Libertinaggio - Federico Ghillino (07/2016)

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libertinaggio federico ghillino

All’inizio le cose si sono complicate.

Sembrava solo il solito sabato ma poi è stato qualcos’altro: una questione di mixaggio.

Con lui ero dalla parte queta della porta ma c’era un che di larsen dentro di noi. Ero smanioso. Dissi andiamo; rispose sicuro? e mi concessi fiducia: sì.

In quel momento il nostro beat fu un’aritmia, un’inciampo, ma io intuivo che il drop che cercavamo fosse in cucina, oltre l’angolo descritto dalla maniglia, nella confusione che sfianca, nell’urlo più forte che in coro si potesse fare per liberare il collettivo impastarsi delle cose, nel convulso crescere, e poi dopo sgolati vedere che tutto è cambiato.

drop

L’ho vista seduta un po’ dappertutto. Gradini, sedie, panchine. L’ho vista spesso seduta a terra, come allora, in centro alla piazza che era anche il mio spazio – come fosse stato la mia vita –. Lì la vedevo, la guardavo mentre sbocciava e diventava un effluvio floreale: il mio fardello di fiori.

Lei mi guardava. Ci tendevamo palmi sinceri di parole con la lingua articolando strutture che si reggevano in noi, attraverso cui volevo abbracciarla. C’era la buona architettura del rapporto e la sua bocca di petali, ma non potevo raggiungerla coi passi e ho scoperto che non bastavano nemmeno le parole.

Certo non era quello il tempo che, maturi, ingrossa ai rami i limoni.

primo soggetto liberty

Mi sono ritrovato in biblioteca: ho guardato i libri, poi lei, dopo gli altri. Studiavo saggi, romanzi e poesie ma quando ho alzato ancora la testa ho capito che forse, più che la letteratura io amavo le persone.

Alla fine quei libri li ho lasciati e siamo andati fuori, a parlare di noi usando tante parole, fumando sigarette, bevendo caffè.

In certo modo ci siamo toccati, quasi fino in fondo e senza cercarci con le mani perché non serviva: bastava faccia a faccia confessarsi di essere persone. Quando poi lei mi ha detto non preoccuparti, va bene allora anche io le ho detto ok, va bene e ci siamo fermati, poi guardati, accettati, forse addirittura riconosciuti.

Negli occhi aveva il cosmo suo ed io l’avevo visto con un telescopio di parole. Era strano, ma la chiamai universalità, e capii davvero che eravamo due.

Ci siamo presi per i fianchi allora per le spalle, per tutti i corpi ridendo e dopo aver pensato e parlato e analizzato, una sera abbiamo deciso di bere, urlare ed andare a ballare.

s trobo

L’uomo all’ingresso della discoteca diffidava degli ubriachi ma ha capito che la nostra era solo ebbrezza, e ci ha fatto entrare. – Io lo ringrazio che se penso a un altro vorrei così che fosse lui. –

La stanza dentro era un grande incerto buio e un’informe affastellarsi di persone dove ci siamo subito persi. Eravamo tutti altri che cercano altri. Le strobo di secondo in secondo ci cambiavano, rendevano noi un rinnovamento inarrestabile, perché naturale. E quindi nelle luci che mitragliavano cercavamo stralci dei nostri volti ma non potevamo trovare altro che occhi diversi.

L’ho già trovata là. Nel sedersi, l’infiorescenza di lei aveva descritto una stelografia frusciante una fronda di vento, come la sua divertita irriverenza di parole. Sono sicuro.

Ogni sguardo una definizione: trattava le differenze del nostro essere termini di paragone quando non potevo raggiungerla di passi; restandomi le parole, tentai un’ipotesi di noi, ma eravamo solo lemmi, lei corolla e me – appesantito di petali –corollario d’un fiore.

Sarebbe bastato poco. Toccarle il vestito a una festa per sradicare le distanze; uno sguardo d’intesa sotto il sole nuovo di maggio, quello meraviglioso, che la fioriva; più che specchiarsi negli occhi di un gesto d’affetto, due volti vicini, vedersi dentro l’altro e vederci accanto l’altro.

Ma questa piazza ha una specie d’erba alta che non mi fa passare. Spazio. Percorso. Moto. Sfiorare. Fiorire. Affiorare.

secondo soggetto liberty

Tutta notte con lui ad esplorare dentro quell’auto, prendendo il volo, lanciata nell’infinito della scoperta. Alle quattro alle cinque. All’alba. Andavamo in cerca in cerca, ma in cerca di cosa, mi chiedevo. In cerca del baricentro forse, il punto di equilibrio, l’asse nostro, già che quello della Terra s’incagliava saldamente nel vuoto, restituendo solo la balìa di un’oscillazione.

L’iperspazio personale, allora, si consumava nel sistema di parole che stavamo elaborando dentro l’abitacolo, esplorando le nostre profondità. Rischiavamo di perdere la direzione, noi astronauti dello spazio proiettato da un pugno di parole. Ma avevamo la falcata di una speculazione: lo zeitgeist di tutti e di noi, l’oggettivo traslitterato in formula mal detta, la sintassi dei parsec di uno slancio interstellare, un’interpretazione sperimentale della radiazione di fondo. Due corpi. Un velivolo. Una mappatura del cosmo incompleta. Da tracciare, abbiamo scoperto, il punto d’intersezione dei piani, dove non può bastare un’unico punto di vista.

iperspazio

Alla fine è stato tutto molto semplice. Ci siamo fermati a mangiare nei panifici aperti tutta la notte.

Abbiamo fumato sigarette seduti sui marciapiede aspettando il primo autobus della mattina. Abbiamo sbattuto contro muri, saracinesche e stipiti. Sbronzi. Per raggiungere un bagno. Ci abbiamo quasi provato con le tipe dei nostri migliori amici. Abbiamo voluto fare sesso con le nostre amiche e ci siamo masturbati pensando a loro. Abbiamo annusato e poi messo in testa i loro reggiseni. Abbiamo guardato sotto le loro gonne, con curiosità incontenibile, appena abbiamo potuto. Abbiamo sedotto le tipe fidanzate, anche quelle single. Troppe ci hanno fatto credere in qualcosa, poi hanno riso e se ne sono andate, e quella risata ci ha completamente sfondato, come un pugno in piena faccia. Abbiamo odiato le nostre ex, le abbiamo amate ancora, abbiamo imparato ad amarle in modo nuovo. Abbiamo fatto amicizia coi loro nuovi uomini e siamo cresciuti anche grazie a loro, in fin dei conti. Abbiamo finto, abbiamo sparlato, abbiamo insultato altre persone. Spesso è stato bello. Abbiamo bevuto a caso, piluccato aperitivi per cenare. Abbiamo vomitato allo svenimento, dormito nelle case degli altri, bevuto dai bicchieri degli altri. Abbiamo testato l’incertezza, arrampicandoci su un tetto per esserne a cavalcioni, faccia a faccia col tutto. Abbiamo pianto dappertutto, riso di tutto ed in ogni condizione. Abbiamo perso la cognizione del tempo, accendini, portafogli e rotto schermi di cellulari.

siamo sentiti vivi, sentiti bene, sentiti male, sentiti fighi, malinconici.

siamo vestiti bene, vestiti male, vestiti ricercati, vestiti vintage, sgargianti.

Abbiamo indossato papillon, bretelle, cravatte e tutti i capi che non avremmo mai indossato prima.

Abbiamo speso, sperperato, offerto, scroccato. Ci siamo spesi, a volte troppo, a volte troppo poco. Ci siamo malgestiti, innervositi, sorpresi, disattesi. Ci siamo sporcati con rossetti e matite di donne che piangono.

libertinaggio (riepilogativa)
Ci
Ci

Ci siamo stancati a ballare, stancati a sudare, stancati a non dormire. Poi il giorno dopo abbiamo studiato, letto, lavorato perché rientrava nell’equilibrio del gioco. Siamo cambiati, con fatica, e con fatica abbiamo accettato i nostri nuovi noi. Principalmente abbiamo sbagliato, ma è stato fare bene perché spesso era l'unico modo per non sbagliare. Ci siamo aiutati, danneggiati, sollevati, rimestati, cresciuti. Per la maggiore, volentieri, tutta notte, ci siamo confusi. Bene o male, più o meno, a tratti, abbiamo capito. Tutte le altre volte ci hanno spiegato.

E loro c’erano proprio tutti. Tutti insieme. Uno ad uno. Amici, amanti, fratelli, sorelle, seri, sconsiderati, leggeri, depressi, amari, gioviali, lusinghieri, soavi. Erano intensi. E nella nostra testa c’era solo un immenso casino con cui non riuscivamo a fare i conti. Alla fine, vivere, era un gioco, una sfida ed un lavoro che ci prendeva bramoso il cuore con le mani e lo buttava in mezzo. Ma in mezzo dove, dove non lo so.

poesie scritte tra marzo e giugno 2016

federicoghillino@gmail.com

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