifici (appaiono questi segni sul fegato)
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Capitolo secondo ARUSPICINA
ETRUSCA
L’ORIENTAMNETO PRESSO GLI ANTICHI 1. LE ROSE DEI VÈNTI. Oggi le nostre bussole sono formate da una scatola contenete un ago d’acciaio che di giorno e di notte si volge verso il nord magnetico. Conseguentemente, anche la rosa dei vènti e le carte geografiche sono orientate in tal senso. Ma in antico non era così. La cosiddetta bussola pelasgica, o pinax, era una rosa dei vènti girevole su cui erano disegnati i rombi dei vènti principali; si orientava a mano secondo il punto dove il sole nasceva, e serviva da guida nella navigazione. L’odierno verbo “orientarsi” deve il suo uso all’originaria significazione di “prendere l’oriente come punto di riferimento”. Il primo che collegò i vènti ai quattro punti cardinali fu Omero89. Ovidio poi cantò che, quando il creatore ordinò il caos e fece il mondo, Euro si ritirò verso l’aurora e le giogaie che ricevono dall’alto i raggi del mattino; e Zefiro si pose ad occidente, Borea a settentrione, ed Austro a meridione90. Dopo l’epoca omerica entrarono in uso rose sia ad otto che a dodici vènti. Se noi sovrapponiamo la rosa ad otto vènti a quella a dodici, ricaviamo sedici punti cardinali da dove provenivano i relativi vènti. Non abbiamo, tuttavia, nessuna testimonian89 90
Omero, Odissea, V, 595. Ovidio, Metamorfosi, I, 61-66; Virgilio, Eneide, I, 85-86; 102; 131
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za che gli antichi avessero realizzato bussole e rose a sedici punte. Questi strumenti appariranno con sicurezza soltanto agli inizi del medioevo. Gli Etruschi, però, avevano già diviso il cielo in sedici zone delle quale l’orientale era la prima ed era posta in alto, come in tutte le antiche rose dei vènti e carte nautiche. L’oriente era in alto perché da lì nasceva il sole. Porfirio spiegava: La sede del dio Mitra è quella degli equinozi. Egli ha in mano il pugnale di Ariete (21 marzo - 21 aprile) e cavalca il Toro di Afrodite (21 aprile – 21 maggio). Siccome Mitra, come il Toro, è creatore e padrone di tutto, è posto al centro del cerchio equinoziale: ha alla sua destra le regioni settentrionali, e alla sinistra quelle meridionali. A sud, poi, e collocato Cauto (il sole nascente; cfr. etr. Cavtha, Catha = il Sole, vd. p. 100 e ff. 28 e 34) perché è caldo, ed a nord Cauto-pato (il sole che tramonta) perché il vento del nord è freddo91. C’era anche però chi per orientarsi si metteva con le spalle al nord perché è sull’asse nord sud che gira il moto est ovest del sole92. Il levante restava comunque posizionato in alto in tutte le rose dei vènti e carte nautiche. Ancora nel medioevo e dopo la scoperta dell’America alcune mappe del mondo furono posizionate con l’oriente in alto (ff. 12; 13). 91 92
Porfirio (234 d.C. - ?), L’antro delle Ninfe, 24. Cicerone, Divinazione, I, 31; Livio, Storie, I, 18; Plinio, Storia Naturale, 18, 76.
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2. IL TEMPLUM ETRUSCO. Frontino (3-103 d.C.), rifacendosi a Varrone (116-27 a.C.) disse: La prima formulazione dell’arte della delimitazione, come Varrone trascrisse dalla disciplina etrusca93: siccome gli aruspici divisero il mondo in due parti chiamarono destra quella che stava sotto settentrione, sinistra quella che era sotto la parte meridionale della terra, andando da oriente a occidente poiché è di là che il sole e la luna guardano. Alcuni architetti scrissero che i templi verso occidente sono ben indirizzati. Gli aruspici con un’altra linea divisero la terra dal settentrione al mezzogiorno, e a partire dal mezzogiorno chiamarono àntica 93
In altra occasione, Varrone (De lingua latina, VII, 7) scrisse: “Le parti di questa specie di templum sono quattro e si chiamano: sinistra dall’est, destra dall’ovest, anteriore fino al sud, e posteriore fino al nord. Sulla terra, si chiama templum il luogo delimitato con determinate formule al fine di trarvi i presagi o prendervi gli auspici (Eius templi partes quattuor dicuntur, sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, ostica ad septentrionem. In terris dictum templum locus augurii aut auspicii causa quibusdam conceptis verbis finitus)”.
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(anteriore) la parte di là, e pòstica (posteriore) quella di qua. Da questo fondamento i nostri padri stabilirono il modo di misurare i campi. Portarono prima due linee: una da oriente a occidente, che chiamarono decumano, un’altra dal meridione al settentrione, che chiamarono cardine. Il Decumano inoltre divideva il campo in destra e sinistra”94. Igino (II sec. d.C.) ripeté quasi con le stesse parole: I limiti non furono costituiti senza cognizione del mondo, poiché i decumani seguono il corso del sole, e i cardines l’asse del polo. Infatti, dapprima questo modo di misurazione risale alla disciplina degli aruspici etruschi [vel auctorum habet, quorum artificium]; siccome costoro divisero l’orbita della terra in due parti secondo il corso del sole, e chiamarono destra quella che si trovava a settentrione, e sinistra quella che era nella parte meridionale della terra, andando da oriente ad occidente perché è di là che il sole e la luna guardano; costoro poi condussero un’altra linea da mezzogiorno a settentrione. Onde questa istituzione viene applicata alle soglie dei templi. Sulla base di questo modello gli antichi 94
Frontino, De Limitibus, in Gromatici Veteres, ed. C. Lacmann, 1848, p. 28: “Limitum prima origo, sicut Varro descripsit, a displiplin estrusca; quod aruspices orbem terrarum in duas partes diviserunt: dextram appellaverunt <quae> septentrioni subiacere<t>, sinistram quae a meridiana terra<e> esse<t>, <ab oriente ad> occasum quod eo Sol et Luna spectaret, sicut quidam architecti delubra in occidente<m> recte spectare scripserunt. Aruspices altera[m] lineam a septentrione admeridianum diviserunt terram, <et> a meridiano ultra antica, citra postica nominaverunt. Ad hoc fundamento mariores nostri in agrorum mensura videntur constituisse rationem. Primum duo limites duxerunt; unum ab oriente in occasum, quem vocaverunt decimanum, alterum a meridiano ad septentrionem, quem cardinem appellaverunt. Decimanum autem dividebat agrum dextra et sinistra, cardo citra et ultra”.
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inclusero la misurazione dei terreni con adeguate longitudini. Dapprima stabilirono due linee: una che andava da oriente a occidente, e la chiamarono decumano, un’altra da mezzogiorno a settentrione che chiamarono cardo dal cardine del mondo95. Da queste testimonianze si ricava che l’aruspice etrusco per dividere l’orbita terrestre si poneva al centro dell’orizzonte visibile dal suo punto di osservazione, ed aveva l’oriente alle sue spalle, l’occidente davanti a sé, il meridione a sinistra, e il settentrione a destra. E’ questa d’altronde la posizione assunta da Tagete, il mitico fondatore della disciplina etrusca, durante la lezione d’aruspicina raffigurata sullo Specchio di Tuscania (f. 18). L’augure romano si poneva invece con le spalle a nord; però, similmente all’augure etrusco, divideva con il lituo il cielo da oriente a occidente, e dichiarava sinistra (cioè fausta) la parte che andava da oriente a occidente, e destra (infausta) quella che andava da occidente ad oriente96. 95
Igino, Constitutio Limitum, in Gromatici Veteres, ed. C. Lacmann, 1848, pp. 166-167: “Constituti enim limites non sine mundi ratione, quoniam decumani solis decursum diriguntur, Kardines a poli axe.Unde primum haec ratio mensurae constituta ab Etruscorum haruspicum [vel auctorum habet, quorum artificium] disciplina; quod illi orbem terrarum in duas partes secundum solis cursum diviserunt, dextram appellaverunt quau septentrioni subiacebat, sinistram quae ad meridianum terrae esset, <ab oriente ad> occasum, quod eo sol et luna spectaret; alteram lineam duxerunt a meridiano in septentrionem. Ex quo haec constitutio liminibus templorum adscribitur. Ad hoc exemplo antiqui mensuras agrorum normalibus lonlitudinibus incluserunt primum duos limites constituerunt : unum, qui ab oriente in occidentem dirigeret. Hunc appellaverunt duodecimanum ideo, quod terram in duas partes dividat et ab eo omnis ager nominetur. Alterum a meridiano ad septentrionem, quem cardinem nominaverunt a mundi Kardine”. 96 Secondo Dionigi di Alicarnasso (Antichità romane, II, 4-5), i Romani, per averlo appreso dagli Etruschi, prendevano gli auspici con il viso rivolto ad Est. Secondo Plinio, poi, era sbagliato rivolgere il viso ad est perché ogni giorno il sole nasce da un punto diverso; corretto era per lui porsi con le spalle a nord e con il viso a sud, sì che in ordine descrittivo il primo settore del cielo era per lui quello del nord. Secondo lo
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Vegezio (III-IV sec.) poi, dando notizie sui vènti, scrisse: Cominciamo dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale est, dal quale nasce il vento Subsolano (il vento dell’est); a destra esso ha vicino il Coro ( il vento di nord est), a sinistra il Volturno (il vento di sud est). Anche per lui, dunque, la parte destra del cielo era quella a destra del sorgere del sole (est > nord > ovest), e sinistra era quella a sinistra (est > sud > ovest). Plinio conferma: I moti di tutte le stelle erranti, tra i quali quelli del sole e della luna, vanno in senso contrario a quello della volta, e cioè verso sinistra [...], sollevate e scagliate verso il tramonto della sfera (II, 32-33) [...]. Tutti i vènti spirano secondo il proprio turno; nella maggior parte dei casi, quello che cade dà inizio al suo opposto; quando uno viene a cadere gli subentra il più vicino; girano da sinistra a destra come fa il sole (II, 48) [...]. I fulmini da sinistra sono considerati favorevoli perché l’alba avviene sul lato sinistro del cielo; e non si considera tanto l’arrivo quanto il ritorno, sia che dal rimbalzo scaturisca
stesso Plinio, comunque, la parte “sinistra (favorevole)” e “la destra (sfavorevole)” restavano rispettivamente quella che partiva dall’est, e quella che partiva dall’ovest (Plinio, Storia naturale, XVIII, 76-77; II, 52-60). Anche Tito Livio (Storia di Roma, I, 18) ci narra che l’augure di Numa Pompilio si pose con il volto “rivolto a mezzogiorno”, e con il lituo che aveva in mano “ tracciò in aria lo spazio da oriente ad occidente, e proclamò fauste le parti verso mezzogiorno, ed infauste quelle verso settentrione”. Il fatto è che l’augure, in pratica, poteva posizionarsi come voleva purché i suoi punti di riferimento interpretativi restassero invariati.
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il fuoco, sia che il soffio d’aria torni indietro, compiuta l’opera e consumato il fuoco (II, 55)97. Sia il sole che la luna, dunque, come noi stessi possiamo oggettivamente constatare, girano dalla sinistra del punto in cui sono nati (est), passano per la parte sinistra del cielo (est > sud > ovest), e tramontano (ovest). E’ questo il motivo per cui, negli auspici, gli Etruschi giudicavano favorevole la parte sinistra del cielo. Per questo tipo di ispezione, - spiega Plinio, - gli Etruschi hanno diviso il cielo in sedici parti. La prima va dal settentrione all’alba equinoziale, la seconda fino al mezzogiorno, la terza fino al tramonto equinoziale, la quarta occupa lo spazio restante fra il tramonto e il settentrione. Essi hanno poi nuovamente diviso queste in quattro parti, e fra di esse hanno chiamato sinistre le otto che si contano a partire da levante, destre le altre otto contrapposte. E’ chiaro che se il sole gira a partire dalla sinistra del punto in cui è nato (est), esso passa per il meridione (sud) e tramonta a ponente (ovest); “le otto zone sinistre che si contano a partire dal levante”, menzionate da Plinio, sono dunque le otto zone che vanno dall’est all’ovest passando per il sud, mentre “le altre otto destre contrappo97
Plinio, Storia Naturale, II, 55 : Omnium autem errantium siderum meatus, interque ea solis et lunae, contrarium mundo agere cursum, id est laevum [...], attollantur ab eo rapiantur in occasum (II, 32-33) [...]. Ommes ventes vicibus suis spirant, maiore ex parte autem ut contrarius desinenti incipiat. Cum proximi cadentibus surgunt, a laevo latere in dextrum ut sol ambiunt (II, 48) [...]. Laeva prospresa existimantur, quoniam laeva parte mundi ortus est. Nec tam adventus spectatur quam reditus, sive ab ictu resilit ignis sive opere confecto aut igne consumato spiritus remeat.
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ste” sono quelle che vanno dall’ovest all’est passando per il nord. Questa divisione è la stessa che noi abbiamo già visto riferita da fonti etrusche in Varrone, Frontino ed Igino: “andando da oriente a occidente gli aruspici etruschi divisero il mondo in due parti, e chiamarono destra quella che stava sotto settentrione, sinistra quella che era sotto la parte meridionale della terra” (vd. pp. 56-58). Fra di esse sono particolarmente di malaugurio, continua Plinio, quelle che fiancheggiano il settentrione da ovest. Perciò è decisivo sapere da dove sono venuti e dove sono andati a finire i fulmini. Il caso migliore è quando ritornano verso le parti orientali. Quindi se sono venuti dalla prima parte del cielo (cioè la prima delle otto sinistre che si contano a partire da levante), e alla stessa ritornano, ne risulterà la profezia d’una fortuna grandissima […]. Gli altri fulmini sono, a seconda della porzione di cielo cui appartengono, o meno fausti, o di malaugurio98. Più sinteticamente Cicerone disse: “Gli Etruschi divisero il cielo in sedici parti”99. 98
Plinio, Storia Naturale, II, 55: In sedecim partes caelum in eo spectu divisere Tusci. Prima est a septentrionibus ad aequinoctialem exortum, seconda ad meridiem, tertia ad aequinoctialem occasum, quarta obtinet quod est reliquum ab occcasu ad septentriones. Has iterum in quaternas divisere partes, ex quibus octo ab exortu sinistras, totidiem e contrario appellavere dextras. Ex iis maxime dirae quae septentriones ab occasu attingunt. Itaque plurimum refert unde venerint fulmina et quo concesserint. Optimun est in exortivas redire partes. Ideo cum a prima caeli parte venerint et in tandem concesserint, summa felicitas portendetur […]. Cetera ad ipsius mundi portionem minus prospera aut dira. 99 Cicerone, De Divinatione, II, 42. Le fonti riferite concernono, per loro esplicita dichiarazione, la disciplina etrusca. Altre fonti fanno invece riferimento alle usanze degli àuguri greci e romani. Per i Greci la parte favorevole del cielo era la destra. Per i Romani pure; ma a volte, per influsso etrusco, era la sinistra. Ne nacque una grande confusione. Cicerone infatti si chiedeva perplesso perché mai gli uccelli potessero fornire un auspicio valido sia dalla parte si-
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Le testimonianze letterarie che sulla pratica aruspicina abbiamo riferito trovano conferma in vari documenti archeologici. I fuochi del candelabro bronzeo di Cortona hanno sedici punte, pari a quelle delle zone del cielo che simboleggiano (f.14). A Tarquinia, lungo il columen della tomba delle Bighe e di altre, si vedono rosoni con sedici raggi che, posti, come sono, al centro del tetto, evidentemente ripetono le regioni del cielo (f.15). Peraltro, tutte le tombe che hanno questi rosoni sono orientate ad est od a ovest. Ma i reperti più eclatanti sono sono il disegno graffito sul retro dello speccchio di Tagete (f. 18) trovato a Tuscania, e le 16 caselle del cielo incise sul bordo d’un fegato bronzeo rinvenuto a Piacenza (ff. 29-31; 34). Esaminiamoli. TAGETE E IL PANTHEON
ETRUSCO
1. TAGETE E TARCONTE. Noi sappiamo, da autori latini, che i libri dove gli Etruschi scrivevano di volta in volta la loro storia si chiamavano Tusciae Historiae. Sappiano pure che i testi che contenevano le norme della loro religione erano
nistra che dalla destra, ed osservava: “Per noi i segni da sinistra sembrano più propizi, per i Greci ed i barbari quelli di destra; e non ignoro che talvolta noi chiamiamo sinistri i presagi favorevoli anche se provengono da destra”( Cicerone, op, cit., II, 80-82.).
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raccolti un una serie di volumi che noi oggi chiamiamo Libri Tagetici. Purtroppo, non possediamo più né gli uni né gli altri, almeno nella versioni originarie; c'è però un mito che gli scrittori romani e greci che lo hanno tramandato attribuivano ai Libri Tagetici100. Si tratta della nascita di Tagete, detto Pavatarchies in lingua etrusca. Vediamo. Nei primi decenni del VI sec. d.C., lo scrittore bizantino Giovanni Lido (490 - ?) poté ancora leggere una versione latina dei Libri Tagetici contenente brani in autentica lingua etrusca. Egli, nel De ostentis 101, scrisse: Quanto poi a noi, quelli d’Italia dico, poiché fu Tagete il creatore del sistema, conviene usare le sue parole, preferibilmente secondo il loro stesso significato: quei nomi, infatti, usati insieme ai più antichi sono poco comprensibili e non troppo evidenti. Useremo poi anche gli altri, Tarconte l’aruspice, Tarquito il [.?.] e Capitone il sommo sacerdote, così da tessere una certa continuità dell’opera dalle parole di tutti loro. Bisogna dunque per prima cosa esporre chi era questo Tagete e chi sono gli altri e in che modo i loro scritti trovarono credito accanto al costume prevalente circa le cose sacre. Tarconte, così chiamato di nome, era un aruspice, uno di quelli istruiti dal lidio Tirreno, come egli stesso dice nel libro. Queste cose, infatti, ci vengono narrate nel tipo di scrittura usato dai Tuschi poiché 100
Cicerone, op. cit., II, 50; Ovidio, Metamorfosi, XV, 553-559; Lucano, I, 634; Columella, X, 344-347; Censorino, Il giorno della nascita, IV, 13; Anobio, Adversum Nationes II, 69; Ammiano Marcellino, Rerum Gestarum Libri, XVII, 10,2; Servio, All’Eneide, I, 2; II, 781; VIII, 398; Macrobio, Saturnali, V, 19,13; Marziano Capella, Le Nozze di Mercurio e Filologia, II, 157; Fulgenzio, Serm. ant. , 4; Festo, Il significato delle parole, s.v. Tages; Commento Bernense a Lucano, I, 636; Isidoro, Etimologie, VIII, 9; 34-45; Giovanni Lido, De Ostentis, 2-3; I mesi, IV, 7,9. 101 Giovanni Lido, De Ostentis, II, 6, B.
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allora in quei luoghi non era ancora comparso l’Arcade Evandro. Era poi quello un tipo di scrittura diverso e non comune a noi: se così non fosse non ci sarebbe rimasto nascosto niente delle cose segrete e più necessarie. Alcuni pensano che il libro sia di Tagete, poiché, come in una specie di dialogo, Tarconte domanda, e Tagete risponde. Comunque, in questo libro, Tarconte dice che un giorno, mentre lavorava la terra, gli capitò un fatto meraviglioso, tale che non aveva mai udito che fosse accaduto a nessuno in nessun tempo. Dal solco uscì fuori un bambino che sembrava neonato, non privo però dei denti e degli altri segni dell'età adulta. Questo bambino dunque era Tagete; e, come afferma anche Proclo Diadoco in una sua opera, egli equivale alla divinità che i Greci chiamano Hermes ctonio (cioè Mercurio infero). Secondo le norme sacrali, il fatto fu velato da un’allegoria poiché il discorso sulle cose divine non fu tramandato chiaramente attraverso i profani, bensì nella forma ora dei miti ora delle parabole: così invece di dire che l’anima, perfetta e nel pieno delle sue facoltà, entrò nella materia, si dice che il bambino neonato fu tratto fuori dal solco. Tarconte, dunque, il più vecchio (ỏ presbyteros), poiché vi fu anche il più giovane (neoteros), quello che guerreggiò ai tempi di Enea, sollevato il bambino e collocatolo nei luoghi sacri, pensò di imparare da lui qualcosa sulle cose segrete. Ottenuto poi ciò che aveva chiesto, compose un libro delle cose trattate, nel quale Tarconte interroga nella lingua comune degli Itali, e Tagete risponde attenendosi alle lettere antiche e poco comprensibili a noi. Nondimeno, cercherò, per quanto possibile, di riferirvi quelle cose facendo uso da un lato delle notizie
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(cioè delle domande di Tarconte e delle risposte di Tagete contenute nel testo etrusco) e dall'altra di coloro che le tradussero, ovvero di Capitone, di Fonteio, di Vicellio, di Labeone, di Figulo e del naturalista Plinio. I Libri Tagetici furono scritti in versi, secondo una metrica etrusca a noi poco conosciuta102.
Nelle altre fonti dalle quali apprendiamo alcune varianti dello stesso mito, colui che trae Tagete dalla madre terra è un contadino o un sacerdote di nome Tarquinio che sta arando un terreno nella campagna attorno a Tarquinia. La più antica testimonianza che possediamo è quella di Cicerone. Egli riferisce: Si dice che, nel territorio di Tarquinia, mentre si lavorava la terra, e un solco veniva impresso più 102
In altra parte del De ostentis, Giovanni Lido, trattando dei Terremoti, dice : “Vicellio stesso, il romano, dice questo con le medesime parole dei versi di Tagete, intorno a cui anche Apuleio più tardi riferì in forma libera e prosastica” (vd. p. 175).
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profondamente, un certo Tagete balzò su d'improvviso, e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli Etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma la sapienza di un vecchio. Poiché il contadino, rimasto stupito da questa apparizione, levò un alto grido di meraviglia, ci fu un accorrere in massa; e, in breve tempo, tutta l'Etruria convenne in quel luogo. Allora Tagete parlò lungamente dinanzi alla folla di coloro che lo ascoltavano. Questi stettero a sentire con attenzione ogni sua parola e la misero per iscritto. Inoltre, l'intero discorso fu quello in cui venne contenuta la scienza dell'aruspicina. Essa poi si accrebbe con nuove conoscenze da ricondurre a quei princìpi. Abbiamo appreso queste cose dagli stessi Etruschi. Essi conservano questi scritti, e li considerano fonte della loro disciplina103. Cicerone va integrato con altri autori. Verrio Flacco (I sec. a.C.-I d.C.) scrisse: Si chiama Tagete il figlio di Genio, nipote di Giove. Si dice che fanciullo diede l'insegnamento dell'aruspicina ai dodici popoli dell'Etruria104. Censorino (III sec.) disse: Dicono che nel territorio di Tarquinia, mentre si arava, sia stato tratto fuori il fanciullo divino di nome Tagete il quale cantò la disciplina dell'aruspicina che
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Cicerone, op. cit. , II, 50-51. Verrio Flacco, De verborum significatione (Compendio di Festo), s.v. Tages: “Tages nomine Genii filius, nepos Iovis, puer dicitur discipulinam aruspicii dedisse duodecim populis Etruriae”.
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i lucumoni che allora governavano in Etruria scrissero accuratamente105. Nel commento a Lucano è scritto: Tagete, in lingua etrusca vuol dire "voce mandata fuori dalla terra". Si dice che questo Tagete nacque all'improvviso mentre si lavorava la terra. Egli scrisse i libri delle profezie. Tagete. Dicono che la scienza dell'aruspicina fu proclamata in Etruria. Si dice che Tarquinio, il flamine Diale (cioè il sacerdote di Giove), mentre arava per fare la semina, scavò il figlio di Genio, e nipote di Giove. Egli dettò la scienza dell'aruspicina ai dodici figli dei principi, e poi non comparve più. Poiché nacque dalla terra fu chiamato Tagete (Tages = apo tes ges), che nella lingua etrusca vuol dire "voce mandata fuori dalla terra"106. Genio, padre di Tagete, era detto anche Genio Gioviale: uno dei quattro dèi Penati etruschi assieme a Fortuna, Cerere e Pale107. Nella vulgata romana, dunque, si diceva che Tagete fosse il figlio del Genio di Giove, e che Tarquinio o Tarconte che lo trasse dalla terra fosse il sommo sacerdote di Giove (flamen Dialis), cioè colui che, nel nome dello Stato, celebrava i riti e le festività del dio. Ora, se teniamo presente che Giovanni Lido trasse dalla vulgata romana dei Libri Tagetici la notizia secondo cui Tarconte, dopo aver sollevato il fanciullo dalla terra, lo 105
Censorino, De die natali, IV, 13. Commento Bernense a Lucano, I, 636, H. Usener, p. 41. 107 Cesio, in Arnobio, Adversum nationes, III, 40. Per i Romani, i Penati erano invece Giove, Giunone, Minerva e Mercurio (Servio Danielino, Ad Verg, Aen. II, 296). Quest'ultimo è il Mercurio Infero greco con il quale, come riferiva Giovanni Lido, i Greci identificavano Tagete. 106
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“andò a collocare nei luoghi sacri e pensò di imparare da lui qualcosa sulle cose segrete”, possiamo ritenere che nella vulgata romana si dicesse pure che i “luoghi sacri” dov’egli ricevette da Tagete “le cose segrete” fossero dedicati a Giove. Peraltro, Mario Torelli ha recentemente dimostrato che, in epoca romana, il tempio tarquiniese dell’Ara della Regina, che è il più grande d’Etruria, era dedicato proprio a Giove (etr. Tinia)108. Ma il dio Giove, venerato a Tarquinia, sotto il dominio di Roma, nel tempio dell’Ara della Regina, era l’equivalente romano del supremo dio etrusco Tinia che i tarquiniesi dovettero aver venerato nello stesso tempio all’epoca della loro indipendenza. Del resto, le più antiche testimonianze del culto di Tinia provengono proprio da Tarquinia109. Pare poi che a Tinia gli Etruschi assimilassero Veltun/e, il dio della Federazione110. Nei graffiti del famoso Specchio di Tuscania, infatti, il dio Veltun/e è paternalisticamente accanto a Tagete mentre quest’ultimo rivela a Tarconte l’arte di esaminare il fegato degli animali (f. 18). Nell’insieme del mito, secondo la vulgata romana, Tagete è il figlio del Genio di Giove (Tinia = Veltun/e?), e nasce a Tarquinia dalle zolle della madre terra smosse dall’aratro di Tarconte o di Tarquinio sacerdote di Giove-Tinia (Veltun/e?); chi lo trae dalla terra lo va a de108
M. Torelli, Tarquitius Priscus Haruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss. 109 I. Krauskopf, in Dizionario della civiltà etrusca, a cura di M. Cristofani, s.v. Tinia. 110 M. Cristofani, Dizionario della Civiltà Etrusca, Giunti Martello, Firenze, 1985, p. 334.
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porre nei luoghi consacrati, e al suo grido di richiamo tutti e dodici i lucumoni delle città etrusche convengono sul posto; da qui il fanciullo rivela la scienza dell’aruspicina a Tarconte e ai lucumoni lì convenuti. E’ evidente che il raggio d’azione del grido dello scopritore, che da Tarquinia si stende per tutta l'Etruria, ripete, in chiave mitica, l'autorità che Tarconte, Tarquinia e il sito stesso della rivelazione esercitavano sull'intera nazione. Il concorso, poi, di tutta l'Etruria sul centro donde era partito il richiamo riflette la capacità aggregante che Tarconte e il luogo sacro avevano verso i popoli che componevano la Federazione. La documentazione archeologia risalente all'età del bronzo e a quella del ferro, trovata sui colli di Corneto e di Tarquinia, conferma le presunzioni di primato forniteci dal mito. 2. IL FEGATO DI TAGETE. I graffiti che sono sul retro dello specchio di Tuscania (IV sec. a.C.) presentano la scena seguente (f. 18).
♦ Nella parte alta dello specchio si vede l’aurora che guida la quadriga del sole nascente. Sotto la quadriga si vede il sole che sorge dai monti. ♦ Nella parte bassa, sotto terra, una divinità alata e con armilla al braccio spinge in su con le mani il piano del terreno sorreggendolo come se la scena sopra raffigurata rappresentasse il mondo. Così il disco dello specchio e le sue figure risultano disposti come le coordinate cosmiche del templum augurale etrusco: l’oriente in alto e l’occidente in basso (vd. pp. 56-58). ♦ Nel mezzo dello specchio, un giovanetto ha alle spalle il sole che nasce dai monti. Con l’indice della mano destra egli indica un punto nel fegato che tiene fra i polpastrelli
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della sinistra. Al di sopra della sua testa è scritto pavatarchies111, che dovrebbe significare “il giovane Tagete”. Un uomo barbuto osserva il giovane con molta attenzione. Al di sopra della sua testa è scritto Avl Tarchunus (il Vecchio Tarconte). Ricordiamo (vd. p. 64) che Giovanni Lido distingueva il vecchio Tarconte (colui che trasse dalla terra il giovane Tagte) dal giovane Tarconte (colui che portò aiuto ad Enea); Strabone poi raccontava che Tarconte era tanto saggio da esser nato coi capelli bianchi112. Ora, in lingua etrusca Avl è contrazione di Avile (Aulo) che dovrebbe a sua volta derivare da Avil (anno, età) e significare “annoso, vecchio, canuto”. Nella scena dello specchio, dovremmo dunque esser di fronte proprio al Vecchio Tarconte perfettamente contrapposto al giovane (pava) Tagete (Tarchies). Per inciso, è pure verosimile che Giovanni Lido sia stato indotto a distinguere Tarconte il Vecchio dal Giovane proprio perché nell’originale testo etrusco latino ch’egli parafrasava aveva trovato scritto Avl (= vecchio) Tarchunus. Notiamo pure che Tarconte ha nella mano sinistra un lungo bastone la cui punta in basso perfora il piano del terreno fino alla testa del Genio alato. Questi ha il braccio ornato di armilla, come il dio Veltune (vd. oltre), e potrebbe trattarsi del Genio di Veltune, padre di Tagete, cioè quella divinità che nella vulgata romana figurava come il Genio di Giove. ♦ Accanto a Tarconte si vede una donna sopra la quale è scritto Ucernei o Ucernet. ♦ Sul limite destro della scena un giovane dio nudo ha in mano un ramoscello, e al di sotto d’un ginocchio un cespuglio a tre rami, che spunta fra le crepe d’una zolla di terra. Nella parte bassa, sotto la zolla, la divinità alata spinge in su con le mani il piano del terreno; la sua testa è 111 112
Pava (fanciullo, giovane)? Cfr. gr. pais-paidos. Strabone, Geografia, V, 2.
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Fig. 18 – Lo Specchio di Tagete (da Tuscania). Dalla sinistra dello specchio: Veltune (Vertumnus) dio della Federazione Etrusca; Pavatarchies (Tagete) rivelatore dell’aruspicina; Uchernei (Ocresia?) sacerdotessa; Avl Tarchunus (Aulo Tarconte/Tarquinio) sacerdote e capo della Federazione; Rathlth (divinità del corniolo). Tagete, mentre trae gli auspici dal fegato che ha in mano, ha il sole nascente (Oriente) alle spalle, e l’occidente dinanzi a sé: questa era la posizione degli aruspici e del fegato durante le sedute. In basso, Genio alato e ornato di armilla come Veltune: è il Genio di Veltune, padre di Tagete?
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toccata dalla punta del bastone di Tarconte, che perfora il terreno. Il giovane dio nudo (di cui sopra) dovrebbe aver connessioni col ramoscello che ha in mano e con quelli simili del cespuglio che ha sotto il ginocchio. Al di sopra della sua testa è scritto Rathlth, che è un forma etrusca di locativo che, mentre indica che la figura sulla quale si trova è quella del dio Rath, indica pure il luogo dove il dio Rath è venerato: forse un luco posto fra cespugli di cornioli sanguigni, dedicato ad una divinità divinatoria ctonia avente funzione simile a quella di Apollo Sorano oppure di Apollo Corniolo (Karneios, Kranios) venerato dai Greci nei riti Misterici113. Per tradizione, dal corniolo deriverebbe il nome di Corneto (oggi Tarquinia). Questa pianta, per gli Etruschi era legata alle viscere della terra114, e ben si connetterebbe al mito di Tagete che nasce dalla viscere della terra115. Il nostro dio si trova, peraltro nella parte dello specchio
113
Pausania, La Grecia, III, 13,5 (Karneios); 2O,9 (Kranios); IV, 1, 7-9; 26, 7; 33, 4-6. Si diceva che i Greci avessero costruito il cavallo di Troia con il legno di un bosco di cornioli sacri ad Apollo sul monte Ida; ma, sapendo che il dio si sarebbe sdegnato, lo placarono con sacrifici e lo chiamarono Apollo Corniolo. Ad Andania, nella Messenia, il culto dei Grandi Dei era molto simile a quello di Eleusi, Tebe, Lemno e Samotracia. I Misteri venivano celebrati in un bosco di cipressi detto Karnasios alsos (= bosco di cornioli) perché sacro ad Apollo Karneios, cioè Apollo Corniolo. E' strano che il bosco dove si celebravano i Misteri fosse un bosco di cipressi, ma si chiamasse Carnasio come fosse un bosco di cornioli (anche un bosco di cipressi presso la greca città di Corinto si chiamava Kraneion come fosse di cornioli). E' probabile che in origine il luogo dove si celebravano i Misteri fosse stato un bosco di Cornioli, e che il nome fosse rimasto ad indicare ogni bosco dove si compiva il rito. 114 Come sappiamo da un frammento di Tarquinzio Prisco, che tradusse in latino i Libri Tagetici, il corniolo sanguigno era una pianta legata agli Inferi (Macrobio, Saturnalia, III, 20,2-3). 115 Rath potrebbe anche essere una diversa forma di *Ras, il nome del condottiero eponimo dei Rasenna (= Etruschi).
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che, secondo le coordinate cosmiche, dovrebbe corrispondere a quella delle divinità terrestri. ♦ Sul lato sinistro della scena vediamo una figura maschile nuda, barbuta, ornata di armilla al braccio sinistro, ed armata di lancia in quello destro. Al di sopra, è scritto Veltune. Ne tratteremo nel paragrafo che segue. 3. IL FANUM VOLTUMNAE. La “e” finale di Veltune potrebbe essere la desinenza del nominativo di un raro teonimo in “e”, ma potrebbe anche esser quella d’un comune locativo; in quest’ultimo caso la forma Veltune indicherebbe il luogo specifico (il luco o il fanum) dove Veltun (lat. Vertumnus/Voltumna), il dio della Federazione Etrusca, era venerato. In entrambi i casi è evidente che il dio aveva pertinenza col luogo della rivelazione di Tagete. Ricordiamo che, nel mito, al richiamo di Tarconte, tutti e dodici i lucumoni convennero a Tarquinia sul luogo della rivelazione per ricevere i dettami dell’aruspicina di Tagete. Consideriamo pure che a Tarquinia sorse una scuola d’aruspicina che i Romani istituzionalizzeranno nel Collegio dei Sessanta Aruspici dove i capi d’ogni singola città della Federazione Etrusca dovevano mandare i loro figli per apprendere l’aruspicina (vd. pp. 141-145). Rammentiamo inoltre che Tito Livio raccontava che il tempio del dio era chiamato Fanum Voltumnae ed era il luogo dove si riunivano tutti i singoli capi delle dodici lucumonie della Federazione Etrusca per eleggere il capo supremo e per prendere tutte le decisioni politiche e militari116. Teniamo infine presente che nella scena in esame Veltune ha una duplice caratteristia:
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Tito Livio, Storia di Roma, IV, 23 (434 a.C.); 25 (433 a.C.); 61 (405 a.C.); V, 17 (397 a.C.); VI, 2, (389 a.C.).
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è la divinità garante della pregnanza nazionale degli insegnamenti di Tagete perché gli è accanto e lo sovrasta su un fianco quale suo protettore, ma è pure il dio degli eserciti federali perché ha la mano destra armata di lancia ed il braccio sinistro ornato di armilla ch’era un’onorificenza militare. E’ dunque verosimile che il luogo della rivelazione di Tagete, e con ciò Tarquinia, era il centro federale dove sotto la protezione di Veltune si riunivano i lucumoni per tutte le loro decisioni religiose, politiche e militari.
Anche nella tradizione virgiliana, Corito (Tarquinia) è il luogo dove Tarconte, detentore delle insegne del potere federale, raduna i capi delle varie città, con i loro eserciti e le loro flotte, e conferisce ad Enea la “corona del regno etrusco” (vd. pp. 217-223 con relative note)117. Secondo, poi, una diffusa tradizione romana, proprio da Tarquinia furono trasportate a Roma e conferite a Tarquinio Prisco e le insegne etrusche del potere federale. Vediamo. Il greco Strabone (ca. 60 a.C - ca. 20 d.C.), nella sua Geografia scrisse: Dopo la fondazione di Roma, venne Demarato portando popolo da Corinto. Gli abitanti di Tarquinia lo accolsero amichevolmente, e da una donna del paese gli nacque Lucumone (che in etrusco significa re). Questi, fattosi amico di Anco Marcio re dei Romani, gli successe nel regno, e cambiò il suo nome in quello di Lucio (= Lucumone) Tarquinio Prisco (V, 2,2) […]. Demarato aveva portato con sé dalla sua patria una ricchezza tanto grande in Etruria, che egli stesso non solo regnò sulla città che lo aveva accolto (Tarquinia), ma il suo figlio fu fatto re anche dei 117
Virgilio, Eneide, VIII, 478-507; 585-608; IX, 10; X, 148-156.
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Romani (VIII, 6,20) […]. Da Tarquinio, e prima dal padre, fu molto abbellita l'Etruria. Il padre, grazie alla quantità di artisti che lo avevano seguito da Corinto; il figlio con le risorse di Roma. Si dice pure che da Tarquinia furono trasportati a Roma gli ornamenti dei trionfi, dei consoli e, in generale, di tutte le magistrature, così pure i fasci, le scuri, le trombe, i sacrifici, la divinazione e la musica di cui fanno uso pubblico i Romani (V, 2,2)”. I particolari del trasporto a Roma delle insegne federali etrusche furono raccontati da Dionigi d’Alicarnasso (fine I sec. a.C.). Nelle sue Antichità Romane, egli scrisse che i capi delle singole città etrusche, dopo una guerra perduta contro Tarquinio Prisco re di Roma, si riunirono più volte in concilio, lo riconobbero capo della loro Federazione, ed inviarono ambasciatori che trasferirono in Roma, e consegnarono a Tarquinio le insegne della supremazia, con le quali essi adornano i propri re: una corona d'oro, un trono d'avorio, uno scettro con l'aquila alla sommità, una tunica di porpora con fregi in oro, e un mantello di porpora ricamato, proprio come lo indossavano i re della Lidia e della Persia [...]. Gli recarono anche, come dicono, dodici scuri, portandone una da ogni città. Era, infatti, usanza degli Etruschi che il re d’ogni città camminasse preceduto da un littore recante un fascio di verghe e una scure. Quando poi si effettuava una spedizione comune delle dodici città, le dodici scuri venivano consegnate a colui che in quel momento aveva il potere supremo [...]. Per tutto il tempo della sua esistenza, Tarquinio portò dunque una corona d'oro, indossò una veste di porpora ricamata, tenne uno scettro d’avorio, sedé su
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un trono eburneo; e dodici littori, recanti le scuri con le verghe, gli stavano intorno se amministrava la giustizia (III, 52). A Tarquinia, littori con fasci si vedono su fregi di sarcofagi e di pitture parietali di tombe (f.19); in una fossa votiva degli inizi del VII sec. a.C., poi, sono state trovate le insegne etrusche del potere: una tromba-lituo, uno scudo ed una scure ripiegati insieme.
Fig. 19 – Tarquinia. Tomba del Convegno (III sec.a.C.). Sulle due pareti di sinistra e destra si snoda un corteo regale. A cominciare dalla parete di sinistra si vedono tre littori con fasci, un personaggio coronato, altri e tre littori con fasci, un altro personaggio coronato. Dopo quest'ultimo, proseguendo sulla parete di centro, c'è lo spazio per almeno altre e sei figure purtroppo perdute; seguono quattro littori di cui due con fasci, e due con doppie scuri e lance, simboli del potere supremo. Chiude il corteo un mesto personaggio seguito da un servo che, munito di sacco da viaggio, lo accompagna verso gli Inferi. Im alto, sopra il mesto personaggio, è scritto che si tratta di Larth figlio Arnth (il gentilizio è perduto) e che fu Zilch Cechaneri: secondo A. Maggiani ("StEtr", 62, p. 108) dovrebbe trattarsi della carica di capo supremo della Federazione Etrusca.
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La tradizione romana che un Tarquinio fosse stato insieme capo della federazione etrusca e re di Roma trova riscontro in Etruria nelle pitture della tomba François di Vulci (f.20). Qui si vedono alcuni personaggi etruschi che sorprendono nel sonno e uccidono i capi disarmati d’una coalizione di città etrusche: le vittime sono un soanese, un volsiniano, un blerano e un Tarquinio romano (Tarchunie Rumach). In linea con la tradizione sopra esposta, dobbiamo considerare il Tarquinio romano il capo della coalizione. Il fatto che le vittime vengano sorprese nel sonno in un’unica località fa pensare che l’eccidio avvenga durante un concilio federale tenuto a Roma a o Tarquinia. Forse vi partecipavano gli stessi assalitori.
*** Si ritiene che il nome di Veltun-e (lat, Voltumna) appartenga ad una particolare connotazione del supremo dio etrusco Tinia. Ora, i Romani attribuirono le caratteristiche del dio etrusco Tinia/Veltun-e al loro Giove. Infatti, nella vulgata romana e greca, Tagete è il figlio del Genio di Giove; e Tarconte, che a sua volta è il sacerdote di Giove, lo prende dal solco e lo va a deporre nei luoghi sacri a Giove (vd. p. 45) perché qui il bambino gli riveli i segreti della divinazione. Nell’originaria tradizione etrusca, invece, quale
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è rappresentata sullo specchio di Tuscania, era stato Veltun-e (e non Giove) il dio che aveva avuto la paterna funzione di assistere Tagete durante i suoi insegnamenti a Tarconte. Al dio etrusco Veltun-e/Tinia corrisponde dunque il dio Giove della tradizione romana. In epoca romana, peraltro, a Tarquinia, il grande tempio, significativamente chiamato dell’Ara della Regina (f.21), era dedicato proprio a Giove-Tinia118. Peraltro, le più antiche iscrizioni votive a Tinia, provengono da Tarquinia119.
Sulla destra, poi, della fronte del tempio di Giove/Tinia, c’è una sontuosa vasca marmorea (f.22) d’epoca augustea sulla quale è scritto che era utilizzata per i Ludi (pro ludis). 118
M. Torelli, Tarquitius Priscus Haruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss. 119 I. Krauskopf, in Dizionario della civiltà etrusca, a cura di M.Cristofani, s.v. Tinia.
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Questa, come Torelli ha evidenziato, era il contenitore dell’olio usato nei ludi atletici e religiosi che in epoca romana si svolgevano nella vasta area antistante il tempio120.
Per il periodo etrusco, pubbliche gare atletiche sono numerosamente documentate nelle pitture tombali di Tarquinia. Ricordiamo quelle delle Olimpiadi e delle Bighe. In quest’ultima sono addirittura raffigurate anche le strutture lignee dello “stadio” che racchiudeva i giochi, il pubblico che vi assisteva vivacemente, e la statua del dio guerriero (Veltune?) che li proteggeva (f.23). In cima alla gradinata del tempio esiste ancora un altare di VI sec. a.C. sopravvissuto alle future ristrutturazioni dell’edificio. Ai piedi dell’altare è stato oggi ritrovato un sepolcro vuoto dello stesso VI secolo; accanto ad esso è stata pure rinvenuta un’epigrafe mutila che voleva ricordare
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M. Torelli, op. cit. p. 260; Elogia Tarquiniensia, p. 164.
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Fig. 23 – Tarquinia. Tomba delle Bighe (ca 500 a.C.). Le strutture lignee dello “stadio” che racchiudeva i Ludi, il pubblico che vi assisteva vivacemente, l’ara del templum e la statua del dio guerriero (Veltune?) che li proteggeva.
Il titolare del cenotafio121. La prima riga contiene i resti del nome di Tarconte, la seconda di Etruria, la terza di Tarquinia, la quarta di Ham(axitos)122: Quest’ultimo era il 121
M. Bonghi Jovino, in L’Ara della Regina di Tarquinia, Università degli Studi di Milano, p. 21. 122 Per Hama(xitos), vd. A. Palmucci, “Archelogia”, 12, 2002.
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nome di una città costiera della Troade, sulla strada che da Troia portava alla città tirreno pelasgica di Larissa123, al confine con la Misia124 di cui Telefo, padre di Tarconte, era re (Hamaxitos era, dunque, un luogo che poteva suggerire varie connessioni mitostoriche specialmente agli etruschi di Tarquinia). Il testo nel suo complesso poteva ricordare Hamaxitos come luogo di partenza della mitica migrazione che Tarconte aveva condotto dalla Misia in Italia con la conseguente fondazione di Tarquinia. Evidentemente, i Tarquiniesi, con la costruzione del più grande tempio etrusco sul cenotafio di Tarconte (che non solo era il fondatore eponimo della città e in subordine di tutte le altre dell’Etruria propria e di quella Padana, ma anche l’antico unico sovrano dell’intera nazione nonché il fondatore della Etrusca Disciplina) intendevano significare il ruolo della loro città quale madre della Federazione e dell’aruspicina. Ai piedi della scalinata del tempio s’è trovato anche un cippo di marmo (II-III sec. d.C.) che in origine recava una scritta di cinque righe. Le parole delle prime quattro furono scalpellate (per damnatio memoriae?) già in epoca antica, ma nella quinta riga si legge ancora Tarquinienses Foeder[ati]125. E’ possibile che il testo integrale contenesse l’elenco dei popoli etruschi federati a Roma, compresi i Tarquiniesi. Il tempio dinanzi al quale era il cippo dovrebbe esser comunque quello della Federazione Etrusca in epoca romana126. A Tarquinia, peraltro, si trova la quasi totalità 123
Tucidide, La guerra del Peloponneso, 8, 101,3; Strabone, Geografia, IX, 5,19; XIII, 2. 124 Plinio, Storia naturale, 5, 124. 125 M. Torelli, Elogia Tarquiniensia, p. 16. 126 In quella etrusca il Fanum era verosimilmente sul colle della vicina Corneto (Corito), nel luogo della Corneto medioevale o presso il Casale di Santa Maria del Mignone dove doveva trovarsi il luco di Silvano (cfr. Virgilio, Eneide, VIII, 597 ss.). Quella del dio Silvano/Fauno era una delle forme che Vertumnus sapeva assumere (Properzio, IV, 2.). Silvano, similmente a Giove/Tinia e a Vertumnus era anche la divinità che proteggeva i confini e san-
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delle attestazioni epigrafiche delle sepolture del capo della Lega: lo Zilath mechl Rasnal o lo Zilch Cechaneri (f. 20)127. *** Tito Livio spiegò che le riunioni dove gli Etruschi, durante la prima metà del IV secolo, eleggevano il capo supremo avvenivano al Fanum Voltumnae, cioè nel tempio di Voltumna. Egli però non disse presso quale città si trovasse il tempio; pose comunque Tarquinia a capo di un esercito federale condotto contro Roma alla metà del secolo. In ogni caso, è da escludere ch’egli intendesse che il Fanum fosse a Volsini. Egli, infatti, in altra occasione, parlerà di Volsini, Perugia e Arezzo, e le presenterà tutte insieme come tre distinte capitali d’Etruria, ognuna del proprio singolo Stato128. Lo specchio etrusco sopramenzionato, dove si vede il dio federale Veltune presente a Tarquinia, è proprio del IV secolo. Nello stesso secolo, nelle tomba François, come abbiamo visto, è un Tarquinio Romano, e non un Volsiniese, il capo della coalizione alla quale la stessa Volsini apparteneva. Quando poi Roma sottomise Tarquinia, il ruolo di centro, limitato all’Etruria settentrionale ancora indipendente, dovette essere svolto da Volsini. E quando, nel 264 a.C., il console M. Fulvio Flacco sottomise anche questa città, egli stesso trasportò a Roma la statua di Vertumnus129. Il culto del dio però preesisteva sul colle Aventino già dal tempo di Romolo o di Tarquinio (vd. nota)130. Dopo la fine di Volsiciva i patti e i giuramenti. Non è da escludere peraltro che in epoca etrusca il tempio dell’Ara della Regina fosse dedicato a Veltune-Tinia/Silvano. 127 Per lo Zilath: CIE Tarquinia 5360 (TLE 87); 5472 (TLE 137); 5811 (TLE 174); ThLE, s.v. Zilath. Per lo Zilch: CIE, Tarquinia, 5385 (TLE 90); 5423 (TLE 126). Vd. A. Maggiani, Appunti sulle magistrature etrusche, “StEtr” 62, 1996, p. 107. 128 Livio, op. cit., X,37: Tres validissimae urbes, Etruriae capita, Volsinii, Perusia, Arretium. Lo stesso significato ha “Caput Etruriae habebatur” di Valerio Massimo, Memorabilia, IX, 1. 129 Festo, s.v. Picta; Properzio, IV, 2. 130 Varrone (De L.L. V, 46; 74) dice che il culto di Vertumnus fu introdotto a Roma dagli Etruschi di Celio Vibenna venuti in aiuto di Romolo contro Tito
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ni, altre città, come Chiusi o Arezzo, dovettero al momento assumere il ruolo di centro federale per l’Etruria settentrionale; ma, completatasi l’occupazione romana, Tarquinia dovette nuovamente estendere il suo primato sull’intera nazione. E’ qui infatti che ancora troviamo le sepolture di personaggi che
Tazio. Lo stesso Tito, poi, divenuto regnante assieme a Romolo, avrebbe eretto al dio un‘ara sull’Aventino. Nel vicus Tuscus, infatti, esisteva una statua di Vertumnus, la cui base è stata oggi ritrovata (CIL VI 804). Il poeta latino Properzio infine fece dire al dio d’aver assistito all’arrivo di un certo Lucumone (Tarquinio?) a Roma in aiuto di Romolo contro Tito Tazio. Nei dipinti della tomba François di Vulci, però, e nelle fonti letterarie più vicine agli Etruschi (Verio Flacco, Claudio e Tacito) la figura di Celio Vibenna non era connessa a Romolo, bensì a quel Lucumone di Tarquinia, che divenne re di Roma col nome di Tarquinio. E’ allora possibile che l’introduzione a Roma del culto di Vertumnus sia avvenuta, insieme alle insegne del potere federale, durante il regno di Lucumone Tarquinio Prisco.
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in vita hanno rivestito la carica di presidente della Federazione; ed è qui che i Romani, istituzionalizzarono l’antica scuola di aruspicina nel Collegio dei Sessanta Aruspici dove ognuno dei principi delle dodici città federate doveva inviare i propri figli a studiare. Nei rilievi del cosiddetto Trono di Claudio, eretto dagli Etruschi di Cere, sono rappresentati i dodici popoli della Federazione; e Tarquinia, personificata da Tarconte (o da Tagete) che ha in mano i Libri Tagetici, occupa ancora il primo posto della rassegna (f. 24). La Tabula Peutingeriana (IV sec. d.C.) pose Tarquinia al centro delle grandi vie di comunicazione (f. 25); inoltre, mentre ogni altra città, Volsini compresa, vi fu raffigurata con due torrette, solo Milano (capitale dell’Impero Romano d’Occidente) e Tarquinia (capitale d’Etruria) lo sono da due torrette poste su un piedistallo. La città, peraltro, era la sede del consularis Tusciae. Qui troviamo la sepoltura del praetor Etruriae P. Tullio Varrone131. Dagli Acta Santorum (9 agosto), poi, sappiamo che, attorno al 250 d.C., Secondiano fu inviato da Roma a Centumcellae (Civitavecchia) ed a Colonia (Gravisca), il porto di Tarquinia, dove fu processato perché cristiano, e giustiziato da Marco Promoto, consularis Tusciae, la cui residenza era evidentemente Tarquinia. Il martire su sepolto in Colonia. A Tarquinia dove il santo divenne patrono se ne conserva ancora un braccio. Un governatore della Tuscia e dell’Umbria, poi, sotto Diocleziano, veniva chiamato Tarquinius, nome che potrebbe essere significativo della città dov’egli svolgeva la sua funzione132. *** Durante l’impero di Diocleziano (284-305 d.C.) L’Umbria fu unita amministrativamente all’’Etruria. Ora, nel 1733 fu trovata a Spello, in Umbria, presso l’anfiteatro, la copia marmorea di un presunto rescritto emanato dall’imperatore Costantino (274-337 d.C). 131 132
CIL, 3364. L. Cantarelli, La diocesi italiciana, 1964, p. 116.
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Fig. 25
In questa copia si legge che gli Umbri della città di Spello avrebbero chiesto all’imperatore sia l’esonero di recarsi in Etruria, a Volsini (dice il presunto rescritto), per celebrare annualmente i giochi scenici e gladiatori, sia il consenso di poterli separatamente celebrare nella loro città. L’imperatore avrebbe acconsentito, fatto salvo che a Volsini gli Etruschi
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avessero ancora potuto celebrare i loro ludi scenici e gladiatori. In cambio della concessione, Costantino avrebbe acconsentito e ordinato che il tempio pagano presso cui gli abitanti di Spello avrebbero poi dovuto celebrare i loro giochi scenici e gladiatori fosse stato dedicato alla gente Flavia cui egli stesso apparteneva133 Sebbene il presunto rescritto non contenga allusioni al Fanum Voltumnae né a divinità federali come Voltumna o Vertumnus, si è pensato che ci fossero buone ragioni per ritenere che presso Volsini fosse comunque esistito il famoso Fanum, centro federale degli Etruschi, del quale Tito Livio aveva più volte parlato senza tuttavia precisare dove si trovasse. Però la cosa, sostenne il Muratori, non è affatto pacifica perché il rescritto è un falso settecentesco134. Egli osservò innanzitutto che l’indizione del presunto rescritto non è conforme ai canoni con cui tali atti venivano redatti. Analizziamo il testo. Esso inizia così.
Copia di Sacro Rescritto L'Imperatore Cesare Flavio Costantino, Massimo, Germanico, Sarmatico, Gotico, Vincitore, Trionfatore, Augusto e (i figli) Flavio Costantino, Flavio Giulio Costanzo, Flavio Costante: •
Per cominciare, manca il datum (cioè il luogo e la data di emissione). Poiché lo stesso imperatore in precedenza (26 luglio del 322) aveva emanato una disposizione secondo cui gli atti legislativi non erano validi se
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In cuius gremio aedem quoque Flaviae hoc est nostre gentis ut desideratis magnifico opere perfici volumus. 134 L. A. Muratori, Novus Thesaurus, pp. 1791-95.
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mancavano di quel particolare135, potrebbe bastare questo solo difetto per sostenere che il “rescritto” sia falso136. • Manca il nome del destinatario del presunto rescritto137. • Costantino, nei decreti imperiali del tempo, ha la qualifica di Augusto; i suoi figli (Costantino Juniore, Costanzo, Costante) ed il suo nipote Dalmazio hanno quella di Cesare con l’aggiunta frequente di nobilissimo. Costante fu eletto nel 333, e Dalmazio nel 335; e poiché il “rescritto” contiene i nomi dei primi tre, ma non quello di Dalmazio, ne consegue che l’atto dovrebbe essere stato emanato dopo che Costate fu eletto Cesare, e prima che lo fosse Dalmazio, cioè fra il 333 ed il 335. Nel nostro rescritto comunque manca ai figli di Costantino sia il titolo di Cesare che la qualifica di nobilissimo. E’ questo un ulteriore indizio della falsità del documento138. 135
Cod. Theod., I, 1,1: Si qua posthae edicta sine constitutiones sine die et consule fuerint deprehensae, auctoritate careant. 136 In risposta, il Mommsen (Berichte der sachs. Gesellsch. d. Wiss., 1850) ha congetturato che il datum potesse essere stato inciso in alto o a lato del tempio che l’imperatore avrebbe ordinato di costruire. 137 J. Gascou pensa ad una omissione del lapicida (J. Gascou, Le Rescrit d’Hispellum, “Mélanges d’Archeologie et d’Histoire”, 79, 1967, n° 2, p. 623). 138 Il Dessau pensa che l’omissione sia accidentale e dovuta alla negligenza del lapicida. Sarebbe però strano che un superficiale lapicida abbia potuto copiare su un marmo da esporre alla cittadinanza un atto così importante senza la accorta assistenza delle autorità cittadine. Mommsen (op. cit) ha voluto azzardare che il “rescritto” sia stato emanato prima che Costante fosse nominato Cesare, ma che il suo nome fosse stato ugualmente incluso; ora, per non umiliare Costante che non poteva esser definito Cesare non lo si sarebbe fatto nemmeno per gli altri. Andreotti giustamente obietta che la teoria del Mommmsen “è insostenibile nella sua stessa motivazione: un atto governativo doveva essere emanato con tutti i requisiti esteriori per la sua validità e, d’altra parte, senza l’aggiunta della menzione di persone non ancora partecipi del potere sovrano” ( R. Andreotti, Contributo alla Ddiscussione del Rescritto Costantiniano di Hispellum, in Problemi di Storia e Archelogia dell’Umbria, “Atti del Convegno di Studi Umbri (Gubbio, 26-31 Maggio 1963)”. Andreotti però, in sostituzione di quella del Mommsen, costruisce una propria teoria se-
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C’è poi da considerare quanto segue. Nel 325 d.C., l’imperatore Costantino, dopo aver composto nel Concilio di Nicea (a ca. Km. 130 da Costantinopoli) le controversie delle sette cristiane che travagliavano l’intero impero, emise da Berito (in Fenicia), sede di una scuola di giurisprudenza, un decreto in cui proibì per tutto l’impero i ludi dei gladiatori perché turba-
condo cui il “rescritto” si data nel breve lasso di tempo che va dalla morte di Costantino (22-05-337) alla proclamazione di Costantino Iuniore, Costanzo e Costante a nuovi Augusti. Sarebbe accaduto che, dopo la morte di Costantino, i suoi parenti da parte della matrigna Teodora, compreso Dalmazio, furono trucidati. Andreotti suppone che durante l’interregno gli atti di governo siano stati ancora emanati col nome di Costantino: ciò però poneva il problema se negli atti emanati i tre figli del defunto imperatore dovessero esser chiamati Cesari oppure già Augusti. “Ciò spiegherebbe”, dice Andreotti, “la mancanza di qualsiasi data “ nel rescritto. Tuttavia, come ammette lo stesso Andreotti, l’iscrizione di Spello rimane incompleta perché priva di ogni qualifica data ai figli di Costantino. Ciò sarebbe imputabile alle turbinose vicende che seguirono alla morte di Costantino. “La copia del rescritto”, conclude Andreotti, “dopo la fretta del primo entusiasmo , fu sostituita da un’altra o, più probabilmente, dimenticata. Il provvedimento concedeva una celebrazione della Gens Flavia, ben presto inattuale per i tragici colpi inferti dal destino”. In sé, però, il testo del “rescritto” non consente di spostarne la data di emissione; e comunque Andreotti non spiega alla fine come o perché nell’iscrizione di Spello i figli dell’imperatore siano privi della qualifica di Cesare che loro competeva. Gascou (op. cit., p. 621) gli ha replicato che non c’è alcuna ragione di pensare che la cancelleria abbia sostituito la copia del “rescritto”, né che le autorità di Spello abbiano preso l’iniziativa di modificare la formula di un messaggio imperiale. Egli propone questa nuova ipotesi: “il rescritto deve essere stato redatto sia negli ultimi mesi di vita di Costantino sia nel periodo dell’interregno; ma esso non sarà stato inciso che dopo il 9 settembre 337: in quel momento il figli di Costantino erano stati dichiarati Augusti, ma l’esemplare pervenuto avanti quella data alle autorità di Spello portavano il titolo di Cesare per i figli di Costantino. Non era possibile, senza assurdità, dare il titolo di Augusto sia a Costantino che ai suoi figli. Per contro, dare ai figli il titolo di Cesare sarebbe stato anacronistico: le autorità di Spello, davanti a questa difficoltà, si sono risolute di non dare loro alcun titolo”. Anche a lui però si può obiettare che in sé il testo del rescritto non consente di spostarne la data di emissione; né è possibile sostenere che le autorità di Spello avevano il potere di modificare la formula di un “rescritto” imperiale; né c’era alcuna necessità di farlo.
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vano la sensibilità dei cittadini139. Eusebio di Cesarea, che conosceva personalmente Costantino e ne scrisse la vita in lingua greca, confermò che l’imperatore “proibì a tutti (diataxeti tois pasi) ... di non contaminare le città coi cruenti spettacoli dei gladiatori”140. Pare che i giochi tuttavia non si estinsero completamente perché solo con una legge emessa da Onorio nel 402 si riuscì a ottenere la loro definitiva chiusura141. Costantino comunque non li ripristinò mai; e non si capisce come egli, nel presunto rescritto (333-335 d.C.), avrebbe potuto preoccuparsi non solo che in Etruria i giochi gladiatori fossero mantenuti, ma che nell’Umbria, a Spello, ne fossero addirittura istituiti dei nuovi. Aggiungiamo che l’unità amministrativa di Etruria ed Umbria non fu mai revocata né da Costantino né dai suoi successori; così di nuovo non si capisce come mai egli che nel presunto rescritto si sarebbe preoccupato di precisare che i nuovi ludi gladiatori da istituire in Umbria non abolivano comunque l’esistenza di quelli già esistenti in Etruria non si sia contemporaneamente preoccupato di precisare che la separazione dei ludi dell’Umbria da quelli d’Etruria non aboliva comunque l’unità amministrativa 139
L. I, De Gladiator., Cod. Theod. : “Cruenta spectacula in otio civili, domestica quiete non placent. Quapropter qui omnino Gladiatores esse proibemus eos, qui forte delictorum causa hanc conditionem adque sententiam mereri consueverant, metallo magis facies insrvire ecc.” 140 Eusebio di Cesarea, Vitae Costantini, 4, 25. Vedi il testo greco e latino in L. A. Muratori, op. cit. p. 1794. Gascou ritiene tuttavia che Costantino non abolì mai i giochi gladiatori, ma che si limitò a commutare la pena di morte di coloro che per delitti che venivano assegnati ai ludi gladiatori in quella dei lavori in miniera. Ma quali erano le vere intenzioni di Costantino si ritrovano pure nella sopra citata vita di Costantino, scritta da Eusebio di Cesarea, dove si dice che l’imperatore “proibì a tutti ... di non contaminare la città con i cruenti spettacoli dei gladiatori”. Come si vede, la legge valeva per tutti i giochi gladiatori, e non era limitata a nessun territorio né a nessuna categoria di persone. 141 Il Muratori opportunamente scrisse: “ Pretese il Gothofredo (15871652 d.C.) che quella legge fosse solamente locale né si estendesse per tutti il romano imperio; e non per altro, se non perché sotto i successori di Costantino s’incontrano né più né meno gli spettacoli de’ gladiatori. Credo io d’avere abbastanza dimostrato, massimamente con l’autorità di Eusebio, che veramente fu universale quel divieto di Costantino, ancorché i suoi figliuoli non sapessero poi sostenerlo: tanto erano impazziti i pagani dietro que’ barbarici e sanguinosi giuochi” (Annali, III, p. 367).
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delle due regioni: ciò anche per non dare appiglio a cattive interpretazioni che avrebbero potuto creare future complicazioni politiche sul piano amministrativo delle due regioni. Il Muratori ha poi osservato che Costantino, favorevole com’era verso il Cristianesimo non avrebbe mai ordinato agli abitanti di Spello di costruire un grande tempio pagano dedicato alla gente Flavia alla quale egli stesso apparteneva. Egli, per dirla con le parole del Muratori, non sarebbe stato “ethnichus et Cristianus (Cristiano e Pagano)”. Questa sua espressione ha porto il fianco a una obiezione apparentemente fondamentale. Gli è stato obiettato che Costantino in effetti era proprio “pagano e cristiano” perché non aveva mai rinunciato alla carica di Pontefice Massimo, e che alcune volte non si era rifiutato di assecondare alcune usanze pagane; inoltre aveva preso il battesimo cristiano solo negli ultimi giorni della sua vita (a quel tempo non esisteva ancora il sacramento della confessione, così molti attendevano gli ultimi giorni della loro vita per farsi battezzare perché questo sacramento cancellava tutti i peccati). Tutto ciò è vero, ma comunque non si capisce come Costantino che, negli ultimi anni della sua vita, “fece costruire il sepolcro suo presso il magnifico Tempio de gli Apostoli, eretto e dedicato da lui in Costantinopoli” (L. Muratori, Annali, III, anno 335) , in quegli stessi ultimi tempi della sua vita, abbia permesso e ordinato agli abitanti di Spello di erigere un grande tempio pagano dedicato alla gente Flavia alla quale egli steso apparteneva. Se poi, come recentemente e stato sostenuto, il rescritto fosse stato emesso negli ultimi giorni della sua vita, e pubblicato addirittura dopo la sua morte, allora ci sarebbe da chiedersi come mai Costantino, che prossimo alla morte si fece battezzare cristiano, avrebbe mantenuto il proponimento di far costruire un tempio pagano a se stesso a costo della salvezza della sua anima. C'è infine da osservare che l'antica capitale, o centro religioso, degli Umbri non doveva essere Spello, bensì Gubbio. Si evince dalle famose Tavole Iuguvine del II sec. a.C. Spello, poi, nella Tabula Peutingeriana non è nemmeno citata, mentre Gubbio lo è. E’ tuttavia possibile che Volsini abbia mantenuto qualcosa del ruolo centrale che, dopo la caduta di Tarquinia, dovrebbe aver assunto verso le ancor libere città della media valle del Tevere.
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4. GLI INSEGNAMENTI DI TAGETE. Dapo l’ampia parentisi che abbiamo aperto sul Fanum Voltumnae torniamo alla nostra disamina sull’aruspicina etrusca. Si raccontava che Tarconte, come abbiamo già detto, avesse riunito in un’opera poetica le rivelazioni fattegli da Tagete. Le singole partizioni del poema vengono chiamate Libri Tagetici. Cicerone li enumerava come Libri Haruspicini, Libri Fulgurales e Libri Rituales142. Quest’ultimi, a loro volta, si suddividevano in Libri Acheruntici, Libri Fatales ed Ostentaria. Servio ci informa che Tagete scrisse anche il Libro del Diritto della Terra Etrusca. Possediamo poi la traduzione greca che Giovanni Lido fece di alcune riduzioni in latino dei Libri Tagetici. quali il Calendario Brontoscopico, il Poema sui Terremoti ed il Trattato sui Fulmini (vd. cap. III). I Libri Hauruspicini insegnavano la scienza o l’arte di conoscere il volere divino attraverso l’esame delle viscere degli animali, soprattutto del fegato delle pecore. I Libri Fulgurales dettavano le regole per interpretare il significato dei fulmini, dei lampi e dei tuoni. Da Cicerone e da altre fonti latine sappiamo che gli aruspici etruschi quando operavano dividevano con quattro linee (corrispondenti ai punti cardinali) la volta del cielo compreso nel cerchio dell’orizzonte visibile dal loro centro. Suddividevano poi ciascuna delle quattro parti in altre e quattro in maniera che il cielo risultasse ripartito in sedici settori abitati da altrettanti dèi o gruppi di divinità. In tal modo, essi potevano sempre individuare da quale singola parte del cielo fosse provenuto un fulmine, quale divinità lo avesse scagliato, e quale fosse il significato profetico da attribuirgli143. Tutto ciò apparteneva ai Libri Fulgurales; e, come testi142
Cicerone, De divinatione, I, 72. Cicerone, op. cit., II, 42-45; Plinio, Storia naturale, II; 143; Servio, A Virgilio Eneide, VIII, 427.
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monia Cicerone, questi rientravano in quel complesso di norme aruspicali che Tagete avrebbe rivelato ai prìncipi di tutta l’Etruria convenuti a Tarquinia. L’osservazione e la divisione del cielo, attribuite a Tagete, in singole dimore divine, dovettero esser state il risultato dell’osservazione di quello spazio di cielo contenuto entro l’orizzonte visibile da quel particolare luogo del territorio tarquiniese in cui si diceva che Tagete fosse nato ed avesse dettato le sue norme a Tarconte e ai Lucumoni ivi radunati. 5. LE PARTI OMINOSE DEL FEGATO DI TAGETE. Tagete, nella scena che è sullo specchio di Tuscania (f. 18), stringe fra le dita della mano sinistra la parte mediana di un fegato animale mentre con l’indice della mano destra indica una circoscritta zona centrale che dovrebbe essere la Testa del fegato: era questa, d’altronde la parte più ominosa dell’organo aruspicino. Da questa zona mediana pende, a destra, la parte destra del fegato (con il segno a mezzaluna indicante la presenza del Dio invocato), mentre, a sinistra, pende la parte sinistra del fegato (con il segno triangolare del Dito del fegato, e con quello a goccia della Cistifellea). Questa immagine mostra quali fossero, nelle sedute di aruspicina, la sinistra e la destra del fegato, e quali fossero la Testa, il Dito, la Cistifellea e il Dio. a fianco: particolare della fig. 18
Nella stessa scena, il mitico rivelatore dell’aruspicina ha alle spalle il sole nascente dai monti. Quest’ultimo particolare è rafforzato dalla presenza, nella parte più alta dello specchio, della dea Aurora che guida la quadriga del sole che sorge. Tagete ha dunque alle
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spalle l’oriente, e dinanzi a sé l’occidente dove il sole, visto dall’Etruria, e da Tarquinia in particolare, muore la sera nel mar Tirreno. Abbiamo già visto che per gli antichi era questa la postazione di orientamento delle ròse dei venti, delle bussole e delle carte (vd. p. 54). Abbiamo pure già visto che questa era la disposizione della principale coordinata Est > Ovest del templum augurale etrusco (vd. pp. 56-58). Ricordiamo che i popoli più antichi non concepivano il nord come un sopra, e il sud come un sotto. Per loro la parte alta del cielo era quella orientale perché vi sorgeva il sole. Virgilio, nell’Eneide, definì il mar Adriatico come quello che bagna la parte superiore dell’Italia, ed il Tirreno come quello che ne bagna la parte inferiore; ed Elio Donato annotò: “Ogni mare, dalla Sicilia alla Spagna, è chiamato infero perché lì il sole tramonta dopo esser sceso nella parte inferiore del cielo”. Isidoro di Siviglia, poi, spiegò: ”l’Adriatico e il Tirreno venivano chiamati Supremo ed Infero in base alla posizione del cielo perché l’Oriente è superiore e l’Occidente è inferiore”144. Ovviamente, anche la parte alta del fegato che è nelle mani di Tagete è rivolta ad est, la bassa ad ovest, la sinistra a sud, e la destra a nord. Il già citato frammento di Varrone conferma che gli aruspici etruschi, con una linea da oriente a occidente, divisero il mondo in due parti, e chiamarono destra quella che stava a settentrione, e sinistra quella che stava a meridione. Gli aruspici, poi, dice ancora Varrone, con una nuova linea dal nord al sud, divisero il mondo in altre e due parti, e chiamarono anteriore (àntica) quella orientale, e posteriore (postica) quella occidentale (vd. p. 54)145. 144
Virgilio, op. cit., VIII, 149; Servio Danielino, ad loc.; Isidoro di Siviglia. Etymologiae, XIII, 16,7. 145 Vedi anche Dionigi Alicarnasso (Antichità Romane, IV, 60) là dove dice che l’aruspice etrusco: “traccerà col bastone un cerchio in terra e
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Igino, poi, aggiunge che questa era pure la disposizione dei templi (vd. p. 56-58). Giovanni Lido infine esplicitamente spiega che, rispetto ai principali punti cardinali, la parte sinistra del cielo corrisponde al Sud (De Ostentis, 4, 22). I Romani chiamarono Decumanus la linea che andava da est ad ovest, e chiamarono Cardo quella che andava da nord a sud. L’aruspice, postosi al centro del templum augurale, cioè nel punto di incrocio delle due rette (il methlumth, come vedremo), aveva al di qua del Cardo, cioè alle proprie spalle (Est), la parte àntica, e al di là del Cardo, cioè di fronte a lui (Ovest), la parte pòstica. Tale ripartizione dello spazio celeste e terrestre risponde al concetto che i Romani esprimevano con la parola templum. Questo concerneva la volta del cielo, ma si rifletteva anche nello spazio ristretto e consacrato del recinto d’una città o d’un santuario; e addirittura, si leggeva nel fegato esaminato durante le sedute di aruspicina. Nello specchio etrusco da noi studiato, Tagete è al centro (methlum) del templum. Presso gli Etruschi, poi, il tempio era di norma orientato ad Est. La facciata e il colonnato costituivano la parte anteriore (àntica), la celle con i simulacri divini costituivano la parte posteriore (pòstica). L’altare era esterno, ed era rivolto verso la facciata del tempio. Il sacerdote che vi compiva i sacrifici era rivolto verso il tempio. Aveva dunque l’oriente alla spalle, e l’occidente davanti a sé; nei sacrifici, poi, la vittima da immolare guardava verso oriente. Seneca, nella tragedia Edipo, ne conferma la posizione:
dirà: ecco il monte Tarpeo, questo è il suo lato che guarda ad oriente, questo a occidente, quest’altro a settentrione, e quest’altro a mezzogiorno. E col bastone v’indicherà in successione (cioè da oriente ad occidente) ognuna delle quattro parti”.
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La vittima opima s’è fermata dinanzi al sacro altare [...]. Il toro non appena è stato posto verso il lato da cui si leva il sole, sollevando in alto la testa, s’è distolto con spavento dalla vista e dai raggi dell’astro146. L’aruspice aveva a sinistra la sezione meridionale del mondo, detto anche parte familiaris perché di buon augurio ed abitata dalle divinità celesti. A destra aveva la sezione settentrionale detta anche parte ostilis perché di cattivo augurio ed abitata da divinità infernali o della terra. Gli aruspici suddividevano poi, come abbiamo già visto (vd. pp. 54-58), ciascuna delle quattro parti in altre e quattro in modo che il cielo risultasse ripartito in sedici settori complessivi abitati da altrettanti dèi o gruppi di divinità147. Con questo schema, ogni volta che dal cielo cadeva un fulmine, costoro potevano determinare quale fosse stata la divinità che lo aveva scagliato. Dai reperti archeologici con figure di aruspice con fegato riscontriamo ch’egli poteva posizionarsi anche con il volto rivolto ad est (f. 38) o a sud, ma che l’orientazione del fegato restava sempre la stessa di quella del fegato che si vede nelle mani di Tagete (f.18): la parte alta ad est, la bassa ad ovest, la destra a nord, e la sinistra a sud. *** In Etruria, oltre alla figura di fegato che abbiamo visto nelle mani di Tagete, e ad un’altra che si vede nella mano dell’aruspice di Arezzo (f. 38), sono stati trovati vari modellini: uno a Faleri, uno a Volterra, e un altro a Piacenza. 6. IL FEGATO DI FALERI. Il fegato di Faleri (f. 26) si presenta 146
Seneca, Edipo, 299-300; 302; 336-339: “Altum taurus attollens caput primos ad ortus positus expavit diem trepidusque vultum obliquat et radios fugit”. 147 Cicerone, De divinazione, II, 18; Plinio, Storia naturale, II, 52-60.
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simile ad alcuni modelli di fegato babilonesi, ittiti e greci. E’ in terracotta, e nella sua parte sinistra, in alto, vicino al bordo, presenta una protuberanza a forma di piramide, quella che i Babilonesi chiamavano Ubanum (“Dito” o “Pollice” per la sua posizione laterale), e che oggi, in anatomia, si dice processo piramidale (per la sua forma di piramide) o processo caudato (per la sua posizione caudale) (vd. f. 5). Questo “Dito” o “Pollice” o “Coda” del fegato simboleggiava per lo più una estraneità ostile, sinistra e separata (vd. p. 25-26). Esso, poi, come ogni altra parte del fegato, per i Babilonesi, aveva una testa, una parte mediana e una base148. Thulin però cento anni fa scambiò la testa di questo “Dito” o “Pollice” o “Coda” del fegato per quella dell’intero fegato (vd. pp. 25; 40;).
Nella parte destra del fegato di Faleri si notano, poi, due segni a forma di mezzaluna, simili a quelli che i Babilonesi, nei loro modellini, chiamavano Manzàzu (presenza del dio invo148
U. Jeyes, op. cit., pp. 65-71.
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cato) e Padànu (sentiero). In lingua greca (vd. p. 49), Manzàzum fu reso con Theòs (Dio), in quella latina con Deus (Dio). La presenza o meno di questo segno nel fegato indicava se la divinità era disponibile o meno a rispondere. Il Padànu (sentiero) simboleggiava invece il corso della vita umana; in lingua greca fu reso con Keleythos (sentiero). In alto, sulla zona centrale del modello di Faleri si nota una seconda protuberanza più piccola del “processo piramidale o caudale”, ma più importante. E’ quella che oggi, in anatomia, per la sua forma di capezzolo, è detta “processo papillare” (vd. f. 5). I Babilonesi la chiamavano Crescenza (MAS o Sibtu). Per loro, essa simboleggiava il buon raccolto, il profitto, la madre e la patria. Aveva un lato destro ed uno sinistro, una spalla, una fronte ed una testa. Poteva essere anche doppia e tripla; ne abbiamo già trattato (vd. pp 34 - 46), ma qui ne ricordiamo alcuni esempi: • • •
due Crescenze voglion dire che l’uomo vedrà la ricchezza; se due Crescenze sono consecutive, il piccolo tesoro dell’uomo diverrà grande, e l’uomo prospererà; se una Crescenza è sovrapposta all’altra, consumerai il raccolto della terra del nemico149.
I Greci chiamarono “Lobo (Lobòs)” oppure “Testa (Kefale)” quella che per i Babilonesi era la Crescenza. Anche i Romani la chiamarono “Testa (Caput)”. Ancora oggi, questa parte del fegato, per la sua sporgenza a forma di capezzolo o piccolo capo si chiama processo papillare. Anche per i Romani, questo processo papillare poteva presentarsi doppio, ma pure diviso in due oppure staccato e perfino assente. A seconda dei casi, il significato poteva essere fausto o infausto (vd. p. 34, ss.). 149
U. Jeyes, op. cit. , 1989, p. 72.
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Secondo Seneca, Il Caput (testa) del fegato delle vittime sacrificate era il simbolo della suprema unità del potere (omen unico imperio)150. Si diceva infatti che sulla testa del fegato sacrificato da Silla, prima di ottenere il dominio di Roma, fosse apparsa qualcosa che aveva la forma d’una corona d’oro151. Presso gli Etruschi, la corona d’oro era prerogativa del sovrano di tutta la nazione152. 7. IL FEGATO DI VOLTERRA (f. 27). E’ posto sulla mano sinistra della statua dell’aruspice Aule Lecu. Qui, Aule è rappresentato semisdraiato sul coperchio del proprio sarcofago con le gambe rannicchiate ed il busto sollevato e sorretto dal braccio sinistro poggiato col gomito e la mano mollemente su due cuscini. Egli non è nell’atto di tenere una seduta di aruspicina; tuttavia, con la stessa mano sinistra che è poggiata sui cuscini, sorregge e mostra un fegato. Questo, come negli altri modelli etruschi di fegato, presenta quella protuberanza che i Babilonesi chiamavano Crescenza, i Greci “baccello” o “Testa”, i Romani “Testa”, e che i moderni chiamano “processo papillare”. Essa si trova nella zona superiore della parte mediana del fegato. Inoltre, è doppia o divisa in due: raddoppiamento o bipartizione che ripete il significato positivo che la Crescenza del fegato assumeva presso i Babilonesi nel caso in cui essa si presentasse raddoppiata. La bipartizione serve qui anche per indicare quale siano, nel modellino, la parte sinistra e la parte destra. Ciò secondo la divisione del mondo in due parti operata dagli Etruschi, e riflessa anche nel fegato: la sinistra favorevole (corrispondente alla parte sini150
Seneca, Edipo, 358-365. Plutarco, Vita di Silla, 27; Agostino, De Civitate Dèi, II, 24. 152 Virgilio, Eneide, VIII, 505. 151
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stra dell’aruspice), e la destra sfavorevole (rispondente alla destra dell’aruspice).
8. IL FEGATO DI PIACENZA. In Emilia, presso Gossolengo, in provincia di Piacenza, è stato trovato nel 1877 un modellino di fegato in bronzo (f. 28). Pesa gr. 635, è lungo cm. 12, 6, largo 7, 6, alto 2,3; il processo piramidale è alto 3,7, le sue basi sono di 2, 4; il processo papillare è largo 2 ed alto 1,5; la cistifellea è lunga 5,6, larga 2 ed alta 1, 1. La superficie inferiore è convessa e divisa in due da uno spartitore (f. 29), quello che in anatomia si chiama “sospensorio epatico” o “legamento falciforme”. Questo parte da un punto del lato esterno del bordo della superficie superiore del modellino (f. 34), quello in cui la casa di Cilen (Fortuna) tocca grossomodo quella di Veis (Vediove), attraversa quasi tutta la parte centrale dell’oggetto dividendolo in due settori, e giunge fino al buco rotondo (in anatomia è l’inizio
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della “vena ombellicale”) che si trova al di sotto di un profonda incisura del fegato (in anatomia è detta “incisura ombellicale”), lasciando così fuori competenza la breve zona che si trova al di sotto dell’incisura, fra l’incisura stessa ed il buco. Lungo uno dei lati del legamento corre parallela la scritta Usils (del Sole), e lungo l’altro Tiurs (della Luna). Ciò vuol dire che la parte dl fegato dove è scritto “del Sole” appartiene al Sole, e sta ad indicare la parte sinistra e favorevole: l’Est, il Sud, la primavera, l’estate e le ore diurne. Quella invece dove è scritto “della Luna” appartiene alla Luna e sta ad indicare la parte destra e sfavorevole: l’Ovest, il Nord, l’autunno, l’inverno e le ore notturne. P. S. La zona compresa fra il buco tondo e l’incisura ombellicale non attiene a questa divisione, ma segue quella della faccia superiore del fegato. Ne è riprova il fatto che nella corrispondente faccia superiore si trova scritto CATHA (il nome del Sole morente) e FUFLUNS (Bacco, divinità autunnale della vendemmia e del vino): ambedue i nomi appartengono, come vedremo meglio in seguito, alle divinità della parte occidentale del modellino. USIl, infatti, in etrusco, indica il Sole nelle sue manifestazioni diurne, invece CATHA è il nome del “Sole che tramonta”. CATHA, peraltro, a Pirgi (Cere) e a Gravisca (Tarquinia) era venerato presso il mare, in un tempio rivolto ad Ovest153. La superficie superiore del modellino (f. 29) è concava e solcata al suo interno da una fitta mappa di caselle contenenti nomi di dèi. Lungo il bordo, poi, presenta una seconda serie di nomi divini dislocati a cerchio in una fila di sedici caselle pari al numero delle sezioni in cui gli Etruschi dividevano il cielo. 153
S. Fortunelli, Gravisca. Il deposito votivo del santuario settentrionale, Edipuglia, Bari, 2007, p. 333.
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9. LA BIPARTIZIONE DEL FEGATO. La facciata del fegato di Piacenza (f. 28), come di quello di Tagete (f. 18), di Faleri (f. 26), di Volterra (f. 27) e di Arezzo (f. 38), è strozzata nel mezzo della parte bassa.
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Nel mezzo della parte alta presenta quella stessa protuberanza che i Babilonesi, gli Ittiti, i Greci e i Romani denominavano rispettivamente Crescenza, Gomitolo, BaccelloTesta e Testa, e che ancor oggi noi, per la sua forma di piccolo capo, chiamiamo “processo papillare”. Diversamente però dal “processo papillare” del fegato di Volterra, quello del fegato di Piacenza non è diviso in due. Qui la divisione del modellino in lato sinistro e destro è realizzata dalla stessa divisione delle caselle. Al di sotto del “processo papillare”, i segmenti delle caselle formano, infatti, una linea che separa la parte sinistra del fegato dalla destra. Questo allineamento, o questa linea, peraltro, è grossomodo parallelo alla linea est > ovest che divide in sinistra (meridionale) e destra (settentrionale) la faccia convessa del modellino (f. 29).
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Al di sopra del “processo papillare”, è scritto Metlvmth (ff. 31 nr. 12a; 34 nr. 12a). Il vocabolo sporge verso entrambi i lati sinistro e destro della facciata; e, a differenza di tutte le altre parole, che sono nomi di dèi, questo è un nome di luogo; e, rispetto agli altri, è scritto rovesciato. Secondo Pallottino, Metlvm-th è un locativo connesso al concetto di “nazione e suo territorio154. Per Morandi, il Metlvm-th è la “Assemblea”, intesa sia come istituzione religiosa che come “struttura politica fondamentale” della Città o dello Stato. Egli poi aggiunge: Nel fegato, che è equivalente al templum celeste, l’aruspice individuerà, a destra e a sinistra del Metlvm-th, gli spazi delle divinità secondo quanto la disciplina prescrive155. Secondo Devoto e Colonna, Metlum-th significa “città” senza specificazione del nome perché “trattandosi di un modello teorico di fegato spettava all’aruspice consultante indicare di volta in volta il nome del luogo156. Ora, il mitico luogo dell’originaria rivelazione di Tagete era Tarquinia; e noi potremmo intendere che in origine la parola Metlum-th abbia indicato quella “città”, o comunque quel luogo del territorio della città, dove avvenne la rivelazione originaria e dove, al richiamo di Tarconte, convennero e si unirono in “assemblea” tutti e dodici i capi delle altre città. Proprio con la parola Caput, che in Latino 154
M. Pallottino, Etruscologia, Hoepli, Milano, 200, p. 511. A. Morandi, Nuovi lineamenti di lingua etrusca, Erre Emme, Roma, 1991, pp. 203-206. 156 G. Colonna, A proposito degli dèi del fegato di Piacenza, “Studi Etruschi”, 59, 1993. p. 130. 155
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vuol dire sia “testa” che “capitale”, gli aruspici etruscoromani chiamavano quella parte del fegato che i Babilonesi chiamavano Crescenza, gli Ittiti Gomitolo, e i Greci Lobo e Testa, e che noi ancor oggi chiamiamo “processo papillare” per la sua forma di capezzolo o piccola testa. Del resto, l’equivalenza “testa = capitale” apparteneva già alla originaria nomenclatura della divinazione etrusca. Quando, a Roma, il re Tarquinio fece scavare le fondamenta per la costruzione del tempio Capitolino, fu dissotterrata una testa umana ancora palpitante di vita; il re inviò allora ambasciatori in Etruria acciocché l’àugure Oleno Caleno gli spiegasse il significato del prodigio; e Oleno sentenziò che il luogo dove era stata trovata la testa (caput) sarebbe divenuto la capitale (caput) del mondo157. Metlum, dunque, in etrusco, dovrebbe significare “testa”, “capitale”; e il locativo Metlum-th potrebbe indicare il luogo dell’emersione dalla terra della testa di Tagete (f. 16) e del concorso dei dodici lucumoni, ed assumere così il significato di “città capitale, centro, tempio federale, assemblea federale, luogo dell’assemblea”158. Nel museo di Tarquinia, sul rotolo che Laris Pulena apre fra le mani della statua del proprio sarcofago, si legge che Laris, a Tarquinia (Tarchnalth), esercitò per la città (Spureni) la carica di lucumone (Tarchnalth spureni lucairce), 157
Dionigi d’Alicarnasso, Antichità romane, IV, 59-60: “Così l’indovino disse loro: Romani, dite ai vostri connazionali che il destino vuole che il luogo dove avete trovato la testa sia la testa di tutta l’Italia”; Tito Livio, Storia di Roma, I, 55: “Dicono che una testa (caput) d’uomo, non disintegrata, sia apparsa a coloro che scavavano le fondamenta del tempio. Ciò, senza dubbio, stava a significare che quella sarebbe stata la rocca dell’impero e la capitale (caput) del mondo”; Plinio, Storia naturale, “XXVIII, 15: “Quando, scavando le fondamenta del santuario Tarpo, fu trovata una testa umana, furono inviati ambasciatori ad Oleno Caleno, il più celebre indovino d’Etrruia”. 158 E’ evidente che questo caput non corrisponde al “dito”, o lobo piramidale, del fegato babilonese, come voleva Thulin, e come ancora si vorrebbe (vd. pp. 23; 40).
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e tenne per tre volte nel Methlum quella di capo nazionale (Tenine cis [Zilath] Methlumt) (vd. p. 141, n.8). Si noti che, nel rotolo di cui parliamo, la parola Methlumt appare come un toponimo del territorio di Tarquinia. Spur indica Tarquinia come città capitale del proprio singolo Stato; Methlum la connota invece come città capitale della Nazione ovvero come sede del luogo del Concilio Federale. La formula “amce Zilath Methlum” o “Zilath Meclum Rasnas”, frequente a Tarquinia nelle iscrizioni funerarie dovrebbe significare “fu presidente dell’Assemblea dei Rasenna (Etruschi)”. Metlum è pure scritto su una moneta (ca. 300 a.C.) etrusca coniata verosimilmente dalla città sede del Methlumt (f. 40). Il vocabolo Metlvmth, posto com’è al di sopra della protuberanza della parte centrale del fegato, starebbe dunque ad indicare il centro (il caput del templum) presso Tarquinia, dal quale si diceva che Tagete avesse diviso lo spazio attorno, e la volta del cielo. Presso quel templum, comunque, come pure si diceva, erano convenuti, al richiamo di Tarconte, tutti i lucumoni delle dodici città etrusche; e a Tarquinia fu poi istituita una scuola di aruspicina, in seguito istituzionalizzata dai Romani nel collegio federale dell’Ordine dei Sessanta Aruspici, per il mantenimento e la composizione del quale contribuivano tutte e dodici le città (vd. p. 141-144). Nel rotolo di Laris Pulena si nomina, fra l’altre cose, una scuola (alumna), coi suoi giovani alunni (huzrnatre) e la loro collegialità (alumnathura) della quale lo stesso Laris era decano (parnich). Parleremo più diffusamente del Collegio dell’Ordine dei Sessanta Aruspici nelle pagine da 141 a 144. Ovviamente, come ha osservato Colonna, la posizione di centro del templum, indicata dalla parola Metlumth del fegato di Piacenza, poteva essere ricollocata in una qua-
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lunque altra parte di mondo in cui un aruspice poteva di volta in volta fermarsi per operare159. 10. LE CASELLE DEL BORDO ESTERNO. Noi abbiamo preso l’immagine dello specchio di Tagete (con le spalle ad Est), l’abbiamo circondata con le sedici caselle che nel fegato di Piacenza suddividono il cielo, ed abbiamo provato a ricostruire il Pantheon etrusco così come si diceva che Tagete lo avesse visto dal luogo della sua nascita (fg. 34). Abbiamo poi numerato le caselle a cominciare da quella di Uni (Giunone) per il motivo che ora esporremo. Seguendo l’andamento della scrittura etrusca, che va da destra a sinistra, i nomi divini che riempiono le caselle del bordo del modellino risultano disposti su due righe convergenti nel punto intermedio che é fra la casella di Lethm (Lete?) e quella di Tluscv (Tusco?). Evidentemente, l’autore del modellino, seguendo l’andamento della scrittura etrusca, riempì le caselle con nomi divini scrivendo da destra a sinistra, ma, giunto nel punto dove il bordo del fegato gira e per così dire torna indietro verso destra, egli si trovò nella scelta di dover invertire l’ordine dell’andamento della scrittura oppure di ricominciare daccapo (f. 30); ed egli è tornato daccapo. 159
Consideriamo che il modellino di Piacenza poteva essere utilizzato come sussidio didattico. Ora, poiché la parola Metlumth è scritta rovesciata rispetto alle altre, la sua posizione doveva svolgere una funzione didattica differente da quella delle altre. Infatti, se noi osserviamo la posizione che ha l’aruspice di Volterra rispetto al fegato che tiene in mano (f. 27), deduciamo che un insegnante di aruspicina aveva nella mano sinistra il fegato, e questo era posizionato con la parte contenente i nomi divini rivolta verso gli alunni in modo da renderglieli facilmente leggibili. Dall’alto, gli occhi del maestro, posizionati sopra il fegato, come quelli di Aule di Volterra, potevano invece agevolmente leggere il toponimo Metlumth. Agli alunni questa parola appariva rovesciata; così era il maestro a pronunciarla e ad indicarla di volta in volta con l’indice della mano destra, proprio come fa Tagete nella scena dello specchio (fig. 34), e come fa l’aruspice del fegato di Arezzo (f. 38).
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Ora, se noi torniamo indietro di otto caselle per ogni riga ci veniamo a trovare nel punto intermedio ch’è fra la casella di Tin Ne (Giove Nettuno) e quella di Uni Mae (Giunone,Genio).
Fig. 30 - Le frecce indicano che la scrittura dei nomi divini contenuti nelle 16 caselle del bordo esterno è disposta su due righe convergenti nel NORD del fegato. Seguendo l’andamento della scrittura etrusca, che va da destra a sinistra, l’autore del modello deve aver cominciato a riempire le caselle partendo da quella di Giunone (SUD). Dopo 8 caselle è giunto a quella di Lethm (NORD) dove s’è fermato perché se avesse continuato a scrivere seguendo la curva del fegato avrebbe dovuto tornare indietro e scrivere da sinistra a destra. Così a ricominciato a scrivere ripartendo dalla casella di Giunone (SUD). Anche la parte interna della faccia del fegato contiene caselle con nomi di dèi.
L’autore del modellino, dunque, dovette stendere le due righe di otto caselle cominciando da qui, cioè dalla casella di Giunone che è poi la dea che ha dato il nome al mese di Giugno. Questa casella corrisponde al solstizio estivo (inizio dell’estate), attiene all’ora del mezzogiorno ed all’inizio
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della parte meridionale del cielo. E proprio secondo il calendario di Tagete, autore delle norme che regolano la lettura del fegato, l’anno etrusco iniziava, nel mese di giugno, con il solstizio estivo160.
Casella 1 (Sud). E’ la sede di Giunone (etr. Uni), dea del calendario, che ha dato il nome al mese di Giugno col quale, secondo il Calendario Brontoscopico di Tagete, iniziava l’anno. Casella 4 (Sud). E’ la sede di Nettuno (etr. Nethun), dio del mare dove tramonta il sole visto da Tarquinia. Casella 5 (Ovest). E’ la sede del Sole che tramonta (etr. Catha) nel mare di Nettuno. Casella 6 (Ovest). E’ la sede di Bacco (etr. Fuflun), divinità autunnale della vendemmia e del vino. Casella 9 (Nord). E’ il punto di incontro della direzione delle due scritture di nomi nella doppia serie di 8 caselle. Casella 12 (Nord). E’ la sede di Vediove, il dio che gli Etruschi, secondo il Liber Linteus, invocavano prima dell’alba (Est).
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Tagete, in Giovanni Lido, Il Calendario Brontoscopico di Tagete, (vd. cap. III, 2).
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Servio poi ci fa sapere che in Etruria anche le ore della giornata si contavano a partire dal mezzogiorno, e che la stessa cosa valeva per gli Ateniesi161. Dunque, Uni (Giunone) abita nella prima casella del sud (ff. 30; 31; 34). Conseguentemente, dopo quattro caselle, dovremmo trovarci tra l’ultima casella del sud e la prima dell’ovest. In effetti nell’ultima del sud abita Nethun (Nettuno), dio del mare dove il sole la sera va a tramontare, e nella prima dell’ovest abita Catha che è proprio il dio del sole che tramonta (f. 30; 31; 34). In lingua etrusca, Usil è invece il nome del Sole nelle sue manifestazioni diurne (f. 32). Catha, peraltro, nei porti di Pirgi (Cere) e di Gravisca (Tarquinia) era venerato presso il mare in un tempio rivolto ad ovest162. Subito dopo Catha, nella sesta casella, abita Fuflun (Bacco), dio autunnale della vendemmia. Nell’ottava casella, dove finisce l’ovest e comincia il nord, abita Letam (Lete? Dea omonima del fiume infernale) (ff. 30; 34); nell’undicesima, dove finiscono il nord e la notte, abita Vetis (Veiove, epiteto di Giove fanciullo) (ff. 30; 31; 34), il dio che gli Etruschi invocavano durante l’aurora163. Nella tredicesima casella, dove comincia l’est, abita la dea Cilen (Fortuna, ff. 30; 34 e pp. 123-129)164: la sua forza è superiore a quella di ogni altra divinità. Nella quattordicesima abita Tinia (Giove) insieme alla stessa Cilen (Fortuna): nel tempio di Palestrina si vedeva la statua della dea Fortuna
161
Servio, All’Eneide, V, 738. S. Fortunelli, Gravisca. Il deposito votivo del santuario settentrionale, Edipulglia, Bari, 2007, p. 333. 163 Liber Linteus (Mummia Zagabria), XI: “ctnam thesan fler Veives thezeri”. 164 Il Grenier credeva invece di poter individuare in questo punto (fra Veiove e Cilen) il nord del Fegato (A.Grenier, L’orientation du foie de Plaisance, “Latomus”, 1946, p. 293 ss. ). Pallottino, che lo criticava, ritenne a sua volta di poter collocare il nord tra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen (M. Pallottino, Deorum sedes, in Studi in onore di Aristide Calderini e Robertro Paribeni, Ceschina, Milano, 1956, pp. 23-234. 162
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che allattava Giove e Giunone bambini165. Nella quindicesima casella abita Tinia (Giove) insieme a un gruppo di divinità chiamate Thufltha. Nella sedicesima abita ancora Tinia (Giove), stavolta insieme a Ne-thun (Nettuno). Tinia (Giove) è il dio della luce mattutina (Tin in Etrusco significa giorno). Egli con l’epiteto di Vetis (Giove fanciullo) ben si pone nell’ultima casella del settentrione, quella che precede la primavera e l’inizio del giorno; e con il nome di Tinia (Giove / luce) altrettanto bene si colloca, assieme alla forza di Cilen (Fortuna), nelle tre prime case dell’oriente, del giorno e della primavera. Anche per Marziano Capella, il dio abita nelle regioni del mattino e della primavera (vd. p. 132-133). A proposito di questa posizione orientale e primaverile occupata da Tinia (Giove) osserviamo che negli stessi Libri Tagetici è scritto che i fulmini non si producono nelle regioni fredde o calde del mondo, bensì in quelle temperate ed umide come l’Italia, e “non di frequente in estate o in inverno bensì in primavera e in autunno” (vd. cap. III, 5). Plinio fece poi la stessa osservazione166. Ora, poiché proprio Tinia (Giove) è per eccellenza il dio che scaglia il fulmine, le regioni del cielo dov’egli abita e da dove scaglia il fulmine, non sono certo quelle invernali o del nord167. Alle tre regioni orientali che nel fegato di Piacenza risultano abitate da Tinia dovrebbero, poi, corrispondere i tre diversi tipi di fulmine che il dio inviava168.
165
Cicerone, op. cit., II, 85. Plinio, Storia Naturale, II, 135: “D’estate e d’inverno i fulmini sono rari (Hieme et aestate rara fulmina)”; Ibidem, : “vere autem in autumno crebriora fulmina”; Cfr. Arrhian. ap. Stobaeum. ecl. phys. I, 29, 2, p. 238, 5. 167 Pallottino ritenne invece di poter collocare il nord tra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen (M. Pallottino, Deorum sedes, in Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, Ceschina, Milano, 1956, pp. 223-234. 168 Seneca, Questioni naturali, II, 41. Nei Libri Etrushci si disse pure che il potere di scagliarli competeva anche altri dèi per un totale di dodici (Servio Danielino, All’Eneide, I, 42; Mitografi Vaticani, III, 6). 166
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L E S U D D I V I S I O N I D E L F E G A T O (f. 34) Riprendiamo e approfondiamo il discorso su le “caselle” del fegato di Piacenza esaminandole una per una. Chiediamo scusa al lettore perché il discorso diventerà puntiglioso, ripetitivo e forse noioso, ma ciò sarà necessario soprattutto per l’identificazione di Cilen con la dea Fortuna. Da sotto il “processo papillare”, che indica il luogo del Metlumth, parte la linea divisoria del fegato in destra e sinistra. Lungo la parte destra della linea è scritto Letham (5a). Potrebbe trattarsi, come qualcuno ha supposto, del nome etrusco della dea infernale Lethe. Da lei aveva preso il nome il fiume dell’oblio. Questo scorreva negli Inferi presso i Campi Elisi; e le sue acque, che facevano dimenticare il passato, erano bevute dalle anime di coloro che, purificate nell’aldilà, si accingevano a risalire sulla terra per reincarnarsi. Esse costituivano la condizione per passare dalla morte alla rinascita: una funzione che ben si adatterebbe alla linea che nel fegato divide la notte al giorno. Ritroveremo il nome di Lethe anche nella casella 8a dove inizia il nord: pare dunque che il nome di Lethe sia connesso al cardo N > S e al decumano E > O del fegato. Lungo la zona che si trova alla sinistra della stessa linea centrale del fegato, a partire dall’Ovest, si vede la casella n. 4a dove è scritto Ercle (Ercole). Nelle caselle accanto a questa è scritto tre volte il nome di Maris (una nella 5c della cistifellea, e due nella 13a) ed una volta quello di Tlusch. Nello spazio della 13a c’è anche il nome di Catha (Sole). Ora, così come è vero che si diceva che il divino Tagete era nato dalle zolle della terra di Tarquinia, e che avesse insegnato l’arte dell’aruspicina a Tarconte e a tutti gli altri lucumoni delle dodici città lì convenuti, é pure verosimile che quell’arte, almeno in origine, fosse stata elaborata dai
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Tarquiniesi, e che la divisione delle caselle del cielo e della terra ripetesse in qualche modo il cielo e il panorama che si vedevano da Tarquinia. E se Metlumth, come vogliono Devoto e Colonna, significa “città”, o “concilio federale”, come vuole Morandi, quella città o quel luogo di concilio federale posto al centro del sistema cosmico riflesso nel fegato non può esser che Tarquinia: ciò in alcuni casi potrebbe valere come chiave di lettura. Ercle (Ercole), il cui nome è scritto nella casella 4a, era ritenuto padre di Telefo a sua volta padre di Tirreno e di Tarconte fondatore di Tarquinia. Egli era ritenuto anche padre di Tusco (Tlusc ?), colui che diede il nome ai Tusci169 donde il nome della città di Tuscania (lat. Tuscana), 20 km. a nord-est di Tarquinia. Ercole era dunque all’origine della stirpe. Per gli Etruschi, egli era pure il padre dei tre Maris. Il loro nome è dislocato per tre volte sulla sinistra della linea che parte dal Metlumth. Dall’altro lato, come abbiamo visto, la linea è parte integrante della casella di Letha, che è forse la divinità che dava il nome al fiume dell’oblio170. La linea divisoria del fegato va a terminare accanto alla strozzatura che è nella facciata bassa del modellino, in mezzo fra la casella di Catha (5), dio del sole, e quella di Nethun-Nettuno (4) il dio del mare dove il sole tramonta. Similmente, nei graffiti di uno specchio etrusco di Tuscania, il dio sole ha alla sua sinistra la dea dell’Aurora (The-
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Verrio Flacco, nella epitome di Festo, De Verborum Significatione: “ I Tusci avevano preso il nome dal re Tusco figlio di Ercole (Tuscos, quidam dictos aiunt a Tusco rege Herculis filio)”. 170 Il nome del fiume Marta, detto anche Mària, che dal colle di Corneto (Tarquinia), in direzione nord-est > sud-ovest, va al mare potrebbe avere qualche connessione con quello dei fratelli Maris figli di Ercole. Il fiume è chiamato Mària nella Bolla di papa Leone quarto a Virobono vescovo di Tuscania (850 d..C). Vd. pure “Vico Mariano” nome usato nell’alto medioevo per chiamare la cittadina di Marta omonima del fiume.
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san), donde egli sorge, ed ha alla sua destra Nettuno (Nethun), dio del mare dove egli tramonta (f. 32).
La casella di Catha (il sole), oltre ad avere alla sua destra quella di Nethun (Nettuno: il mare), ha alla sua sinistra quella di Fufluns (6) cioè di Bacco, divinità dell’uva e del vino, connessa con la vendemmia e il solstizio autunnale. Catha (il sole) e Flufluns (Bacco) avevano, peraltro, a Tarquinia un culto particolarmente connesso, come si evince dalla lettura del rotolo di Lris Pulena. Ribadiamo dunque che la casella di Catha indica l’Ovest, cioè il punto dove, nell’equinozio d’autunno, tramonta il sole.
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Ala sinistra: SETTORI DELLA PARTE MERIDIONALE (giorno-estate) A)
I
QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
1: Uni(al) Mae(?) = (di Giunone, Mae). Giunone è la divinità che ha dato il nome al mese di Giugno. Corrisponde all’equinozio solstiziale, che è l’inizio dell’estate, attiene all’ora del mezzogiorno e all’inizio della parte meridionale del cielo. Secondo il calendario di Tagete, l’anno etrusco iniziava, nel mese di Giugno, con il solstizio estivo171. La stessa cosa valeva per gli Ateniesi; e, secondo Servio, le ore della giornata, in Etruria e ad Atene, si contavano da mezzogiorno172. A partire dalla casa di Giunone, cioè dal Sud, e andando da destra a sinistra secondo il modo di scrivere degli Etruschi, l’autore del modellino deve aver cominciato a incidere la fila di 16 caselle coi loro nomi divini173. Noi abbiamo numerato le caselle seguendo quell’ordine (ff. 30; 31; 34) 174. 171
Giovanni Lido, Il Calendario Brontoscopico locale basato sul corso della Luna secondo P. Nigidio Figulo, tratto dagli scritti di Tagete (De ostentis, c. 27-38): “Se è vero che gli antichi in ogni scienza augurale presero a guida la Luna poiché da lei dipendono i segni tratti dai tuoni e dai fulmini, a ragione dovremo parimenti regolarci sulla posizione della Luna. Perciò partendo dal Cancro e dal novilunio, secondo i mesi lunari, noi formuliamo l’esame giornaliero dei temporali. E’ a seguito di un simile esame che i Tusci hanno tramandato le osservazioni locali riguardanti le regioni colpite dal fulmine”(trad. nostra). Anche le Previsioni annuali che Giovanni Lido tradusse da Labeone, parimenti compilate sugli scritti di Tagete, erano state formulate in base alla posizione della luna nel solstizio estivo. 172 Servio, All’Eneide, V, 738. 173 Pure per Marziano Capella le 16 zone partivano da oriente. Per i Romani, invece, come ancor oggi per noi, la scrittura andava da sinistra a destra, il giorno cominciava dalla mezzanotte, la prima parte del cielo era il nord, il lato favorevole era il destro, e quello sfavorevole il sinistro. Un ignoto scoliaste di Orazio, invocato da Pallottino (Deorum
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Dentro la stessa casella, appresso al nome di Giunone troviamo scritto Mae. E’ un nome finora sconosciuto. Potrebbe però trattarsi di quel “Genio di Giunone Ospite (Genius Iunonis Hospitae)” di cui parla Marziano Capella nella sua divisione del cielo175. Da ciò si potrebbe anche dedurre che Mae sia il nome etrusco di Genius o Genio Gioviale (Genio di Giove) padre dello stesso Tagete. In alcune fonti latine, poi, Giunone è considerata come l’aspetto femminile di Genio176. 2: Tecvm(s) = di Tecvm. Divinità o gruppo di divinità non ancora identificati. 3: di Lvsl = di Lvs. Divinità o gruppo di divinità non ancora identificati. Ritroveremo il nome, esattamente alla parte opposta, nella casella 11a del lato occidentale. Esso potrebbe appartenere a una stella o ad una costellazione che in antico appariva e tramontava alla sera sul mare (a SO di Tarquinia) per poi riapparire sui monti (a NE) prima del mattino. 4: di Neth(unsl) = di Nettuno. Nettuno è posto nell’estrema parte meridionale del fegato. Egli è il dio del sedes, in Studi in onore di A. Calderini, Milano, 1956), poi, riteneva pure che, a cominciare dal Nord, le prime case del cielo fossero abitate da Giove. Lo scoliasta però non si rifaceva alle sedici zone del cielo etrusco, come avrebbe voluto Pallottino, bensì alla credenza greca secondo cui l’olimpo degli dèi, era una gelida montagna delle regioni del nord della Grecia. 174 A. Grenier (L’orientation du foie de Plaisance, “Latomus”, 1946) assegnava giustamente il n.1 alla casella di Cilen, però da questa faceva partire il Nord. M. Pallottino (op. u. cit.), poi, fece partire il Nord dalla casella di Tins Cilensl. Ciò per tentare di far corrispondere gli dèi delle 16 caselle del fegato etrusco (fine II sec. a.C.) con quelli delle 16 caselle tardamente menzionate da Marziano Capella nel VI sec. d.C. (vd. nota 5). Ma, poiché i riscontri non erano effettivi, egli volle sostenere che il modello bronzeo del fegato etrusco fosse una copia sbagliata di un ipotetico originale. 175 Genius Iunonis Hospitae è nella nona sede dell’elenco di dèi prodotto da Marziano Capella (vd. n. 5) Ora, poiché l’elenco di Capella, secondo l’uso ramano, cominciava dal Nord, il nono posto corrisponde alla prima casella del Sud così come noi l’abbiamo indicata. 176 Vd. G. Wissova , Religion und kultus der Romer, Munchen, 1902, p. 154.
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mare. E’ significativo che su uno specchio etrusco (f. 32) si vede il dio sole (Usil), aureolato, che ha alla sua sinistra (est) la dea Aurora (Thesan), ed alla sua destra (ovest) Nettuno (Nethun), il dio del mare dove in Etruria e, nel caso specifico, a Tarquinia tramonta il sole. Appresso alla casella di Nettuno, come vedremo, troveremo quella di Catha (il sole): fra le due caselle corre esattamente la linea dell’equinozio d’autunno (21 settembre); e subito dopo Catha troveremo Fufluns (Bacco), dio autunnale della vendemmia. B)
LE CASELLE INTERNE
1a: Tins Thuf(lthas) = di Giove e di Thufltha. Thufltha è una divinità o un gruppo di divinità sconosciute. Il nome si ritrova altre e due volte nella parte orientale del fegato. Da questa divinità potrebbero aver preso il nome la città e i monti di Tolfa, che si trovano ad oriente e a sud della città di Tarquinia. 1b: Lasl = di Las. Divinità sconosciuta. 2a: Lethn(sl) = di Letham. E’ lo stesso nome che abbiamo trovato scritto lungo la linea mediana divisoria del fegato, e che ritroveremo in 4c, in 8 ed in 8a. Potrebbe trattarsi, come già abbiamo detto, della forma etrusca del nome di Lete, divinità connessa con le acque infernali177. 3a: Tur(?) = di Tur(?). Il nome potrebbe essere quello di Turms (Mercurio) oppure di Turan (Venere). 4a: Hercl(es) = di Ercole. Ercole era il padre di Telefo. Questi fu poi adottato da Corinto o Corito re della omonima regione arcade. Da Telefo, infine, e da Astioche, figlia di Laomedonte, re di Troia, nacquero Euripilo, Tarconte (fondatore di Tarquinia) e Tirreno eponimo della Tirrenia. 177
Stavolta potrebbe connettersi alle acque solfuree che ancora sgorgano dalle sorgenti termali della antica Aquae Tauri, a sud di Tarquinia. Si diceva che fossero nate dalle terra forata dalle corna di un toro (Rutilio Namaziano, De reditu suo, v. 237 ss.).
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C) CASELLE INTERNE (LA CISTIFELLEA)
Plinio scrisse: “Gli aruspici hanno consacrato la bile a Nettuno e alla potenza dell’acqua; il divino Augusto ne trovò una doppia il giorno in cui vinse ad Azio”178. Pare che anche i Babilonesi connettessero la bile alle acque (vd. p. 34 e n. 14). 4b: Tunth(?) = di Tunth(?). Potrebbe trattarsi di Nettuno. Ciò farebbe il paio col dio del mare della casella n. 4 con la quale confina, e indicherebbe una zona costiera. 4c: Marisl Lath(?) = di Maris e di Lath(?) (Latona?). Maris richiama gli altri e due Maris di 13a2–13a3, ed il loro padre Ercole della casella 4a. 4d: Leta(msl) = di Letham (Lete ?). E’ lo stesso nome che abbiamo trovato scritto lungo la linea mediana del fegato e in 2a, e che ritroveremo in 8 e in 8a. Potrebbe trattarsi, come già abbiamo detto, della forma etrusca del nome di Lete, divinità connessa con le acque179. 4e: Neth(unsl) = di Nettuno. E’ lo stesso dio del mare180 che abbiamo trovato nella casella n. 4 e forse anche nella 4a. Ala destra: I SETTORI DELLA PARTE OCCIDENTALE (sera, autunno) A)
I QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
5: Catha(s) = del Sole. Nella strozzatura che è nella facciata bassa del modellino, si trova la casella contente il
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Plinio, Storia naturale, XI, 195. Stavolta potrebbe connettersi alle paludi della valle del Mignone e della costa a sud di Tarquinia. 180 Le quattro caselle della Cistifellea dovrebbero occupare tutta la zona a sud del corso finale del fiume Marta dove si alternano e si confondono corsi d’acqua, paludi e lagune marine. 179
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nome di Catha, personificazione divina del sole181. La casella è in mezzo fra quella di Nettuno (n. 4), dio del mare dove tramonta il sole182, e quella di Fufluns/Bacco (n. 6), divinità etrusca dell’uva e del vino, connessa con la vendemmia e il solstizio autunnale. La casella di Catha indica dunque l’Ovest, cioè il punto dove, nell’equinozio d’autunno, tramonta il sole. Catha e Fufluns avevano peraltro a Tarquinia un culto particolarmente connesso. 6: Fufluns(l) = di Bacco. Il nome è presente pure nella casella 16b. Fufluns, chiamato anche Pacha (Bacco) è il dio del vino; e come tale è connesso alla vendemmia e all’autunno. E’ colui che trasformò in delfini i pirati Tirreni che lo rapirono. La produzione del vino a Tarquinia, nel territorio visibile ad occidente della città è ricordata da Plinio il Vecchio quando loda i vini di Gravisca. Il commercio che se ne faceva è testimoniato dalla parola etrusca vinum (vino) scritta su un’anfora vinaria di V sec. a.C. trovata nella stessa Gravisca (ch’era il porto di Tarquinia), e dal ritrovamento di una più tarda fabbrica (II sec. a.C) di anfore vinarie a Malta o Maltano, altro porto a occidente della città. Analisi effettuate su falcetti pennati atti a lavorare la vigna hanno fatto supporre che la cultura della vite sia stata introdotta dalla Grecia a Tarquinia, e da questa nella rimante Etruria183. Recentemente, poi, in uno dei pozzetti del Pian di Civita di Tarquinia, sono stati trovati i resti di un vinacciolo coltivato databile attorno al 925 a. C. La scoperta dà adito, come dice Maria Borghi Jovino, “a supporre che la coltivazione della vite sia stata praticata a 181
Oppure è il nome della “figlia del Sole” come si potrebbe evincere dall’elenco degli dèi che Marziano Capella incluse confusamente nelle sedici caselle del Cielo (vd. Tabella a p. 135). 182 In uno specchio etrusco il dio sole (Usil) ha alla sua sinistra la dea Arurora (Thesan) donde sorge, ed alla sua destra Nettuno (Nethun) dio del mare dove tramonta (vd. f. 32). 183 F. Delpino, L’ellenizzazione dell’Etruria Villanoviana, in Atti del 2° Conv. Inter. Etr., Firenze, 1985; G. Bartoloni, La cultura villanoviana, Roma, 1989 , p. 31.
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coltivazione della vite sia stata praticata a Tarquinia prima che altrove in area etrusca”184. 7: Selvan(sl) = Silvano. Il nome di questo dio è presente anche nella casella interna (7a) che è fra la 7 e la 8. Secondo Virgilio, egli era il dio dei Campi e del Bestiame; e, presso Corito (Tarquinia), aveva un luco e un giorno di festa dedicatogli dai Pelasgi. Qui, Tarconte, dopo aver riunito i vari re delle città etrusche, avrebbe fatto eleggere Enea (venuto da Troia) a capo di tutta la Federazione etrusca. Il culto del dio Silvano è documentato a Tarquinia da varie scritte e reperti archeologici. 8: Lethn(sl) = di Lete?. Identificabile forse con la divinità infernale Lete. Qui finisce la serie delle caselle della parte occidentale del fegato, e con la prossima (9) inizia quella del Nord. Avevamo già trovato il nome di Lete in altre caselle (2a; 4c; 5a), e lo ritroveremo nella casella interna (8a). Qui, nel punto esatto dove inizia il nord, si vede anche un segno ricurvo: è lo stesso che i Babilonesi chiamavano Padanu, e per loro simboleggiava il corso della vita umana. B)
CASELLE INTERNE
5a: Letham = di Lete? Lungo la linea mediana del fegato, come abbiamo già visto (p. 111), troviamo il nome di Letham. Lo ritroveremo anche nella 8a dove inizia il nord. Pare che esso sia connesso al cardo (N > S) e al decumano (E > O) del fegato 6a: Cilen(sl) = di Fortuna (in connotazione negativa). Ritroveremo Cilen nella casella 13 dove discuteremo la sua identificazione (p. 123 ss.). 6b: Satres = di Saturno.
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M. Borghi Jovino, Tarquinia, i luoghi della città etrusca, Tarquinia, 2001, p. 30.
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7a: Selvan(sl) = di Silvano. Il nome del dio, presente nella casella del bordo esterno (7), si ripropone qui nella casella interna posta fra la 7 e la 8. 8a: Letha(msl) = di Lete? Dentro questa casella, nel punto esatto dove inizia il nord, si vede un segno ricurvo: è lo stesso che i Babilonesi chiamavano Padanu, e che per loro simboleggiava il corso della vita umana. La casella porta lo stesso nome della adiacente esterna 8 dove finisce la parte occidentale del fegato. Essa è pure adiacente alla casella esterna 9 dove inizia la parte settentrionale. Avevamo trovato il nome di Lete anche nella casella 5a adiacente a Catha (5), lungo la linea che divide la parte sinistra dalla parte destra del fegato. Sembra che il suo nome sia connesso al cardo (N > S) e al decumano (E > O) del fegato. Il suo nome è presente pure nella casella 2a adiacente a Tecvm (2), e nella 4c adiacente a Nettuno (4). Ala destra: I SETTORI DELLA PARTE SETTENTRIONALE (notte, inverno) A)
I QUATTRO SETTORI DEL BORDO ESTERNO
9: Tluscv(s) = di Tluscv (Tusco?). Questo nome si trova pure nella adiacente casella interna (9a)185. Tluscv potrebbe essere la forma etrusca del nome di Tusco (lat. Tuscus), l’eroe divinizzato, figlio di Ercole, che avrebbe dato il nome ai Tusci.186 Il nome ritorna, infatti, assieme a quello 185
Questa punta verso la vicina città di Tuscania (lat. Tuscana). Verrio Flacco (fine I sec. a.C.), nella epitome di Festo, De verborum segnificatione, s.v. Tuscus. Flacco scrisse pure un libro perduto di Storia etrusca. Secondo una diversa versione, Tirreno, durante la migrazione dall’Asia in Italia, sarebbe morto in mare, conferendo il suo nome al mar Tirreno; suo figlio Tusco assunse così il comando della navigazione e condusse il popolo in quella parte d’Italia che dal suo nome chiamò Tuscia (Servio Dan., ad Verg. Aen., I, 67). Vd. A. Palmucci, Tarconte e Mantova, Virgilio e Corito-Tarquinia, “Atti e Memorie Accademia Naz. Virgiliana di Mantova”, 62, 1994; Virgilio e Cori(n)to186
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di Maris, anche lui figlio di Ercole, sulla parte sinistra del fegato, nella casella (13a e 13b) che è tra Cilen (13) ed Ercole (13c). 10: Cels = della Terra?. 11: Cvl(sl) Alp(nus) = di Culsu e di Alpnu. Il nome Culsu (= porta) appartiene a una divinità o di un gruppo di divinità custodi della porta dell’oltretomba. Alpnu, poi, dovrebbe essere una divinità della notte. Alpnu e Culsu, insieme come sono, dovrebbero corrispondere a Nocturnus (Notturno) e agli Ianitores terrestres (Portinai terrestri) di Marziano Capella (vd. Tabella a p. 135). 12: Vetisl = di Vedio/Veiove. Vedis (o Vedijovis, Vediovis, Diovis, Veiovis) era uno dei nomi di Giove. A Roma gli si dava sia il significato negativo di “Giove malevolo” che quello positivo di “Giove bambino”. Una delle sue feste cadeva alle none di Marzo, cioè pochi giorni prima dell’equinozio primaverile. Ciò è in linea con il fatto che, nel fegato di Piacenza, la casella del dio occupa l’ultimo posto nella serie delle quattro caselle settentrionali. Dal testo etrusco della Mummia di Zagabria sappiamo, infine, che in Etruria gli venivano fatte offerte all’alba (thesan fler Veives huthis): anche questa particolarità è in linea col fatto che il dio occupa l’ultimo posto nella serie delle caselle notturne. La sua funzione sembra esser proprio quella di anticipare il giorno. D’altronde Giove è il dio del giorno e della luce; e proprio gli Etruschi chiamavano il giorno tin che è lo stesso nome etrusco di Giove. B)
CASELLE INTERNE
9a: Tlusc(vs). la casella è adiacente sia alla 9 (della quale ripete il nome) che alla 10. Ritroveremo il nome anche nella interna 13d.
Tarquina, Tarquinia, 1998, p. 255.
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11a: Lvsl Velch(anas) = di Lvs e di Velchana (Vulcano). Lvs è una divinità (o gruppo di divinità) ancora sconosciuta. Abbiamo già trovato il nome nella casella 3 del bordo esterno, che è esattamente alla parte opposta del fegato; e, come abbiamo detto, potrebbe appartenere a una stella, o ad una costellazione, che appare e tramonta alla sera sul mare per poi riapparire sui monti del nord prima del mattino. 12a: Metlvmth = Città? Concilio? Ne abbiamo parlato alla pagina 103 ss. C)
LA RUOTA DIVINA
Nel mezzo della parte destra, cioè occidentale e settentrionale del modellino bronzeo, si trova un piccolo cerchio contente a sua volta un più piccolo semicerchio, quello che gli aruspici etrusco-romani chiamavano Deus (“Dio”), gli Ittiti Sintahis o Sumuqan, ed i Babilonesi Manzazu (“Presenza” del dio). Non sappiamo come lo chiamassero gli Etruschi, ma possiamo ipotizzare che lo chiamassero Ais, che nella loro lingua significava “Dio”. Nella ispezione del fegato, questo segno era il primo ad essere cercato perché la sua eventuale assenza voleva dire che la divinità interpellata si rifiutava di esser presente e di rispondere. Questo segno, è perpendicolare ad un altro simile (il Padanu = “Sentiero” dei Babilonesi) che si trova all’interno della casella 8, nel punto esatto dove nel modellino inizia il Nord (ff. 30; 31; 34). Le due lunule sono presenti pure nel modellino fittile del fegato di Faleri (f. 26). Attorno al cerchietto contenente il Manzazu (Presenza del dio), come se gli ruotassero attorno, si dispongono tutte e sei le caselle della parte interna dell’ala destra, coi loro relativi nomi di dèi: Cilen (6a), Satres (6b), Selva (7a), Letha (8a), Tlusch (9a) e Lusls Velch (11a). Si tratta forse
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della lista degli dèi che potevano o non potevano esser disponibili per rispondere alla consultazione.
Ala sinistra: I SETTORI DELLA PARTE ORIENTALE (mattino, primavera) A)
LE QUATTRO CASELLE DEL BORDO ESTERNO
13: CILEN(SL) = di Fortuna (vd. prossima casella). Il nome si ripete nella casella 14 assieme a quello di Tin (Giove). In una scena composta su una terracotta fittile di un tempio etrusco di Bolsena, accanto a Mera (Minerva) c’è una seconda figura femminile purtroppo mutila della testa e degli oggetti che teneva con le mani. Sotto questa seconda figura è scritto Cilen (f. 33 A). Il nome, dunque, che si trova nelle caselle numero 13 e 14 del fegato di Piacenza, è quello di una dea. 14: TIN(S) CILEN(SL) = di Giove e di Fortuna. Nella prima casella il nome di Cilen è apparso da solo; ma ora, nella seconda, è dopo quello di Tinia (Giove). Esso dovrebbe dunque competere a una divinità femminile che abbia sia funzioni proprie che legate a Giove. Potrebbe trattarsi del nome di uno degli dèi Penati di Giove. Arnobio187 riferiva quanto segue: Nigidio Figulo (I sec. a.C.) tramanda che gli dèi Penati sono Nettuno e Apollo, i quali un tempo, per una condizione convenuta, cinsero di mura immortali la città di Troia. Egli stesso, di nuovo, nel VI e nel X libro, seguendo la disciplina etrusca, espone che vi sono quattro generi di Penati: i primi sono di 187
Arnobio, Adversus nationes, III, 40.
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Giove, i secondi di Nettuno, i terzi degli Inferi, i quarti degli Uomini mortali […]. Secondo Cesio, infine, che pure seguiva gli Etruschi, essi sono Fortuna, Cerere, Gioviale o Genio […]. Gli Etruschi li chiamano “Consenti” e pure “Complici” perché insieme nascono ed insieme muoiono; sono sei maschi e sei femmine dai nomi sconosciuti; hanno scarsissima pietà, ma sono ritenuti consiglieri e partecipi di Giove Massimo188 […]. E c’è pure chi fra gli dèi Penati include Giove, Giunone e Minerva189. Anche Elio Donato diceva che, per gli Etruschi,
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I Romani fecero propri questi dèi, ma diedero loro i nomi dei dodici dèi del pantheon ellenico. Marziano Capella (Le nozze di Mercurio e filologia, I, 42) li chiamò “Cosenti Penati”, e li inserì in una delle sedici caselle del cielo, assieme a Giove e agli “Involuti”, che lui chiama Opertanei. “Costoro”, spiegava, “sono in numero di dodici, compreso lo stesso Tonante; ed Ennio, in un distico li riunisce così: Giunone, Vesta, Minerva e Cere, Diana, Venere (6 femmine); Marte, Mercurio, Giove, Nettuno, Vulcano, Apollo (6 maschi)”. Seneca (Seneca, Questioni naturali, II, 41), seguendo anche lui gli Etruschi, diceva che Giove mandava tre tipi di fulmini. Il dio, di sua iniziativa, inviava benevolmente il primo; lanciava il secondo, che poteva essere benevolo o meno, “dopo aver preso atto della sentenza del Consiglio dei dodici dèi”; scagliava poi il terzo, ch’era malevolo, “dopo aver radunato a consiglio gli dèi che chiamano Superiori ed Involuti”. Secondo quanto poi riferiva Elio Donato, sui “Libri etruschi intorno alla fulguratura”, si leggeva che i fulmini competevano a Giove, Giunone e Minerva; e non solo, ma anche ad altri dèi, per un totale di dodici (Servio Dan., All’Eneide, I, 42; vd. pure Mitografi Vaticani, III, 6). Pare che gli dèi Consenti siano addirittura menzionati assieme a Giove nel calendario rituale scritto in etrusco sulle tele che avvolgevano la cosiddetta Mummia di Zagabria. Secondo G. Facchetti (Lingua etrusca, Roma, 2000, p. 275), fra le prescrizioni mattutine è scritto: “Aurora di Giove! Aurora degli dèi <Consenti>! Voi, buoni invoco”. 189 Macrobio e Elio Donato, dissero che i Penati portati in Italia da Enea erano i Grandi Dèi (Giove, Giunone e Minerva), e che Tarquinio Prisco, esperto nella religione di Samotracia, ne riunì il culto in un’unica cella, e vi aggiunse Mercurio. Minerva, spiegavano, era l’alta cima dell’etere, Giove la mediana, e Giunone la zona inferiore che tocca la terra (Servio Danielino, All’Eneide, I, 378; II, 296; 325; Macrobio, Saturnali, III, 4).
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i Penati erano Cerere, Pale e Fortuna190. Abbiamo già visto (pp. 61-62) che Cilen, la quale abita nelle caselle 13 e 14, è una dea; e che nella 14 abita con Giove. Potrebbe trattarsi di una divinità femminile appartenente ai Penati del genere di Giove. Ora, Cesio e Donato elencavano, fra i Penati etruschi, due dee: Cerere e Fortuna. Pure il tardissimo Marziano Capella incluse i Penati nella prima zona del suo ormai confuso elenco delle divinità che abitavano i sedici settori in cui egli stesso ancora divideva il cielo (vd. Tabella a p. 135). I Romani raffiguravano la dea Fortuna con il corno dell’abbondanza nella mano sinistra, e con il timone del destino nella destra (f. 33 B). Ora, se noi raffrontiamo le statue romane della dea Fortuna con quella di Minerva e Cilen, ci accorgiamo che gli oggetti mancanti nelle mani di Cilen sono proprio il corno dell’abbondanza ed il timone del destino. La sintonia fra le due divinità è, poi, palese nelle figure di uno specchio di Preneste dove si vede Fortuna che protettivamente pone la propria mano sinistra sulla spalla sinistra di Minerva191. Ci sono infine alcune statuette bronzee d’epoca romana (sec. II) raffiguranti una divinità che è insieme Minerva, Fortuna ed Iside (f. 33 C). Come Minerva, ha il seno coperto dall’egida con testa di Medusa, come Fortuna ha sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra il timone del destino (oggi perduto). Sulla testa, poi, ha la corona di Iside, dea egizia che i Romani identificarono spesso con Fortuna. La stretta relazione che correva tra la dea Fortuna (Cilen) e la dea Minerva, anzi la loro sia pur tarda incorporazione in un’unica divinità spiega il motivo per il quale nel Fegato di Piacenza manca il nome di Minerva: quello della dea Cilen lo comprendeva sia nella ca190 191
Servio Danielino, All’eneide, II, 325. Gerard, ES I, tav. 62.
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sella in cui appare da solo sia in quella in cui appare assieme a quello del dio Giove192.
A) Dal tempio etrusco di Bolsena (II sec. a.C.). La dea Cilen (Fortuna) in coppia con Mera (Minerva). Alla statua di Cilen mancano la testa, il corno dell’abbondanza sulla mano sinistra, ed il timone del destino nella destra. La dea Mera (Minerva) è riconoscibile dall’egida che ha sul petto. B) Musei Vaticani. Statua romana della Fortuna (II sec. d.C.): ha sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra il timone del destino. C) Statuetta bronzea romana di divinità femminili condensate (II sec. d.C.). La statua ha sopra la testa la corona di Iside, ha sul seno l’egida di Minerva, ha sulla mano sinistra il corno dell’abbondanza, e nella destra il timone del destino, ambedue propri della dea Fortuna.
Etimologicamente, la parola latina Fortuna deriva da for192
L. Bouke Van Der Meer, The Bronze Liver of Piacenza, J. C. Gieben, Amsterdam, 1987, pp. 90-96.
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tus “destino”. Questo può essere buono o cattivo, ma la sua azione è comunque più forte del governo di Giove. E’ questo il motivo per cui Fortuna, nel suo aspetto indifferenziato, occupa la prima casella della parte orientale del cielo, e precede quella di Giove. Nella sua connotazione positiva è invece dentro la seconda casella insieme a Giove. Da qui, forse, il dio inviava il suo primo tipo di folgore: quello che ammoniva benevolmente. Nella suo aspetto negativo, la parola Cilen si trova poi inscritta anche in una delle caselle interne (la n. 6a) della parte occidentale ed infausta del fegato di Piacenza (f. 34). Sappiamo che, per i Romani, Fortuna rappresentava anche la natura feconda, e presiedeva alla produzione in genere. Nel più antico calendario, al primo (calende) di Aprile, proprio agli inizi della primavera, cominciavano due giornate di festeggiamenti in onore di Fortuna Primigenia. Questa rappresentava la natura nel suo complesso, come fosse lei a regolare il cielo e la terra, e da lei provenisse ogni cosa divina ed umana; ed è per questo che la dea, nel tempio di Preneste, era raffigurata nel momento in cui teneva sul grembo Giove e Giunone bambini, e li allattava193. Anche L. Bouke van der Meer, peraltro, con argomenti diversi dal nostro, è giunto ad identificare Cilen con la dea Fortuna. Egli sostiene giustamente che il significato della parola Cilen dipende dall’interpretazione dell’antefissa di Bolsena, dove Minerva e Cilen sono rappresentate strettamente insieme. Egli osserva che Cilen non ha il capo velato, e indossa il chitone e un mantello drappeggiato: iconograficamente è una figura femminile che ha poco a che vedere con Nocturnus, il dio che Pallottino pone al suo posto nel fegato di Piacenza. Essa infatti non ha niente in comune con le figure della notte presentate dalla scultura e dalla letteratura greca e romana, bensì con la rappresentazione della dea Fortuna quale si vede su uno specchio 193
Cicerone, La Divinazione, II, 85.
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di Preneste dove ella pone protettivamente la propria mano sinistra sulla spalla sinistra di Minerva.
Van Der Meer ricorda poi che una pratica di clavifixatio si svolgeva sia a Roma nel tempio di Minerva sia a Vulsinii nel tempio di Nortia che, similmente a Fortuna, era una dea del destino. Infine, egli conclude: Con lâ&#x20AC;&#x2122;interpretazione di Cilen come identica a Fortuna viene soppressa la teoria di Pallottino e Mag-
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giani che il nord sul nastro periferico corrisponda alla linea divisoria tra le caselle di Cilen e di Tin Cilen194. Egli però ritiene erroneamente che il nord del fegato di Piacenza si trovi fra la casella di Cilen e quella di Tin Cilen195. Più avanti vedremo pure come la dea Cilen (Fortuna) del fegato di Piacenza sia identificabile anche con la dea Nortia o Norchia della quale parla il pur tardo Marziano Capella (vd. p. 137 ss). 15: TIN(S) THUF(LTHAS) = di Giove e di Thufltha. Alcuni ritengono che il secondo nome appartenga a quegli “dèi Consenti” che Giove, secondo Seneca, consultava prima di lanciare il secondo tipo di saetta, buona o cattiva (vd. n. 47). 16: TINSTH NE(THUNSL) = di Nettuno nella casa di Giove. Qui Giove è in compagnia forse dei Penati di Nettuno. Le ultime quattro caselle di cui abbiamo parlato appartengo alla zona del cielo che va dall’oriente equinoziale al mezzogiorno solstiziale. Osservato da Tarquinia, l’orizzonte di questo cielo corrisponde alle cime dei monti Cimini e dei monti di Tolfa (Thufltha?). Lo spicchio di cielo dell’ultima casella (Nettuno) è poi già sopra il mare. B) CASELLE INTERNE 13a1: TLUSC(VS) = di Tusco? Tusco fu considerato figlio di Ercole oppure di Tirreno. 13a2: MAR(ISL) = di Maris. Maris era figlio di Ercole. 13a3: MARI(SL) = di Maris. Il nome è ripetuto due volte nella stessa casella. Si tratta dunque di due distinte divinità 194
L. Bouke Van Der Meer, L’orientation du foie de Plaisance, “Caesarodunum”, (54), 1986, supplemento, pp. 5-15 ; Cilens, in Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Atti, Firenze 26 maggio – 2 giugno 1985, supplemento di “Studi Etruschi” , Giorgio Bretsschneider, Roma, 1989, III, p. 1199-1204. 195 L. Bouke Van Der Meer, The Bronze Liver of Piacenza, J. C. Gieben, Amsterdam, 1987, pp. 90-96.
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omonime. Un terzo Maris è menzionato nella casella n. 4c. Tutti e tre i Maris era ritenuti figli di Ercole. Il nome di quest’ultimo è nella attigua casella n. 4a. 13a4: CATHA(S) = di Catha (dio del sole). La presenza del nome del dio del sole nella casella sotto quella di Cilen, conferma che da quest’ultima casella inizia la parte orientale del fegato. 15a: TINSTH NETH(UNSL) = di Nettuno nella casa di Giove. Vengono ripetuti i nomi delle divinità della casella 16. 16a: THUFLTHAS = di Thufltha. Si ripete uno dei nomi presenti nella casella 15. 16b: FUFLU(N)S(L) = di Bacco. Si ripete il nome presente nella casella 6.
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TABELLA RIASSUNTIVA DELLE CASELLE DEL FEGATO
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MARZIANO CAPELLA Marziano Capella (IV-V sec. d.C.) non nomina fonti etrusche, né afferma di rifarsi a tradizioni di estrazione etrusca. Ilaria Ramelli ha commentato a questo modo la sua cultura: Le fonti da lui usate, come vedremo nel dettaglio, sembrano per lo più fonti manualistiche e secon-darie, voci di enciclopedia e libri di testo, per così dire, più che trattati scientifici primari. Non sempre, anzi probabilmente mai, Marziano consultò direttamente gli autori da lui menzionati, mentre non cita mai le sue fonti effettive, che la critica ha potuto rintracciare nella maggior parte dei casi, e che sono in genere compendi e compilazioni relativamente tarde196. Dal tempo in cui in Etruria era stata “inventata” la divisione del cielo in sedici caselle, a quello in cui Marziano scriveva (IV-V sec d.C.) erano passati molti secoli: la lingua etrusca non si parlava più, e la divisione del cielo doveva aver subìto le più svariate modulazioni. Per noi, Marziano ha un generico valore da prendere, come si dice, con beneficio d’inventario: dinanzi alle dirette fonti etrusche (specchio di Tuscania; Fegato di Piacenza; Libri Tagetici, ecc.), noi prendiamo la sua opera solo come eventuale supporto. Vediamo. Marziano Capella, ne Le Nozze di Mercurio e Filologia, narra che Apollo accompagnò Mercurio al palazzo di Giove per chiedere al sommo dio il consenso di sposare Filologia. Durante il viaggio, dice Marziano, la terra, per aver visto Mercurio, dio della primavera, levarsi in volo, s’illuminò di fiori; e la mite aria, per 196
I. Ramelli, Marziano Capella, Bompiani, Milano, 2001, p. XXXVI.
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aver scorto Apollo, si mise a risplendere con tratti sereni (I, 25)... Ecco poi che improvvisamente la benda dei capelli di Apollo si trasformò in raggi, ed il ramo d’alloro ch’egli teneva con la mano destra si accese d’universale splendore; intanto, gli uccelli che trasportavano il suo carro divennero cavalli alati ardenti di luce fiammeggiante; ed egli stesso, col suo fulgido mantello aperto sulla soglia del cielo stellato, brillò come sole splendente. Anche Mercurio si trasformò in pianeta ed astro scintillante. Così ambedue, diventati più belli per la trasformazione, risplendettero nel cielo attraverso la costellazione dei Gemelli (21 Maggio-21 Giugno) loro famigliare, e subito raggiunsero il palazzo di Giove. Questi era in compagnia della sua sposa Giunone (I, 30). Siamo dunque all’alba di un giorno fra Maggio e Giugno, ed il palazzo dove Giove risiede con la sposa Giunone non si trova nelle regioni settentrionali del cielo, come voleva Pallottino (vd. p. 136 e n. 2), bensì si trova nelle prime regioni del mattino e della primavera. L’anno etrusco, peraltro, cominciava col mese di Giugno (vd. pp. 107; 151; ff. 30; 31; 34). Ciò conferma la nostra identificazione delle tre caselle di Tinia-Giove nelle regioni orientali del bordo esterno del modello di fegato di Piacenza (vd. p. 108 ss). Il sommo dio acconsente al matrimonio richiesto dal figlio Mercurio, ma decide comunque di riunire in concistoro tutti gli altri dèi per consultarli. E subito - dice Marziano - lo scriba di Giove ricevette l’ordine di convocare gli abitanti del cielo, ciascuno secondo il proprio ordine e nel modo conforme, specialmente i senatori degli dèi, ch’erano chiamati Penati (I, 41) ... E senza indugio i soldati di Giove corsero per le diverse regioni del cielo. Poiché gli
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dèi risiedevano per lo più singolarmente in luoghi separati, e quantunque alcuni di loro, come animali, lungo la scia della Zodiaco fossero titolari di una o due dimore, usualmente tuttavia si trattenevano in altre abitazioni (I, 44). Infatti, come si dice, tutto il cielo è distinto in sedici regioni; e si afferma che nella prima (che è ad Oriente: vd. p. 133), dopo lo stesso Giove, abitano gli dèi Consenti, i Penati, Salute, i Lari, i Favori segreti e Notturno; nella seconda poi, si trova ancora Giove perché egli ha dimora anche lì ed in ogni altra regione...; e vi risiede pure Giunone (I, 45-46)”. Marziano continua elencando i numerosi dèi che abitano nella rimanenti zone del cielo. Noi, per non riportare tutto il testo, che sarebbe noioso, presentiamo nella pagina a fianco una TAVOLA SINOTTICA che raffronta le sedici regioni abitate dagli dèi di Marziano (I, 45-62) alle sedici caselle abitate dagli dèi nel fegato di Piacenza. Noi abbiamo numerato già in precedenza le caselle del Fegato di Piacenza a partire da quella dove abita Giunone: ciò per molte ragioni fra cui quella che, secondo gli aruspici etruschi, l’anno cominciava all’inizio dell’estate col mese di Giugno (v. pp. 107, 151; ff. 30; 31; 34). Marziano invece, che non fa alcun riferimento a dottrine etrusche, è partito da quella di Giove perché ai suoi tempi vigeva il calendario romano che iniziava con la primavera. Perciò, nella nostra sinossi fra le case divine del fegato di Piacenza e quelle di Marziano, i numeri di partenza dei due elenchi non coincideranno. Comunque, noi disporremo i due elenchi delle case divine secondo l’ordine delle stagioni: questo ci consentirà di osservare come le zone celesti di Marziano, sembrano coincidere, sia pure in modo approssimato e confuso, con quella che noi abbiamo ritenuto di trovare sul Fegato di Piacenza.
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Tavola Sinottica
Come si può riscontrare anche nella TAVOLA SINOTTICA, il palazzo dove Giove risiede in compagnia della moglie Giunone e di altri dèi si trova fra le regioni celesti del mattino e della primavera, e precisamente nella seconda
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regione elencata dallo stesso Marziano. Ciò in qualche modo collima col risultato del nostro studio sul Fegato di Piacenza dove le case di Giove si trovano nelle prime regioni orientali del cielo. Però, nell’elenco di Marziano, uno degli dèi che risiede nella zona mattutina si chiama Notturno e porta lo stesso nome dell’altro dio Notturno che, assieme ai Portinai Terrestri, abita nell’ultima zona della notte. Viceversa, nelle ultime zone della notte abita Veiove (Giove Bambino) che gli Etruschi invocavano all’alba, e la cui festa a Roma cadeva pochi giorni prima dell’equinozio primaverile (vd. p. 121; f. 34). Il fatto è che, nel cerchio del cielo, le ultime zone della notte toccano le prime del mattino sicché nello sciogliersi dell’ultimo buio il chiarore dell’alba precede ed annuncia l’aurora (il sorgere del sole), e nell’aurora viceversa permangono lontane strisce di zone d’ombra. Ciò giustifica sia la presenza del dio Veiove (Giove Bambino) fra le ultime zone della notte, sia il ripetersi del nome del dio Notturno, per scivolamento del testo, nella prima zona di quelle del mattino197. *** Marziano Capella, poi, narra che, dopo che tutti gli dèi furono arrivati alla casa di Giove, il dio “Giano prese posto in 197
M. Pallottino (Deorum Sedes, in Studi in onore di A. Calderini, Milano 1956), tuttavia, ha ritenuto che il dio chiamato Notturno corrispondesse alla divinità che nel fegato di Piacenza è chiamta Cilens, ha poi ritenuto che Giove (Tin), per gli Etruschi, abitasse nella prima delle regioni ch’egli riteneva settentrionali; e da quella regione (di Tins Cilens) ha fatto partire il conto delle sedici caselle del bordo esterno fegato. A tal fine ha invocato uno scolio ad Orazio dove Giove è piazzato nelle prima delle regioni settentrionali del cielo. La notizia contenuta nello scolio però non compete alle sedici zone del cielo etrusco, ma riflette la credenza greca secondo cui l’Olimpo degli dèi, era una gelida montagna delle regioni del nord della Grecia. Pallottino, poi, siccome i riscontri fra l’ordine delle zone celesti di Marziano e quelle del fegato di Piacenza non erano effetivi, ha sostenuto che il modello bronzeo del fegato etrusco di Piacenza sia stato una copia errata di un modello originale.
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piedi sulla soglia, mentre la Fama chiamava ciascuno per nome quelli che dovevano entrare”(I, 63). All’interno del “Concistoro del re” si pose Adrastea, poi Cloto, Lachesti e Atropo (scrivane di Giove). “Più in basso del trono del re sedeva Giunone” che con la destra reggeva il fulmine, e con la sinistra un timpano rumoroso per terrificanti rimbombi (I, 67). A lei stava accanto Vesta; poi furono convocati il Sole e sua Luna; indi i figli di Giove (Marte e Dioniso). “Vennero poi i Gemelli (Castore e Polluce) che hanno identico volto, ma il primo risplende nella stella del giorno, il secondo in quella della notte”(I, 83). Sul Fegato di Piacenza essi corrispondono forse alle caselle di Lus (vd. p. 115; 122; f. 34). Alla casa di Giove giunsero poi Ercole, Diana, Venere e Vulcano (I, 84-87). Infine - narra Marziano - anche la più vivace di tutte le fanciulle s’agitava con salterina levità e flusso alterno, colei che alcuni chiamano Sorte, altri Nemesi ed altri ancora Tyche o Nortia. Costei, poiché portava nel suo più largo grembo gli ornamenti del mondo intero, li conferiva agli altri distribuendoli con movimenti repentini, ad alcuni afferrando i capelli con fare di bambina, e ad altri percuotendo la testa con una verga, e pure a quegli stessi coi quali era stata piena di lusinghe feriva il capo con fitti colpi assestati con le nocche delle dita piegate. Ella, poiché s’accorse subito che i Fati stavano annotando tutto quel che accadeva nel concistoro di Giove, corse verso i loro libri e tavolette, e con una qualche arbitraria sicurezza afferrò e lacerò all’improvviso le cose ch’aveva visto di modo che alcuni avvenimenti cambiassero repentinamente posto e sconvolgessero per così dire l’ordine delle cose. Gli altri eventi invece, quelli che la conoscenza della realtà aveva
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previsto e divulgato diffusamente, poiché non poteva farli diventare imprevisti, li faceva comunque dipendere dal proprio operato. Dopo di lei tutti gli altri dèi vennero in gruppo. Giove allora sedette sul trono, ed ordinò che tutti si sedessero secondo l’ordine del merito (I, 88-90). Come si vede, nel concistoro di Giove ci sono anche divinità che non erano state precedentemente elencate. Fra queste divinità Marziano pone la dispettosa fanciulla che possiede vari nomi: Sorte (Sors o Sortis), Nemesi, e soprattutto Tyche o Nortia. Sorte (Sors o Sortis), in latino, significa destino. Nemesi è il nome di una divinità greca, figlia di Giove e della Necessità. Tyche è pure una divinità greca, simboleggiava la buona e la cattiva sorte; i Romani la identificarono con Fortuna. Nortia è per noi la più importante perché era una delle divinità etrusche della sorte. Il suo nome si ritrova in quello della cittadina etrusca di Norchia, presso Tarquinia. Nel suo tempio di Volsini, ogni anno veniva conficcato un chiodo198. Nella letteratura romana era assimilata a Fortuna. In un carme latino il poeta Orazio si rivolge alla dea Fortuna e dice: Dinanzi a te sempre incede spietata Necessità serrando in mano chiodi di bronzo da piantar nelle travi, e cunei, e arcigni raffi, e piombo fuso199. La stessa operazione di fissar chiodi veniva condotta nella cella destra del tempio Capitolino, cioè nella parte dedicata a Minerva200. Questa dea, peraltro, a Bisenzio, in E198 199 200
Tito Livio, Storia di Roma, VII, 3,7. Orazio, Carmi, I, 35-35. Tito Livio, loc. u. cit.
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truria, ebbe il soprannome di Nortina201. L’etrusca dea Nortia, dunque, come già l’etrusca Cilen (vd. pp. 109-110; 123-129; f. 34), aveva stretti rapporti con Minerva, e come la stessa Cilen era una divinità del destino. Su uno specchio etrusco (f. 35), tuttavia, l’azione di conficcare i chiodi è compiuta dalla parca Athrpa (gr. Atropos). Il che ci indica che in Etruria la Fortuna (o il caso o il destino), era personificata con nomi diversi: Cilen, Nortia o Norchia, ed Athrpa. Per gli Etruschi, comunque, era anche una dea della cerchia degli dèi Penati di Giove (vd. p. 123 ss.): nel Fegato di Piacenza, infatti, Cilen si trova anche nella stessa casella di Tinia-Giove (vd. p. 123 ss. ; f. 34). La nostra bizzarra fanciulla arbitra dei destini, di cui parla Marziano, dovrebbe dunque appartenere alla cerchia di quei Penati che Marziano stesso include assieme a Giove nella prima regione del cielo. Come L. Bouke van der Meer ha opportunamente affermato, con l’interpretazione di Cilens come identica a Fortuna viene soppressa la teoria di Pallottino e Maggiani che il nord sul nastro periferico del fegato di Piacenza corrisponda alla linea divisoria tra le caselle di Cilens e di Tin Cilen202.
201
G. Colonna, “Studi Etruschi”, 1966, 167, n. 3. L. Bouke van der Meer, Cilens, in Secondo Congresso Internazionale Etrusco, Atti, Firenze 26 maggio – 2 giugno 1985, supplemento di “Studi Etruschi”, Giorgio Bretsschneider, Roma, 1989, III, p. 1199-1204. 202
140
Fig. 35â&#x20AC;&#x201C; Specchio etrusco. La Moira Athrpa (Atropo) conficca il chiodo annuale.
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IL COLLEGIO DELL’ORDINE DEI SESSANTA ARUSPICI Sul luogo della rivelazione di Tagete sorse una scuola di aruspicina istituzionalizzata poi dai Romani nel Collegio dei Sessanta Aruspici. Numerose epigrafi contenenti nomi di aruspici appartenenti al Collegio sono state rinvenute a Roma, ad Ostia e soprattutto a Tarquina dove il Collegio aveva sede (f. 36). Pare che una di queste debba riferirsi addirittura a Tarconte. Nessuna epigrafe è stata trovata in altre città etrusche. Fig. 36 – Tarquinia. Lapide elogiativa di un membro del Collegio dei Sessanta Aruspici. Ricostruzione di M. Torrelli (Elogia Tarquiniensia).
A Tarquinia, la statua che è sul coperchio d’un sarcofago che raffigura Laris Pulena che apre fra le mani un libro d’aruspicina, contiene notizie sulle sua vita (f. 37). Fra le altre cose, si nomina una scuola (alumna), coi suoi giovani alunni (huzrnatre) ed una collegialità (alumnathura), della quale Laris fu decano (parnich). Presentiamo qui un tentativo di traduzione dell’intero testo etrusco riservandoci di ri-
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tornarci un una prossima specifica trattazione. Laris Pulena di Larce figlio, di Larth nipote (LRIS - PULENAS – LARCESCLAN-LARTHAL–PAPACS), / di Veltur nipote, pronipote di Laris figlio di Pule il greco (VELTHURUS-NEFTS-PRUMS-PULES-LARISAL– CREICES). / Egli questo libro aruspicino compose come Cereale ( ANCN-ZICH-NETHSRAC-ACASCE–CREALS). A Tarquinia, ● nella città fu lucumone (TARCHNALTH–SPU/RENI-LUCAIRCE), durante la carica (IPA) fissò <nel mese di Agosto> i <giri> del Sole e (RUTHCVA-CATHAS-HERMERI–SLICACHE/M) i sacri ludi del Sole e i Baccanali (APRINTHVALE-LUTHCVA-CATHAS-PACHANAC); ● nella Scuola, l’Erma (ALUMNATHE-HERMU/), <nel tempio> di Crapisce (MELE–CRAPISCES), ed ogni pozzo del tempio di Culsu Leprina presso la sorgente costruì (PUTS-CHIM-CULSL-LEPRNALPSL-VARCHTI-CERINE), poi nella Scuola (PUL-ALUMNATH), poi l’Erma nel Collegio della Gioventù del Tempio (PUL-HERMUHUZRNATRE-PSL); ● nel Centro Federale tenne la carica di <Zilath?> (TENIN [ E -5]METHLUMT); poi l’Erma (pose) nel Conciliabolo (PUL-/HERMU– THUTUITHI). Addetto all’Altare, soprintendente all’offerta ... (MLUSNA -RANVIS– MLAMNA [-10/12]) ; [... e] fu patrono del Collegio degli Alunni (ALUMNATHURAS - PAR/NICH-AMCE). Fondò <l'ordine dei fedeli di Ermes> ( LESE-HERMERIER).
*** Tacito riferisce che, nell’anno 47 a.C., l’imperatore Claudio, riferì in Senato attorno al Collegio degli Aruspici, affinché quell'antichissima disciplina d'Italia non venisse in disuso per pigrizia. Spesso nei momenti difficili per la repubblica gli aruspici erano stati chiamati, per ammonimento dei quali le cerimonie furono dapprima rinnovate, e poi compiute in maniera più rituale. I priores degli Etruschi, di loro iniziativa o sospinti dal senato romano, avevano custodito quell'arte e l'avevano propagata di famiglia in famiglia. Questo ora avviene con minor diligenza per colpa della comune trascuratezza verso le buone arti, e perché prevalgono superstizioni straniere. E sebbe-
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ne per ora tutto vada bene, bisogna pur render grazia alla benignità degli dèi, affinché la posterità non dimentichi i riti delle cerimonie tra le incertezze del culto. Allora il Senato decretò che i pontefici esaminassero quelle cose dell'aruspicina che si dovevano conservare e consolidare203. I “priores dell'Etruria” che, nel discorso di Claudio, avevano
“di loro iniziativa” custodito l'arte dell'aruspicina, e “l'avevano propagata di famiglia in famiglia”, ci richiamano alla mente quella mitica folla (Cicerone), o quei lucumoni (Censorino), o quei dodici figli dei principes etruschi (Scoliasta
203
Tacito, Annali, XI, 15.
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di Lucano), che erano convenuti a Tarquinia per ricevere gli insegnamenti di Tagete (vd. pp. 65-67). I priores dell'Etruria, dice Claudio, lo avevano fatto di loro iniziativa, oppure per impulso (impulsu) dei senatori romani. Possiamo cercare di ricostruire la delibera del Senato Romano. C'è un passo de Le leggi, dove Cicerone dice: Se tale è l'ordine del Senato, i prodigi e i portenti siano annunciati agli aruspici; e l'Etruria insegni la disciplina ai principi204. Ne La Divinazione c'è, poi, un passo dove Cicerone torna sull’argomento, especifica: A quel tempo, presso i nostri padri, quando lo Stato fioriva, il Senato giustamente decretò che, tra i figli dei prìncipi, sessanta (cod. sex) presi dai singoli popoli dell'Etruria fossero istruiti nella Disciplina, affinché un'arte così importante, a causa della povertà di chi la praticava, non scadesse ridotta al livello del pagamento e del guadagno205.
204 Cicerone, Le leggi, II, 9, 21: “Prodigia, portenta ad Etruscos haruspices, si senatus iussit deferunto Etruriaque principes disciplinam doceto”. Che non si tratti di principes romani, ma etruschi, si evince dal confronto con il discorso di Claudio, dove si parla di “priores dell'Etruria”, e con il mito di Tagete, dove si parla di dodici figli di principes etruschi. Inoltre, dall'elenco fatto da Thulin, e integrato da M. Torelli, comprendente tutti gli aruspici attestati nelle fonti letterarie ed epigrafiche, figura che il luogo di origine dei personaggi è soltanto l'Etruria, almeno fino a tutto il primo secolo dopo Cristo. 205 Cicerone, La divinazione, I, 92: ”Bene apud maiores nostros senatus tum, cum florebat imperium, decrevit ut de principum filiis sexaginta (cod. sex) [ex] singulis Etruriae populis in disciplinam traderetur, ne ars tanta propter tenuitatem hominum a religionis auctoritate abduceretur, ad mercedem atque quaestum”. Per analogia con il numero dei membri del Collegio dei Sessanta Aruspici, archeologicamente documentato a Tarquinia, “sex” va corretto in “sexaginta ex”.
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La notizia è ripetuta con qualche variante da Valerio Massimo (I sec. a.C. – I d.C.): A quel tempo, poiché lo Stato era fiorente e ricchissimo, dodici (cod. decem) figli dei prìncipi, con decreto del Senato, furono presi fra i singoli popoli dell'Etruria per imparare la disciplina delle cose sacre206. Si tenga presente la tradizione, seguita anche dallo scoliaste di Lucano, secondo cui Tagete “dettò la scienza dell'aruspicina ai dodici figli dei prìncipi” (vd. pp. 65-67). Dodici era il numero dei singoli popoli dell'Etruria. Il luogo del Collegio dei Sessanta Aruspici era a Tarquinia, come indica il mito, e come i ritrovamenti archeologici hanno confermato. Nella città sono stati ritrovati numerosi frammenti dei fasti del Collegio a cominciare da Tarconte e fino ad almeno due aruspici di nome Tarquizio Prisco207.
I
SECOLI
ETRUSCHI
Il bizantino Giovanni Zonara, che nella sua epoca poteva ancora disporre di antiche fonti, scrisse: La storia degli Etruschi fu composta da un uomo sapiente (Tarconte / Tagete?). Egli disse infatti che Dio creò tutte le cose e diede loro 12000 anni di vita. Nel primo millennio fece il cielo e la terra, nel secondo fece questo firmamento visibile chiamato cielo, nel terzo il mare e tutte le acque della terra, nel quarto i grandi lumi: il sole, la luna e le stelle, nel 206
Valerio Massimo, I, 1: “Ut florentissima tum et opulentissima civitate duodecim (cod. decem) principum filii senatus consulto singulis Etruriae populis percipiendae sacrorum disciplinae gratia traderentur”. 207 M. Torelli, Tarquitius Priscus aruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006, p. 249, ss.
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quinto tutta l'anima degli uccelli e dei rettili, e i quadrupedi dell'aria, della terra e delle acque; nel sesto l'uomo. E' dunque chiaro che i primi 6000 anni siano passati prima della formazione dell'uomo, e che il genere umano deve durare per i rimanenti 6000 anni, in modo che tutto il tempo complessivamente ne duri 12000. Nell' ambito degli ultimi seimila anni, ad ogni nazione era stato assegnato un periodo storico di dieci secoli, sintonizzato con il volere degli Dei. Da Varrone e Censorino sappiamo che i Libri Fatali degli Etruschi delimitavano La vita umana con dodici ebdomadi (cioè con 12 volte sette anni) [...]. E fino a settanta anni si poteva evitare il destino con mezzi religiosi; però dal settantesimo anno in poi non si poteva chiedere né ottenere nulla dagli Dei”208. Quanto alla durata del propria nazione, sintonizzata con il volere divino, gli Etruschi elaborarono una partizione temporale della storia secondo cui l’Etruria aveva avuto inizio con la venuta di Enea da Troia o con la fondazione della prima città (Tarquinia?). Censorino spiegava che: fra coloro che sono nati nello stesso giorno in cui vanno fondate le città o gli Stati, colui che vive più a lungo segna la lunghezza di un secolo con il giorno della sua morte. Poi, fra coloro che sono vivi in quel giorno,
208
Censorino, De die natali, II, 14,6.
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di nuovo la morte di colui che abbia vissuto più a lungo, determina la fine del secondo secolo, e così via [ … ]. Perciò, nelle Storie Etrusche, che furono composte durante l'ottavo secolo, è scritto dunque che i primi quattro secoli furono ognuno di cento anni, il quinto di centoventitre, il sesto di centodiciotto, il settimo altrettanto, l'ottavo era in corso proprio a quel tempo. Rimanevano ancora il nono e il decimo, dopodiché sarebbe stata la fine del Nome Etrusco”209. Plutarco, infine, diceva: Quando poi, un secolo raggiunge la fine, e ne inizia un altro, dalla terra o dal cielo si muove qualche segno miracoloso210. L'ottavo secolo ebbe fine nel 91 a. C. in connessione non solo con le calamità e con i disordini civili profetizzati dalla ninfa Vegoia, perché un giorno gli uomini avrebbero perduto il rispetto della proprietà privata, ma pure con l'assorbimento nella cittadinanza romana delle Città Stato etrusche che fino a quel momento avevano goduto di una sia pur formale autonomia politica. Il passaggio dall'ottavo al nono secolo fu annunziato da un “aspro e lamentevole” suono di tromba che si udì a cielo sereno e che spaventò tutti211. Il nono secolo ebbe fine, invece, nel 44 a.C., con la morte di Cesare, annunciata da funesti presagi comunicati all'imperatore da Spurinna, suo aruspice personale, e dal passaggio di una cometa. Cominciava intanto l'ultimo secolo della nazione etrusca, e gli dèi avevano ordinato che la cosa dovesse restare segreta per gli stranieri, pena la morte del delatore. Ma l'aru209 210 211
Censorino, op. cit., XVII, 5,6. Plutarco, Vita di Silla, 456. Suida, Silla, s.v.
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spice Vulcanius, nonostante conoscesse il divieto divino, ne annunciò pubblicamente l'avvento durante i funerali di Cesare; così in quello stesso momento egli fu colto da malore e morì. Il fatto fu narrato dall’imperatore Augusto nelle memorie della sua vita212. Pochi anni dopo, Virgilio, che certamente era al corrente dei fatti avvenuti a Roma alla morte di Cesare, e della chiusura imminente dei secoli etruschi, dichiarava che era giunta l'ultima età dell'Oracolo Cumano e che di nuovo stava per nascere il grande ordine dei secoli213. Purtroppo, noi non sappiamo quando finì l'ultimo secolo. Convenzionalmente se ne fissa la data nel 54 d.C. in occasione della morte dell'imperatore etruscofilo Claudio, concomitante a prodigi e apparizioni di comete. Con un po’ di fantasia, alcuni immaginano i sacerdoti etruschi che, riuniti in Concilio, decretano la fine della propria nazione, e bruciano i Libri Tagetici e le Tusciae Historiae. C’è chi con questo suicidio culturale e politico giustifica la scomparsa delle testimonianze dirette della storia degli Etruschi e della loro lingua. Il tutto sarebbe poi stato aggravato dal nazionalismo dei Romani vincitori che avrebbero sistematicamente ignorato od occultato o distrutto le più significative manifestazioni di quella civiltà. Certamente, la concezione della ineluttabilità del destino storico e personale dovette influenzare in senso negativo il comportamento degli Etruschi negli ultimi secoli della loro storia, e favorire la scomparsa totale della loro lingua e della loro nazione. Ne sono testimonianza le cupe rappresentazioni infernali affrescate sulle pareti delle tombe. Dalla loro parte, i Romani non furono molto rispettosi verso la civiltà degli Etruschi come invece lo furono verso 212
In Servio, All’Ecogla IX di Virgilio, 47; All’Eneide di Virgilio, VIII, 526. Virgilio, Ecogla IV. 213 in Servio, All’Ecogla IX di Virgilio, v. 47; All’Eneide di Virgilio, VIII, 526. 213
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quella dei Greci. Nessuno scrittore latino o greco si prese la briga di comporre un trattato di lingua etrusca. Il greco Dionisio di Alicarnasso, che dedicò una parte della sua opera Antichità Romane alla storia dei popoli italici prima di Roma, trattò degli Etruschi solo marginalmente ed in chiave negativa giustificandosi con il rimando ad un suo futuro lavoro che però mai scrisse. Virgilio, poeta mantovano che si vantava di sentirsi etrusco, dovette ricorrere a numerosi espedienti di copertura per poter presentare ai Romani, nell'Eneide, una versione delle loro origini che li ricollegava alla etrusca città di Corito (Tarquinia). La qual cosa poi non piacque ugualmente né ai Romani né ai Greci, tanto é vero che lasciarono in ombra questo aspetto dell'opera del poeta. Oggi, comunque, l’analisi, degli aspetti etruscofili di alcuni passi virgiliani è proficua di spunti per aggiunger qualcosa alle nostre conoscenze sugli Etruschi. L'imperatore Claudio, poi, scrisse in greco un trattato di storia etrusca; ma il suo lavoro fu oggetto di scherno da parte dei Romani, e non ci e stato tramandato. Tuttavia, una delle cause, se non la principale, dell’oblio in cui il mondo antico lasciò scivolare gli Etruschi dovette essere la componente arcaica della loro pur raffinata civiltà. Essi rimasero sempre più isolati in un mondo dominato dalla mentalità greco-latina; e, con la loro arcaica religiosità, infastidivano anche le nuove generazioni di Cristiani che si affacciavano alla storia. Scrittori etruschi come Aulo Cecina e Tarquizio Prisco avevano ben trattato, in opere scritte in lingua latina, la scienza aruspicina e la storia degli Etruschi, ma i monaci cristiani non ce le hanno tramandate.
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CAPITOLO TERZO
I
LIBRI
T AGETICI
1. I LIBRI TAGETICI. Il bizantino Giovanni Lido (VI sec.d.C.), nell’opera su I Prodigi, sostiene d’aver letto sia in etrusco che in latino quei Libri Tagetigi che si dicevano scritti in forma poetica da Tarconte su dettatura di Tagete stesso. Egli narra: Tarconte era un aruspice, com’ egli stesso dice nel libro, uno di quelli istruiti dal lidio Tirreno […]. Costui dice che un tempo, mentre lavorava la terra [...], da un solco uscì fuori un bambino [...]. Questo bambino era Tagete [...]. Tarconte dunque, sollevatolo e postolo nei luoghi sacri, pensò di imparare da lui qualcosa sulle cose segrete. Ottenuto poi ciò che aveva chiesto, compose un libro delle cose trattate, nel quale egli interroga nella lingua comune degli Itali, e Tagete risponde attenendosi alle lettere antiche e poco comprensibili a noi. Nondimeno cercherò, per quanto possibile di riferirvi quelle cose facendo uso da un lato delle informazioni (cioè di quel ch’era contenuto nel testo etrusco) e dall’altra di coloro che le tradussero in Latino, cioè di Capitone, di Fonteio, di Vicellio, di Labeone, di Figulo e del naturalista Plinio214. Coerentemente, Lido, nel proseguo della sua opera, traduce alcuni testi “Tagetici” dal Latino in Greco. I testi latini non esistono più, ma esistono ancora alcune delle tradu214
Giovanni Lido, De ostentis. Proemio, 3, Teubneri, Lipsia, 1887.
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zioni greche di Giovanni Lido; e, poiché queste non sono mai state riportate nella lingua italiana, lo abbiamo fatto noi. 2. IL CALENDARIO BRONTOSCOPICO (NIGIDIO FIGULO)215. Da A. Palmucci, I libri Tageti – Il Calendario Brontoscopico, “Bollettino della società tarquiniense d’arte e storia”, (34), 2005, pp. 19-40; Tarquinia e i Libri Tagetici, “Nuova Archeologia”, Sett.-Ott. 2007, inserto.
Giovanni Lido: Traduzione letterale del Calendario Brontoscopico locale, basato sul corso della Luna, secondo il romano FIGULO, tratto dai “Libri Tagetici”. Se è vero che gli antichi in ogni scienza augurale han preso a guida la Luna poiché è da lei che dipendono i segni tratti dai tuoni e dai fulmini, a ragione dovremo parimenti regolarci sulla posizione della Luna. Perciò partendo dal Cancro e dal novilunio, secondo i mesi lunari, noi formuliamo l’esame giornaliero dei temporali. E’ a seguito di un simile esame che i Tusci hanno tramandato le osservazioni locali riguardanti le regioni in cui hanno origine i tuoni. GIUGNO 1- Se tuonerà si avranno messi abbondanti fuorché per l’orzo. Pericolose malattie prenderanno l’uomo. 2- Se tuona, le madri partoriranno con meno dolore; il bestiame morrà; ci sarà abbondanza di pesci. 3- Dopo il tuono ci sarà un caldo molto secco, così non solo i frutti secchi ma pure i molli diverranno del tutto tostati dalla siccità. 4- Se tuona, l’aria sarà umida e piovosa tanto che per l’umidità le messi marciranno e andranno perdute.
215
Giovanni Lido, De ostentis. Teubneri, Lipsia, 1887pp. 62-68.
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5- Se tuona, sarà segno infausto per la campagna. Coloro che governano i borghi e le città minori (polichne) avranno turbamenti. 6- Se tuona, una nociva bestiolina nascerà all’interno delle messi mature. 7- Se tuona, verranno malattie che non uccideranno, tuttavia, molte persone. I frutti secchi andranno bene; i freschi però si seccheranno. 8- Se tuona, preannuncia forte pioggia e morte di frumento. 9- Se tuona, le greggi periranno per l’incursione dei lupi. 10- Se tuona, ci saranno frequenti morti, ma anche fertilità. 11- Se tuona, avremo calori inoffensivi. Abbondanza per lo Stato. 12- Se tuona, accadranno le stesse cose del precedente giorno. 13- Se tuona, è minaccia rovina d’un uomo molto potente. 14- Se tuona, l’aria sarà caldissima, tuttavia si avrà un raccolto molto abbondante, ed anche grande abbondanza di pesci fluviali. Nondimeno i corpi saranno presi dalla debolezza. 15- Se tuona, i volatili saranno fortemente infastiditi per l’estate, e i pesci morranno. 16- Se tuona, questo è non solo il presagio della diminuzione del raccolto, ma anche quello della guerra. Un uomo molto fortunato scomparirà. 17- Se tuona, si avranno calori estivi e abbondanza di ratti, topi e locuste; ma l’anno apporterà al popolo ricchezza, e anche omicidi. 18- Se tuona, si presagisce una disastrosa penuria di frutti. 19- Se tuona, gli animali nocivi ai frutti moriranno. 20- Se tuona, si presagiscono dissenzioni nel popolo. 21- Se tuona, è presagio di penuria di vino, ma di abbondanza d’altre produzioni e d’una moltitudine di pesci. 22- Se tuona, il caldo sarà disastroso. 23- Se tuona, è annuncio di gioia, fine dei mali e cessazione di malattie. 24- Se tuona, promette abbondanza di beni. 25- Se tuona, guerre e mali saranno innumerevoli.
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26- Se tuona, l’inverno nuocerà alle messi. 27- Se tuona, ci sarà un pericolo militare per chi detiene il potere supremo. 28- Se tuona, si avrà ricchezza di messi. 29- Se tuona, le cose della c i t t à r e g i n a (tes basilìdos poleos) miglioreranno. 30- Se tuona, tra poco tempo si avranno molti morti. LUGLIO 1- Se tuona, per la luna nuova, ci sarà abbondanza, ma flagello per il bestiame. 2- Se tuona, ci sarà del buono in autunno. 3- Se tuona, annuncia un inverno duro. 4- Se tuona, si avranno quantità di perturbazioni atmosferiche portatrici di penuria. 5- Se tuona, si avrà un raccolto abbondante, e la caduta d’un arconte eccellente (archontos agatou). 6- Se tuona, è un presagio di malattia mortale per gli schiavi. 7- Se tuona, la pioggia nocerà alle messi. 8- Se tuona, vuol dire pace per le Comunità (tois coinois), ma la malattia e la tosse secca prenderanno le greggi. 9- Se tuona, annuncia presenza degli dèi immortali e incremento di molti beni. 10- Se tuona, le acque fluviali saranno salubri. 11- Se tuona, significa caldo, grandi piogge e pure una scarsità di frumento. 12- Se tuona, ci sarà durante l’estate un freddo inatteso che sarà causa di perdita di frutti. 13- Se tuona, indica la presenza di rettili molto nocivi. 14- Se tuona vuol dire che il potere di tutti (panton dynamis) toccherà ad un sol uomo molto iniquo per gli affari dello Stato. 15- Se tuona, ci saranno dissensi nel popolo, ed anche penuria di frumento.
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16- Se tuona, il re dell’Oriente (o anatoles basileùs) subirà la guerra e la malattia a seguito del calore secco. 17- Se tuona, annuncia la successione di un grande arconte (megàlou archontos). 18- Se tuona, significa cattivo raccolto dovuto ad una pioggia continua. 19- Se tuona, annuncia guerra e strage d’uomini potenti (dynaton); si avranno molti frutti secchi. 20- Se tuona, presagisce caldo malsano. 21- Se tuona, si avranno dissensi fra i sudditi, ma non a lungo. 22- Se tuona, significa cose buone per le faccende pubbliche, e mal di testa per gli uomini. 23- Se tuona, avranno fine i dissensi nel popolo. 24- Se tuona, significa sommo infortunio per un sommo uomo. 25- Se tuona, è terribile per la giovinezza ed i raccolti: è tempo pure di malattie. 26- Se tuona, dopo tanta abbondanza ci sarà scarsità. 27- Se tuona, presagisce malattie eruttive del corpo. 28- Se tuona, ci sarà penuria d’acqua, e grande abbondanza di rettili nocivi. 29- Se tuona, indica prosperità. 30- Se tuona, certi uomini, spinti dalle furie, si abbandoneranno a crimini atroci. AGOSTO 1- Se tuona, le cose dello Stato saranno un po’ migliori, regnerà l’abbondanza. 2- Se tuona, indica insieme malattie e penuria di cibo. 3- Se tuona, annuncia al popolo processi e assemblee. 4- Se tuona, la fame vesserà uomini ed animali. 5- Se tuona, annuncia che le donne saranno più assennate. 6- Se tuona, ci sarà abbondanza di miele, ma penuria di acqua d’altri alimenti. 7- Se tuona, significa vènti truci e malattie.
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8- Se tuona, presagisce malattie per gli animali quadrupedi, ma poco pericolose. 9- Se tuona, presagisce buona salute a favore della maggior parte degli uomini. 10- Se tuona, indica dolori e crimini per la moltitudine. 11- Se tuona, si avrà un’annata abbondante, ma per gli uomini ci sarà una dannosa invasione di rettili. 12- Se tuona, ci sarà abbondanza di foraggio e di ghiande, però mali per i bambini. 13- Se tuona, la sofferenza invaderà i corpi sia degli uomini che degli animali. 14- Se tuona, presagisce guerra per le Comunità (tois coinois), e abbondanza per le messi. 15- Se tuona, le cose verteranno al peggio. 16- Se tuona, promette una profonda pace. 17- Se tuona, fra gli uomini, i perversi soffriranno. 18- Se tuona, minaccia guerra interna (polemon emfylion). 19- Se tuona,, donne e schiavi oseranno stragi. 20- Se tuona, minaccia morte per i buoi, le greggi e gli affari pubblici (tais pràgmasin). 21- Se tuona, annuncia al popolo sia abbondanza che dissensi. 22- Se tuona, gli affari andranno abbastanza bene durante tutto l’intero anno. 23- Se tuona, indica caduta di fulmini, e minaccia di morte. 24- Se tuona, minaccia morte per giovani nobili. 25- Se tuona, predice inverno freddo e penuria di frutti. 26- Se tuona, significa guerra. 27- Se tuona, minaccia insieme guerra e inganni. 28- Se tuona, significa abbondante raccolto e morte di buoi. 29- Se tuona, dice che non avverrà nessun cambiamento. 30- Se tuona, minaccia malattie per la città (te polei) sulla quale erompe il tuono.
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SETTEMBRE 1. Se tuona, annuncia fertilità e gioia. 2. Se tuona, ci saranno dissensi nel popolo. 3- Se tuona, annuncia pioggia e guerra. 4- Se tuona, presagisce rovina per un uomo potente, ed anche preparativi di guerra. 5- Se tuona, annuncia abbondanza d’orzo, ma molto meno di frumento. 6- Se tuona, le donne avranno un potere più grande di quel che loro conviene. 7- Se tuona, minaccia malattia e anche strage di schiavi. 8- Se tuona, rivela che nello Stato i più potenti meditano cose subdole, ma che non entreranno nella futura gestione delle cose pubbliche. 9- Se tuona, minaccia che soffierà un vento malsano. 10- Se tuona, tra le regioni sulle quali il tuono eromperà, e su altre, accadranno motivati dissidi. 11- Se tuona, i clienti dei nobili tenteranno qualcosa di nuovo nelle Comunità (en tois coinois). 12- Se tuona, predice che il tempo delle messi sarà piovoso, e che ne seguirà fame. 13- Se tuona, minaccia grave fame. 14- Se tuona, minaccia malattie. 15- Se tuona, annuncia grandi piogge, ma tuttavia prosperità. 16- Se tuona, annuncia grandi ma sterili piante. 17- Se tuona, minaccia penuria di viveri necessari. 18- Se tuona, significa insieme fame e guerra. 19- Se tuona, gli alberi produrranno frutti, ma si avranno malattie e sedizioni popolari. 20- Se tuona, minaccia morte di un uomo eminente, e guerra. 21- Se tuona, minaccia per il popolo disastri e malattie.
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22- Se tuona, significa abbondanza, ma anche un inverno grave e piovoso. 23- Se tuona, predice mancanza di cose necessarie alla vita durante l’inverno dell’anno in corso. 24- Se tuona, presagisce mancanza d’acqua. Ci sarà negli alberi abbondanza di bacche, ma alla fine dell’autunno le tempeste le distruggeranno. 25- Se tuona, a seguito dei disordini dello Stato, un tiranno salirà al potere. Egli perirà, ma i potenti andranno incontro a mali intollerabili. 26- Se tuona, il cattivo principe (dynastes= dominatore, signore, principe) perirà per volontà di Dio. 27- Se tuona, quelli che hanno il potere (dynatoi) si divideranno e si distruggeranno vicendevolmente. 28- Se tuona, ci saranno prodigi annunzianti gravi eventi, e bisogna stare attenti che il fuoco non cada in qualche luogo. 29- Se tuona, minaccia siccità nociva. 30- Se tuona, le Comunità (ta coinà) passeranno da una situazione meno buona ad una migliore. OTTOBRE 1- Se tuona, minaccia che un tetro tiranno prenderà il comando dello Stato. 2- Se tuona, ci sarà abbondanza e distruzione di topi terrestri. 3- Se tuona, annuncia tempeste e turbini che distruggeranno gli alberi; e ciò sarà indizio di grandi tempeste per le Comunità (tois coinois). 4- Se tuona,, gli inferiori prenderanno il posto dei superiori, e la temperatura dell’aria sarà più salubre. 5- Se tuona, ci sarà incremento di tutto ciò che necessita alla vita, fuorché di frumento. 6- Se tuona, promette futura abbondanza, ma raccolto meno gioioso, ed autunno pressoché senza frutti. 7- Se tuona, ci saranno molti legumi, però meno vino.
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8- Se tuona, c’è d’aspettarsi terremoti con muggiti. 9- Se tuona, presagisce morte per le fiere. 10- Se tuona, annuncia la rovina d’un uomo stimato. 11- Se tuona, predice cambiamenti di vènti buoni alle piante. 12- Se tuona, si avrà abbondanza, ma si avranno fulmini. 13- Se tuona, si avranno commerci vantaggiosi e soprattutto abbondanza; il dominatore importuno della repubblica non durerà a lungo. 14- Se tuona, minaccia sia guerra che morte di greggi. 15- Se tuona, si avrà penuria, vento secco e bruciante che soffia sulle messi. 16- Se tuona, gli uomini saranno debilitati a tal punto che saranno pressoché irriconoscibili. 17- Se tuona, felicità per un uomo opulento, e per le persone d’alto rango. 18- Se tuona, indica importazione d’abbondante raccolto. 19- Se tuona, presagisce la caduta (ptosis) d’un principe (dynastes = dominatore, principe) o l’espulsione d’un re (basileùs). E così discordie; ma abbondanza per il popolo. 20- Se tuona, presagisce insolite piaghe; e, per la moltitudine una grande miseria dovuta alla discordia. 21- Se tuona, vi saranno malattie che portano la tosse e le decomposizioni nel petto. 22- Se tuona, indica al popolo malattie e varie sofferenze. 23- Se tuona, contro ogni speranza il popolo sarà felice. 24- Se tuona, per la dissensione dei prìncipi il popolo diventerà superiore. 25- Se tuona, si avrà un terribile spavento dovuto a calamità. 26- Se tuona, le belve aumenteranno, ma avranno fame. 27- Se tuona, è indizio di piogge frequenti. 28- Se tuona, ci sarà scarsità di viveri. 29- Se tuona, si avrà un’annata di malattie. 30- Se tuona, annunzia abbondanza, diminuzione di nemici, e gioia per la repubblica.
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NOVEMBRE 1- Se tuona, annucia discordie per la città (te polei). 2- Se tuona, predice abbondanza. 3- Se tuona, accadranno avvenimenti per i quali gli inferiori supereranno i superiori. 4- Se tuona, il frumento sarà migliore. 5- Se tuona, annuncia turbe per la repubblica, e malattie per uomini e bestie. 6- Se tuona, i vermi noceranno al frumento. 7- Se tuona, minaccia malattie per uomini e animali che vivono in occidente. 8- Se tuona, bisogna mangiar molto per poter evitare le imminenti malattie. 9- Se tuona, alcuni plebei subiranno il supplizio del palo. Si avrà un raccolto abbondante. 10- Se tuona, finiranno le inopportune dispute tra i prìncipi (tois cratousin). Un vento bruciante vesserà gli alberi. 11- Se tuona, bisogna ringraziare gli dèi immortali perché spirerà il vento proveniente da oriente. 12- Se tuona, molte cose appariranno agli uomini nel sonno. 13- Se tuona, il tempo sarà favorevole ai guadagni, ma non alla salute: si avranno malanni nati da vermi intestinali. 14- Se tuona, qualche volta i rettili noceranno agli uomini. 15- Se tuona, vi sarà grande quantità di pesci, ma la peste colpirà gli animali acquatici; la condizione della repubblica diverrà migliore. 16- Se tuona, si avrà una generazione di locuste e di topi di campagna. Pericolo per il re (to basilei). Ci sarà abbondanza di frumento. 17- Se tuona, annuncia abbondate pascolo per le greggi. 18- Se tuona, si annuncia guerra ed affanno per gli abitanti delle città. 19- Se tuona, è prosperità per le donne. 20- Se tuona, annuncia una fame non lunga.
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21- Se tuona, i topi moriranno, e si avrà abbondanza non solo di frumento, ma di foraggio e di pesce. 22- Se tuona, annunzia un’annata felice. 23- Se tuona, soffierà un vento malsano. 24- Se tuona, un castello utile allo Stato passerà ai nemici. 25- Se tuona, predice una guerra pericolosa e preannuncia un vento malsano. 26- Se tuona, annuncia guerra interna (pòlemon emfylion) e molti morti. Si avranno piogge nocive. 27- Se tuona, si presagiscono le stesse cose. 28- Se tuona, molti dell’ Assemblea (tes syncléton) se ne andranno per scoraggiamento. 29- Se tuona, i peggiori agiranno meglio; i frutti attesi morranno. 30- Se tuona, gli uomini vivranno più religiosamente. Nessuno stupore dunque se i cattivi diverranno moderati. DICEMBRE 1- Se tuona, annuncia concordia e un’annata felice. 2- Se tuona,, copia di pesci e soprattutto di frutti. 3- Se tuona, per la scarsità di pesci gli uomini abuseranno delle greggi. 4- Se tuona, l’inverno sarà duro, ma ci sarà abbondanza. 5- Se tuona, minaccia malattie di scabbia. 6- Se tuona, nel sonno gli uomini avranno sogni divini che avranno esiti calamitosi. 7- Se tuona, sono annunciate a tutti le stesse cose. 8- Se tuona, indica malattie veementi, abbondanza di frutti, e perdita di greggi. 9- Se tuona, sarà la rovina d’un uomo famoso. 10- Se tuona, annuncia morte per malattie agli uomini. I pesci aumenteranno. 11- Se tuona, il solstizio estivo sarà caldo, e si importeranno molte cose. 12- Se tuona, presagisce malattie dovute al flusso del ventre.
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13- Se tuona, annuncia abbondanza, ma anche malattie. 14- Se tuona, annuncia sia guerra civile che abbondanza. 15- Se tuona, molti partiranno per la guerra; ma saranno pochi quelli che torneranno. 16- Se tuona, annuncia una cosa nuova nello Stato. 17- Se tuona, annuncia la nascita di piccole locuste; si avrà tuttavia un buon raccolto. 18- Se tuona, ci sarà una terribile guerra. 19- Se tuona, indica l’intensità della guerra. 20- Se tuona, predice penuria di cose necessarie. 21- Se tuona, minaccia vento caldo malsano a respirare. 22- Se tuona, l’estate sarà torrida e molto feconda. 23- Se tuona, predice agli uomini malattie non pericolose. 24- Se tuona, predice guerra civile; morte per animali silvestri. 25- Se tuona, è partenza di milizie per la guerra, ma la cosa sarà ben gestita. 26- Se tuona, minaccia malattia per i servienti. 27- Se tuona, il re (o baliseùs) sarà utile a molte cose. 28- Se tuona,, generazione di locuste. 29- Se tuona, annuncia salutare magrezza per i corpi. 30- Se tuona, predice ribellione contro il regno (catà tes basileìas), e appunto guerra. GENNAIO 1- Se tuona, soffierà un vento rapido ma innocuo. 2- Se tuona, ci sarà una guerra inaspettata. 3- Se tuona, per i belligeranti ci sarà un danno dopo la vittoria; ma si avrà abbondanza. 4- Se tuona, il popolo sarà d’accordo verso la pace. 5- Se tuona, significa salute per il bestiame. 6- Se tuona, presagisce malattie che portano la tosse, e annuncia abbondanza di pesci e frutti. 7- Se tuona, annuncia guerra servile (doulamachìa) e numerose malattie.
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8- Se tuona, il dominatore (signore, principe) dello Stato (o dynastes tes politeias) correrà pericoli da parte del popolo. 9- Se tuona, il re dell’ Oriente (o anatoles basileùs) affronterà un pericolo. 10- Se tuona, annunzia violento movimento di vento, buon raccolto di frumento, e sterilità di altre messi. 11- Se tuona, indica una fame vessante anche le bestie. 12- Se tuona, gli uomini soffriranno agli occhi; si avrà abbondante quantità di viveri e pesci. 13- Se tuona, minaccia malattie. 14- Se tuona, minaccia penuria, generazione di topi, e morte di quadrupedi. 15- Se tuona, preannuncia rivolta di schiavi, loro punizione, e abbondanza di frutti. 16- Se tuona, indica che il popolo sarà vessato dal re (ypò tou basiléos). 17- Se tuona, minaccia malattie senza pericolo. 18- Se tuona, predice cose che spaventeranno il popolo. 19- Se tuona, il re (o baliseùs) vincerà, e lo stesso popolo otterrà una posizione più elevata. 20- Se tuona, ci sarà abbondanza importata da fuori; i corpi saranno vessati dal morbo della tosse. 21- Se tuona, il re (o basileùs), dopo aver teso molte insidie, diverrà egli stesso oggetto di complotti. 22- Se tuona, ci sarà abbondanza, ma pure molti topi e cervi. 23- Se tuona, significa buon ordine per la città (te polei). 24- Se tuona, annuncia abbondanza e insieme malattia. 25- Se tuona, ci sarà una guerra servile (doulomachya). 26- Se tuona, molti saranno trucidati da colui che ha il potere (pros tou cratountos), ma poi sarà il suo turno. 27- Se tuona, annuncia malattie senza pericolo. 28- Se tuona, avremo abbondanza di pesci marini; però le greggi moriranno. 29- Se tuona, condizioni atmosferiche malsane e mortali. 30- Se tuona, minaccia numerose morti.
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FEBBRAIO 1- Se tuona, minaccia guerra e rovina di uomini ricchi. 2- Se tuona, predice meno grano, più orzo, aumento di bestie selvagge e diminuzione d’uomini. 3- Se tuona, avverrà un dissidio interno (stasis emfilios). 4- Se tuona, saranno sconvolti non solo l’aspetto, ma anche la mente degli uomini. 5- Se tuona, ci sarà ricchezza di messi, ma morte di uomini. 6- Se tuona, morte di frutti secchi, soprattutto d’orzo. 7- Se tuona, minaccia per gli uomini disastri non lunghi. 8- Se tuona, avverrà un grande avvenimento per lo Stato (te politeia). Nasceranno pesci; bestie selvagge periranno. 9- Se tuona, ci sarà poco orzo. 10- Se tuona, le bestie selvagge noceranno agli uomini. 11- Se tuona, le donne partoriranno felicemente. 12- Se tuona, predice morti numerose; vènti inopportuni. 13- Se tuona, ci sarà abbondanza, si avrà tuttavia un dissidio politico (stasis politiké). 14- Se tuona, minaccia perdita di fanciulli ed anche funesta invasione di rettili. 15- Se tuona, l’aria sarà pestilente; ci sarà una generazione di bestie selvagge e di rettili. 16- Se tuona, cose fauste per il popolo, infauste per i potenti (dynatois) a causa di dissensi. 17- Se tuona, l’estate sarà molto feconda. 18- Se tuona, grave vento, e pustule per i corpi. 19- Se tuona, ci sarà moltitudine di rettili e di lombrichi. 20- Se tuona, annuncia aria pura. 21- Se tuona, annuncia abbondanza. 22- Se tuona, aria malsana, ma non mortale. 23- Se tuona, predice deformità agli uomini; morte agli uccelli. 24- Se tuona, preannuncia salute agli uomini, e morte ai pesci ed ai rettili.
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25- Se tuona, vuol dire momento negativo per le cose voluttuarie; infatti ci saranno guerre e gravi tempeste. 26- Se tuona, presagisce caldo, mancanza d’acqua, ed anche eruzioni cutanee. 27- Se tuona, al popolo annuncia dissidio. 28- Se tuona, predice che ci sarà abbondanza, ma pure che soffierà vento malsano. 29- Se tuona, annuncia guerra e abbondanza. 30- Se tuona, significa insieme cose buone e lunghi dissensi per il popolo. MARZO 1- Se tuona, per tutto l’anno si avranno risse e divisioni. 2- Se tuona, le precedenti predizioni cesseranno. 3- Se tuona, rovesci per gli affari di Stato, e penuria. 4- Se tuona, ci sarà infinita abbondanza. 5- Se tuona, la primavera sarà assolata, e l’estate feconda. 6- Se tuona, le stesse predizioni del giorno precedente. 7- Se tuona, si leverà un forte vento; il principe della città (o craton) farà cambiamenti. 8- Se tuona, significa piogge. 9- Se tuona, presagisce morte di uomini, ed anche nascita di bestie selvagge. 10- Se tuona, morte di quadrupedi. 11- Se tuona, predice pioggia violenta e nascita di locuste. 12- Se tuona,, un principe dello Stato (dynatos tou politemaia), o un capo d’esercito (strategos), correrà un pericolo; in proposito, avverranno combattimenti; le bestie selvagge attaccheranno gli uomini. 13- Se tuona, ci sarà abbondanza; le bestie selvagge morranno; i pesci aumenteranno; i rettili molesteranno le abitazioni, ma non saranno nocivi. 14- Se tuona, annuncia abbondanza, presagisce morte di uomini, ed una generazione di bestie selvagge.
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15- Se tuona, significa caldo, mancanza d’acqua, e grande quantità di topi e di pesci. 16- Se tuona, annata salubre, ma priva del necessario. 17- Se tuona, accadrà un fatto inatteso al popolo; numerose morti per uomini e quadrupedi. 18- Se tuona, annuncia forte pioggia, malattia, nascita di locuste e poco raccolto. 19- Se tuona, estate secchissima e pestifera. 20- Se tuona, gli uomini vivranno meglio e più riccamente. 21- Se tuona, abbondanza dopo la guerra, ma calori funesti. 22- Se tuona, morte di uccelli, abbondanza di viveri. 23- Se tuona, annuncia dissensi. 24- Se tuona, significa abbondanza. 25- Se tuona, si saranno avvenimenti nuovi per il popolo. 26- Se tuona, predice acquisizione di schiavi importati. 27- Se tuona, annuncia abbondanza importata da fuori. 28- Se tuona, ci sarà abbondanza di pesci marini. 29- Se tuona, le donne conseguiranno maggior gloria. 30- Se tuona,, un possente (dynatos) sarà signore del regno (encratès basileìas): la cosa procurerà gioia. APRILE 1- Se tuona, minaccia dissidio interno, e rovina di fortune. 2- Se tuona, è segno di giustizia recante buone cose ai buoni, e cattive ai cattivi. 3- Se tuona, annuncia abbondanza proveniente da fuori. 4- Se tuona, predice l’ira dei più forti contro genti degne. 5- Se tuona, significa primavera secca, ed annata salubre. 6- Se tuona, avverranno guerre interne (polemoi emfylioi). 7- Se tuona, annuncia fausta e copiosa abbondanza. 8- Se tuona, annuncia forte pioggia mortifera. 9- Se tuona, annuncia vittoria (niken) per il Regno (te basileìa), e gioia per i potenti (tois dynatois). 10- Se tuona, gli uomini onesti incrementeranno i loro beni.
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11- Se tuona, identica significazione. 12- Se tuona, predice piogge, abbondanza, e morte di pesci. 13- Se tuona, presagisce morte ad uomini e bestie. 14- Se tuona, annuncia salute e abbondanza. 15- Se tuona, significa peste. 16- Se tuona, annuncia abbondanza e insieme generazione di topi campestri. 17- Se tuona, indica abbondante raccolto. 18- Se tuona, indica dissensi e speranze umane frustrate. 19- Se tuona, un uomo potente nella città (in civitate) rovinerà insieme la sua fortuna e la sua autorità. 20- Se tuona, indica l’ira degli dèi. 21- Se tuona, preannuncia raccolto fortunato, ma anche guerra per lo Stato. 22- Se tuona, ci sarà morte di mosche. 23- Se tuona, annuncia pioggia utile alle semine. 24- Se tuona, ci saranno dissensioni dei potenti (dichònoia ton dynaton), ma i loro progetti saranno scoperti. 25- Se tuona, pace per tutto l’anno. 26- Se tuona, si annuncia molta speranza per il raccolto, però esiguità di messi. 27- Se tuona, appariranno prodigi in modo meraviglioso. 28- Se tuona, il popolo sarà chiamato alle armi. 29- Se tuona, prevarrà il favonio. 30- Se tuona, abbondanza di cose fauste. MAGGIO 1- Se tuona, annuncia successo e ignominia al popolo. 2- Se tuona, minaccia fame. 3- Se tuona, predice abbondanza importata da fuori. 4- Se tuona, predice aria temperata, e frutti abbondanti. 5- Se tuona, si produrrà un cambiamento nelle cose, e il frumento sarà maggiore dell’orzo; i legumi moriranno.
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6- Se tuona, vuole significare che i raccolti matureranno prima e si rovineranno. 7- Se tuona, ci sarà abbondanza di uccelli e di pesci. 8- Se tuona, cattivi presagi per il popolo. 9- Se tuona, significa peste non troppo perniciosa. 10- Se tuona, si annunciano turbamenti, forti piogge, disastrosi straripamenti di fiumi, abbondanza di lucertole e rettili. 11- Se tuona, c’è da sperare abbondanza in terra e in mare. 12- Se tuona, ci sarà morte di pesci. 13- Se tuona, annunzia innalzamento del livello dei fiumi, e malattie per gli uomini. 14- Se tuona, annucia guerre orientali (anatolicòs pòlemos) e molte rovine. 15- Se tuona, annuncia abbondanza. 16- Se tuona, bisogna fare pubbliche preghiere a causa di quel che ci minaccia. 17- Se tuona, significa pioggia. 18- Se tuona, sedizione e poi guerra e penuria di vitto. 19- Se tuona, qualcuno, col favore del popolo, arriverà al colmo della fortuna. 20- Se tuona,, abbondanza nell’Oriente (perì tèn anatolèn), non così in Occidente (epì dysin). 21- Se tuona, bisogna costituire pubbliche preghiere a causa di quel che ci minaccia. 22- Se tuona, significa forti piogge e morte di pesci marini. 23- Se tuona, annuncia pioggia abbondante e feconda. 24- Se tuona, grandi mali, così i sudditi (toùs ypecoòus) verranno meno (leipothymesai) per lo scoraggiamento. 25- Se tuona, speranza di remissione e diminuzione di mali. 26- Se tuona,, fortuna per quelli che operano nella coltivazione dei campi. 27- Se tuona, avverranno prodigi, e appariranno comete. 28- Se tuona, sarà la stessa cosa. 29- Se tuona, significa guerra settentrionale (pòlemon arktòon), ma senza pericolo per la vita pubblica.
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30- Se tuona, gli steli saranno spezzati dal vento. P. S. Nigidio ha giudicato che questo diario brontoscopico non ha valore generale, ma solo per Roma (tes Ròmes). *** Giovanni Lido, in fondo al testo di Nigidio, pone una propria nota dove informa che l’autore del Calendario giudicava che i responsi valevano solo per Roma. La notizia contrasta con almeno due punti dell’opera (vd. 30 ag.; 10 sett.): potrebbe trattarsi di un autoschediasma o della nota di un copista. Il Calendario, comunque, anche se certamente adattato ai bisogni dei Romani, proviene dai Libri Tagetici, e come tale mantiene sia la struttura di un primissimo anno etrusco basato sui cicli lunari, sia la nomenclatura delle istituzioni monarchiche del tempo delle sue prime stesure. Siamo dinanzi a un calendario lunare che inizia alla metà dell’anno solare con il novilunio del solstizio estivo. Allo stesso modo per gli Etruschi ogni nuova giornata partiva da Mezzogiorno. Questo modo di scandire gli anni e i giorni era usato anche dagli Ateniesi. Da questo calendario si può ricostruire il quadro politico e amministrativo dell’Etruria. C’è innanzi tutto una città regina (29 giugno). Questa, nelle intenzioni di Tagete che, in Tarquinia, aveva dettato a Tarconte i libri dell’Etrusca Disciplina (o di chi altro li abbia compilati col suo nome) sarà stata Tarquinia. Secondo i linguisti, il nome di questa città, etimologicamente, avrebbe proprio il significato di Città Regina o Sovrana o Dominatrice216. Si diceva, comunque, che Tarconte ne fosse stato l’eponimo re fondatore, e che 216
V. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Roma, 1979; vd. pure A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università Studi Pavia, dipartimento Scienze Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353.
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Tagete vi fosse nato. Cicerone narrava che in occasione di quella nascita tutta l’Etruria convenne a Tarquinia217. Altri spiegavano che vi convennero i dodici lucumoni o prìncipi delle altre città218. Nella città regina risiedeva evidentemente il re. Costui è nominato spesso (19 ott.; 16 nov.; 27 dic.; 19 e 21 genn.; 30 mar.). Egli governa il regno (30 mar.; 9 apr.): verosimilmente la Federazione. Anche Virgilio, nell’Eneide, chiama “regno” la federazione Etrusca (VIII, 505-507). Abbiamo poi gli Stati, ovvero le città stato, comandate da un capo variamente denominato dynastes (26 sett.; 19 ott.), dynatòs (12 marzo; 19 lugl.; 27sett.; 16 febbr.), archon (5 e 17 lugl.) e kraton (7 marzo; ecc.), il cui significato generale è di “principe” o di “colui che ha il potere”. Si tratta verosimilmente di quelle stesse figure che le fonti latine sopra menzionate chiamano lucumoni o principi delle città. A volte questi governanti sono buoni, altre volte sono cattivi (16 genn.), e vengono abbattuti (19 sett.; 8, 21 e 26 genn..). I re vengono espulsi (19 sett.). Se il re del regno ottiene una vittoria egli può elevarsi (19 genn.) Quando vince, i capi delle città esultano (9 aprile); ciò perché evidentemente fanno parte della Federazione che ha vinto la guerra. A volte questi capi si dividono e si distruggono a vicenda ( 27 sett.; 10 nov.); altre volte alle fine si pacificano (10 nov.). Ci sono pure guerre servili (7 e 25 genn.; 6 apr.), e schiavi che si rivoltano e vengono puniti ( 15 genn.). Abbiamo poi le città minori, dette polichne, i castelli e i borghi, ognuno con il suo governante (5 giugno). Il calendario menziona poi una volta dei sudditi che defezionano per scoramento (24 maggio.): più che di sudditi si trattava 217
Cicerone, Divinazione, II, 50. Verrio Flacco, De significatione verborum (compendio di Festo), s.v. Tages; Censorino, De die natali, IV, 13; Commento Bernese a Lucano, I, 636, H, Husner p. 41. 218
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forse di alleati. Molto spesso si nomina il popolo, qualche volta gli schiavi, e una volta i plebei. A quest’ultimi capita di subire il supplizio del palo (9 nov.). I responsi del calendario si preoccupano anche del re dell’Oriente (16 lugl.; 9 genn.), di guerre orientali (14 maggio) e settentrionali (24 maggio), nonché di paragoni fra situazioni economiche orientali ed occidentali (20 maggio). Ciò forse per il ricordo di antichi apporti di gente dall’Oriente (Troiani, Misi e Lidi come vorrebbero le tradizioni). Nel re dell’Oriente potrebbero adombrarsi vari personaggi mitici. • Enea, il troiano che, secondo Virgilio ricondusse a Corito (Tarquinia) i profughi troiani e divenne capo della federazione Etrusca. • Tarconte, figlio di Telefo re della Misia, e di Astioche sorella del re di Troia. Egli avrebbe fondato tutte le città della federazione Etrusca, ed avrebbe dato il suo nome a Tarquinia. Sarebbe anche l’autore dei Libri Tagetici. • Tirreno, figlio di Ati, re della Lidia. Giovanni Lido ricorda che costui avrebbe condotto presso i Sicani d’Etruria una colonia di Lidi. Giovanni nella sua versione greca dei Libri Tagetici scritti da Tarconte, sostiene pure che lo stesso Tarconte in quei Libri avrebbe affermato che Tirreno lo avrebbe istruito nei Misteri dei Lidi. All’interno della Federazione e delle città che la copongono i rapporti non sono sempre felici né tanto meno pacifici: vi sono sedizioni, dissensi (24 apr.) e cattivi potenti che prendono il potere (14 lugl.). Le donne a volte prosperano (19 nov.), ed hanno un ruolo importante nella vita sociale; ma capita che commettano crimini insieme agli schiavi (19 ag.). Spesso gli uomini sono contrariati dal loro comportamento (6 sett,; 5 ag.): si tenga presente il caso di Volsini dove gli schiavi si ribellarono, presero il potere e sposarono le consenzienti donne dei loro padroni.
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*** Da questo calendario apprendiamo pure che gli Etruschi coltivavano cereali, allevavano ovini e bovini, pescavano e mangiavano pesci sia marini che fluviali, avevano paura delle fiere e delle cavallette. La loro terra era oggetto di piogge a volte anche eccessive sì che potevano verificarsi disastrose inondazioni. Al contrario, si avevano anche tempi di siccità e carestia. In entrambi i casi, gli Etruschi erano costretti a far venire dall’estero svariati beni dei loro consumi alimentari. Fig. 38 – Aruspice di Arezzo.
3. TRATTATO DI BRONTOSCOPIA (FONTEIO). Giovanni Lido: Traduzione letterale del Trattato di Broncoscopia del romano Fonteio219. Con la Luna nel Capricorno, se tuonerà di giorno predice il tentativo fallito di un tiranno che vorrà impadronirsi delle regioni dallo stretto al Nilo. Ci sarà soprattutto mancanza di cose da mangiare: il Nilo si ritirerà, ci sarà dissenso tra figli e genitori, e scompiglio fra alcuni capi. I Persiani e coloro che abitano in Europa occidentale resteranno in pace. Se poi (tuonerà) durante la notte, genti barbare si combatteranno fra loro, verranno anche fatte delibere che muteran-
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Giovanni Lido, op. cit.. , pp. 88-92.
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no il trattato di pace con Roma220, e i nemici occuperanno in breve tempo alcuni territori dello Stato. Faziosi spuntati dalle zone del sole calante amministreranno lo Stato contro il diritto. Quasi tutti saranno tormentati da sorte più dura. E ci saranno aspri inverni, naufragi e terremoti distruttivi. Con la Luna nell’Acquario, se tuonerà di giorno significa rovina per persone illustri, e gravi incendi. Raccolto benigno, ma cavallette, bestie ed uve non buone. E, peggio d’ogni cosa, i fantasmi molesteranno i corpi con malattie, e le acque dolci si altereranno, gli uomini inferiori rapiranno la fortuna ai migliori, i più grandi cadranno nel peggiore. La pace sarà turbata per l’ineguaglianza delle leggi, e ci sarà ingresso di stranieri nella amministrazione della cosa pubblica. Se tuonerà di notte, l’occidente rinunci alla pace; le messi in Asia saranno come quanto meglio desiderate, e i magistrati durante la carica, in se stessi, non affliggeranno molto i loro sottoposti. Con la Luna nei Pesci, se durante il giorno si sarà verificato un tuono annuncia aumento di acque sia fluviali che marine; e minaccia caligine nell’aria, e morte di pesci. Gli animali selvaggi poi eviteranno le reti; ma sarà il momento opportuno per piantare alberi. Il tempo sarà malsano, e i governanti si comporteranno irregolarmente. Con la Luna in Ariete, se di giorno ci sarà stato un tuono minaccia proscrizione per Arabi e pestilenza per Persiani. Se accade di notte, i nemici turberanno Asia ed Europa, e i naviganti non saranno liberi da pericoli. Ci sarà abbondan-
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Letteralmente: anche a causa di deliberazioni le cose della pace romana si smuoveranno (kaì dogmátōn eneka tà tẽs Rōmaikẽs eirēnēs saleythēsetai). Non mi sembra corretta la traduzione del CSHB: “pax orbi Romani propter persuasiones turbabitur”.
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za di frutti, e rovina d’una persona potente. Anche la Comunità sarà lontana dalla prosperità. Con la Luna nel Toro, se tuonerà di giorno annuncia grandi piogge, grandini e deviazione di fiumi. Anche pesce abbondante, ma coloro che si affacciano sulle regioni marine saranno molto tristi. Il raccolto sarà buono, ma la pestilenza colpirà i giumenti. Se tuonerà di notte significa penuria di frutti, cielo primaverile con piogge e grandini. Le donne abortiranno, e mancherà l’acqua dolce. Avverranno gravi sollevazioni di eserciti, e un tiranno infelice molesterà l’Oriente senza però ottenere i suoi intenti. Con la Luna nei Gemelli, se tuonerà di giorno la Comunità sarà religiosissima. Se di notte, al contrario. Con la Luna nel Cancro, se di giorno nasce e muore un tuono, ci saranno scompigli per i pubblici affari, e le cose muteranno in peggio. I raccolti verranno meno alle aspettative. E anche il mare sarà letale per i naviganti: moriranno uomini, ma ci saranno pesci. Se tuona di notte, sventure colpiranno Etiopi e Persiani. Gli occidentali soffriranno la fame tanto che per l’indigenza cercheranno rifugio anche in Egitto. Con la Luna nel Leone, se accade di giorno tuoni presagisce un’insidia contro il Regno (kathà tẽs basileías = Federazione Etrusca?). Ci saranno nuovi mali, e condanne a morte tra il popolo. Ci saranno messi abbondanti, ma saranno saccheggiate dal nemico soprattutto a occidente. I magistrati domineranno ed opprimeranno i sottoposti. Se tuonerà di notte il Regno (ẽ basileía) sarà insidiato, e parte dell’Oriente finirà sotto genti straniere (ypò Barbarois). La violenza delle piogge nocerà ai frutti molli. Rettili
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mortiferi insidieranno i giumenti. Alcuni potenti della vita pubblica cadranno. Con la Luna nella Vergine, se tuonerà di giorno lo stato dell’aria sarà più umido, e non ci sarà abbondanza di frutti secchi, tanto che gli uomini saranno più facilmente inclini ai delitti. Ci sarà pure rovina di sesso femminile. Se tuonerà di notte, s’avventerà la peste sugli occidentali: le bestie s’accosteranno agli uomini tanto che questi si ridurranno a nascondersi nei covi. Ci sarà rovina di uomini potenti, e penuria di frutti secchi. Con la Luna nella Libra, se tuonerà di giorno ci si aspettino cose fauste per tutti fuorché per gli Egiziani. Se di notte, la gioventù prenderà le armi e morirà in battaglia. Ci sarà abbondanza di frutti, ma questi saranno consumati da genti straniere. Con la Luna nello Scorpione, se di giorno ci sarà un tuono o un fulmine, gli Arabi saranno turbati. Ci sarà penuria di frutti, e gli uomini saranno in concorrenza fra loro. L’Assiria sarà oppressa dalla fame. Se di notte, avverranno incendi, rovine di città marittime, rovina di frutti e di quadrupedi, incursione di bestie d’ogni specie: per la qual cosa bisogna pregare che queste vengano uccise anche dalla caduta di fulmini. Con la Luna nel Sagittario, se tuonerà di giorno minaccia eccidio di Persiani, e il loro re (basileys) sarà ucciso a tradimento; verrà abbondanza di frutti, e ci saranno inverni sereni, e da una parte morte di uomini, ma dall’altra assoggettamenti di città. Se poi tuona di notte, annuncia piogge violente e patimento per le gravide, e malattie e morti improvvise, tanto da sopravanzare i frutti e mancare
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i consumatori. Si avranno terremoti e venti fortissimi, e una persona potente e molesta per lo Stato sarà annientata.
4. IL POEMA SU I TERREMOTI (VICELLIO)221. Da A. Palmucci, I Libri Tagetici – La partizione del cielo e del fegato, il DNA degli Etruschi e il poema su I Terremoti, “Bollettino della Società Tarquiniense d’arte e storia”, (35), 2006, pp. 20 - 24
Giovanni Lido: Il romano Vicellio dice questo con le stesse parole dei versi di Tagete, intorno a cui anche Apuleio più tardi riferì nel discorso in libera prosa. SOLE NELL’ARIETE. Se accade un terremoto in Asia, è minaccia di male per la Celesiria (a NE del mar Nero), la Palestina e la Giudea; se in Europa, per Britanni, Galli, Germani, Bastarni (oggi Polacchi). I prìncipi intraprenderanno spedizioni contro il nemico, ma queste saranno infruttuose; infatti, gli strateghi, con milizie decimate, si ritrarranno senza aver raggiunto lo scopo. E in Oriente il detrimento sarà 221
Giovanni Lido, op. cit., 110-117.
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più per i maschi che per le femmine: l’Ariete, infatti, è un segno maschile. SOLE NEL TORO. Se capita che ci sia un terremoto in Asia superiore, sia agli Etiopi che sono presso il fiume Indo (forma poetica per Etiope), sia al lido dell’Asia minore, sia alle isole Cicladi e a Cipro incomberà rovina dovuta ad infezione. Così specialmente le stesse bestie da tiro delle suddette regioni moriranno; vi saranno calori pesanti e pestilenti, immani inondazioni di fiumi, e d’estate mancanza d’acque fluviali. Fra gli esseri animati, sino essi o meno razionali, le femmine avranno le disgrazie maggiori di tutti. Il Toro, Infatti, è un segno femminile. SOLE NEI GEMELLI. Se in una qualunque parte del mondo accade un terremoto, la maggior fame accadrà nell’Asia Maggiore in Ircania, nell’una e l’altra Armenia, in Matiana (oggi Kurdistan); in Africa o piuttosto in Europa (perché parte dell’Europa è Africa), affliggerà la Marmarica (regione tra l'Egitto e le Sirti), l’agro Nasamonio (Libia settentrionale) e in genere la regione arida ch’è davanti alla grande Sirte (insenatura fra Cirene e Cartagine), a tal punto che il volgo spinto dalla necessità insorgerà contro i nobili di quelle regioni per scacciarli; e nessuno, a causa delle calamità, manterrà fede all’altro, nemmeno le madri ai figli. E vi saranno rovine e distruzioni di edifici, e crudeli incendi. Oltre a ciò un tiranno cruentissimo sconvolgerà le leggi a tal punto che non saranno risparmiate nemmeno le cose sacre. E fra gli esseri animanti quei danni assaliranno maggiormente i maschi, specialmente quelli che si servono della ragione, poiché i Gemelli sono un segno maschile ed hanno aspetto umano.
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SOLE NEL CANCRO. Se capita che in una qualunque parte del mondo avvengano scosse, nell’Asia superiore confinante coi Persi ci saranno turbamenti. In queste zone, inoltre, pestilenti malattie invaderanno i corpi degli uomini illustri, così che alle città verranno meno i prìncipi. Chiunque dopo di loro avrà il supremo potere; e per decreto del volgo, di loro stessi e degli ottimati i figli tolti ai genitori andranno all’estero. Nell’Asia inferiore, la Bitinia e tutta la Frigia, in Europa la Colchide (ora detta Lazica), in Africa la Libia e la Numidia saranno vessate da mali. Vi saranno eclissi di Luna, poiché il Cancro è la casa della Luna. Peggiori accidenti poi accadranno alle femmine, soprattutto a quelle che si prostituiscono: poiché il cancro è un segno femminile e proprio della dea Venere. Infatti, Venere e luna sono la stessa cosa. SOLE NEL LEONE. Se avviene un terremoto, è cosa infausta in Asia per l’intera Fenicia e per l’Orchenia (Arabia), in Europa per Itali, Siculi e Galli; non accadrà nulla di buono anche in tutta la Libia. Il bestiame, infatti, morirà d’inedia. E incomberanno piogge e nubi di locuste; i bruchi, poi, nuoceranno ai raccolti. Ci saranno perdite d’uomini fin quasi a dividere ogni unione. I leoni, nei luoghi in cui nascono, aggrediranno gli uomini in modo più feroce; nei luoghi dove secondo natura non esistono sapravverrà febbre acuta. Maggiori mali sperimenteranno i maschi, soprattutto coloro che abitano le terre del sole nascente, perché il leone è un segno maschile e solare. SOLE NELLA VERGINE. Se quando il sole entra nella Vergine accadono terremoti, la Grecia, l’Acaia, Creta, Babilonia, la Mesopotamia, l’Assiria, le isole Cicladi incapperanno in mali non mediocri. Infatti, vi accadranno crolli di terra; e i genitori accompagneranno i figli con dolore; anche gli inverni saranno secchi, e le vergini saranno ridotte in schia-
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vitù. Al di là degli altri frutti autunnali, spunterà l’olivo. Tra gli esseri viventi, poi, cattive cose accadranno più alle femmine che ai maschi: infatti, la Vergine è un segno femminile. SOLE NELLA LIBRA. Se in questo tempo avviene il terremoto, molestie non mediocri colpiranno in Asia superiore la Battriana (Afghanistan), la Casperia (Iran) e la Serica (Cina occidentale), in Africa poi la Trogloditica (sul mar Rosso, divisa fra Egitto, Sudan ed Etiopia), Tebe d’Egitto e la città di Oasi (Egitto orientale). Infatti, quelli che comandano danneggeranno quei luoghi al punto che la moltitudine disperata insorgerà contro di loro. Le cose sacre saranno rovinate da tante inesplicabili scelleratezze sì che nessuno vedrà esaudite le sue preghiere. Gli indigeni saranno banditi lontano dalle loro città. I luoghi detti saranno scompigliati da eserciti barbari, e seguirà la fame (e come potrebbe non avvenire!), soprattutto per gli uomini. Infatti il segno della Libra è maschile. SOLE NELLO SCORPIONE. Quando il sole transita nello Scorpione, e capita che avvenga uno scuotimento della terra, saranno arse da veementi incendi in Asia superiore la media Siria o Commagene (fra Siria e Cappadocia) e la Casperia (Iran), in Europa l’Italia e l’Etruria, e dalle parti del sole calante la Mauritania e la Getulia (Algeria); e nemmeno gli stessi santuari saranno risparmiati. Avverranno guerre perniciose per la gioventù, lucrose per i condottieri: i barbari occuperanno i luoghi dell’autorità Romana. Maggiore sarà poi il detrimento per le donne, poiché lo scorpione è un segno femminile. SOLE NEL SAGITTARIO. Se capita che la terra tremi quando il sole arriva nel Sagittario, nell’Asia maggiore l’Arabia felice, in Europa l’Etruria, la Gallia e la Spagna avranno de-
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trimenti non lievi. Il bestiame morirà d’inedia; l’oceano ridonderà oltre modo, così la stessa Calpe (monte presso Gibilterra) sarà inondata; la forza delle acque creerà pericoli alle città. E oppresso dalla penuria delle cose necessarie il sesso maschile morirà ovunque: poiché il Sagittario è un segno maschile. SOLE NEL CAPRICORNO. Se per caso avviene un terremoto quando il sole, dopo esser tornato dalla meta australe, viene nel Capricorno, nell’Asia superiore tutta l’India, Ariana (Iran), Gedrosia (Pakistan SO), in ogni parte della Frigia inferiore e l’Ellesponto, in Europa la Macedonia e la Tracia dall’Illirico fino al corso inferiore del’Istro (Danubio) saranno turbate non poco da genti confinanti. I torrenti inonderanno le piantagioni, nello stesso tempo gli animali saranno infettati da malattie. Nasceranno guerre civili, e una moltitudine di falsi sogni e vaticini; anche intere città saranno avvolte in ogni parte dalle onde marine. SOLE IN ACQUARIO. Se quando il sole è in Acquario c’è un terremoto, nell’Asia superiore, l’Ossiana (oggi Turkmenistan), la Sogdiana (ad E del mar Caspio), l’Arabia minore e l’Azania (Corno d’Africa), in Libia l’Etiopia minore ed in Europa la Tracia fino all’Illirico, saranno turbate. Infatti gravi guerre piomberanno loro; e la Macedonia sarà travagliata da durissime avversità fin quali alla distruzione totale. SOLE NEI PESCI. Se il sole è nei Pesci, e la terra trema, la nostra Lidia dell’Asia minore (*), la Cilicia (costa settentrionale dell’Asia minore) e la Panfilia (Turchia meridionale), e nella Libia la Nasamonitide (Libia settentrionale) e la Garamantica (Sahara libico) saranno rovinate da nemici esterni ed interni. Le città ed il porto del Ponto saranno vessati da arrivi di pirati; molte delle regioni che abbiamo nominate s’agiteranno fra loro senza motivo; e vi saranno
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abbondanti acquazzoni e piogge, e così pure preghiere inutili e mancanza di frutti che nutrono. Le sementi verranno meno per l’umidità della terra; il mare sarà torbido, e quasi innavigabile. Ma poco dopo, senza crederlo, le cose volgeranno al meglio; ed, in breve, la felicità sarà corrispondente al male che l’ha preceduta. (*) N.B. Se l’affermazione “nostra Lidia dell’Asia minore” non è un’interpolazione di Giovanni Lido, che era un Lidio, si deve pensare che gli Etruschi credessero veramente d’essere imparentati con genti dell’Asia Mimore. Vedi anche i riferimenti fatti da Tagete all’Oriente e ai suoi re, contenuti nel Calendario Brontoscopico. Al tempo delle mitiche migrazioni di Troiani, Misi e Lidi dall’Anatolia in Italia, comunque, la Troade e la Misia facevano parte del regno di Arzawa (la futura Lidia), ed erano vassalli dell’impero ittita.
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5. TRATTATO SU I FULMINI. Giovanni Lido: Osservazioni generali, secondo la Luna, sui fulmini e su altre condizioni, tradotte letteralmente dal testo di Labeone, tratti dal solstizio estivo222.
Se la luna, nell’undicesimo grado del Cancro, si trova in Ariete avverranno tempeste, tuoni, grandinate, scuotimenti di alberi per vènti più impetuosi, vortici d’aria, raccolti costosi, aria secca e calore pestilente. Se è nel Toro si avrà scarsezza di cibarie, soprattutto d’olio; tuttavia quelle cose che si pesano con la bilancia costeranno poco. Se, al tempo del solstizio, la luna è nei Gemelli l’annata avrà due facce. Infatti, al tempo umido seguirà siccità, e il frumento darà minor raccolto; ma il vino e soprattutto l’olio saranno più abbondanti. Se la luna, durante il solstizio estivo, si troverà nel Cancro, come s’è dimostrato, l’anno sarà fertile d’ogni frutto sia asciutto che umido; è dunque credibile che ci si debba aspettare abbondanza. Se la Luna, sorgendo nel Leone, capita nel solstizio estivo, ci si aspetti atmosfera tonante e procellosa. Il tempo sarà nebuloso e caliginoso a tal punto che, per l’eccesso d’umidità grondante dall’alto, i frutti asciutti daranno minor raccolto, e i molli maggiore.
222
Giovanni Lido, op. cit.., 93-107.
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Se, nel solstizio estivo, la Luna è nella Vergine l’annata sarà sterile e quasi priva di frutti. Ci sarà tuttavia qualche sollievo inaspettato sia per i frutti asciutti che per quelli umidi. Se, quando giunge il solstizio estivo, la Luna è nella Libra vuol dire che l’anno sarà fertile; e produrrà di certo ogni genere di frutti secchi, anche se sarà umido e piovoso. Quelle cose che si pesano con la bilancia saranno care; il vino e l’olio, poi, carissimi. Se, nel solstizio estivo, la luna è sorpresa nello Scorpione l’anno sarà secco e tardivo nei frutti; si avranno grandinate e burrasche; le sementi e qualunque cosa è sotto la terra andrà perduta: così ci sarà assolutamente fame e rovina di uomini. Se la Luna occupa il Sagittario in conversione col centro estivo ci saranno inondazioni, vapori, piogge con grandini, morte di volatili, naufragi non piccoli, diminuzione di frutti sugosi, abbondanza di secchi. Se la Luna, nel solstizio estivo, occupa il Capricorno, l’aria abbonderà di pioggia a tal punto che i frutti verranno raccolti con difficoltà, e di contadini si pentiranno dello zelo avuto nel seminare. Ma quasi per insperata decisione divina vi sarà abbondanza di vino e di olio; e la condizione dell’aria non sarà affatto malsana. Con la Luna nell’Acquario o nei Pesci, c’è da prevedere più o meno la medesima aspettativa di frutti. Inoltre ci saranno meno pesci, soprattutto fluviali, e tutti quelli che siano fuori del mare, diminuiranno.
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I FULMINI Parlare della natura delle cose e di come gli antichi credevano che i fulmini nascessero, avendone essi sufficientemente studiato la ragione, non è ormai più opportuno; né il nostro assunto era questo, bensì quello di indagare in qual modo nella disciplina dei Tusci (Thouscōn paradosis) i fulmini sono distinti, e cosa annuncino cadendo. A proposito, bisogna sapere che i fulmini non cadono per tutto l’anno. Infatti, non si verificano frequentemente in estate e in inverno223, bensì in primavera e in autunno224, sotto il sorgere delle Pleiadi e di Arturo. Si sa, infatti, che i fulmini non cadono in Scizia né, come dirò brevemente, attorno al cardine settentrionale, né attorno all’australe: ciò per lo stato freddo e caldo del cielo in quei luoghi225. In Italia, essi cadono molto spesso perché lì l’aria è ovunque per lo più temperata226. Tutta la regione, infatti, viene a trovarsi sotto l’Appennino, ed è sotto l’azione di venti come l’Aquilone, il Favonio e il Maestrale delle Alpi. La parte meridionale, poi, è soffiata costantemente dall’Austro, e non da quell’Austro secco e grave, ma soprattutto da quello che feconda ogni cosa. Esso nasce da quel grande mare che dall’Atlantico si estende fino a Gade; e con afflato refrigerante tempera il vaporifero e pestilente calore dell’Austro meridionale. Causa efficiente della giusta temperatura della regione è anche 223
Crf. Plinio, Storia Naturale, II, 135: “D’estate e d’inverno i fulmini sono rari (Hieme et aestate rara fulmina)”. 224 Ibidem: “vere autem in autumno crebriora fulmina”; Cfr. Arrhian, ap. Stobaeum. ecl. phys. I, 29, 2, p. 238, 5. 225 Cfr. Plinio, op. cit., II, 135: “quae ratio inmunem Scythiam et circa rigentia fulminum casu praestat, e diverso nimius ardor Aegyptum”; Arrhian. l, s. p. 238, 9 ss. 226 Cfr. Plinio, op. cit., II, 136: “qua ratione crebra in Italia, quia mobilior aer mitiore hieme et aestate nimbosa semper quodammodo vernat vel autumnat”.
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il fatto che la sua parte superiore (oriente) è bagnata dal mar Ionio (Adriatico), e quella inferiore (occidente) dal Tirreno. Per questo gli animali partoriscono anche due volte all’anno, e il formaggio “né manca a Bacco né le messi al giusto momento” (Omero, Odissea, XII, 76). Queste sono le cose in lode dell’Italia. Diversa e non univoca è la natura dei fulmini. Dagli antichi alcuni furono chiamati “fumosi” (psolòentas; lat. fumida), altri “splendenti” (argētas; lat. candida), “irrompenti” (skēptoùs; lat. irruentia), “folgori che accendono e bruciano” (prēstēras; lat. presteres). Non tutti, infatti, agiscono allo stesso modo. Vi sono anche di quelli che tornano verso le nubi squarciate da dove si erano staccati. Le “folgori che accendono e bruciano (prēstēras)” sono chiamate “incandescenti” (diàpyroi; lat. ardentia); quelle che sono senza fuoco, “tifoni” (Tyfōnes; lat. Typhones), e più ancora i “ritornati” (aneiménoi; lat. remissa), “uragani” (eknefìai; lat. ecnephiae). “Egide” (aigides) si chiamano quelle che vengono giù in una massa di fuoco. La tradizione le pone attorno all’egida di Giove, volendo significare che l’atmosfera è la causa delle tempeste e dei turbamenti. Vi sono pure fulmini d’altro genere. I Libri (tà Biblìa)227 li chiamano “elicoidi” (elikìas; lat. intorta) perché cadono con andamento elicoidale. A questo proposito è da considerare la natura e la difficoltà della sua osservazione. Infatti, sebbene tutti siano venuti dall’alto aere e col concorso delle nubi, non operano ognuno allo stesso modo. Capita spesso che, fra questi, quello detto “splendente”, e che gli antichi chiamano anche “chiaro” (lampròs ; lat. clarus) in raffronto agli altri, cadendo in una giara, e comunque in un vaso di vino o d’acqua, lasci integro il coperchio, ma, finito dentro, annienti il contenuto228. Capita parimenti che pene227
Ovviamente i Libri Etruschi ovvero Tagetici. Cfr. Plinio, op. cit., II, 137: “tertium est quod clarum vocant mirificae maxime naturae, quo dolia exauriuntur intactis operimentis”. 228
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trando a quel modo in cassette contenenti oro o argento, liquefaccia le cose che son dentro, e lasci intatte le esterne229. E fra tutti, dice il grande Apuleio (Plinio?), massimamente meraviglioso è quel che accadde a una moglie gravida, e non ad una qualunque, ma proprio a Marcia, quella che sposò M. Catone minore. Quel fulmine, che è detto “chiaro” o “bianco splendente”, cadendo su di lei, la preservò completamente illesa, e sciolse il suo parto, senza alcun senso di dolore, fino al punto che neppure essa stessa avvertì qualcosa, quantunque non fosse lontana dal parto230. Tale è l’esimia forza propria della natura del fulmine “splendente”. In generale, poi, fra tutte le cose nate dalla terra, il lauro ed il fico si conservano illesi e non vengono minimamente colpiti dai fulmini231. Essi sono, infatti, peculiari al sole. Onde si dice che Apollo ami Dafne (il lauro), come il sole; e, mutatosi in leone, invece che in fuoco, non nuoccia al lauro232. Fra i volatili, l’aquila, fra i marini il vitello marino: per questo si ritiene che l’aquila sia armata di fulmine e peculiare di Giove233. La testimone esperienza ha dimostrato che la foca è pochissimo colpita dalla caduta dei fulmini234. Per questo, le tele delle navi su cui salgono i re (basileis) sono state cucite con pelli di foca. 229 Cfr. Plinio, op. cit., II, 137: “aurum et aes et argentum liquatur intus sacculis ipsis nullo modo ambustis ac ne confuso quidem signo cerae”. 230 Cfr. Plinio, op..cit., II, 137: “Marcia princeps Romanorum icta gravida partu exanimato ipsa citra ullum aliud incommodum vixit”. 231 Cfr. Plinio, op. cit. II, 146: “ex his quae terra gignuntur lauri fruticem non icit”; Plutarco, Symp. , V, 9,4. 232 Cfr. Plinio, op. cit. XV, 134: “(laurus) grata Apollini visa [ ... ] quia manu satarum receptarumque in domos fulmine sola non icitur”; 135: “laurus quidem manifesto abdicat ignes crepitu et quadam detestatione”. 233 Cfr. Plinio, op. cit. II, 146: “ne volurius (percit fulmen) aquilam, quae ab hoc armigera huius teli fingitur”. 234 Cfr. Plinio, op. cit., II, 146: “pavidi ... tabernacula pellis beluarum, quas vitulos appellant (tutissima putant), quoniam hoc solum animal ex marinis non percutiat”.
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Non capita mai che il fulmine, staccatosi dal cielo, scenda nella terra più a fondo di cinque piedi. Per la terra, è questo, infatti, il massimo numero235. Talora i fulmini cadono pure a cielo sereno. Se questo accade, non occorre più indagare il sole nei segni zodiacali (Zōdìois) o qualche comprovata interpretazione del futuro, ma denunciare subito rivolgimenti e rovine per lo Stato e per tutta la regione dove l’evento è accaduto. Inversamente, Nigidio, nel suo Esame dei sogni, fornisce una diversa interpretazione dei fulmini. Egli dice che, nella pratica, il fulmine rappresenta in generale qualcosa di funesto per tutti, anche quando non causi danni; ma che per coloro che in sogno immaginano di vederlo, esso costituisce il felice presagio d’una brillante fortuna. D’altra parte vale la pena indagare la Luna su altri prodigi. L’antichità aveva indagato il sole sui soli fulmini. E certo è dimostrato che il sole è causa e dispensatore di natura calda e di fuoco, e soprattutto di quel fuoco, dico, col quale la luna non ha niente a che fare. Infatti cos’è più efficace del fulmine? Cosa è più infuocato? Per cui, giacché non solo è fuori dall’umidità, ma dissolve pure tutte le cose che in qualche modo gli si espongono, è ovvio che la luna è aliena dai fulmini. Ha, infatti, natura umida, ed è posta in una fascia umida: dunque non può dare presagi per mezzo del fulmine. Il sole, inversamente, è la causa del fulmine. Per questo dai mitografi è chiamato sia Giove che Elio, e porta il fulmine, e sua ministra è l’aquila236. E pure tutte le cose che hanno natura calda sono congiunte al sole. Giu235
Cfr. Plinio, op. cit., II, 146: “nec umquam quinque altius pedibus descendit in terram”. 236 Cfr. Plinio, op. cit. II, 82: “latet plerosque magna caeli adsectatione compertum a principibus dotrinae viris (i.e. Babyloniis, cf. II, 191) superiorum trium siderum ignes esse qui decidui ad terras fulminum nomen habeant, sed maxime ex his medio loco siti, fortassis quondam contagium nimii umoris ex superiore circolo atque ardoris ex subiecto per hunc modum egerat, ideoque dictum Iovem fulmina iaculari”.
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stamente, dunque, gli antichi, nella teoria dei fulmini (epì tēs tōn keraynōn theōrias; lat. In Fugurali disciplina), hanno osservato il sole e non la luna. Noi, quindi, li seguiremo, e riporteremo alla lettera le loro parole. Sole in Ariete. Se il fulmine cade sulla terra, bisogna considerare quale albero colpisca. Cadendo, infatti, non suole vagare, ma precipita direttamente giù con fragore e senza errare. Che se tocca la vite, vi sarà diminuzione di vino; se poi qualche albero, annuncia diminuzione dei suoi frutti. Se cade nel fiume, lo stesso fiume diventerà carente d’acqua, e i pesci moriranno. Se poi cade nel mare, bisogna osservare il luogo in cui la fiamma viene rapita. Infatti, soprattutto quel luogo, ma non quello solo, bensì pure la zona attorno, sarà turbata dalla guerra o dalle insidie dei pirati. Se cade in un luogo di proprietà statale o d’uso comune, annuncia guerre civili, sedizioni e rivolgimenti politici. Esso non solo muterà il luogo stesso in cui si abbatte, ma ne distruggerà pure la fortuna. Se il fulmine colpirà il muro (della città) senza provocare danni, significa arrivo di nemici. Se poi parte del muro presenterà un danno, bisogna osservare da quale parte del templum augurale è venuto il prodigio, e verso quale regione del cielo guarda la parte del muro colpita, e aspettarsi che da lì provenga il nemico. Se il fulmine colpisce un luogo consacrato, si prevedono pericoli per i personaggi importanti dello Stato e per quelli che hanno a che fare con il Regno. Se cade sulle statue minaccia varie e continue difficoltà nelle cose. Così, come, infatti, gli antichi considerarono le statue quali caratteri ed ornamenti delle città, così essi ritennero infausti i loro danni. Sole in Toro. Se il fulmine cade sopra un albero fruttifero significa abbondante nascita per i suoi frutti, ma cose dannose per i bovini. Se cade in un fiume, l’acqua imputridirà
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di peste, il tremore invaderà i corpi degli uomini, ed avverrà la fine dei pesci fluviali. Se in questo periodo il fulmine precipita nel mare, il fatto preannunzia cose buone per i vicini. Coloro che praticano la pirateria si troveranno in condizioni meno buone. Se precipiterà sulle mura sarà infausto per gli animali: questi, infatti, o morranno o saranno rubati dai nemici. Se poi anche una parte delle mura sarà rovinata dalla caduta del fulmine, questo fatto minaccia epidemie per le greggi delle campagne ed incursioni di nemici non facilmente contrastabili; ci saranno pure altre perdite molto dannose. Se nello stesso periodo il fulmine colpisce un luogo sacro, ciò minaccia calamità nei luoghi pubblici. E’ opportuno che coloro che attendono a tali santuari facciano in modo che le cose minacciate siano scongiurate. Se il fulmine cade su una casa ordinaria o regale, il fatto annuncia per i proprietari inaspettate disgrazie. Sole in Gemelli. Al sorgere di questo segno, qualora il fulmine cade su un albero fruttifero sarà dannoso per i contadini e per gli alberi da frutto, ed anche per i fiumi e le fonti: l’acqua diverrà pestilente cosicché ogni età sarà infettata. Se cade in mare minaccia arrivo di nemici. La maggior parte dei vicini morirà di malattia o sarà consegnata ai nemici, e così resteranno pochi superstiti. Se il fulmine cade in un’area pubblica mentre soffia l’Austro, minaccia per gli uomini somma rovina: saranno due a pretendere il potere del Regno (katà tēs basileías = verso il Regno Federale?), essendosi divisi l’Assemblea (tēn boulēn). Poco dopo ambedue periranno, ma per causa loro molti correranno pericoli. Se in questo periodo il fulmine si scaglierà con impeto sulle mura, pronostica le stesse cose: infatti, ci saranno guerre favorevoli al nemico. Bisogna anche considerare da quale regione del cielo il fulmine si sia staccato: occorre sorveglianza e cautela da quella parte perché è quella la via donde verrà il nemico.
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Sole nel Cancro. Se durante la levata del Cancro il fulmine cade in un bosco, il caldo della stagione sarà più tollerabile; tuttavia ci sarà scarsità d’acqua. Se cade in mare, quella zona sarà turbata da flotte nemiche e da battaglie navali, però non a lungo. Le cose infatti cominceranno a migliorare, i nemici saranno messi in fuga e le loro flotte affondate. Se invece il fuoco si porta in un luogo pubblico, animali, serpenti e giumenti avranno molestie, e pure gli uomini; e ci sarà un male più violento portato da quelli perché infiammato dalla grave stasi dell’aria. Se precipita sulle mura significa incendi, e si smuoverà una guerra non buona per la cosa pubblica. Se il muro è distrutto interamente dall’impeto del fulmine, bisogna temere incendi nelle parti principali della città (póleōs). Questi incendi saranno provocati da doli ed insidie. Seguirà una guerra non piccola, e ci saranno danni ai luoghi. Sole nel Leone. Durante questo tempo, se il fulmine irrompe in qualunque luogo o parte sia del fiume che del mare significa rovina per i re (toĩs basileũsi) e per coloro che esercitano il potere (kaì toĩs ẻn dynasteĩais sēmeĩtei); e di ciò non si potrà discutere. Nessuna meraviglia se per gli uomini pubblici spunteranno universali calamità. Infatti, com’è naturale, correranno pericolo insieme ai re (toĩs basileũsi). E fra i combattenti non ci sarà un vincitore; anzi, ci sarà totale rovina sia di quelle stesse autorità, sia di quelli che avevano combattuto per loro. Ma la cosa peggiore di tutte è che verranno meno anche le sostanze del popolo; e le città (aỉ pòleis), arse da incendi, andranno in rovina. Sole nella Vergine. Quando il sole è giunto nella Vergine, se cade giù un fulmine è minaccia di rovina per le don-
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ne virtuose, e sciagura per la stessa regina (basilídi)237 e per i suoi figli. Ci sarà riduzione dei demi (tõn démōn); anche la vigna deluderà la speranza; le calamità affliggeranno le vergini e le spose fino al punto che cadranno persino nelle mani dei nemici. Sole nella Libra. Se accade che un fulmine cada quando il sole è entrato nella costellazione della Libra, ogni ingiustizia e ingordigia e brama di potere assaliranno la cosa pubblica, al punto che sarà recata ingiuria alla stesse cose divine. Dai re (tõn basiléōn) saranno rimossi dalle cariche pubbliche i cittadini onesti. Le cose vendute a misura e peso non daranno il giusto. Soprattutto poi sarà gravissima l’aspra esazione delle pubbliche tasse. Le leggi saranno disprezzate. I demi (oỉ dẽmoi)238 poi si sommuoveranno irragionevolmente; e si manifesterà in ogni maniera anche l’ira della divinità. Sole nello Scorpione. Se il fulmine cade su un albero quando il sole è entrato nello Scorpione, promette ricchezza per il proprietario dell’albero, ma l’agricoltura diminuirà. La navigazione sarà rischiosa, il mare sarà assalito da fitti fulmini, e avverranno molti naufragi. E, se il fulmine precipitando colpirà un luogo pubblico, un giovane crudele si impossesserà del Regno (tẽs basileías), correndo insieme a lui dissoluti e corrotti. Se il fulmine cade sulle mura bisogna temere guerra dai confinanti, e danni alla gioventù. Però i nemici incorreranno in mali senza fine tanto d’apparire a loro preferibile la morte.
237
B. G. Niebur (Corpus Scriptorum Historiae Bizantinae, Weberi, Bonne, 887, p. 346) tradusse in latino arbitrariamente: “Augustae”, intendendo la moglie dell’imperatore romano.. 238 B. G. Niebur (op. cit., p. 346) tradusse in latino arbitrariamente : “tribus populi Romani (le tribù del popolo romano)”.
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Sole nel Sagittario. Se quando il sole è entrato nel Sagittario il fulmine cade in una selva, minaccia incendio alle navi. Se esso cade in un fiume significa guerre e battaglie navali tanto che da questo assalto molti rimarranno soli. C’è pericolo soprattutto d’una vittoria di Persiani, ed indigenza per le città assediate dai nemici. E se la forza del fulmine si indirizza verso il tramonto del sole vuol dire guerre civili. Saranno tuttavia discordie temporanee, e le cose cominceranno ad andare per il meglio, soffocati gli stessi autori dei disordini, e in tal modo la vita pubblica godrà della pace. Sole nel Capricorno. Di questo tempo, se il fulmine cade in qualsiasi luogo significa gioia universale, pace per le città (taĩs pólesi = città della Federazione?), fertilità per i campi, e lode ai Re dello Stato e ai loro grandi (ẻpainón te toĩs basileũsi tẽs politeías kaì toĩs megistánois aủtõn). Sole nell’Acquario. Se il fulmine cade in questo periodo minaccia straripamento di fiumi e rovina di contrade. L’estate sarà torrida, ed olio e vino diminuiranno, cosicché molti, spinti dalla povertà, emigreranno. Sole nei Pesci. Se il fulmine cade quando il sole è entrato nei Pesci, c’è minaccia di tempeste marine, accadranno funesti naufragi e perdita di pesci, e soprattutto il mare sarà infestato da predoni. Un nobile giovane, tuttavia, eliminerà con la guerra queste piraterie, e diverrà famoso per la sua vittoria. E’ stato dimostrato più sopra che i fulmini non cadono in Scizia né in Egitto, tuttavia se per caso in quel tempo cadono in queste regioni la cosa significa eventi fausti per gli abitanti.
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6. FRAMMENTI DA AUTORI VARI. Lattanzio, Commento alla Tebaide di Stazio, IV, 516: “Innumerevoli, poi, filosofi e magi, e pure i Persiani ritengono vero che, oltre agli dèi conosciuti e venerati nel templi, ve ne sia un altro supremo e più signore di tutti, ordinatore d’altri numi della cui stirpe è solo il Sole e la Luna. Gli altri, poi, quelli che, come si dice, vanno portati in giro nella sfera (gli dèi dello zoodiaco), splendono in virtù del suo spirito: questo secondo la testimonianza innanzitutto di Pitagora, di Platone di Tagete stesso”. Cicerone, La divinazione, II, 28: “Gli Etruschi, almeno, hanno per autore della propria disciplina il fanciullo arato fuori; noi chi?”. Ovidio, Metamorfosi, XV, 552: “E le ninfe si commossero per il nuovo accadimento, ed il figlio dell’amazzone sbalordì non diversamente da come quando il contadino tirreno vide nel mezzo del campo la fatale zolla scuotersi da sé per la prima volta, senza che nessuno la muovesse, e subito perder la forma della terra e prender quella umana, ed aprir bocca per (predire) le sorti dell’avvenire. Gli indigeni lo chiamarono Tagete, e lui per primo insegnò alla gente etrusca come scoprire le vicende future”. Festo, Sul significato delle parole: “Tagete di nome, figlio di Genio (Genio Gioviale), e nipote di Giove. Si dice che da fanciullo diede l’insegnamento dell’aruspicina ai dodici popoli dell’Etruria”. Arnobio, Adversum nationes, II, 69: “Prima che il tusco Tagete raggiungesse le sponde della luce, c’era forse chi sapesse o si curasse di conoscere o d’imparare se i colpi dei fulmini o le vene delle interiora annuncino qualcosa?”.
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Censorino, Sul giorno di nascita, IV, 13: “Anche nell’agro tarquiniese dicono che arando fosse stato tratto fuori (dalla terra) il divino fanciullo chiamato Tagete, il quale cantò la disciplina dell’aruspicina, che i Lucumoni dominanti allora in Etruria scrissero accuratamente”. Macrobio, Saturnalia, V, 19,13: “Citerò le parole del curiosissimo e dotto Carmina, il quale nel secondo libro intorno all’Italia dice che prima anche i Tusci usavano spesso il vomere di bronzo per fondare le città. Lo trovo anche nei loro sacri (libri) Tagetici”. Marziano Capella, Le nozze di Mercurio e Filologia, II, 156-157: “Tagete emerse dal solco, e subito indicò il rito del popolo”. Marziano Capella, ibidem, VI, c. 37: Tirreno <<che, benedetto dalla fecondità del suolo, occupò la regione dell’Etruria, famosa sia per l’alleanza di Enea indigete sia per l’origine dei rimedi, e per aver arato fuori (dalla terra) lo stesso Tagete>>. Servio, All’Eneide, I, 2: “Certo non a caso (Virgilio) chiama Enea profugo per destino, bensì secondo la Disciplina Etrusca. Infatti, nel libro intitolato Testo del diritto dell’Etruria (ius terrae?), è scritto con le parole di Tagete che quello il cui genere discende dagli spergiuri dev’essere per destino esule e profugo”. Servio, All’Eneide, VIII, 398: “Ma i Libri Etruschi dicono che questa proroga dei disastri imminenti può essere ottenuta prima di tutto da Giove, poi dai Fati, perciò anche qui (Virgilio) dice: Nè il padre onnipotente né i Destini lo vietavano. ... Ma bisogna saper che secondo i Libri dell’A-
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ruspicina e i Testi sacri Acheruntici, i quali, come dicono, compose Tagete, i destini vanno per qualche ragione prorogati di dieci anni. Quel che ora Vulcano dice possa esser accaduto non è dunque contrario, perché i destini si prorogano soltanto, ma non si cambiano mai interamente”. Servio, Alle Egloche, IV 43: “Nei Libri degli Etruschi, infatti, si tramanda che se quest’animale (ariete) apparirà colorito d’una tinta strana ed insolita, si preannuncia all’imperatore felicità in ogni cosa”. Isidoro di Siviglia, Etimologie, VIII, 9,34-35: “Dicono che un certo Tagete avesse tramandato agli Etruschi l’arte dell’aruspicina. Egli dettò anche l’aruspicina ... e poi non comparve più. Poiché favolosamante si dice che mentre un contadino arava, costui saltò subito fuori dalle zolle, dettò l’aruspicina, e nello stesso giorno morì. I Romani tradussero questi libri dalla lingua etrusca nella loro propria”. Giovanni Lido, Sui mesi, fr.2: “Secondo i cosiddetti climatarchi, Tagete ritiene che fra la gente di qualsiasi luogo nascono i demoni loro sottoposti, i quali dimostrano la loro potenza nelle azioni umane; come i Traci sono avidi per le rapine ed avidi per l’influenza di Marte, e quelli d’Oriente caldi e avidi d’oro e vigili per l’abbondanza di esso, poiché sottoposti ai demoni solari e indirizzati per natura”. Giovanni Lido, Sugli ostenta, 54, c: “Lo stesso Vicellio, infatti, il romano, dai versi di Tagete ( su cui più tardi anche Apuleio riferì con discorso prosastico e libero) dice questo con le stesse parole (si parla di terremoti che annunciano altri guai)”. Lucano, Sulla guerra civile, I, 584: “Gli dèi assecondino quel che abbiamo veduto; non si dia alcuna fede alle Fibre,
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e si faccia come se Tagete, l’iniziatore dell’arte aruspicina, abbia finto queste cose. A questo modo il tusco vaticinava volgendo i cattivi presagi, e nascondendo molto”. Servio, All’Eneide, III, 781: “Tusci poi sono detti per la frequenza dei sacrifici, cioè apò thyein. Consta infatti che ricevettero l’aruspicina da Tagete, come ricorda Lucano (I, 636): ma Tagete, fondatore dell’aruspicina, abbia finto queste cose”. Commento bernense a Lucano, I, 636: “Tagete, in lingua etrusca significa voce mandata fuori dalla terra. Si racconta che questo Tagete nacque all’improvviso mentre si arava la terra. Egli scrise i Libri delle profezie. Tagete. Dicono che la scienza dell’aruspicina fu proclamata in Etruria. Poiché Tarquinio, il flamine diale, mentre arava per fare la semina, si dice che arando scavò il nipote di Giove, figlio di Genio (Genio Gioviale). Questo ai dodici figli di principi dettò la scienza dell’aruspicina e poi non comparve più. Egli, siccome nacque dalla terra, fu chiamato Tagete, apò tes ges, che nella lingua etrusca vuol dire voce mandata fuori dalla terra”. Columella, Sulla vita rustica, X, vv. 337-347: “Affinché gli agricoltori non soffrissero questi malanni, la stessa esperienza delle cose ed il lavoro indicarono sistemi di salvezza per i poveri agricoltori; l’usanza, poi, come maestra, tramandò loro di placare i venti furiosi e di respingere le tempeste per mezzo delle cerimonie tusche; così, la cattiva Ruggine, perché non seccasse le piante ancor verdi, veniva placata col sangue e con le viscere d’un cucciolo lattante. Si dice, dunque, che il tirreno Tagete fissò al confine del paese la testa di un asinello scuoiata; e che Tarconte, per allontanare i fulmini del grande Giove, circondò spesso la propria casa con bianche viti”.
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Orosio, Historiarum Adersus Paganos Libri Septem, XXI, 15,6: “Il rivelatore di questa disciplina fu uno di nome Tagete: costui, secondo quanto si favoleggia, fu visto emergere all’improvviso dalla terra nelle parti dell’Etruria”. Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri, XVII, 10: “Egli, che incitava spesso sia i singoli che tutti quanti ad agire con coraggio, ora sembrava sconsigliare di combattere: si mostrava abietto e timido, temendo forse la morte che s’avvicinava. Nei Libri Tagetici o Vegoici si legge, infatti, che quelli che stanno quasi per esser colpiti dal fulmine diventano deboli tanto da non udire né il tuono né altri più forti suoni”. Cfr. Servio, All’Eneide. II, 72: “Questi libri (i Sibillini venduti a Tarquinio dalla donna di nome Amaltea) si conservano nel tempio di Apollo, e non sono solo essi, ma anche quelli di Marcio e della ninfa Begoe la quale aveva scritto sull’arte dei fulmini presso i Tusci”. Macrobio, Saturnalia, III, 7,2: “Ma nei Libri degli Etruschi si tramanda che se quest’animale (ariete) apparirà colorito d’una insolita tinta. Si preannuncia per l’imperatore felicità in ogni cosa. Su ciò, v’è un Libro di Tarquizio, trascritto dall’Ostenetario Etrusco, dove si dice che, se la pecora o l’ariete è spruzzato di tinta purpurea o aurea, aumenta al principe dell’ordine o della stirpe l’abbondanza con massima felicità; la stirpe moltiplica la progenie nello splendore e la rende più gioiosa.”. Festo, Sul significato delle parole, W. M. Lindsay, p. 358, v. 21: “Rituali si chiamano i Libri degli Etruschi dove è prescritto con quale rito si fondano le città, e si consacrano le are e i templi; con quali cerimonie le mura, con quale diritto le porte; come si dividono le tribù, le curie e le centu-
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rie; come si istituisce ed ordina l’esercito; ed altre siffatte cose che riguardano la guerra e la pace”. Fulgenzio, Sermoni antichi, IV, 11: “Labeone che, in quindici libri, spiegò gli insegnamenti di Tagete e Bacilide, dice così: Se le fibre del fegato hanno il colore di sandracca, bisogna allora mettere in moto le pietre maniali, cioè quelle che gli antichi usavano trascinare come cilindri per i confini per porre rimedio alla mancanza di pioggia”. Fulgenzio, Sermoni antichi, IV, 48: “Praesegmina, sono le parti del corpo tagliate, come dice Tagete, nei (libri) aruspicini: amputati i praesegmina”. Arnobio, Adersus Nationes , VII, 26: “Né l’Etruria genitrice e madre della superstizione conobbe l’idea e la forma (dell’incenso) come indicano i riti delle cappelle (VII, 26)... Né ciò che affermano i magi …, né ciò che promette l’Etruria nei Libri Acherontici, che cioè dopo aver offerto il sangue di certi animali a certi numi le anime diventano divine e vengono liberate dalle leggi della mortalità. Queste sono lusinghe vane e fomenti di voti inutili … Può l’Etruria ammazzare quante vittime vuole (ciò non giova nulla) (II, 62)”. Macrobio, Saturnalia, v, 19, 13. – F. Eyssenharde, p. 333, v. 6: “Ma citerò le parole del curiosissimo e dotto Carmina il quale, nel secondo libro sull’Italia, dice così: che inizialmente dunque anche gli Etrusci usavano di solito il vomere bronzeo, mentre si fondavano le città. Lo trovo anche nei loro Sacri (Libri) Tagetici; e presso i Sabini coltelli di bronzo coi quali si rasavano i sacerdoti”.
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FRAMMENTO DELLA
NINFA
VEGOIA
(Riportiamo questo passo anche se non appartiene ai Libri Tagetici)
Gromatici Veteres: Parimenti di Vegoia ad Arunte Veltimno: devi sapere che il mare fu separato dalla terra. Quando Giove scelse per sé il territorio dell’Etruria, stabilì e comandò che fossero misurati i terreni e contrassegnati i poderi. Ma, conoscendo l’avarizia degli uomini e l’avidità loro per il possesso dei terreni, volle che fossero distinti con termini ... Quegli che li avrà toccati e smossi per aumentare il proprio possesso con danno altrui sarà per questo delitto punito dagli dèi. Se ciò faranno i servi, essi cambieranno il padrone con un altro più cattivo; ma se il delitto sarà stato perpetrato con la consapevolezza del padrone, la sua casa sarà in breve soppiantata, e tutta la sua famiglia perirà; gli esecutori poi del delitto saranno afflitti da gravissimi morbi, colpiti da ferite, e paralizzati nelle loro membra. Di più la terra sarà allora sconvolta da tempeste o turbini; i frutti saranno danneggiati e distaccati dalle piogge e dalla grandine, periranno per gli eccessi del caldo, e cadranno per malattie. Vi saranno molte discordie civili. Sappiate che questo avverrà quando si commetteranno delitti simili. Ricordati perciò di non ingannare, né tenere un duplice linguaggio, e poni il giusto freno nel cuor tuo (Trad. Nogara, Gli Etruschi e la loro civiltà, 1933, p. 240).
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I LIBRI ACHERONTICI Servio, ad Verg. Aen., VIII, 398: Ma i Libri Etruschi dicono che questa proroga dei disastri imminenti può essere ottenuta prima di tutto da Giove, poi dai Fati, perciò anche qui (Virgilio) dice: “Nè il padre onnipotente né i Destini lo vietavano”. ... Ma bisogna saper che secondo i Libri dell’Aruspicina e i Testi sacri Acheruntici, i quali, come dicono, compose Tagete, i destini vanno per qualche ragione prorogati di dieci anni. Quel che ora Vulcano dice possa esser accaduto non è dunque contrario, perché i destini si prorogano soltanto, ma non si cambiano mai interamente. Limitatamente alla vita umana, Varrone e Censorino ci informano che i Libri Fatali degli Etruschi delimitavano La vita umana con dodici ebdomadi (cioè con 12 volte sette anni) [...]. E fino a settanta anni si poteva evitare il destino con mezzi religiosi; però dal settantesimo anno in poi non si poteva chiedere né ottenere nulla dagli Dei239. Oltre a questa proroga della brevità della vita, c’è un punto della dottrina acherontica capace di rendere immortali le anime degli uomini e trasformarle in dèi. Dice Arnobio: Nè l’Etruria genitrice e madre della superstizione conobbe l’idea e la forma (dell’incenso) come indicano i riti delle cappelle (VII, 26) ... Né ciò che affermano i 239
Censorino, De die natali, II, 14,6.
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magi … , né ciò che promette l’Etruria nei Libri Acherontici, che cioè dopo aver offerto il sangue di certi animali a certi numi le anime diventano divine e vengono liberate dalle leggi della mortalità. Queste sono lusinghe vane e fomenti di voti inutili [ … ] Può l’Etruria ammazzare quante vittime vuole (questo non giova a nulla) (II, 62)240. Servio, a sua volta, ricorda che Labeone, nel trattato “Gli dèi Animali (De diis animalibus)”, aveva detto che esistono sacrifizi in base ai quali le anime degli uomini si trasformano in dèi che per la loro origine son detti appunto “Animali (Animales)”. Labeone è anche l’autore del Trattato sui fulmini” composto secondo la disciplina dei Tusci (Thouscōn paradosis), e tradotto dal Latino in Greco da Giovanni Lido (vd. p. 181 ss.). LA TEGOLA DI CAPUA. Nel 1899 si è rinvenuta nella necropoli etrusca di Capua, in Campania, una lastra di terracotta alta c. 62, e larga cm. 47 recante un’iscrizione di 62 righe con andamento alternato e rovesciamenti di lettere. La si fa risalire al 470 a.C. circa. Il suo stato di conservazione è molto cattivo: restano leggibili circa trecento parole punteggiate anche sillabicamente. Il testo è diviso in dieci sezioni. La loro comprensione è molto difficile e discussa. Nelle 10 sezioni alcuni hanno voluto vedere un calendario composto di 10 mesi. Ciò in base a una credenza che anche gli antichi romani avrebbero avuto un calendario di 10 mesi241. Noi sappiamo, però, che per gli Etruschi l’anno, che si faceva risalire a Tagete, era di 12 mesi, e cominciava con la luna nuova susseguente al solstizio estivo (21 240
Arnobio, Adversus Nationes , II, 62; VII, 26. Censorino, De die natali, XXIII, 30: “alcuni credevano che i mesi siano stati 10 come una volta accadeva presso gli Albani dai quali i Romani ebbero origine. I loro 10 mesi mesi comprndevano nel complesso 304 giorni” che andavano da Marzo a dicembre.
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Giugno). Alcuni per affermare il presupposto dei dieci mesi hanno voluto trovare nel testo nomi di mesi non altrove documentati, e spesso in contrasto coi nomi dei mesi che noi già conosciamo da antiche glosse. Ci sembrano perciò più nel giusto coloro che hanno pensato a nomi divini. Per gli uni e per gli altri è comunque evidente il senso prescrittivo e funerario del testo, e la derivazione da un più antico formulario sacrificale legato a quei Libri Acherontici che si dicevano dettati da Tagete a Tarconte. In merito a ciò, qualche interesse ha il vocabolo tarchuth che si incontra nel testo. Esso potrebbe avere qualche riferimento diretto o indiretto a nomi come Tarquito, Tarchezio, Tagete (Tarchies) e Tarconte.
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LA TAVOLA CORTONESE La Tavola (III-II sec. a.C.) fu rinvenuta nel 1992 nei pressi di Cortona. Contiene un’iscrizione di quaranta righe in lingua etrusca, dove si riporta un atto di arbitrato per una eredità contrastata. La soluzione del caso viene rimessa alla legge Tarchiana242. Sappiamo infatti che esisteva un Testo di diritto della terra d’Etruria la cui composizione gli antichi facevano risalire a Tagete (etr. Tarchies)243.
242
Giulio M. Facchetti, Lingua etrusca, Newton & Compton, Roma, 2000, p. 198 ss. 243 Servio, All’eneide, I, 2.
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CAPITOLO
QUARTO
Il Liber Linteus della Mummia
di
Zagabria
1. IL LIBER LINTEUS. Nel 1848, il collezionista croato Mihajlo Baric, durante un suo viaggio in Egitto acquistò, non sappiamo come, una ben conservata mummia femminile, della quale non si conosce il luogo del rinvenimento. Quando le bende della mummia furono srotolate si notò che questa aveva i capelli rossi, e che una parte delle sue bende conteneva segni di scrittura. Più tardi, Jacob Krall, nel 1892, riconobbe che le bende erano composte da un liber linteus (rotolo di lino) redatto in lingua etrusca. Poiché il contenuto del documento è di carattere liturgico, è stato supposto ch’esso sia stato utilizzato per le celebrazioni religiose di una comunità etrusca emigrata in Egitto. Ma gli Etruschi non mummificavano; ed è anche poco probabile che una comunità religiosa etrusca abbia ridotto o abbia lasciato che altri avessero ridotto a benda per mummia un proprio libro sacro. E’ più probabile che il Liber Linteus abbia fatto parte delle fonti etrusche inserite dall’imperatore Claudio nei venti Libri di Etruscologia (Tyrrhenikà) ch’egli scrisse in greco, e che depositò nella biblioteca d’Alessandria d’Egitto attorno alla metà del I sec. d.C.244 In quegli anni egli aveva già risvegliato la nunzionalità dell’Ordine dei Sessanta Aruspici, esistente da lunga data a Tarquinia (vd. p. 141 ss); e pare che la sua prima moglie, Urgulanilla, fosse stata di famiglia tarquiniese. A 244
Svetonio, Vita dei Cesari: Claudio, XLII.
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Tarquinia, peraltro, esisteva una intensa produzione di lino245. Tutto questo potrebbe indicare anche quale fosse stata la prima fonte dalla quale uno scrivano incaricato da Claudio potrebbe aver ricopiato il Liber. Probabilmente, lo scriba estrasse e riassunse dall’archivio del Collegio dei Sessanta Aruspici uno dei Libres Rituales attribuiti a Tagete, perché l’imperatore lo potesse inserire nei propri Libri di Etruscologia che poi depositò nella biblioteca d’Alessandria d’Egitto. Più tardi, dopo la morte, la figura e le opere di Claudio furono ridicolizzate anche da Seneca e da Nerone. Ne parla lo stesso Seneca nei Ludi per la morte di Claudio; ed è probabile che fra gli Egizi, anche per l’incomprensibilità della lingua etrusca con la quale il Liber era scritto, e per il disinteresse verso gli ormai tramontati Etruschi, il rotolo di lino sia passato nelle mani di un rigattiere e poi finito in quelle di un imbalsamatore. 2. GRAFIA, CONTENUTO E DIVINITÀ DEL LIBER. Il nostro Libro è stato ricomposto per una lunghezza di m. 13,5 e per una altezza di cm. 39. Quel che ne rimane appare scritto con inchiostro nero per un totale di 12 colonne di circa 35 righe ciascuna. Esso doveva esser avvolto su se stesso o ripiegato come un codice. Il suo testo è ripartito in paragrafati separati da spazi vuoti o da linee tracciate con inchiostro rosso. Esaminando la grafia si nota che epsilon e digamma hanno forma eretta secondo un modello diffuso soprattutto in Etruria meridionale. Il segno a tridente, poi, usato per chi, phi, ypsilon, rho nonché la figura rettangolare del segno h rimandano alla forma recente dell’alfabeto utilizzato in Etruria meridionale a partire dalla fine del II sec. a.C. E’ stato poi notato che lo scriba, nelle numerose riproduzioni di una stessa parola, ha utilizzato una grande quantità di varianti ed oscillazioni grafiche (t/th; c/ch; ai/ei; s/ś/z). 245
Tito Livio, Storia di Roma, XXVIII, 45.
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Specifichiamo che la s (sigma) era usata nell’Etruria meridionale mentre la ś (tsade) lo era in quella settentrionale. Ora, nella lingua etrusca, le aspirazioni di alcune consonanti (c > ch; t > th) e la riduzione dei dittonghi (ai > ei > e) non furono parallele, ma si realizzarono nel corso del tempo. Quindi, le riscontrate diversità di scrittura implicano che differenti tradizioni grafiche confluirono e sedimentarono nel testo nel corso di numerose ricopiature fatte da scribi che di volta in volta utilizzavano le variazioni grafiche dovute al momento storico in cui essi scrivevano ed alla regione alla quale appartenevano. Proprio la natura cultuale del testo dovette determinare l’accumulo di differenti tradizioni grafiche senza che queste compromettessero l’originario valore semantico delle parole. E’ tuttavia probabile che il particolare scrivano del testo arrivato in nostro possesso venisse dall’Etruria settentrionale: ciò perché nello scegliere fra la “ś” settentrionale e la “s” meridionale egli ha scelto più volte quella settentrionale, almeno nei casi in cui questa connotava la desinenza del genitivo246. Come vedremo, la lingua e il contenuto del testo riflettono comunque gli ambienti della Scuola di Aruspicina esistente a Tarquinia dove anche in epoca tarda convenivano, per decreto del senato romano, i figli di tutti i prìncipi delle città etrusche per apprendere l’arte (vd. p. 141). Certamente, questi figli dei prìncipi dovevano saper scrivere o avere i loro scribi, meridionali e settentrionali; ed ognuno di loro doveva ricopiare con la propria regionale grafia l’originaria stesura dei Libri Tagetici. Peraltro, in alcune versioni del mito si diceva che Tagete avesse dettato le sue norme a tutti i figli dei principi etruschi convenuti a Tarquinia (vd. p. 165 ss.). Anche la lingua presenta varianti. Queste sono dovute alla permanenza di arcaiche formule rituali. Molti sostantivi, 246
Lo scriba scelse 99 volte la ś (tsade) settentrionale, e 12 volte la s (sigma) meridionale.
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poi, e nomi di dèi ripetono frequentemente quelli presenti nelle iscrizioni tarquiniesi, particolarmente nel “Rotolo di Laris Pulena” (vd. p. 141 e n. 8). Evidentemente, i Libri Tagetici da un lato mantenevano il contenuto e le formule rituali originari, e dall’altro si aggiornavano sia nella lingua che nel contenuto. Infatti, Cicerone che conosceva quei Libri, scrisse: Tagete parlò lungamente dinanzi alla folla di coloro che lo ascoltavano. Questi stettero a sentire attentamente ogni sua parola e la misero per iscritto. Inoltre, l'intero discorso fu quello in cui venne contenuta la scienza dell'aruspicina. Essa poi si accrebbe con nuove conoscenze da ricondurre a quei princìpi [...]. Gli Etruschi conservano questi scritti, e li considerano fonte della loro disciplina247. Quando, dunque, in un frammento della prima colonna del “Libro”, noi troviamo scritto ZICHRI . CN . THUNT [.?.] (= si deve scrivere questo nell’uno [libro?]) noi possiamo cautamente supporre che, nel testo integrale, chi parlava sia stato Tagete e chi scriveva sia stato Tarconte o comunque l’insieme dei dodici lucumoni convenuti sul luogo della rivelazione.
Fig. 41- LIBER LINTEUS. IL FRAMMENTO DELLA PRIMA COLONNA
247
Cicerone, De Divinazione , II, 50-51.
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Ciò consente anche di ipotizzare che quando nel proseguo del “Libro” incontreremo la formula ZICHNE . ŚETIRUNEC (= scritto e <stabilito> / scrisse e <stabilì>), le prescrizioni rituali che seguono alla formula siano quelle che si dicevano scritte da Tarconte o dai lucumoni sotto dettatura di Tagete. *** Quanto all’epoca a cui risale la stesura originaria del testo contenuto nel Liber, qualche significato dovrebbe avere il fatto che nelle righe finali della IX colonna si dice: nel giorno 27 il servizio divino si deve disporre nella sede del lucumone/di Lucumone (LAUCHUMNETI). Lucumone, in lingua etrusca, significa re, ma fu anche usato come nome personale; e Strabone (I sec. a.C.) racconta che questo era l’originario nome etrusco di quel re di Tarquinia, che divenne anche re di Roma e vi trasferì le insegne del potere federale (vd. pp. 74-77). L’originara stesura del testo del Liber dovrebbe comunque essere avvenuta a Tarquinia in epoca monarchica, vale a dire prima dell’ultimo decennio del VI secolo avanti Cristo quando la città passò ad un regime repubblicano governato da magistrati248. Peraltro, nei Libri Tagetici (soprattutto nel Calendario Brontoscopico) che abbiamo riportato in Italiano dalla
248
Dionigi di Alicarnasso (Antichità Romane, V, 3-4) racconta che Tarquinio il Superbo, detronizzato a Roma dai membri repubblicani della sua stessa famiglia (Tarquinio Collatino e Bruto figlio di Tarquinia), si recò nella città di Tarquinia perché questa intercedesse per fargli riavere almeno i suoi beni personali (507 a.C.); a tal fine corruppe i Magistrati della città, e questi lo condussero dinanzi alla Assemblea del Popolo. Tarquinia era dunque repubblica prima di Roma; e, forse dietro questa tradizione si cela il fatto che Roma divenne repubblica quando Tarquinia non permise più di regnare ai Tarquini di Roma.
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traduzione greca di Giovanni Lido, ci sono frequenti riferimenti a regni ed a regnanti.
Fig. 42 - Tarquinia. Sarcofago (IV-III sec. a.C.). Porta di ingresso agli Inferi: potrebbe essere stata raffigurata sulla falsariga della porta occidentale della città di Tarquinia.
*** Il testo del Liber Linteus consta di 12 colonne di scrittura. Queste contengono prescrizioni rituali pertinenti diverse festività. I colonna Nei pochissimi frammenti che restano non si nominano dèi. II colonna Contiene rituali per offerte agli “dèi Superni (AISERAŚ ŚEUŚ)”.
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III colonna Si parla di un rito da fare in onore di CRAPŚTI. Il nome di questo dio si ritrova solo a Tarquinia sul rotolo di Laris Pulena, dove è chiamato CRAPISCE (vd. p. 141, n. 8). Questo nome etrusco, peraltro, è comparabile con quello latino di GRAVISCA che era il porto di Tarquinia. Si è pure cercato un parallelo fra il nome di CRAPŚTI o CRAPISCE e quello della divinità umbra Grabovio. Ritroveremo il nome di CRAPŚTI nella quarta e nella sesta colonna. I suoi riti, rispetto a quelli degli altri dèi, occupano il maggiore spazio e si ripetono più volte. IV colonna Si ripete il rito in onore di CRAPŚTI. Si nomina pure un dio CEMNA-CH che L. B. van der Meer ha identificato con Iuppiter Ciminius (Giove Cimino), noto anche da un’iscrizione latina249, il cui nome rimanda a quelli del lago Cimino e della selva Cimina che si trovavano nel territorio di Tarquinia250. La Tabula Peutingeriana indica poi un Lucus (cod. lacus) ed un monte Ciminus accanto a Tarquinia. V colonna Si parla di un rito rivolto agli “dèi Inferi e Superni (EISER ŚIC ŚEUC)”. Si parla poi di un rito per la dea “Aurora (THESAN)” definita anche “Aurora di Giove (THESAN TINŚ)”, ed “Aurora degli dèi Superni (THESAN EISERAŚ ŚEUŚ). 249
Dessau, ILS, 3078; CIL, XI, 2688 L. B. Van der Meer, Liber Linteus Zagabriensis, Leuven, 2007, p. 22; 90-91. 250
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Fin dal VI sec. a.C., Thesan si trova su molti documenti epigrafici ed iconografici provenienti in genere dall’Etruria meridionale, soprattutto da Cere e dal gruppo dei vasi cosiddetti “de La Tolfa”. Più tardi verrà raffigurata su numerosi specchi in scene connesse con il mito greco: è noto uno specchio di Tuscania. Fuori dal mito greco, ritroviamo la dea su un altro specchio di Tuscania (f. 32) dov’ella e il dio Nettuno si trovano rispettivamente alla sinistra ed alla destra del dio Sole (USIL). Ricordiamo, in particolare, lo specchio di Tagete (da Tuscania) dove la dea, posta nel cielo al di sopra del divino fanciullo, guida la quadriga del sole nascente (f. 18). VI colonna Nelle prime sei righe si parla forse di riti per Giano da compiere nel mese di Maggio. Nella settima riga, poi, si trova scritto: “ETNAM VELTHINAL ETNAM AISUNAL THUNCHERŚ ICH ŚACNICLA”. C’è chi traduce: “sia delle umane (VELTHINAL) sia delle divine leggi ...”. Ma si può anche provare a tradurre: “sia di Velthina (VELTHINAL) sia dei collegi divini (AISUNAL THUNCHERŚ) come quelli di questo santuario (ICH ŚACNICLA)”. Nel nostro caso, Velthina potrebbe essere una variante, anche solo grafica, di Veltune (il dio federale che è accanto a Tagete nella scena graffita sul famoso specchio di Tuscania). Dalla nona riga si parla poi di un rito per LUS (Dioscuri?), nome divino che si ritrova sul bordo del fegato di Piacenza. Nella dodicesima riga si rinomina il rito per CRAPSTI (presente già nella terza e quarta colonna). Dalla diciassettesima riga si parla di un rito per TINIA (Giove). Tinia è la suprema divinità etrusca. Il suo nome si ritrova nelle caselle del bordo del fegato di Piacenza. Iscrizioni dedicatorie sono state trovate e Tarquinia, Ferento,
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Bolsena ed Orvieto. A Tarquinia, poi, gli era dedicato il cosiddetto tempio dell’Ara della Regina, che era il più grande d’Etruria251. Nella riga diciannovesima si ordina pure di celebrare un ludo per HIPNOS (Il dio del sonno). La figura di questa divinità è stata riconosciuta negli affreschi di due tombe di Tarquinia, quella della Pulcella, e quella dell’Orco II (f. 43).
VII colonna Dalla seconda riga si parla di un rito per VELTRE. In questo nome è forse da vedere una delle forme etrusche del nome latino di Vertumnus (cfr. etr. SATRE / lat. Sa251
Si apprende da un cippo marmoreo del primo impero, trovato a Tarquinia ed illustrato da M.Torelli, (Tarquitius Priscus Haruspex di Tiberio, in Archeologia in Etruria Meridionale, a cura di M. Pandolfini, Roma, 2006. p. 249, ss.)
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turnus), il dio che Varrone indicava come “principe d’Etruria”. Si parla poi del Sole (USIL) e dell’Aurora (THESAN). Infine troviamo la frase: “ETNAM VELTHITE ETNAM AISVALE” della quale si sono avute varie traduzioni. A noi la migliore sembra essere: “sia sull’ara di Velta che delle divinità minori”. Verosimilmente, VELTA, come VELTRE, VELTHINE, e VELTHUNE dello specchio di Tagete, sono i nomi della stessa divinità federale etrusca che i Romani chiamavano Veltumna e Vertumnus. Si parla pure di azioni da compiere nel CILTH CECHANE ( = tempio superiore o federale - cfr. Maggiani, “StEtr”, 1996, p. 108). VIII colonna Nelle prime due righe si parla di un rito per la dea CULS. In numerosi sarcofagi, la divinità si trova raffigurata sulla porta degli Inferi, dotata di ali e provvista di fiaccola. Il nome si ritrova principalmente sul bordo del fegato di Piacenza e nel rotolo di Laris Pulena a Tarquinia. Dalla riga ottava si espone poi il rito da tributare a NETHUNS (Nettuno). Il suo nome si trova sul bordo del fegato di Piacenza. Le sue rappresentazioni si ritrovano soprattutto a Tuscania, Vulci e sulle monete di Vetulonia. IX colonna Si tratta ancora del rito per NETHUNS (Nettuno). X colonna Si nomina ancora il dio CEMNA-C (Cimino) e VELTHA. XI colonna Alla riga ottava si prescrive di collocarsi “IN VELTINES CILTHS (nel tempio di Veltine/Veltune)”.
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Si parla poi forse di CEL (la dea della Terra), e sicuramente di TUCHLA (Tuculca). Quest’ultimo è un dio infernale raffigurato anche nella tomba dell’Orco a Tarquinia (f. 44).
XII colonna Tra l’altro si prescrive un rito da compiere “nel tempio di Giunone Ursmna (UNIALTHI URSMNAL)”. URSMNA, epiteto di Giunone, rimanda al gentilizio di AVLE URSUMNAS252, supremo magistrato (zilath) di Tarquinia (f. 45A) e di LARTHI URSM(INI)253, una bellissima aristocratica che, sempre a Tarquinia, negli affreschi della tomba Bruschi, è raffigurata, con abiti riccamente panneggiati, corona sul capo, e melograno in mano, nell’atto di guardarsi nello specchio che una serva le pone dinanzi al viso (f. 45B). 252
M. Morandi Tarabella, Prosographia Etrusca, I, L’<<Erma>> di Bretschneider, Roma, 2004. p. 253 Corpus Iascriptiomun Etruscorum, 5457.
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L’epiteto di Giunone rimanda pure alle forme URSME e URSMINI dell’agro di Chiusi.
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3. METHLUM (CAPITALE). Noi abbiamo già esposto come Devolto e Morandi traducano il vocabolo etrusco MELTHUM rispettivamente con “città” e “Assemblea”. Abbiamo già anche sostenuto che MELTHUM dovrebbe più propriamente corrispondere al latino Caput inteso come “città capitale, concilio federale, testa”. Abbiamo già pure infine sostenuto che il locativo METHLUM-TH dovrebbe indicare quel particolare luogo della “città capitale” dove emerse la testa di Tagete e dove tutti i lucumoni d’Etruria convennero in “assemblea” per apprendere e scrivere gli insegnamenti del divino fanciullo. MELTHUM dunque dovrebbe significare sia “città capitale” che “assemblea capitale (cioè federale)”; ed il locativo METHLUM-TH dovrebbe indicare il luogo specifico in cui si teneva la stessa “Assemblea capitale (cioè federale)” (vd. p. 103 ss.). Nel Liber Linteus si trovano spessissimo espressioni che contengono il vocabolo METHLUM (capitale, assemblea)254. Ora, le nostre considerazioni su METHLUM (capitale) e METHUMTH (luogo del concilio federale) ci consentono di tentare una traduzione delle espressioni in cui il vocabolo è contenuto. Una delle formule più complete è ŚACNICLERI.CILTHL. ŚPURERI. METHLUMERIC. ENAS. ŚVELERIC. SVEC (II 7-8). che possiamo tentare di tradurre così: In favore di questo sacro collegio del tempio, della città e del concilio federale nostri (oppure “di Enea”), e dei viventi e di ognuno. 254
Liber Linteus, II 3-4; II 7-8; III 21; 23-24; IV 4; 6; 17; 18-19; IV fr. 12; 4-5; V 3-4; 6-7; 13-14; VI 7-8; VII 18; VIII 10-11; 14; fr. 5-6; IX 2-3; 56; 9-10; 12-13; 21-22; XII 4; XII 11.
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ŚACNICLERI = in favore di questo sacro collegio (van der Meer); CILTHL = del tempio (Pittau)255; ŚPURERI = in favore della città (Pallottino); METHLUMERIC = e capitale /o centro federale (Palmucci); ENAS = nostra / di Enea? (Van der Meer); ŚVELERIC = e in favore dei viventi (Pittau); ŚVEC = e ogni (Olzscha).
La formula trova peraltro un parallelo nelle Tavole Igubine dove si trovano espressioni come la seguente: Tefro Giovio salva, serba dell’arce Fisia, della città Iguvina il nome, i maggiorenti, i sacerdoti, gli uomini, gli animali, gli individui, le messi salva (Tav. XIX).
4. ENEA, VIRGILIO ED IL CENTRO FEDERALE ETRUSCO. Nella frase del Liber Linteus, appena esaminata, la traduzione di ENAS costituisce un problema. Si ritiene comunemente che debba significare “nostro/a”. Giovanni Colonna lo ha tuttavia correlato a un presunto etnico *Eina-te256. Ciò implicherebbe, come ha già pure osservato L. B. van der Meer, l’esistenza di una città chiamata EINA o ENA. L’ipotesi è ragionevole, perché nella formula del Liber Lin255
E’ anche probabile che in modo più specifico Cilth significhi “tempio”, inteso nel senso latino di “templum”, cioè di quell’orizzonte celeste o cosmo (riflesso anche materialmente in un luco, un edificio sacro e un fegato) del quale la dea *Cil o Cilen (Fortuna) occupava la primissima parte orientale delle sacre zone delimitate dai sedici spazi in cui lo stesso templum era costituito. Il Georghiev avvicina val’etrusco Cilth all’ittita Kelti- = termine oracolare (V. I. Georghiev, Introduzione alla storia delle lingue indoeuropee, Ed. dell’Ateneo, Roma, 1966, p. 270. 256 G. Colonna, La più antica iscrizione di Bologna, in Studi e Documenti di Archeologia, II, 1986, pp. 57-66; Il lessico istituzionale etrusco e la formazione delle città (specialmente in Emilia Romagna), in La formazione della città preromana in Emilia Romagna (Atti del Convegno, Bologna-Marzabotto, 1985), Bologna, 1988, pp. 131-143.
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teus, a differenza di quella della Tavole Igubine, manca il nome della città alla quale la formula dovrebbe riferirsi. Ma, poiché EINA è anche il nome etrusco del troiano Enea, come appariva scritto su un perduto specchio di Chiusi, van der Meer si domanda perplesso cosa potrebbe mai il nome dell’eroe troiano avere a che fare con le formule propiziatorie del Liber Linteus nelle quali si troverebbe inserito. Noi vogliamo però far presente che Stefano di Bisanzio, nel suo Trattato sulle città, elencava una città di Enea (Aineia) fra quelle esistenti in Etruria; e c’è pure da tener presente che in lingua etrusca, dal nome etrusco di EINA (Enea) si sono formati alcuni gentilizi come quello degli EINA di Chiusi e degli EINA-NA di Tarquinia257. Tuttavia, van der Meer, pur ammettendo l’esistenza di una città etrusca che portava il nome di Enea (Eina), esclude che questa possa essere identificata con Tarquinia o con Chiusi. In alternativa postula che il vocabolo ENAS del Liber Linteus possa significare “di noi”258. Noi non escludiamo che ENAS possa significare “di noi”, vogliamo però far presente che il nome di Enea potrebbe non essere estraneo al contesto delle frasi in cui verrebbe a trovarsi, e che il METHLUM (= centro/concilio federale) di Enea potrebbe esser proprio Tarquinia. Esiste infatti una lunga tradizione antica e moderna che apparenta gli Etruschi con i Troiani, e identifica Tarquinia con la virgiliana città di Còrito (oggi Corneto Tarquinia) che era l’atiqua mater etrusca alla quale Enea, dopo la rovina di Troia, avrebbe ricondotto i superstiti troiani. La più antica raffigurazione della presa di Troia, e di Enea che se ne allontana assieme alla moglie e ai figli, si trova dipinta su un vaso etrusco della seconda metà del VII sec. 257
Vd, Thesaurus Linguae Etruscae, a cura di M. Pandofini Angeletti, CNR, Roma, 1978, p. 124. 258 L. B. van der Meer, Liber Linteus Zagabriensis, Peeters, Louvian, 2007, pp. 55-56.
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a.C.259 Le figurazioni greche scendono invece alla fine del VI sec. a.C.260 Appartengono a questo stesso periodo le rappresentazioni etrusche (su anelli, vasi e statuette) di Enea che emigra da Troia portando su una sola spalla il padre Anchise (f. 46 A), il quale a sua volta porta in mano il cesto dei Penati da trasferire nella nuova terra. Sul castone di un anello (f. 46 B) si vede addirittura Enea che trasferisce in Etruria su una sola spalla la stessa TURAN (nome etrusco di Afrodite, madre di Enea)261. Quando i 259
Enciclopedia Virgiliana, s.v. Enea, p. 232. Dall'esame del Lexicon Iconographicum Mithologiae Classicae (s.v. Aineia) emerge che la quasi totalità dei vasi greci è stata trovata in Italia, e soprattutto in Etruria: 6 a Vulci (il più antico è del 520 a.C.); 1 a Tarquinia (520 a.C.); 3 a Cere (510-490 a.C.); 1 in luogo non determinato (510 a.C.); 1 a Spina (450 a.C.). Questi vasi furono fatti in Grecia ad uso del mercato italico che ne faceva grande richiesta. La scena tipica è quella di Enea che lascia Troia portando sulla schiena il vecchio padre Anchise che gli si strige al collo. 261 Gli Etruschi svilupparono una propria produzione di vasi con scene di Enea che fugge da Troia. Ma la produzione etrusca contiene un importante particolare in più. Sul castone d’un anello (500-475 a.C.) di provenienza ignota, si vede Enea che sostiene il padre seduto su una sola spalla. In questa posizione, Anchise ha le braccia svincolate dal collo di Enea, e così può esibire su una mano il sacro cesto delle statuette dei Penati di Troia. Anche in un vaso etrusco di Vulci (470-460 a.C.), Enea, accompagnato dal figlio, porta il padre seduto su una sola spalla, mentre la moglie lo precede portando sul capo un fagotto; ma non siamo sicuri che il fagotto contenga i Penati. La città di Veio ha pure restituito una serie di statuette, appartenenti alla prima metà del V sec.a.C., raffiguranti Enea che porta il padre su una sola spalla, ma senza il cesto dei Penati. Molto più tardi, a partire dal I sec. a.C., pure i Romani, per significare il trasferimento dei Troiani nel Lazio, faranno figure con Enea ed Anchise che abbandonano Troia. Ma i Romani non imiteranno il modello greco, bensì quello che gli Etruschi avevano raffigurato sull'anello d’origine ignota (Tarquinia?) nel quale Anchise, seduto su una sola spalla d’Enea, recava in mano il cesto dei Penari di Troia. E' ovvio che i Romani avevano recepito scena e significato dall’archetipo presente nell’anello etrusco. Su un altro castone d’anello (inizi V sec. a.C.), opera dello stesso artefice del precedente, si vede ancora Enea che trasferisce su una sola spalla in Etruria l’effige di sua madre Turan (Venere): il nome della madre è etrusco a significare l’origine etrusca dell’eroe. 260
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Romani qualche secolo dopo avranno fatta propria la tradizione etrusca, riprodurranno dagli Etruschi la scena di Enea che porta in Italia su una sola spalla il padre Anchise coi Penati di Troia, e daranno alla fatto il significato del trasferimento in Italia della stirpe troiana.
Fig. 46 – Coppia di anelli etruschi (500 – 475 a.C.) di provenienza ignota (Tarquinia?), prodotti da uno stesso artigiano. Sui due castoni sono presentate figurazioni con soggetti paralleli. A). Enea porta da Troia in Etruria (a Corito Tarquinia?) su una sola spalla il vecchio padre Anchise. Questi a sua volta esibisce su una sola mano il cesto contenente le statuette degli dèi Penati di Troia. B). Enea porta da Troia in Etruria su una sola spalla la propria madre divina. Anche questa esibisce qualcosa che pende da una sua sola mano. Attorno alla testa della dea, in lingua etrusca, è scritto TURAN (Afrodite-Venere). L’autore degli anelli si rifaceva evidentemente ad una tradizione etrusca secondo cui il troiano Enea aveva introdotto da Troia in Etruria sia i Penati di Troia sia il culto di sua madre TURAN (Afrodite-Venere).
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D’altra parte esistono anche documenti letterari greci che trattano di una venuta e di uno stanziamento di Enea in Etruria, assieme a Tarconte262. Stanziamento tanto stabile da poter egli concedere al sopravvenuto Odisseo una striscia di costa etrusca sul mar Tirreno263. Enea sarebbe poi passato nel Lazio. Virgilio infine nell’Eneide sostenne addirittura, come già abbiamo anticipato, che una colonia di Etruschi partì da Còrito (oggi Corneto Tarquinia) ed andò in Asia Minore a fondare Troia. Quando poi i Greci, dice Virgilio, ebbero distrutto la città, Apollo e gli dèi Penati comanderanno ad Enea di ricondurre in Etruria, a Còrito (Corneto Tarquinia), i superstiti Troiani264. Virgilio, però, diversamente, dai suoi predecessori greci, non fa sbarcare Enea direttamente in Etruria, ma nel Lazio, alla foce del Tevere che egli diplomaticamente chiama “fiume etrusco”. Enea, tuttavia, è respinto dai Latini del luogo, e si reca in Etruria, presso il fiume Mignone265, a Còrito266 (Corneto 262
Licofrone, Alessandra, 1225-1249, ss. ; Tzetze, Commento alla Alessandra di Licofrone, 1252, ss. 263 Parafrasi greca della Alessandra di Licofrone, 1242. Il testo della parafrasi è in E. Scheer, Lycophronis Alexandra, I, 1958, v.1242, p.102. Traduzione italiana in G. Buonamici, Fonti di Storia Etrusca, Firenze, 1939, p.106. 264 Virgilio, op. cit. , III, 94; 167; VII, 207; 240; VIII, 597- 601; IX, 10. 265 Virgilio, op. cit., 8, 597: "apud Caeritis amnis". Il poeta non specifica il nome del fiume, anzi lo definisce Caeritis perché il suo alto corso passava sul confine fra Tarquinia e Cere, oppure perché passava accanto alla cittadina di Caerium, che si trovava in territorio tarquiniese verso Cere (Per l’ubicazione di Caerium, vd. A. Palmucci, CoritoTarquinia e il porto dei Ceretani, “Atti e Memorie dell’Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova”, 61, 1993, p. 16). Sia Elio Donato che Servio, antichi commentatori di epoca romana, esplicitarono che il fiume che il poeta definiva Caeritis era il Mignone, e lo localizzavano a nord di Centumcellae (oggi Civitavecchia), cioè fra Civitavecchia e Tarquinia dove in effetti sfocia. Vedi Servio, op. cit.: “ AMNIS, Minio dicit ut qui Caerete domo qui sunt Minionis in arvis”( VIII, 597); Servio Dan., op. cit.: “AMNIS autem, aut taquit nomen, aut, ut quidam volunt, Minio dicitur”(VIII, 597); “MINIONIS, fluvius est Minio Tusciae ultra Centumcellas”(X,183). Ancora nel Medioevo, il fiume manteneva la doppia denominazione di Mignone e Cerito. Leandro Alberti diceva che
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Tarquinia)267 per chiedere aiuto a Tarconte268. Questi, che tradizionalmente era considerato l’eponimo di Tarquinia, ed il capo fondatore della Federazione Etrusca, riunisce a Còrito (Tarquinia) tutti i re delle varie città federate, con i loro eserciti e le loro flotte, poi fonde le sue forze con quelle dei Troiani, rinuncia alla propria carica federale, ed invita gli Etruschi ad eleggere lo stesso Enea a capo della Federazione Etrusca. Enea, dunque, divenne capo di tutti gli Etruschi; poi, assieme a loro e a Tarconte, tornerà via il Mignone “esce dai monti, e dirittamente scendendo quivi mette capo alla marina; anche si nomina Cerito, per uscire de i monti vicini ai Ceriti; di poi vedesi Città Vecchia” (Descrittione di tutta Italia, p. 36). Per tutta la problematica, vedi i miei lavori elencati in bibliografia all’inizio di questo volume. 266 Virgilio, op. cit., 9,10: "Enea extremas Corythi penetravit ad urbes"; Servio Dan., All’Eneide, 9, 1: “DIVERSA PENITUS, valde diversa, id est longius remota, vel apud Pallanteum vel in Etruria, unde paulo post dicit: NEC SATIS EXTREMIS CORYTHI PENETRAVIT AD URBES LYDORUMQUE MANUS”; 9,10: “CORYTHI PENETRAVIT […]; CORYTHI autem montis tusciae […]; PENETRAVIT, bene quia supra dixerat PENITUS (cod. T: PENETRAVIT, bene dicit PENETRAVIT quia supra dixerat PENITUS DIVERSA PARTE)”. Evidentemente, Corythus, o Corinthus come risulta scritto in altre fonti ed in uno degli stessi codici dell’Eneide, era il nome col quale Virgilio chiamava Tarquinia, derivato da quello di un centro attiguo che noi conosciamo col nome greco di Kyrniéta (Esichio) e con quello medioevale di Cornetus (detto anche Corgitus e *Crugentus). Durante tutto il Medioevo, questa città fu idenficata con l’antica Corythum di virgiliana memoria. Per tutta la problematica inerente a Virgilio e Corito-Tarquinia vedi i nostri lavori elencati in Bibliografia 267 Per l’identificazione della virgiliana città di Corito con Tarquinia, vedi le mie opere elencate nella bibliografia di questo volume. 268 Servio informava che la natura pianeggiante del colle (evidentemente presso il Mignone) in cui si trovava l’accampamento di Tarconte non solo era menzionata in fonti scritte ancora esistenti ai suoi tempi (IV sec.), ma che la cosa poteva esser verificata andando sul luogo: “Intellegamus, quod hodieque legimus et videmus, hanc collium fuisse naturam, ut planities esset in summo, in qua inierat castra Tarconis” (Servio, op. cit., VIII, 603). Dunque, ai tempi di Servio, fonti scritte e abitanti del luogo sapevano ancora che fra Centumcellae e Tarquinia, nei pressi del Mignone (vd. nota precedente), c’era un colle dalla sommità pianeggiante sulla quale, si diceva, Tarconte aveva riunito l’esercito federale etrusco. Si trattava di un consueto luogo di riunioni federali.
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truschi; poi, assieme a loro e a Tarconte, tornerà via mare alla foce del Tevere dove sconfiggerà i Latini. Si è sempre creduto che Virgilio avesse inventato questo episodio, però se la parola ENAS che è scritta sul Liber Linteus dovesse corrispondere veramente al nome di Enea, la cosa confermerebbe il mitico legame fra Etruschi e Troiani, e testimonierebbe l’esistenza in Etruria d’una tradizione che fondeva Tirreni e Troiani. Non solo, ma avremmo anche la testimonianza dell’esistenza d’una tradizione etrusca alla quale Virgilio avrebbe attinto. In proposito, Robert Beekes ha osservato: Alberto Palmucci sostiene che ci sono prove che la storia di Enea in Italia fu preceduta da una versione dove il viaggio da Troia avvenne per l’Etruria. Se ciò è corretto, è di grande importanza: quando i Romani dicevano di venire da Troia, quella storia non era romana, bensì etrusca269. Oggi, poi, dopo la scoperta che il DNA degli Etruschi ha qualche connessione con gli abitanti dell’Anatolia e, in particolare con quelli dell’isola di Lemno (che era a poche miglia da Troia), la posizione di Virgilio trova qualche conforto270. In particolare, Noi abbiamo più volte affacciato l’ipotesi di scambievoli flussi di gente avventi fra la penisola italiana, la penisola Anatolica (Troade, Misia, Lidia) e le isole Egee (Lemno, Imbro, Samotracia, Lebro, Tenedo, ecc.). L’elenco delle nostre opere si trova all’inizio dei questo libro nella relativa bibliografia. Stiamo lavorando ad un’opera di sintesi, riveduta, corretta ed aggiornata che
269
Vedi bibliografia e il testo inglese a p. 5. A. Palmucci, Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Università di Bari, Università di Roma Tre, CNR), 6263, 2007, pp. 93-126.
270
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speriamo di terminare e di pubblicare in futuro, se Dio vorrà concedere ancora qualche anno alla nostra vita. Dopo Beekes, Valeria Forte in suo lavoro sulle origini degli Etruschi271 dice di riportare “le opinioni degli etruscologi più rinomati del nostro tempo, come Pallottino, Palmucci, Munzi ed altri”, e continua specificando che “Alberto Palmucci, un eminente Etruscologo che vive in Italia” ha aperto “un dialogo con studiosi europei ed americani sia in lavori accademici che in blog elettronici”. “In sostanza, Palmucci”, dice ancora la Forte, “introduce un elemento molto avvincente nel dibattito sulle origini Etrusche quando sostiene che noi non dovremmo presumere che un DNA genetico, comune tra Etruschi e popolazioni del Vicino Oriente, provi l’origine degli Etruschi in Asia Minore. Palmucci specifica che gli Etruschi si son potuti muovere dall’Italia verso le terre orientali, e questa migrazione ha potuto prendere la forma di un modello circolare di partenza da e ritorno alle coste italiane. Per convalidare questa ipotesi Palmucci fornisce toponimi, analisi linguistiche, e dati archeologici”. Dopo aver ricordato che Palmucci si rifà a “Virgilio, per cui gli Etruschi partirono da Còrito, più tardi chiamata Tarquinia, emigrarono ad Est e poi tornarono sulle spiagge etrusche”, la Forte conclude: “Palmucci è uno dei più attivi classicisti ... ed uno che a molti livelli partecipa al dibattito sugli Etruschi. I suoi commenti ed opinioni sono supportate dalla sua impressionante conoscenza della civiltà etrusca: egli li esprime nel blog di internet dove dibatte con gli esperti di tutto il mondo”. 271
Vedi bibliografia e testo inglese a p. 5.
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*** Dal nome anatolico del Dio della Tempesta, protettore di Wilusa-Troia, variamente chiamato Taru, Tarhu, Tarhuis, Tarhun, Tarhunna, Tarhunt e Tarhunta, derivarono i nomi di vari eroi, re e città anatoliche fra cui quello di Tarhunta (re della Misia) e di Tarui-sa/*Tahui-sa (Vilusa-Troia) della quale il dio stesso era protettore. Dal nome dello stesso dio derivano peraltro anche il nome di Tarconte (etr. Tarchunus; gr. Tarcho, Tarchon; lat. Tarco-Tarconis e Tarcon-Tarcontis), mitico figlio del re della Misia, e fondatore di Tarquinia (etr. Tarchu-na; gr. Tarchyna; lat. Tarquinii)272. Se mai vennero coloni da Lemno, dalla Troade, dalla Misia e dalla Lidia in Italia, come vorrebbero le tradizioni, costoro dovettero portar seco i nomi dei loro dèi e delle loro città.
272
V. I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi, Roma, 1979, p. 118; A. Palmucci, La figura di Tarconte: un ponte mitostorico fra Tarquinia e Troia, in Anatolisch und Indogermanisch (Anatolico ed indoeuropeo), Acten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft, Pavia 22-25 Settembre 1998 (Università degli studi di Pavia, dipartimento Scienze dell’Antichità), Innsbruck, 2001, pp. 341-353; A. Palmucci, Virgilio, Erodoto e il DNA degli Etruschi (Corito Tarquinia), “Aufidus” (Università di Bari, Università di Roma Tre, CNR), 62-63, 2007, pp. 93-126.
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226
INDICE
DELLE
FIGURE
1) Cartina del Medio Oriente e dellâ&#x20AC;&#x2122;Asia Minore. ... p. 14. 2) Tarhui, il Dio della Tempesta. ... p. 16. 3) Statua di Diotima di Mantinea. ... p. 21. 4) Fegato babilonese. ... p. 22. 5) Fegato ovino. ... p. 26. 6) Modello di fegato babilonese (BM 50494). ... p. 30. 7) Modello di fegato babilonese (BM 50494). Trad. .... p. 31. 8) Fegato ittita. ... p. 35. 9) Fegato ittita da Bogazkey. ... p. 48. 10) Scena assira di sacrificio. ... p. 50. 11) Fegato siriano. ... p. 53. 12) Carta del Mediterraneo. Est in alto. ... p. 55. 13) Mappe a T-O. Est in alto. ... p. 56. 14) Lampadario di Cortona . ... p. 62. 15) Tarquinia. Tomba delle Bighe. Columen. ... p. 62. 16) Anello etrusco. Tarconte raccoglie Tagete. ... p. 65. 17) Aruspice. ... p. 68. 18) Tuscania. Lo specchio di Tagete. ... p. 71. 19) Tarquinia. Tomba del Convegno (250-150 a.C.). ... p. 76. 20) Vulci. Tomba François. ... p. 77. 21) Tarquinia. Tempio Ara della Regina. ... p. 78. 22) Tarquinia. Tempio Ara della Regina. Vasca. ... p. 79. 23) Tarquinia. Tomba delle Bighe. Vertumnus?... p. 80. 24) Cerveteri. Trono di Claudio. ... p. 83. 25) Tabula Peutingeriana. Milano, Tarquinia, Volsini. ... p. 84. 26) Faleri. Modello fittile di fegato. ... p. 96. 27) Volterra. Sarcofago con aruspice e fegato. ... p. 99. 28) Fegato di Piacenza. Modellino bronzeo. ... p. 101. 29) Fegato di Piacenza. Parte convessa. ... p. 102.
227
30) 31) 32) 33) 34) 35) 36) 37) 38) 39) 40) 41) 42) 43) 44) 45)
Fegato di Piacenza. Direzioni delle scritture. ... p. 107. Fegato di Piacenza. Numerazione delle caselle. ... p. 108. Tuscania. Specchio: Sole, Nettuno e Aurora. ... p. 113. Tre statue della dea Fortuna. ... p. 126. Case divine della volta celeste. ... p. 128. Atropo pianta il chiodo. ... p. 141. Tarquinia. Lapide d’un membro dei 60 aruspici. ... p. 142. Tarquinia. Sarcofago di Laris Pulena. ... p. 1423 Arezzo. Aruspice con fegato. ... p. 172. Anello etrusco con aruspice e fegato. ... p. 176. Moneta etrusca: Metl. ... p. 181. Liber Linteus. Frammento della prima colonna. ... p. 207. Tarquinia. Sacofago con la porta degli Inferi. ... p. 209. Tarquinia. Tomba dell’Orco II. Hipnos. ... p. 212. Tarquinia. Tomba dell’Orco II. Tuchulcha. ... p. 214. Tarquinia. A - Cippo funerario di Avle Ursumnas; B - Tomba Bruschi. Effigi di Larthi Ursumnai. ... p. 215. 46) Coppia di anelli etruschi. A Enea porta sulla spalla il padre Anchise con il cesto degli dèi Penati di Troia. B Enea porta sulla spalla la madre TURAN (Afrodite-Venere). ... p. 220.
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INDICE
GENERALE
Notizie Biografiche. Altre opere dellâ&#x20AC;&#x2122;autore. Presentazione.
CAPITOLO PRIMO Aruspicina babilonese, ittita, assira, greca, romana, etrusca. Presentazione (di Giangranco Gazzetti) . ... p. 12. Premessa. ... p. 13. APPARATO TECNICO 1. la faccia viscerale del fegato. ... p. 19. 2. Il Dito o Pollice. ... p. 25. 3. Il Giogo. ... p. 27. 4. Il Nodo. ... p. 32. 5. Il Fiume e la Porta del fegato. ... p. 32. 6. La Cistifellea. ... p. 33. 7. La Crescenza. ... p. 34. 8. La Presenza. ... p. 47. 9. Il Sentiero. .... p. 51. 10. Altre sezioni del fegato babilonese. ... p. 51.
CAPITOLO SECONDO Aruspicina etrusca
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Lâ&#x20AC;&#x2122;ORIENTAMENTO PRESSO GLI ANTICHI 1. Le rose dei vènti. ... p. 54. 2. Il templum etrusco. ... p. 56.
TAGETE E IL PANTHEON ETRUSCO 1. Tagete e Tarconte. ... p. 62. 2. Il fegato di Tagete. ... p. 69. 3. Il Fanum Voltumnae. ... p. 73. 4. Gli insegnamenti di Tagete. ... p. 91. 5. Le parti ominose del fegato di Tagete. ... p. 92. 6. Il fegato di Faleri. ... p. 96. 7. Il fegato di Volterra. ... p. 98. 8. Il fegato di Piacenza. ... p. 99. 9. La bipartizione del fegato. ... p. 101. 10. Le caselle del bordo esterno. ... p. 106.
LE SUDDIVISIONI DEL FEGATO. ... p. 111.
Ala sinistra del fegato : settori meridionali A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 114. B) Le caselle interne. ... p. 116. C) la Cistifellea. ... p. 117. Ala destra del fegato: settori occidentali A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 117. B) Le caselle interne. ... p. 119. Ala destra del fegato: settori settentrionali A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 120.
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B) Le caselle interne. ... p. 121. C) La Ruota Divina. ... p. 122.
Ala sinistra del fegato: settori orientali A) I quattro settori del bordo esterno. ... p. 123. B) Le caselle interne. ... p. 130. MARZIANO CAPELLA. .... p. 133. IL COLLEGIO DEI SESSANTA ARUSPICI. ... p. 142. I SECOLI ETRUSCHI. ... p. 146.
CAPITOLO TERZO I Libri Tagetici 1. I Libri Tagetici. ... p. 151. 2. Il Calendario Brontoscopico ( da Figulo). ... p. 152. 3. Il Trattato di Brontoscopia (da Fonteio). ... p. 172. 4. Il poema su I Terremoti (da Vicellio). ... p. 176. 5. Il trattato su I Fulmini (da Labeone). ... p. 182. 6. Frammenti (da autori vari). ... p. 193. FRAMMENTO DELLA NINFA VEGOIA. ... p. 199. I LIBRI ACHERONTICI. ... p. 200. LA TEGOLA DI CAPUA. ... p. 201. LA TAVOLA DI CORTONA. ... p. 203.
CAPITOLO QUARTO
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IL LIBER LINTEUS DELLA MUMMIA DI ZAGABRIA 1. Il Liber Linteus. ... p. 204. 2. Grafia, contenuto e divinitĂ del Liber. ... p. 205. 3. Methlum (capitale). ... p. 216 4. Enea, Virgilio e il centro federale etrusco. ... p. 217.
INDICE DELLE FIGURE. ... p. 227. INDICE GENERALE. ... p. 229.
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