Fischi di carta 11 (11/2013)

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Fischi di carta

Novembre 2013 Numero 11

Poesia di cinque giovani fischianti

Addii, fischi nel buio, cenni, tosse e sportelli abbassati. È l' ora. Forse gli automi hanno ragione. Come appaiono dai corridoi, murati!

Eugenio Montale, Le occasioni, mottetti

Illustrazione di Sara Traina (sara_traina@hotmail.it)

Editoriale

Uomo Alta Definizione

A volte capita di pensare. Sembra banale, ma non lo è più oggigiorno se consideriamo quella che è diventata la vita di ognuno di noi o, per lo meno, della maggior parte di noi. Una veloce sincronizzata spasmodica corsa alle informazioni, uno scambio continuo e famelico di idee, frasi, impegni, musiche, eventi, video, tragedie, vite, morti, miracoli e quant'altro. Il tutto telecomandato dalle nuove tecnologie, touch, led, smartphone, tablet (per non parlare delle prospettive degli innesti umani) e poi ovviamente i social network, che ci invischiano ineluttabilmente nella loro logica alienante e settaria (alias se non sei iscritto non sei nulla). È innegabile che questi nuovi mezzi stanno influenzando in modo massiccio le nostre abitudini, i nostri ordini mentali, sconvolgendo spesso i nostri bioritmi e costringendoci a una velocità di pensiero e di vita che non ci risulta poi così naturale, anzi è fonte di notevole stress e di molte psicopatologie emerse in gran varietà e numero soltanto negli ultimi dieci-venti anni. È quindi il dato umano l'unità minima da cui partirò, perché a mio avviso è proprio questo che si sta rischiando di perdere. Non serve un' indagine tanto approfondita, anzi, serve fermarsi anche solo alla superficie, alle apparenze, per capire. Entro in un centro commerciale. Un sacco di gente che si accalca ore intere dinanzi a sfavillanti smartphone di ultima generazione; tutti lo fanno, dai bambini di tre anni ai settantenni in pensione. Li fissano e li bramano come fossero taumaturgici specchi, o portali luminosi e corruschi in cui scrutare una breccia del proprio destino, o una felicità già arrivata. Ecco, lì, in quegli istanti, vedo un po' di apocalisse. Ragazzini che invece di andare in piazzetta a giocare, inventarsi storie avventurose e scannarsi tra di loro, parlano, come fossero dei manager, di ultimi modelli tecnologici, s4, x2, mzbeta8000 o che altro! Sembrano aerei da guerra! È tutto un bellicismo bieco, sicuro e in alta definizione, un agonismo spietatamente sottile e virtuale che spinge a nascondersi, a impigrirsi, ad emulare passivamente, ad assorbire notizie di notizie, senza attingere conoscenze di fatto. Senza aver bisogno più di dialogare, di discutere verbalmente, comunicare fisicamente, con quella forza ciceroniana della dialettica; senza più critica costruttiva, quella antica εὐφημία, il bel parlare,

chiaro e curato. Velocità prodotto efficienza morte. Non c'è più quella giusta pausa che occorre al pensiero per assemblarsi, quell'afflato meditativo che impedisce di correre troppo a pensieri e informazioni, i quali così, trascurati e corrivi, bruciano il terreno e le menti su cui viaggiano. Perché se la storia ha insegnato qualcosa è che se si lascia un pensiero germinare troppo velocemente e senza controllo esso può rovinare come un macigno sull'umanità stessa che lo ha pensato. Perché l'uomo è certamente pensiero, idee, raziocinio, ma anche e soprattutto sentimento, passione, cuore. Da quando in qua la nostra storia è diventata storia della tecnologia? Le nostre emozioni ormai si frammentano in asfittici dati, il nostro carisma e la nostra dignità sono diventati un magnetismo mendace e contraffatto, pregno di simboli anacronisticamente blasfemi (mutuati da un'antichità che neanche ci curiamo di conoscere) di interfacce senza faccia, di avatar meschini e vigliacchi. E questo è un insulto enorme all'arte che ci ha preceduti. Le idee diventano ideologie e quindi vengono subito archiviate e date in pasto alla polvere, a studi degli studi esponenzialmente fini a se stessi. Il sublime è diventato un subliminale, il sapere un coacervo di parole, menti e volti estirpati, virtuali, che si perdono nei gorghi intangibili della rete. Si diventa meri veicoli, involucri di pensieri che neanche ci appartengono. A volte - a chi non è successo - capita di pensare una cosa e avere subito, come per forza magnetica, una serie di riscontri immediati a sostegno di quella cosa. A me è successo con un articolo di giornale capitatomi tra le mani qualche mese fa. Si tratta di una lezione universitaria dell'intellettuale liberal americano Leon Wieseltier. "Manifesto per la resistenza umanista", cosi titola l'articolo. I suoi punti sono semplici, chiari e onesti. Recuperare lo spirito che ci appartiene, la scienza dell'uomo, della sua storia e delle sue radici. Si denuncia lo scientismo spasmodico dispensatore di verità sommarie e vacue, tutte volte a velocizzare il processo consumistico, ad accaparrare dati e informazioni, riempirsi di un pericoloso, se pur fascinoso, incurabile vuoto. Un vuoto, dico, perché fatto di vuote pienezze, conoscenze illusorie e prospettive così fallaci, facili e immediate da privare le persone delle legittime facoltà umane della speranza, dell'attesa e del sogno; quindi

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anche della capacità di creare autonomamente, artisticamente. Ed è qui che bisogna diventare, da pensatori automi, pensatori autonomi. È proprio qui, nel momento in cui la poesia, la Creazione per eccellenza, viene a morire, che bisogna combattere, formare questa "contro-cultura" di cui parla Wieseltier, questa “resistenza umanista” in grado di resuscitare tutte le arti e lo spirito umano più elevato. "Usate nuove tecnologie per vecchi scopi", così dice Leon. E noi Fischi di Carta, a fin dei conti, così facciamo e abbiamo da sempre fatto. Cerchiamo di espanderci nel mondo della rete, usiamo i social network e le nuove tecnologie, ma con la consapevolezza di non farci mai irretire o schiavizzare da essi. E lo facciamo per onestà verso noi stessi e verso gli altri, lo facciamo per succhiare avidamente e ingrossare quella misera stilla di umanità verace che eppure è rimasta, "il midollo della vita" per dirla con Thoreau. Anche la

Gnosi

Tra i pitosfori urino guardando la luna, la forma lampante, carnosa delle foglie

non mi coglie tristezza, terrore, gioia, solo lenta vita che rovina al sonno del mio suolo sdraiandomi appassirei come fece ingenuo il passato, prima di me, di questo pensiero; nella villa dove giocavo, sanguinando le mie prime parole, i posti d’amore rimasti acerbi mi guardano, nelle luci notturne, gridando attraverso di me, implorano la mia assenza.

Sono forse esistito.

carta, la materia è fondamentale. Spesso oggi si tocca troppo poco, nel senso che non si esperisce con la giusta consapevolezza, non si ha più un contatto sensuale con il reale, con l'arte, le parole, le pagine, o con la natura. Non si ascolta più tanto col cuore, ma passivamente, per cliché. Noi fischiamo spesso ormai. E ciò vuol dire andare assieme per le strade ogni mese a distribuire i nostri fischi, ridere, parlare con la gente, leggerci le nostre poesie, leggerle da soli, in pubblico con della buona musica; stare delle ore ai nostri banchetti senza che nessuno ci consideri o magari poi sentire un qualche entusiasmo, del fervore, un complimento, vedere anche solo che qualcuno, di nascosto, ci legge. Legge, almeno. Si ferma. Pensa. E questo per me, per noi, è già una prima inestimabile vittoria.

Non accadrà

Nel mattino che sbatte sul molo mi sforzo di star sveglio e immolo il mio capo alla pioggia che tra poco, penso, picchierà come tutte le cose che vengono cadendo. Non accadrà. La barca pesca da dentro il suo cuore. Non accadrà. È sola nel limpido rumore del mare, traccia triangoli nell’alba gialla punteggiata lo specchio d’acqua si spezzerà di calore? No, non accadrà. E vedi di non farti troppo piccolo e minuto pescatore impressionista, ché voglio dipingerti un momento, prima che il diluvio di luci si liberi sul vento... E così, fermo, il giorno, con te, non accadrà.

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In medio non stat

Viva la superficialità signori miei! viva il corpo, i capelli -poveri i calvii muscoli -poveri i deboliil bello! Ma di chi?

Il mio? No signori!

Il tuo e il suo!

E tutto questo lisciume colato dai vetri, spinto su dai tacchi: -la moda sola igiene del mondo!dicono nei salotti futuristi pensando agli africani.

Io il vestito me lo strappo, ci faccio bare come un Goto inesperto di civilia iura, discendo nella strada e turbinando mi diverto iconoclasta arrogante delle finzioni cerate che soffocano i cuori. Sputo, méndico e vivo

In una bottiglia di liquore scaduto; la mia donna si chiamava Diana e sola ai tavolini di Milano inutilmente attendendomi è andata via come la Luna.

Mentre io strappo, sgraffio, scoppio i cervelli come bolle, fomento un turpiloquio di fuochi fatui giù per le viscere e incito alla rivolta contro l'ostinazione a volere sentire poco.

Ballata Alfa

Lettere a Merve. XVII

Parlare al plurale diventa vitale vuol dire cambiare quello che penso, che pensi anche tu il senso guardare il fiume il limo la noia creare la storia, ritrarre la boria; di fischi si tinge la vita di storie, cambiare mutare guardare le glorie sentire che vivere è anche morire ma io vivo poeta garzone cretino, da solo ubriaco fino al mattino e cerco gli amici il viaggio il recesso del cuore più oscuro nell'occhio più mesto non sono lo stesso da quando ho camminato titano bambino demonio prelato

e sudare per vivere è anche gioire sentire stupendo il nuovo partire e vivere è correre anche per te, mia donna, ragazza, amore, Merve.

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Poesia Sacra

Promontorio III1

Sono ancora qui, per questa salita, a impastarmi la vita nella saliva, sentendomi in bocca il gusto del sangue salendo a fatica e col passo pesante.

Io, da quella casa, a stare e pensare preferisco fuggire fino alla chiesa. Strano che cerchi fin qui la mia quiete quando i miei passi rimbombano soli, senza che esista un Dio a accompagnare. Eppure mi trovo qui, tra i muri di pietra a camminare.

Non ho mai trovato la porta socchiusa ma ora figuro

domenica: messa. Bambini con l'ostia, il vino invecchiato, il vecchio che sosta, il chiodo inchiodato. Icone a vetrate, l'immondo sfacelo che legge il buon prete dal vecchio Vangelo, dicendo che tutti saranno salvati. E quando protesi puntando a quell'ostia vedremo perire, col Buio, la Bestia avremo capito che l'asse portante è il vezzo importante chiamato Salvezza.

Eppure intravvedo alla mia altezza, nel cielo più vero, il cimitero.

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1 Promontorio I e Promontorio II sono già comparse nel sesto numero dei Fischi di Carta, quello di maggio 2013.

Alla stazione

In morte di nonno Sergio

La panchina non è cambiata da quando ero un bambino. Forse un po' arrugginita agli angoli, forse ha perso colore.

Aspetto il treno col sorriso, fissando i vecchi binari, seduto su questo legno malconcio:

passano persone di fretta con il terrore di un ritardo, gettando occhiate alle gallerie pensano ad arrivare – ma poi dove?

Non mi muovo, m'assopisco: sono ancora qui, ho sei anni e mezzo, ancora sogno di fare il capotreno.

“Non può farlo chi non sa viaggiare!”

La voce del nonno dal fianco sussurra lenta, quasi in dialetto, come chi sa che non tutto è una meta.

E allora guardo soltanto passare uno dopo l'altro i treni, e rido credendo di salire, senza prenderli:

si fanno per animali nuovi, di fronte a me scorrono impassibili e si lasciano studiare, compiaciuti; a ognuno di loro imparo a dare un nome.

E leggendo i tabelloni nel vetro oppure gli orari ingialliti gioco, e mentre gioco con il nonno, viaggio:

in me brillano destinazioni che non posso già conoscere; troppo piccolo il mio cuore, sottile dice il nonno in un soffio – l'anima.

Così costruisce percorsi al mio sguardo, io leggo i nomi di altre stazioni lontane anche nel tempo, e le immagino...

Mi pare di sfiorarle con le dita Santa Lucia, e Porta Nuova, e Santa Maria Novella! La pietra e la lamiera, il fumo dei treni fermi ai binari tronchi

mi trascinano in luoghi sconosciuti a cui sono porte quei nomi, da fuori; me li racconta il nonno, un po' stanco,

“Oggi Firenze, forse Venezia domani?” E mentre chiedo dell'Orient Express oppure sento respirare vicino la Transiberiana...scompare.

Mi scuote un'altra voce, meno umana: è arrivato il treno che aspettavo.

Ridendo, ascolto il suo fischio, il soffio delle porte che si chiudono, e vicino a quello del nonno incido sulla panchina il mio nome.

Penso che non lo prenderò: anche oggi ho viaggiato.

Emanuele Pon

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Alla Vita

Mi sono svegliato con due ninfe sdraiate di fianco a me: ho riempito il cuore di voglia di vivere. Mi sono sentito in passato orfano della giusta via, privo di riposo, scevro di consapevolezza, ma in quell’istante tutto era diverso. Incalzato dal caldo che si insinuava nelle ossa ho rasserenato le grandi pianure che colmavano il mio cranio, ho gradito sfiorare il suo corpo di femmina proiezione rilassata dei lunghi baci notturni. Ho considerato anche l’altra piccina ed immatura vagare nelle pieghe della mia mente perduta o forse prossima a venire in questo mondo di scarne verità. All’improvviso più niente e ritagliavo una parte del letto con lo sguardo, tastandolo nel buio, per capire se tutto era stato santificato dalla verità. Mentre la visione mi scivolava via, ho sdrucito la mia sicurezza pensando alla quotidianità che mi transitava davanti pingue di solitudine. Con il tedio dello spiraglio di luce che preannunciava il mattino, ho racimolato le poche forze per alzarmi

e per cercare di catturare i pochi pezzetti di quella rilassante sensazione avuta nel sonno. Ho funestamente fallito. Non ammetto che l’accaduto sia la visione d’un ubriaco d’icastica follia. Perciò ho trovato di buon auspicio come l’esteta chiudere gli occhi e brindare alla vita.

Trisobbio

Da piccino avevo l’usanza di lanciare i sassi nell’aia innanzi alla dimora dei miei avi e scagliandoli oltre una siepe esorcizzavo il timore, come un fromboliere, dell’ignoto pozzo che vetusto latitava di lato alla casa. Ma ora che a colpi di vanga ho riempito di terra questa falda, mi rendo conto di aver slegato il bavaglio allo sguardo. Da questo giorno non ho più dato nomenclatura alla mia novella Paura.

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Le poesie dei lettori

Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica! L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

Mirko Risso è nato a Genova, dove vive, e si occupa di divulgazione nell'ambito storia della navigazione e cultura del mare, con particolare interesse per il "pensiero meridiano". Ha pubblicato un libro di versi: (Privato),Arduino Sacco Editore, Roma, 2011.

Ricorrenza di vento

Ricorrenza di vento. Draghi d’aria montati da Aprile sulle file liete di quei ragazzi a fare festa venuti, mille vermiglie vite, sul lungomare.

Hanno la prima vera vita in fronte. Tra l’arco di coriandoli a la rena sparsi, il bacio che fanno l’onde e i risi resi parchi da quelle m’accende un dolce avaro sospetto dei sensi.

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Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Elisa Giumelli. Elisa ha 24 anni, studia architettura del paesaggio e le piace esprimere quello che prova scrivendo.

Mi voglio negare

Stasera mi voglio negare alla spessa galera della ragione.

Le sbarre talvolta dense, talvolta vaporose, faccio gocciolare giù dalla mie pelle.

Dalla schiena colano, si deformano, cadono, si perdono. La compressione diminuisce, si affievola, svanisce.

Ai miei piedi, almeno per questa sera, la pozzanghera delle sbarre io posso calpestare.

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Urlo o l'Angelo in Moloch di Emanuele Pon

Allen Ginsberg è uno degli esponenti più rappresentativi della cosiddetta “beat generation”, gruppo di poeti sorto nell'area di San Francisco intorno alla metà degli anni '50. Allen nasce il 3 giugno del 1926 nel New Jersey, e la prima cosa di cui parlare sono i suoi genitori. Il padre, Louis Ginsberg, era un insegnante, ma soprattutto era noto come poeta: questa sarà la prima spinta che condurrà il giovane Allen alla poesia. La madre di Allen, Naomi Ginsberg, era una russa emigrata in America dopo la rivoluzione del 1905. Naomi non elaborò mai il distacco dal suo Paese natale, e questo finì per far venire del tutto alla luce i suoi disturbi pregressi, consistenti in quella che Freud avrebbe definito “iper-sensibilità nervosa”. Ben presto arrivarono le allucinazioni, che il piccolo Allen studiava con curiosità, allo stesso tempo impaurito e affascinato, mentre la madre “entrava e usciva dai manicomi e dalle case di cura” (sono parole di Ginsberg), sottoponendosi a tutte le cure “all'avanguardia” in voga allora, a cominciare da un pressoché perpetuo elettroshock. Allen si occupò di lei fino alla fine: fu lui a firmare l'autorizzazione per la lobotomia frontale che i medici praticarono a Naomi, che morì poco dopo. L'avvenimento segnò per sempre il giovane, imprimendo nella sua anima le immagini e la vita del manicomio, che si ritrovano di continuo nella sua opera. Nel frattempo Allen ha terminato gli studi, e può dedicarsi all'attività formativa per eccellenza di ogni poeta Beat: il viaggio, la vita “On the road”.

A questo punto, dopo la necessaria premessa biografica, una precisazione, in pieno (voglio sperare!) spirito Beat: alla domanda “che cos'è la beat generation?”, Ginsberg ha sempre risposto così: “non esiste la beat generation. Sono solo un gruppo di ragazzi che vogliono farsi pubblicare.” Questo era l'atteggiamento di quel gruppo di poeti, che, rimanendo più lontani possibile dalle idee di scuola o corrente, si sono “limitati” a scrivere del proprio tempo e della propria vita, di quello che accadeva intorno a loro e dunque in loro. Non una scuola dunque, ma una semplice “generation”: ed è proprio agli uomini del suo tempo, in nome di tutti gli uomini del suo tempo, che Allen Ginsberg fa risuonare il suo “Urlo”, la poesia che lo ha reso famoso.

“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate isteriche nude...”: da

qui si dipana una descrizione narrativa (o narrazione descrittiva, come preferite) a cascata, divisa in un'enorme quantità di flutti che hanno l'aspetto di visioni, senza esserlo mai davvero. Perché Allen non si è inventato niente, ha solo scritto ciò che ha visto, nel modo in cui lo ha visto, e tutto ciò che ha visto è profondamente, terribilmente, ma poi meravigliosamente reale. E, come accade a tutti i grandi Autori, raccontando si è raccontato a noi, anche se la sua intenzione non era questa; infatti, come lui stesso afferma, “scrivendo Urlo ho pensato a me stesso: se avessi pensato a come meglio farla pubblicare, probabilmente non sarei mai riuscito a finirla, forse perché mi sarei sentito schiacciato, soprattutto da ciò che la gente non si aspettava”. E' da queste parole che possiamo capire come Urlo sia innanzi tutto un lamento interiore, che nasce per l'interiorità e ad essa primariamente si rivolge, allo stesso modo in cui quel “Canto di me stesso” che apre le “Foglie d'Erba” di Walt Whitman, si sarebbe potuto intitolare “Canto a me stesso”. La citazione di Whitman non è casuale: è lui infatti l'unico poeta del passato a cui Ginsberg si rivolge come ad un padre ideale a spirituale, ed è proprio sullo schema metrico e strofico di “Foglie d'Erba” che si impernia la composizione di Urlo. Whitman è l'unico modello di Ginsberg, che lo trasforma in un eroe, e lo trasporta più di una volta nella seconda metà degli anni '50: ed è così che Whitman accompagna Ginsberg in un supermercato, stando a quello che lo stesso Allen scrive in “A Supermarket in California”. Dunque, abbiamo un modello definito e circoscritto; ma a rendere le cose imprevedibili ci pensa l'altra fonte d'ispirazione principale indicata dallo stesso Ginsberg: il jazz. C'è un verso in Urlo che, a mio avviso, riassume l'atteggiamento del poeta nei confronti della musica, e del jazz in particolare: “che, povertà, stracci e occhi vuoti e strafatti, sedevano fumando nell'oscurità soprannaturale di appartamenti in acqua fredda che fluttuavano tra i tetti della città contemplando jazz...”. Il jazz è contemplato, non ascoltato: è come se producesse visioni, o desse loro una forma definita. Dall'alto dei tetti, uomini soli contemplano il jazz: in qualche modo, osservano dall'esterno il ritmo della città, che poi è quello della vita, e, per Allen, che componendo i suoi versi si ispira al fraseggio e all'improvvisazione tipici di questo genere

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musicale, è anche il ritmo della Poesia. Un movimento incessante, a volte elettrizzante ma perlopiù ipnotico, capace di inglobare nella sua danza ogni cosa, una dinamicità creata dalla vita che a sua volta crea nuova (e artificiale) vita: “hipsters capodangelo che bruciano per l'antica paradisiaca connessione alla dinamo stellare nel meccanismo della notte”. Chi sono questi “hipsters”, chi sono “le migliori menti della mia generazione”? Sono gli eroi notturni ed erotici di Ginsberg, sono gli stessi Beat, che si trascinano per le strade senza meta, con un pacchetto di sigarette e magari un sassofono, che non vogliono altro che “sesso, e alcol, e balle e sballi senza fine”, e piangono, perché, abbiamo detto, sono “affamate isteriche nude”: perché non possono che vivere nel jazz della notte, nell'euforia e nel ronzio dell'alcol, delle droghe e del sesso sfrenato (e condannato, perché quasi sempre omosessuale: Ginsberg ebbe diversi amori, tra i quali anche Jack Kerouac, ed ebbe relazioni con personaggi che ritornano in Urlo, come Neal Cassidy, da lui definito “Adone di Denver”), per non essere costretti a disperdersi nel magma meccanico del giorno. Non sono anti-eroi che si lasciano vivere, ma piuttosto contro-eroi di una contro-cultura, altri eroi, la cui missione è denunciare la riduzione della vita ad un insieme di meccanismi. Il mondo è diventato una fabbrica, una monolitica industria, che prende il nome di Moloch, divinità oscura che dà anche il titolo alla seconda parte del poema. Moloch è “sfinge di cemento”, “bambini che urlano sotto trombe delle scale! Ragazzi che gemono negli eserciti! Vecchi uomini che piangono nei parchi!”; in Moloch si è soli, pazzi, si resta “privi d'amore e senza uomo!”. Moloch è l'incarnazione della negatività, della vita come l'uomo l'ha costretta a diventare e non come è per sua natura, non come avrebbe dovuto essere; le case di Moloch sono la guerra, la periferia e il manicomio. Ogni manicomio, ma specialmente quel manicomio di Rockland dove Allen è stato internato per un anno, con la diagnosi di “screzio paranoide e sessualità deviata.”: ed ecco che la psichiatria ritorna nella vita del poeta. A Rockland Allen conosce Carl Solomon, personaggio fondamentale, perché a lui è dedicata l'intera Urlo Allen e Carl trascorrono un anno internati insieme, e Allen s'innamora di questo “improvvisatore di parole”, come lui stesso ebbe a definirlo. Solomon era un post-dadaista e, come tale, era incompreso negli anni '50: ed essere incompresi, negli anni '50, poteva anche voler dire essere rinchiusi e

sottoposti a ripetuti elettroshock. Dal canto suo, Ginsberg non subì la stessa sorte: per evitarla, “promise” che, in un anno, avrebbe smesso di essere omosessuale, e alla fine lo lasciarono uscire. A distanza di qualche anno, il poeta solidarizza con Carl Solomon: “Ah, Carl, quando tu non sei al sicuro io non sono al sicuro, e ora sei davvero nella totale animale zuppa del tempo”. Nella terza parte del poema, Ginsberg si sente di nuovo fisicamente a Rockland con Carl (“Sono con te a Rockland, dove sei più matto di me...”), e qui scopre, e aiuta noi a scoprire, definitivamente, l'Amore, ovvero il senso della vita, che pareva dimenticato. In un mondo in preda a Moloch, il poeta svela il suo eroe più importante: un malato, o quello che tutta la società del tempo considera un malato. E allora Ginsberg torna a raggiungerlo in quel sottosuolo umano, e, almeno spiritualmente, lo aiuta a scappare: “Sono con te a Rockland, nei miei sogni tu cammini gocciolando da un viaggio in mare sull'autostrada attraverso l'America in lacrime alla porta del mio cottage nella notte dell'Ovest.” E alla fine della poesia, da quell'Urlo che l'ha generata, da quello stesso lamento, si leva un canto, un inno gioioso e liberatorio all'Amore. Non c'è nessun Dio, sia ben chiaro: l'Inferno è tutto terrestre, e Ginsberg e i suoi eroi lo conoscono fin troppo bene, ché lo percorrono ogni giorno, e, nel jazz, ogni notte. Non c'è Dio, non ce n'è bisogno proprio perché l'Amore risiede nell'Uomo, e nella Vita: solo, si era smarrito, o meglio, era stato smarrito. Ed era questa la missione di Urlo: trovare “l'angelo in Moloch”, ritrovare lo spirito che lega gli uomini, e ritrovarlo all'interno della materia e delle cianfrusaglie degli anni '50. La vita non è fatta di quelle cianfrusaglie, anche se esse non hanno fatto che accrescersi ed accatastarsi percorrendo gli anni fino ai giorni nostri: la vita è sacra, santa. Eccola, la parola che forma e scandisce la “Footnote to Howl” (Nota a piè pagina ad Howl), vera ultima parte del poema: HOLY! Non c'è nient'altro da aggiungere: tutto, alla fine, è semplicemente SANTO. Sta a noi crederlo, e capirlo. Ora: sempre più spesso mi capita di trovare (o inventare) punti di contatto tra lo spirito di Allen Ginsberg e quello di noi fischianti, e anche per questo ho voluto raccontarvi un po' di Urlo, che nella mia vita ha sempre avuto un ruolo fondamentale. Perché, almeno secondo me, un Fischio, pur essendo più sottile, per alcuni più debole, non è poi tanto diverso da un Urlo... Dovremmo pensarci.

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Contatti

fischidicarta@gmail.com

Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta

Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta

Fischi di carta è fondata ed animata da:

Federico Ghillino autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)

Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)

Alessandro Mantovani

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

Andrea Pesce

Emanuele Pon

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

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