Fischi di carta 14 (02/2014)

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Fischi di carta

Febbraio 2014 Numero 14

Poesia di cinque giovani fischianti

Il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi.

Jorge Luis Borges, L'Aleph, La ricerca di Averroè

Editoriale

Repetita iuvant

Da quando è iniziata l'avventura dei Fischi di Carta mi sono trovato davanti ad una realtà che in tutta sincerità non mi aspettavo: parlo di ciò che è emerso creando la rubrica – che come di consueto trovate a pagina 8 – dal titolo Le poesie dei lettori. Molti ci hanno scritto, molti e di varie età: gente che non ci aspettavamo scrivesse ha inviato qualche suo componimento, chi con modestia sincera e chi con modestia affettata, chi mostrando forse anche un pelino di imbarazzo e chi invece – rutilante –con tanta voglia di farsi leggere, a volte qualcuno addirittura chiedendo pareri che non abbiamo voluto dare essendo noi cinque dei semplici studenti che hanno dalla loro solo la voglia di fare e, come chi ci ha scritto, di farsi leggere. Queste persone, conosciute o sconosciute che fossero, mi hanno fatto riflettere sull'importanza intima di esprimersi in un modo che sia più articolato del piangere in un angolo, urlare dentro un cuscino, balzare di gioia, dare dolorosi pugni ad un muro, rumorosi calci ad un cassonetto o bestemmiare. E non sto assolutamente parlando di agonismi poetici, metriche rivoluzionarie o ritmi ispirati dalla Divinità: sto semplicemente parlando del bisogno di ogni persona di dire la propria, cosa che non rende tutti Poeti, però acuisce il senso dell'espressione, riordina le idee perché richiede ragionamento ed ha anche una funzione terapeutica, sanatoria. Non dovrò ricordare a nessuno che la Lingua (o forse, in generale, ogni Linguaggio) affinché sia tale deve essere un sistema ordinato e razionale, ed è chiaro che sforzarsi di spiegare a qualche intimo o di spiegare semplicemente a se stessi – su un foglio di carta o davanti ad uno specchio – un'idea od un sentimento gli dia ordine, e quindi chiarezza, e conseguentemente ci consenta di comprenderlo. Una volta tanto possiamo dire che la parola razionalizzare non sia riferita a danaro o provviste ma, più felicemente, al rendere le cose più razionali e quindi più chiare, non è necessariamente un termine utilitaristico in senso negativo: indica un modo che noi abbiamo per puntare ad una chiarezza maggiore di noi stessi che sia l'inizio di una comprensione del fuori di noi. Ma quindi, se le persone praticano la scrittura più di quanto non si dia a vedere, perché non cercare di arricchirla e curarla per renderla qualcosa di fruibile – e di utile, se vogliamo – oltre che a noi anche agli altri? La Poesia dei grandi autori della Storia – che

è Arte, ed in quanto tale ne condivide le caratteristiche – non parte da qualcosa di diverso del sentimento che possiamo singolarmente provare noi oggi nel 2014. La differenza sta nello sforzo che si impiega per comprendere la scintilla, e comprendendola renderla un'esplosione che sia tutto un reboare nel perfetto mezzo che può essere l'Arte. Tutti questi pensieri mi arrivano, come dicevo, dai lettori, ma anche dalla lettura di certe novelle di Borges che ci parla appunto della fondamentale importanza dell'Arte a livello personale (immaginando addirittura un luogo dove gli uomini, prolifici artisti, non vivano per la Gloria dell'Arte, ma per “appagare” un sano bisogno personale di espressione ragionata) e mi arrivano infine dall'esercizio dell'autocritica che io stesso sviluppo su ciò che scrivo cercando di dire la mia, trovandomi spesso a rileggere e correggere finché non trovo la forma che ritengo più consona (che, ci tengo a dirlo, è un lieto fine tutt'altro che scontato). Vi dico, in verità, che queste parole ricalcano molto quelle utilizzate da Emanuele nell'editoriale di Gennaio, tuttavia il messaggio del titolo che ho voluto dare a questo mio articolo liminare dovrebbe rispondere alle vostre possibili perplessità: giova il ripetere, il battere il chiodo che alla prima non potrà piantarsi alla profondità giusta ma forse, battendolo adagio e con perizia, può piantarsi davvero bene, senza dover essere pedanti o noiosi. I discorsi che vi ho tenuto finora vorrebbero far riflettere sull'importanza di fermarsi sulle cose e sui casi della vita, che sono tanti e molteplici, e proprio per questo richiedono la virtù della quieta meditazione, della lenta elaborazione ed infine della giusta espressione affinché ciò che è Vita si tramuti in Arte.

Quindi, sinteticamente, desidero spronarvi all'Arte, perché questa deriva direttamente dalla Vita, ma mentre la Vita si estingue, prima che essa finisca l'Uomo ha il dovere di creare, di fare l'Arte a suo uso e costume, a sua immagine e somiglianza, per bloccare ciò che vale venga bloccato e, in definitiva, durare ed arricchire di continuo la percezioni di se stesso e del mondo, fruendo dell'arte degli altri (dagli Antichi ai propri amici) ed a propria volta adoperandosi per crearne.

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Due poesie sulla stanchezza.

I – Lavabo

la pelle è opaca le occhiaie livide hanno quello sfumato opale che si stende – una Notte sulla palpebra

non ho più memoria: ora cosa devo fare? scivolasse con l'acqua via anche la stanchezza.

II – Frustra

L'occhiaia è una virgola e mi ricorda la punteggiatura che manca nelle mie giornate: il volto che vedo nello specchio è quello del morto che mi sento, domani avrò altro tempo e mento che saprò usarlo meglio.

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Proposito

Capire sentire toccare ogni giro di luna e di ore come un ultimo fuoco, ma fatuo, e scrollarsi di dosso la pelle morta di rimpianti rimorsi, ronzii anche oggi e domani presenti, cicatrici da leggere al contrario, e lì tradurre il ritmo dei giorni nel mio nel tuo nel nostro respiro, come odorando un'ottima annata in attesa di continuare la vendemmia del tempo che ci è dato, tutto, e lo prendiamo, lo manipoliamo a nutrire il nostro cuore di radici e germogli, lasciando fuori ogni anima di riserva che non viva d'amore e di rabbia, che da rabbia e amore sempre tragga soffi, spinte, qualche idea: idee nuove o vecchie purchè siano, e tentare di credere al gorgo loro, o cedervi e molli lasciarsi cadere nei nostri progetti, e fare -fare senza paura di stare fermi; scrivere e leggere fiumi accesi di parole lettere versi, cercare là il motivo dei nostri momenti fatti di capoversi o discorsi diretti, trasformare in un incipit ogni istante senza paura di dover continuare; e improvvisare ancora musiche di tonalità dimenticate, dicono il passato, lo tengono vivo nello spartito a colori dietro gli occhi: leggere ogni mattina gli accordi sognati di notte, portarli alla voce e soffiare piano, mentre ci ascoltiamo, e ogni sera addormentarsi ancora cullati da melodie familiari, e infine trovare melodie familiari nuove, nascoste in ciò che il mondo non sembra poterci più offrire.

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Salmastro

Rumore di ferri stridenti è un giorno d’epifania d’inaspettati eventi, oggi ceno con un pezzo di pazzia.

Ho nascosto la mente in un pozzo rifugiandomi dal salmastro intimorito come un mozzo subodorando il disastro.

Fuori piovono pochi colori come in un foglio bianco, dentro, il nostro calore incuriosito dipingo.

Sei ai miei occhi intrecciata come l’edera all’albero caduto, nel buio della giornata preambolo di un futuro, forse, cupo.

Gusto il sapore del rovente seno che come icona ti fa stupenda e mi rivolti volgendoti al cielo, sono la tua marionetta di membra.

Con il tocco d’una parola t’accarezzo il profilo dell’orecchio: “ svegliati è mattino !” ma mi si stringe la gola

così il sussurro ti desta e con esso anche il male d’ansia che biforcuto ci fissa dalla fioca luce della finestra.

Vuole entrare e possederci lui bimbo, noi il suo giocare. Il sangue mi si placa l’ossa s’infrangono come le sterpi, il diurno smaschera la nostra sorte: siamo la luce pigra d’una esaurita cera.

Amani secche, prosciugate tasto dolente il suolo in segno di resa. Il tuo sguardo ha palpebre salate.

Mi prometti un’altra notte

spingendomi dentro te, marchiato come un capo e con le reni rotte ti dico ciò che siamo saldi come rocce in due parole austere: “ti amo “.

Ma sei un’ombra dalle ali nere con zigomi gonfi e tesi mi costringi a giocare ed esausto godere.

Il mezzodì cambia al bacio il sapore, sei cristallo acuminato nella mia gola seminato che ritarda il solito piacere. Il vetusto arbusto di Giuda.

Andrea Pesce Camogli

Ospite dell’amicizia scruto il paesaggio tra la scogliera, il profondo, e le dimore variopinte condite di ciottoli consumati. Scendendo la strada, di lato alla chiesa incrostata di sale e conchiglie ho nascosto l’esperienza d’una vita. Ho reso omaggio al mare e alle sue spose. Con questo gesto ho inondato la giornata di sensazioni libere e fugaci prima di annegare nella notte: colore naturale della riflessione.

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Per-sonae

Mi fermo due volte In due posti, Perlustrando ricordi Nel muschio, nei giochi Vuoti che fanno eco, I nostri troni di pietra; Gli stanzoni dove si piange

Viste quasi da padre (di me Stesso) le aule d’asilo Incrocio le gambe Su quel mio dosso Traspirando un sorriso Imprimo il grosso Peso d’aver vissuto, Finora.

Nella notte vivono persone. Maschere che cantano, Cuori muti che rischiano Infarti taciturni. Crescono idee nere, Come terra bagnata Che scalza l’abbrivio Vacuo d’un fiore invernale. Perché questo si fa, sì. Violenza, soltanto violenza, Nascosta, che viva dove deve vivere e cieca al mattino Per il gran, dolce sole, Che ci flette e ci risuona, Ancora una volta.

Nella notte vivono persone Che vogliono morire E vivere allo stesso modo, Nello stesso momento; C’è una gioia immonda Che accomuna il buio Agli occhi, La certezza di sapere, Solo, a partire dalla sera, Esserci anche senza vedere, Un mostrarsi senza specchio, Spogliarsi all’amore Quel profondo appannarsi E godere, immensamente, E poi riporre tutto in pace, tremando

In un sogno.

Altalene

Quello che mi preme È d’avere un passato forte Che sia ben radicato Agli alberi abbarbicato Alle giostre, diluiti Colori al crescere delle piogge Dentro di noi

Sono tornato giorni fa Sul monte infante E ineffabile che credevo Infinito, ora è solo un dosso Di silenzi smarriti, Che la gente qui attorno Non sa di avere, custoditi.

Mi fermo due volte In due posti, Perlustrando ricordi Nel muschio, nei giochi Vuoti che fanno eco, I nostri troni di pietra; Gli stanzoni dove si piange Viste quasi da padre (di me Stesso) le aule d’asilo Incrocio le gambe Su quel mio dosso Traspirando un sorriso Imprimo il grosso Peso d’aver vissuto, Finora.

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Euritmia

All'alba ho salito la collina pochi volatili a chiedermi il silenzio mentre pesante compatto neve sotto i passi.

La chiesa di stalattiti giace rimasuglio della festa notturna, osserva taciturna il mio disimpegno, la distanza che conduco dall'umanità.

Mi fermo poco oltre lo steccato, in una posa da riposo -staccato dal doloregli sciatori si caricano sui piedi -lische di pesce tra le vette-, esce il vecchio con il cane, fiuto fino tra le trame del bosco.

E mentre vedo scie di vite fuori campo, cori a cui non appartengo, urli alla fine del buio, mosche sulle mie retine affaticate, dita tendo verso le fronde che disegnano i volti degli assenti.

Eppure sono solo passi incavati, buchi in cui frugare, ricercare tra i cristalli siberiani il tepore dell'amore. E allora no, non partirò oggi tra i filtri dei raggi abbarbicati nel rosa.

Mi dono alla discesa torno al legno della porta mi ci fondo come mastice e dentro il rumore è il focolare, l'altare dell'amicizia. Anche senza vedere il sole appena sorto so che solo non sono e che il buio è morto.

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Alessandro Mantovani

Le poesie dei lettori

Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre 2013 abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica! L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Andrea Mazza, Genova

FOTOGRAFIA NELLA NEVE INVERNALE

Scrivi loro una lettera rosa profumata; Sotto le cascate volano uccel di predaCantano ad alto volume; ragazze ubriache che ritornano Dal ballo d'estate per morire cadendo in giù.

Fotografia nella neve invernale. Il nostro amore è in grave pericolo. Tutta la notte seduti, a chiacchiere e fumo. Contare i morti ed aspettare il mattino (torneranno quei caldi nomi e quei visi?) -Maniacale sorriso drogato ma felice. mai felice.

Fuori c'è la pioggia. Picchietta sugli umidi vetri L'uccello corvino dai boschi gelati La strada è umida e le macchine e le biciclette passano Il tempo tuona e l'orologio si ferma proprio sul più bello.

Fotografia nella neve invernale. Il nostro amore sta per morire.

al porto innevato.

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Giù Giù Giù Giù Giù Giù Giù
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Andrea Mazza

Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Fabrizio Grasso Fabrizio lavora presso la biblioteca civica Cervetto, a Genova Rivarolo. Questa poesia è dedicata a Michele La Piana.

Verso la meta

Col motorino che percorre le colline genovesi in testa col casco ha intrapreso irrimediabile un processo di fisioterapia che esplode nella sua mente il giorno della sua Laurea bella ed elegante come la sua ragazza. La pianura si unisce come il nome alla montagna bella e irresistibile in una giornata piena di sole. Anche se all'orizzonte s'avvicinano le nubi che oscurano la cima nasce anche una stella che fa compagnia nei momenti difficili del percorso verso la salita insieme agli amici. La Laurea è un punto di arrivo dopo una salita piena di ostacoli ma anche punto di partenza verso la meta.

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Il viaggio dell'elefante di Alessandro Mantovani

In questa rassegna di consigli ed esperienze letterarie, che non volutamente si destreggia tra le sponde estreme del Vecchio Mondo, vorrei spingermi all'estremo occidente, precisamente in Portogallo. Benché fuori dai suoi confini la letteratura Portoghese non abbia forti echi, è indubbia la recente fortuna di José Saramago, "che con parabole sostenute da immaginazione, compassione e ironia ci permette ancora una volta di afferrare una realtà illusoria" cita la dicitura riferita alla consegna del premio Nobel nel 1998. A viagem do Elefante (mi si perdoni la partigianeria linguistica, peraltro ben comprensibile) è la penultima fatica dell'autore, pubblicato nel 2008, la cui creazione sofferta – anche a causa di un forte malessere dell'autore, che lo portò sull'orlo della morte – è documentata da uno splendido film diretto dal regista portoghese Miguel Gonçalves Mendes che intitola José e Pilar (reperibile, a chi interessasse, solo in Portoghese e qualche poca lingua in più); il libro sarà poi seguito da Caino e, infine, dalla morte dell'autore. Quasi a coronare le parole riportate alla consegna del Nobel, anche in queste pagine Saramago ci mette a parte di una storia variegata di colori, suoni e persone, un viaggio babelico attraverso l'Europa in cui ricorre spesso e volentieri un pungente acume di fondo verso tutto ciò che è presentato in scena.

La vicenda prende spunto da un fatto storico realmente accaduto che l'autore stesso cita nella prefazione: nel XVI secolo il re di Portogallo João III invia all'arciduca Massimiliano d'Austria un elefante come dono di nozze. Ed è proprio da questo episodio, apparentemente insignificante, che Saramago muove i passi del suo romanzo, a cavallo tra storia e finzione, umorismo e dramma, che narra, per l'appunto, dell'avventuroso viaggio dell'elefante dal nome biblico di Salomone e del suo cornac (il nome dei conducenti di elefanti dell'Asia sud-orientale) Subhro. Queste le uniche due costanti figure per tutto il racconto, ma incostante è tutto ciò che li circonda: il viaggio stesso, pur snodandosi attraverso Portogallo, Spagna, Italia (la nostra Genova) e Austria è poco equamente distribuito nelle pagine, poiché, come dice l'autore, la tranquillità e la felicità non vanno raccontate, si vivono. Oltre a ciò tutte le figure che accompagnano i due sono provvisorie, sebbene profonde e spesso commoventi, dalla scorta donata dal re João, alle genti italiane incontrate lungo il

viaggio. Tutti sono volutamente fatti entrare, agire e uscire con addii ben impostati ''sotto il riflettore'' della narrazione o addirittura in appendici oniriche, dove forse la realtà, così illusoria ed effimera per l'autore, si mostra nella nebbia portoghese inghiottendo chi riesce a vederla; ma, a prescindere dai modi, quello che è certo è che tutti, prima o poi, sono tenuti a sparire senza concludersi: la narrazione, altro fattore estremo di poca coesione, passa da un punto di vista ad un altro, incessantemente, con una profondità strabiliante (ora siamo nella testa, nel cuore, nelle riflessioni del comandante portoghese per poi uscirvi e ritrovarci dietro agli occhi di un paesano che vede lo stesso comandante passargli davanti a cavallo), ma nonostante ciò nessuno di questi personaggi è veramente compiuto, ciò che vediamo sono lampi profondissimi negli abissi della psiche e dell'emozione, ma a nessuno è concesso di svilupparsi e questo per Saramago è metafora della vita o forse della morte (tema ricorrente nell'autore, si veda un altro capolavoro, Le intermittenze della morte), a voi la scelta: «è finita, non li rivedremo in questo teatro, la vita è così, gli attori si presentano, poi escono di scena, perché la norma, ciò che sempre dovrà accadere prima o poi, è declamare le parole che hanno imparato e sparire dalla porta di fondo, quella che dà sul giardino[...]. È tutto ciò che a loro è permesso fare, questo sipario chiuso non si aprirà più».

Non sono finiti certo qui gli elementi di centrifuga: benché i nomi siano importanti l'autore va dimostrando che l'essenza delle cose non sta dentro ad essi e che, qualora questi si perdano o vengano cambiati, un elefante resta tale e tale resta il suo compagno, riconoscibile in un identità umana che ha precedenza sul suo nome, che questo sia Subhro o Fritz.

Se Pirandello ci insegna che Mattia Pascal, una volta accertato come morto e non smentito, non può più essere se stesso, Saramago con il suo approccio favolistico – e forse più umanamente necessario al giorno d'oggi – ci dimostra come l'essenza più vera e l'onestà non dipendano dalle etichette. E se d'altronde troviamo giustamente dissimili i due autori appena citati si può invece ritrovare una somiglianza con il nostro Calvino; il Calvino degli Antenati, della fantasia come metodo di aderenza obliqua al reale: la realtà è talmente intricata e complessa (essa è infatti quella dimensione

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oggettiva che ingabbia Mattia Pascal) che per essere anche solo minimamente compresa necessita di una ''misura della distanza''; conviene allontanarsi da essa per vederla meglio, è bene sconfinare nel fantastico dove le possibilità si aprono per vedere veramente dove siamo; ciò non vuol dire rifugiarsi in un mondo di fantasia per non guardare, bensì è l'esatto contrario: accade proprio che, facendo un passo indietro dalla nostra posizione, tenendo sempre con un occhio puntato sulla realtà, noi possiamo comprenderla meglio. L'impianto favolistico perciò non è banale: Saramago non si riduce certo a donare voce all'elefante, a farne un cartone animato, l'invenzione sta nel suo particolare attributo: la gentilezza. La maestosità dell'elefante si condensa in bontà, egli è quasi un'incarnazione del bene, il bene ancestrale di Dio (a cui non si crede) che però esiste e si manifesta negli atti lenti e misurati, in una saggezza istinta, votata inconsciamente all'agire bene, un intellettualismo etico rovesciato, dato che razionale non è; eppure Salomone, pur non dicendo, sembra sapere quale portata abbiano i suoi atti. Pare emerso dalle lunghezze del tempo (e sicuramente lo è da quelle dello spazio), custode di una muta grandezza che l'uomo può a stento capire, «come ci sarà riuscito, non si sa, né del resto è cosa da andargli a domandare. Proprio come i prestigiatori, anche gli elefanti hanno i loro segreti. Tra parlare e tacere, un elefante preferirà sempre il silenzio, è per questo che gli è cresciuta tanto la proboscide che, oltre a trasportare tronchi d'albero e a funzionare da ascensore per il cornac, ha il vantaggio di rappresentare un ostacolo serio per qualsiasi incontrollata loquacità». E la voce dell'elefante è quella del cornac Subhro, compagno costante e amabile intenditore dei gesti dell'animale. La figura monumentale del pachiderma è affiancata dal secco cornac, indiano trapiantato in Portogallo, insofferente al potere ma costretto a servirlo, non

vanamente riottoso ma perspicace, egli è per gran parte del libro il filtro narrativo per eccellenza; in un mondo che l'autore di Azinhaga ci presenta frammentato e variopinto, intriso di credenze popolari, scarsa cultura, arroganza del potere e molta paura, lo sguardo di Subhro diventa straniante nei confronti delle ''bizzarrie'' che egli incontra lungo il cammino. Dietro il cornac indiano si percepisce la voce di Saramago, il suo pungente e acuto razionalismo, spesso disarmante verso l'irragionevolezza di alcuni comportamenti (in particolare, il tema religioso – così caro all'ateo Saramago –, qui immerso nel tetro clima della controriforma e della Spagna cattolica del 1551, ha largo spazio di analisi, sempre attenta però a non guastare il tono leggero della narrazione). Dunque, in questa tempesta strutturale, Salomone e Subhro procedono, lento passo dopo lento passo, insieme, almeno fino alla fine. Fine in cui riemerge il messo da parte pessimismo cosmico dell'autore, che ribalta nell'arco di due pagine le intere altre duecento. Ma è vero anche, però, che uno spiraglio si può effettivamente vedere, perché se non importa il finale – d'altronde tutti usciamo di scena –importa ciò che si fa prima di esso, il terreno che si calpesta, il divenire nel viaggio, il movimento e la conoscenza che battono lo squallore miserabile dello stare al mondo, il passare da essere un elefante dimenticato alla fine della terra a diventare l'orgoglio dell'Arciduca d'Austria, da Salomone a Solimano, da Subhro a Fritz, il mettersi in gioco e il fare esperienza, provandosi in ogni impresa, tentando l'intentato e l'inosabile – come il vecchio pescatore Santiago nel più famoso racconto di Hemingway – , tutto, fino all'ultima goccia di sudore, scoprendo passo dopo passo una dignità umana sempre maggiore, perché come dice la prima frase che si incontra sulla pagina bianca del viaggio dell'elefante «arriviamo sempre nel luogo dove ci stanno aspettando». E quindi speranza c'è sempre.

• Il 27 febbraio alla Stanza della Poesia di Palazzo Ducale (Piazza Matteotti 78r, Genova), alle ore 17.30, faremo una preview del numero di marzo e suoneranno per noi Martina Vinci e Matteo Murgia, componenti della band Blue Beat (potete trovarli su Facebook e Youtube cercando Blue Beat Genova)

• Vogliamo tentare la via del crowdfunding attraverso il sito www.ulule.com. Si tratta di una raccolta fondi online per sostenere il nostro progetto e rendere i Fischi di Carta sempre più ricchi e con una maggiore tiratura. Per riuscire nell'impresa abbiamo bisogno del vostro aiuto e del vostro tam tam! Forniremo prestissimo il link al progetto e news più precise sulle pagine facebook e Twitter! Stay tuned!

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Contatti

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Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta

Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta

Fischi di carta è fondata ed animata da:

• Federico Ghillino

autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)

• Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)

• Alessandro Mantovani

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

• Andrea Pesce autore di GebeNut (Ibiskos Editrice, 2013)

• Emanuele Pon

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

Fischi di carta è illustrata da:

• Sara Traina per contattarla direttamente scrivete all'indirizzo sara_traina@hotmail.it

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