Fischi di carta
Poesia di cinque giovani fischianti
I poeti sono specchi delle gigantesche ombre che l’avvenire getta sul presente... forza che non è mossa ma che muove. I poeti sono i non riconosciuti legislatori del mondo.
P. B. Shelley
Dicembre 2013 Numero 12
Illustrazione di Sara Traina (sara_traina@hotmail.it)
Editoriale Paura di vivere
Carissimi lettori, con questo numero abbiamo finalmente raggiunto l’anno di età! Inizio questo editoriale non dilungandomi troppo in melensi ringraziamenti che, in tutta onestà, rischierebbero di finire in una misera auto incensazione, quindi, data l’occorrenza, ci limitiamo a farvi i nostri più sentiti auguri per un sereno duemilaquattordici, regalandovi un grossissimo abbraccio di ringraziamento. Questo anno è stato un percorso duro e, sia chiaro, ce lo aspettavamo poiché cercare di occuparsi di poesia e di cultura non è mai facile, a maggior ragione se lo si fa gratis. Ebbene come ad ogni anno che si conclude anche noi fischianti abbiamo tirato le somme e per quanto ci riguarda siamo soddisfatti di come le persone hanno reagito a questa nostra iniziativa che definirei di sopravvivenza. Perché dico questo? Poiché gli umani hanno paura di vivere. Sussurrano invece di parlare, cinguettano invece di urlare, commentano invece di sperimentare. Siamo in overdose di informazioni superflue, bombardati di parole ed orfani di fatti concreti, salvo quelli che occorrono a far girare la macchina del dio denaro, che tutto si può dire ma non che sia umana. Questo accade perché si è intimoriti dalla propria profondità d’animo, per il motivo che dare ascolto alla propria sensibilità significa comportarsi con più umanità e in che modo questo può coesistere con la logica del “più sei se più hai”? Noi fischianti non vogliamo stare a guardare mentre la realtà che ci circonda ha interesse a soffocare la capacità umana di pensare, facendo sembrare la frase Cogito ergo sum un monito blando da incarto di cioccolatino. Noi vogliamo fischiare e se non bastasse urlare che vi è un'alternativa di fronte al ricatto di una società che in cambio del denaro ci impone freddezza, distacco, astinenza dal pensiero e dal senso critico, usando gli individui come panni da sporcare per pulire la coscienza di pochi cercatori di lucro. Ovviamente si parla di un’omertà ben pagata, dato che noi tutti occidentali ci trattiamo egregiamente tra gingilli elettronici e beni non strettamente necessari, dimenticandoci a che prezzo non materiale, ma sociale ed umanistico dobbiamo rinunciare per avere tutto questo effimero ed accattivante lusso. Siamo talmente assuefatti alla comodità che non siamo più in grado di mettere alla prova i nostri sensi, confidiamo troppo nel fatto che la corsa alla tecnologia possa risolvere anche i nostri piccoli o
grandi problemi personali e, come se non bastasse, leghiamo la nostra vita personale ai social network, con l’inquietante aspirazione di essere definitivamente accolti tra i nostri simili. Una delle ragioni di questo nostro atteggiamento è che le suddette piattaforme informatiche sono talmente sincronizzate e forzosamente aggreganti che è impossibile farne a meno, per certi versi, se occorre comunicare o prendere parte ad un contesto o ad un gruppo. D’altronde sono state studiate per sostituire, non il contatto fisico, di per se ancora irrinunciabile, ma i luoghi di incontro, cosicché ci si ritrovi non più a condividere esperienze immediate, ma esperienze mediate da un mezzo, lo schermo, insensibile ed inefficace a trasmettere una vasta gamma di sensazioni ed emozioni dell’ipotetico interlocutore. Il risultato è una sostanziale incomunicabilità sensibile ed emotiva tra gli individui. Venendo a noi: in queste righe non vogliamo elevarci sopra agli altri sputando sentenze e recitando la parte dei messia perbenisti, ma per cercare di attivare un dialogo fra le persone basato sulla sensibilità e l’umanità. Fino ad ora ci siamo messi a nudo, raccontandovi tramite la poesia, le letture pubbliche e gli eventi ciò che siamo nel nostro profondo, però in fin dei conti solo cinque individui non possono avere la stessa forza di miliardi di persone. Per questo il nostro desiderio per l’anno venturo è quello di creare qualcosa di più grande che un piccolo sodalizio, vorremmo formare un fronte unito di uomini e donne che condividono esperienze, sentimenti, emozioni. Poiché, anche se intuitivo, più persone siamo e più possibilità abbiamo di combattere questa erronea propensione all’isolamento intellettuale, all’impoverimento spirituale, alla superficialità autoindotta dai modelli commerciali globali e al disinteresse per ciò che veramente è umano. Crediamo che questo nostro modo di agire sia stato in questo anno accolto come una piccola speranza di cambiamento, a partire dal fatto che spontaneamente le persone hanno esternato il piacere, inviandoci le loro opere, di condividere l’onore e l’onere di mostrarsi agli altri non per quello che hanno, ma per quello che sono. In questi termini, fino a che le forze ce lo permetteranno, continueremo il nostro operato cercando di perseguire questa oramai nostra missione di sensibilizzazione umanistica.
Andrea Pesce
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Genovese
Non ne ho fatto parola nemmeno allo spazio del silenzio che mi lambiva guardingo sopra lo sguardo dell’ora passata sola e serale. Sono inerte ed omertoso dinnanzi a quei sospiri che hai avuto.
Forse era paura di stringerti fra i palmi scivolosi ed umidi come il cencio di carta che sdrucito covo tutt’ore nel paniere delle mie ansie. Certamente ti volevo, ma ora che sosto con fare dimesso e mesto sul tuo lucido uscio, ritraggo le gambe lasciandole cadere sui gradini della grande chiesa della Nunziata memoria di illustri genovesi e francesi di passaggio, come le navi che scruto fare ormeggio. Mi sento legato a questo portone fisso e sgomento dall’inesorabile passare delle persone che mi guardano, alcuni salutano e vanno via. Il mio umore ondeggia come il mezzadro piemontese che lavora la gleba legata alla posticcia melma di fine inverno. Sono timoroso, perciò mi ergo a spartitraffico come un bronzo ellenico insalubre d’animo, ansioso di assaggiarti. Lo faccio per il rimorso tra l’ansia di impugnarti e il terrore di restare indolente con l’immeritata grazia d’un marinaio ubriaco che stramazza sul ponte sconnesso mescendosi barcollante alle assi. Credo sia il comune destino degli amanti: sostare sulla pietraia e strisciare come le serpi
pascendosi dell’esigenza di godere nella disgrazia di quel poco tozzo di certezza. Nel dubbio ho baciato la targa innanzi a me con il nome che porti rigettandomi sul selciato su cui ho strisciato da fanciullo che ora mi vede giovane. Mi dedico ad uno strano male lasciandovi il losco dubbio di avervi parlato del vivere o dell’amare.
Andrea Pesce Plumeria
Ti ho sulle foglie che porto sull’epidermide. Ti ho come la lacrima che scende alacre sulla lingua. Ti ho farraginosa in una notte convulsa e sola. Ti ho ma ti rivoglio quando contemplo l’ombra della tua assenza passata in stanza. Ti ho intarsiata nel respiro perché con te non ho da dire “vorrei” ti ho, ti ho, ti ho, oggi non voglio sognare, ho varato il volto nel tuo prato profumato e lungo le vertebre ho scoperto come coltivare il mio arido Deserto.
Andrea Pesce
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Riscrivo
Riscrivo le prime poesie vecchie di anni, di anni giovani. I libri ai bordi consunti ora, un lucore amaro spiega pagine della mia notte, e cresce in me la debolezza, ombra dei riccioli che mi ardono tra le dita, ancora; e la rabbia che mi portò a trovare il tramonto, e descriverlo
Silvio Magnolo
Stazione di Padova
Percepisco parti di un tutto stazionario.
Qui non esistono gabbiani a posare sui binari le loro uova di mare mi manca (probabilmente) il mare tristemente rimesso inerme dalla terra
la mia casa si stende, un annegato ritorno, un’isola che urla roridi tramonti.
Qui respiro solo strade di gelsomino.
Silvio Magnolo
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Foz Do Douro1 II
Sono sceso ancora a valle dopo vigneti rossi come il sangue di vino verde come la mia speranza, cieli di nuvole non miei. Ho visto ancora la placida corrente, le canne dei pescatori sono costole nello stomaco del fiume mentre digeriscono il mio male ed io abbandono il limo della vita, come il fiume scendo lento fino al mare.
Poi arrivo dove il passo umano è interdetto da catene -mi fermo, decido. Sorrido agli amici mentre varco il limite da solo: la mia avventura è la mia paura; e mi lasciano le loro mani, benedicono i miei passi, forse vani, come quelli di chi lotta contro un dio. E tutto fino in fondo percorro il molo e ad ogni passo ricordi, volti in stuolo, passi mancati, tentativi scivolati a terra come il mio piede sul muschio bagnato. Ma aumento il passo fino al fondo, si allarga lo spazio e giungo alla fine del mondo. Solo il padre Oceano mi fissa mentre la vita mi chiede le sue prove; non posso volgere il mio passo altrove né sedermi lasso a contemplare: adesso è il momento di fare. Qui per un pesce morente sulla banchina vedo l'ala tesa di un gabbiano sfondare -quasi in uno stallo controcorrente- il vento che mi sferza violento -resto saldo quasi a stento e sento la paura crescermi in petto, stretto da fantasmi del passato, dai miei errori, chiasmi del male che è stato.
E allora ''Madre! Padre!'' qui vi invoco ancora, ai limiti miei e del mondo per gettarmi contro questo sole rosso, tingermi del suo sangue; qui fremo sull'argine,
gambe in resta, sento sulle spalle le vostre mani assenti, sento poi, la mia corsa folle, il vuoto, la gravità, il gelo trafiggermi le ossa e poi onde e correnti rocce e movimenti contorti, distorti come i ricordi che abbandono, come l'inchiostro perso di una seppia scomparsa -sento i rivolgimenti delle donne i cieli di stelle perduti i cari, i morti non pervenuti i giochi assopiti, i pianti, i giorni rapiti, i baci non riusciti e ancora su me stesso volteggio sbatto vengo colpito, un'ultima onda mi rivolta la faccia.
-Apro gli occhi sulla riva dell'oceano, così tanto sognata, attraverso l'acqua è il blu penetrante del cielo, il rosso del tramonto mentre riemergo naufrago di me stesso, perduto il mio corpo sono ancora anima pura, senza stortura, mi alzo scolo -novello Ulissementre colo dal corpo la vita passata e di colpo ho occhi nuovi, lavati i mali, cado tra le braccia sabbiose di Matosinhos -cercata nei sogni, agli angoli di ogni minuto negatoe sento correre le mani degli amici, gli occhi vedo ridenti, i visi felici trovarmi senza solitudine, i muscoli forti in moltitudine mi alzano abbracciano, consegnano ancora al movimento dell'esistenza, perché ora, qui su questo estremo di terra dove cessano il vento il dolore il passato il cruore il tremore del cuore la mala sorte, ora, senza alcun motivo di morte, rido in faccia all'infinito e grido: sono vivo, di nuovo.
1 Il Douro è il principale fiume del nord del Portogallo. Sfocia a Porto, nell'oceano.
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Alessandro Mantovani
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Mori
Mi pare che il tempo sia un'invenzione di noi attenti a stare al passo coi tempi e ad evitare i ritardi, scontenti dei tempi morti, del tempo perso e spesso dei tempi lenti.
Mi pare che le nostre siano vite a tempo: un tictac di orologi già memori del triste momento, un corale mormorio di voci che sussurra vorace «Memento... Memento...». Mi pare che noi ascoltiamo non so se troppo, o troppo poco ma sì, ascoltiamo le voci loquaci che dicono di mettere in ordine curare l'archivio che poi non potremo gestire; e lo riconosco: ascolto le voci e assorbono il tempo senza lasciarci tristi, ma nemmeno felici. Penso e ripenso: mi tuona nel cuore quel coro di voci: «Memento...» ricorre in me ogni momento.
«Memento...» mi strugge ma sono obbligato al consenso.
«Memento...» sotto il fracasso è saldo, lo sento.
«Memento...» lo ascolto: non mi abbandona anche se ora vorrei il mio silenzio.
«Memento... Memento...»
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Federico Ghillino
Aspettando Novembre
Ogni giorno passo questo vicolo largo, ogni giorno tornano miei i ciottoli, le piastrelle irregolari. Poi la salita si libera, a destra una galleria e la piazza è un respiro rumoroso. Adesso è l'ora affamata della luce sulle strade piene che arriva artificiale, poco a poco: il buio arriva sempre prima. Aspetto e osservo il cielo diventare più cattivo e basso nel traffico che s'infittisce, si ripiega e resta in una spirale di fari offuscati e sportelli sbattuti. Altre luci accendono il grigio contro il palazzo là davanti, voci si confondono nel pomeriggio che aspetta d'essere sera. Appoggiato al palo di una fermata sento l'umido del metallo e del tempo nelle ossa, l'umido che sparirà. Sparirà, hanno detto che sparirà, dicono che questa pioggia invisibile aprirà le porte, senza maschere al freddo, verso novembre. Fino ad allora, aspetto.
Emanuele Pon
La Tua Camera
C'è una nostalgia opaca qui, sfuma nelle pareti rosse della tua camera di sempre, sempre troppo stretta o vuota, troppo fredda per te.
Ho imparato a conoscerla, ma non so più come sono entrato: forse ho bussato, o forse leggera e tenace su di me ti è scivolata una spinta.
Guardo le tue foto simili alle mie: giochi e persone lontane nel tempo sono ancora qui. Dovremmo dirle macerie antiche perchè adesso restiamo solo noi?
Ma solo per la tua camera, per quelle macerie soltanto ci siamo raccontati, senza soffiarle via siamo qui: proseguire il cammino non è fuggire.
Così vedo il tuo viso farsi morbido, accoccolato nel sonno caldo di un cuscino rosso e piccolo che ha la figura di un cuore con le braccia protese;
e ti guardo togliere la polvere agli scaffali che dicono di te, e rubo i tuoi diari segreti, ed è come li avessi già letti: quei giorni li ho vissuti con te?
Entro senza bussare; so di esserci già stato e di non avere avuto il tempo di vivere il tempo con te: ancora, ti prego, ancora.
Emanuele
Pon
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Le poesie dei lettori
Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica! L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Questo mese vorremmo presentarvi un autore che per noi è anche un caro amico: Matteo Murgia In verità più che un autore è un cantautore: vi presentiamo qui una sua poesia ma principalmente scrive canzoni, infatti Matteo con i suoi compagni Stefano Cassano, Tullio Traverso e Martina Vinci anima il gruppo Blue Beat, dove canta, suona la chitarra e le percussioni, seguendo uno stile acustico di impronta cantautorale. Abbiamo già avuto modo di presentarvi il gruppo durante le nostre letture: lo scorso 31 maggio Matteo e Martina si sono esibiti in piazza San Bernardo, il 10 luglio a Sestri ponente siamo riusciti a farvi ascoltare i Blue Beat al completo ed abbiamo potuto ascoltare Matteo in una performance solitaria il 25 ottobre alla Stanza della Poesia di Palazzo Ducale. Potete seguirli su Facebook e Twitter cercando: Blue Beat Genova ed ascoltarli su Youtube: www.youtube.com/user/BlueBeatChannel
Come sarebbe bello
Cosa importerebbe sapere da dove vengo se sapessi dove sto andando?
Che senso avrebbe conoscere chi sono se avessi chiaro chi voglio diventare?
Basta domande! Sono stufo.
Sono io Matteo?
Sono io Matteo che suona la chitarra?
Vorrei... sì che lo vorrei...
Oh, come sarebbe bello.
Quanto sarebbe semplicemente bello essere Matteo che suona la chitarra!
Matteo Murgia
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Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Mattia Nesto Mattia Nesto è un ragazzo di 24 anni, laureato in Lettere Moderne. Crede negli dei inesorabili, come Apollo o Dioniso ed in quelli immensamente pop, come Gesù. Ama la poesia perché è l'eureka che ci schiude la vita. Voleva essere Chateaubriand ma si rende sempre più conto di essere René. Festeggia con i fuochi, rigorosamente fatui, la notte di San Giovanni. Ama ed è ricambiato. Questo è quanto.
Cosmonauti fai-da-te2
Come quando il cerchio si mette in movimento, ruota che gira, mulino di Amleto, azione in atto, velocità repressa che esplode, diviene ellisse, il tempo diviene Storia, poi ancora una volta il bardo comincia a raccontare, la storia rinasce, perfetta, come la ragazza che nacque da un uovo di Cigno, eccola, figura di moto,
piedi sporchi sulla terra gelida, solchi pesanti per popoli passeggeri.
Quali sono le tracce che lascio lungo il cammino, quale geometria arcana segue il mio Io, mentre mi abbandono? Svello i cerchi di Saturno, movimenti impietriti,
2 Dedicata ad Erika, come un'allegoria.
miei fratelli, li ritrovo sempre quando vedo il mio respiro, condensa di pensieri per attimi caduchi.
Lo Spazio si dipana come libro di preghiere, insufflato di divino, ma le voci non si sentono. Corpo vagante, forse altro mi sento, ma so che un giorrno, in cui spazio e tempo non vi saranno più, vago ricordo di gelato alla menta, sorriderò ancora e tu, traiettoria sghemba di inquadrature in bianco e nero mi cadrai, mi ricadrai fra le braccia da Cristo, linee curve, amache ideali (due forze le sospendono dai lati) lanciate nel pulviscolo e nel vento, per prenderti, raccoglierti, proteggerti, mentre l’universo si regge da se.
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Mattia Nesto
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Poesia e storia: riflettendo con Paul Celan di Silvio Magnolo
Mi hanno sempre segretamente incuriosito le relazioni che intercorrono tra poesia ed eventi storici, politici, fatti contingenti della vita concreta. Tuttavia tendo sempre, nello scrivere e nel valutare ciò che è stato scritto, a slegare poesia e politica, perché ritengo che la prima sia un qualcosa di ab-solutus, una creazione che prescinde in qualche modo dalla storia e trascende la dimensione temporale, e che la seconda invece sia spesso troppo legata al contingente, all'evolversi della società e dei costumi e che quindi possa inficiare la verità universale e a-temporale che la poesia reca con sé. Mi è però capitato fra le mani ultimamente un libretto interessante, La verità della poesia, una raccolta di tutte le prose del poeta rumeno Paul Celan, a cura di Giuseppe Bevilacqua. Letta la pregevole introduzione, mi sono poi imbattuto in riflessioni talmente profonde da sconvolgere totalmente tutti i cliché che chi si occupa e scrive poesia ha di solito affastellati in testa. La genialità di Celan, capace di trascendere i campi di influenza di ogni singola disciplina per condurre il lettore verso dimensioni nuove e illuminanti, mi ha colpito enormemente. Soprattutto alla luce di alcune letture fatte tempo fa, tra cui un libro di poesie di Aleksandr Blok e una raccolta di versi dello stesso Celan.
Con una abilità di analisi testuale, letteraria, storicofilosofica incredibile e un potenziale visionario degno del migliore William Blake, egli imbastisce discorsi penetranti e di prodigiosa intensità e originalità, a partire innanzitutto dal Meridiano, titolo che diede al suo discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Georgia Buchner Darmstadt, 22 Ottobre 1960. Il Meridiano è ciò che avvia il poema al' incontro, "qualcosa che è - come la lingua - immateriale, eppure è terrestre, planetario, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli"; la poesia, che è "solitaria e in cammino" e si afferma "al margine di se stessa" e per poter esistere deve essere ricondotta alla suo ondeggiamento tra il suo "ormai-non-più" e il suo "pur-sempre" viene così inquadrata nella sua dimensione storica. "Signore e Signori, al giorno d'oggi è di voga rinfacciare alla Poesia la sua «oscurità»" dice il poeta. Oscurità del tutto lecita a mio avviso, perché chi ha visto, vissuto la guerra, o chi come Celan ha scampato l'olocausto, non può esimersi dal testimoniare, anche formalmente, un certo ripiegato onusto disagio, covando un dolore in
sé tanto grave quanto ineffabile. La guerra segna l'arte e gli artisti, la poesia e i poeti, costringendoli a una radicale revisione degli schemi mentali e delle dinamiche comunicative. Quale messaggio ormai? Che cosa può essere dunque la poesia, dopo tutti gli orrori visti e subiti? È ormai "non-parola", "urlo", quel "Viva il Rè" di Lenz, personaggio di un romanzo di Buchner, colui cui risultava sgradito "camminare sulla testa". Perché "chi cammina sulla testa, Signore e Signori, - costui ha il cielo come abisso sotto di sé": ecco che Celan introduce il concetto di poeta come un "io straniato", capovolto appunto, che reca le cicatrici delle sue date tragiche, sente il peso della storia su di sé. Molti poeti hanno parlato degli eventi storici della loro epoca, hanno magari anche preso posizioni politiche ben chiare; ci sarebbero da menzionare alcuni poeti russi molto significativi in questo senso, ma tra essi in prima linea spiccano sicuramente Aleksandr Blok e Osip Mandel'stam, vissuti entrambi a cavallo tra Ottocento e Novecento. Periodo cruciale, "impero alla fine della decadenza" dicendola alla Verlaine, esso è segnato secondo Celan da tre precipui elementi, snodi, in campo artistico-poetico: "eredità romantica", "istanza realista" e "tragicità della storia". Quest'ultima ha ridotto l' uomo al silenzio, all'utopia, e la poesia per rivivere deve tendere all'"Altro", cercare l'alterità e l'incontro con se stessa, ovvero con la realtà e il suo "tempo", consapevole del suo hic et nunc. E proprio attraverso queste incursioni, queste deviazioni, incroci, "vie creaturali", "progetti d'esistenza" la poesia incontra questo Meridiano, che è un po' la riscoperta delle origini avite, primitive della lingua, l'approdo di ogni comunicazione umana, una sorta di "rimpatrio" necessario dopo essersi calati nella storia ed essersi fatti "Altri".
Ma prima di questo ci deve essere un impegno, un saper cogliere l'ispirazione che la Storia dà o impone, testimoniare in qualche modo, in toni ora esaltati ora più sommessi, gli eventi umani che il mondo ospita. Sto parlando di Blok, in particolare della celeberrima raccolta I dodici e della poesia Gli Sciti (da Il silenzio fiorisce) tutte opere composte poco dopo la Rivoluzione d'Ottobre, nel bel mezzo della guerra civile. Vi si trovano versi reboanti, di afflato quasi mitico, che urlano la rivoluzione, facendone forse in tal modo anche una parodia. Sta di fatto che di guerra e rivoluzione si parla, è un poema scritto, citando le parole stesse
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dell'autore, "in armonia con gli elementi". Ne Gli Sciti già si può leggere: "Volgeremo a voi/il nostro ceffo asiatico!", "Guarderemo ribollire la mortale battaglia/coi nostri occhi stretti", "a un luminoso fraterno convito/ti invita la barbarica lira!". Poi, ancora, ne I dodici: "O tu amarezza e cruccio", "ecco, l'ora è venuta", "libertà, libertà, senza più la croce!", "reggi il fucile, compagno, non tremare!/Spariamo palle sulla Santa Russia", "Vola, borghese, come un passerotto!/Berrò il tuo sangue". Sono splendidi esempi di quell'empito bellicoso, di quella lirica, febbrile aggressività che permeano la poesia di Blok. Ben conscio del periodo storico in cui si trova ad essere uomo (e poeta), egli appoggia gli anarchici mistici durante la rivolta del 1905 e plaude la rivoluzione bolscevica come l'atto di rinascita dell'anima russa. È questo suo spirito militante e partecipativo che gli ispira I dodici, suo opus maximum, raffigurante un drappello di soldati che presidiano il Palazzo d'Inverno durante la rivoluzione (il titolo adombra un' allusione ai dodici Apostoli di Gesù). "Oggi mi sento un genio" dice il russo, dopo aver scritto l' opera. E ne ha ben donde. In questo poema Blok, oltre ad affermarsi come uno dei più grandi poeti simbolisti del suo tempo, rivela il suo rapporto con la storia e le vicende politiche di allora: vi si possono carpire affascinanti suggestioni circa il legame poesia/storia e poesia/politica, specie alla luce di quanto egli stesso annota nel suo diario, parole che vengono riportate direttamente da Celan nell'introduzione alla sua traduzione de I Dodici. Blok si chiede "cosa il tempo farà di tutto questo"; "può darsi che la politica sia talmente piena di lordura" dice, che anche "una sola goccia" annienterà tutto. Ma questo non è detto, c'è sempre una speranza, può anche darsi che essa "non distrugga interamente il significato di questo poema" ma anzi al contrario che sia proprio il fermento che da essa deriva a far sì che "un giorno I Dodici venga letto di nuovo, in un tempo diverso dal nostro". Affermazioni più che azzeccate, direi, e parecchio attuali. In fin dei conti la lezione è chiara: la storia arreca i suoi danni all'umanità, all'arte e spesso il poeta ne può risentire profondamente, e chiudersi in un silenzio alienato ed esulcerato dal dolore. E Celan ha ben ragione nell'affermare la
necessità di tornare a un forma prima della poesia, momento in cui essa, divenuta urlo, verso bestiale, può e deve uscire fuori da se stessa, aprirsi all'Altro, trovare un meridiano, un punto d'incontro, una "svolta del respiro". Tuttavia non dimentichiamoci di Blok, che ha cantato la rivoluzione regalandoci versi brillanti e tutt'altro che privi di ispirazione. Non si devono avere posizioni troppo rigide, bisogna sempre inquadrare il momento in cui si vive, essere consapevoli delle proprie date, dei propri "20 Gennaio" (giorno della Soluzione Finale hitleriana), ma mai farsi soffocare, obnubilare dagli eventi. Condizione che esprime benissimo anche il poeta Osip Mandel'stam, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “acmeismo”. Per lui la rivoluzione, esaltata fino all'acme, appunto, assume addirittura i connotati di un "sovvertimento cosmico": "Celebriamo, fratelli, il crepuscolo della libertà" , "La terra va alla deriva. Uomini, coraggio./Solcheremo i mari come con l'aratro/fin nel gelo del Lete ricordando/che la terra ci è costata sette cieli." A un certo punto però, in altre poesie si legge: "Questa notte è irreparabile,/e da voi è ancora giorno./Alle porte di Gerusalemme/è sorto il sole nero.", "nel tempio luminoso i giudei/hanno seppellito mia madre...Io mi sono svegliato nella culla,/illuminata dal sole nero." O ancora: "Chi sollevava al secolo le palpebre infette", "Vita d'argilla! Agonia del secolo!", "non c'è dove fuggire al secolo sovrano", "Hanno annerito i vicoli col fumo dei fornelli,/hanno inghiottito ghiaccio, neve, lampone,/tutto, al ricordare l'anno Venti" (felice coincidenza qui con il "20 Gennaio" di Celan!). Ecco che gli entusiasmi si frenano, subentra quella "scienza" del commiato, predomina il ricordo, un amaro ritorno alle origini, l'inquietudine della dimensione storica, la "terra nera del tempo". La poesia è l'aratro, secondo Osip, che smuove e mette alla luce questa terra; ed è un lavoro necessario, per quanto gravoso e difficile. Perché se il fuoco della storia e della politica può accendere gli animi creativi, può anche ridurli in cenere, come menti mitragliate, guerrieri polverizzati dalla guerra. E allora il poeta deve veramente mettersi d' impegno e fare la fenice.
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Contatti
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Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta
Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta
Fischi di carta è fondata ed animata da:
Federico Ghillino autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)
Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)
Alessandro Mantovani
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
Andrea Pesce
Emanuele Pon
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
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