Fischi di carta 16 (04/2014)

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Fischi di carta

Aprile 2014 Numero 16

Poesia di cinque giovani fischianti

Poesia è il mondo l’umanità la propria vita fioriti dalla parola la limpida meraviglia di un delirante fermento.

Giuseppe Ungaretti, L'allegria, Commiato

Editoriale

Vivere è meraviglia

Vi confesso una cosa ragazzi e ragazze sono giorni che mi balena nella mente un pensiero assai bizzarro. Sapete quelle idee che vi prendono durante il giorno e non vi lasciano più come un amo nel palato ? Ecco una cosa del tutto simile. Così, per spiegarvi meglio di cosa sto parlando, vi voglio raccontare la storia di questo editoriale. Dovete sapere che l’argomento di questo mese doveva essere improntato sulla noia, quella della società contemporanea, quella schifosissima e lacerante sensazione del “sempre uguale”; ma, appunto, a metà pagina mi sono veramente sentito mancare e con un energico colpo di spugna ho cancellato tutto con le classiche due righe ad “x”. Quel giorno il sole splendeva in cielo e per tutti i genovesi, vessati da un’ininterrotta perturbazione che durava da quasi due mesi, significava veramente una provvidenziale salvezza. Anche io, gettando gli occhi fuori dalla mia cameretta sono stato colpito dalla serenità di quella giornata splendente e così presi una delle miei decisioni irrevocabili e dell’ultimo momento: dovevo uscire ! Non mi andava di fare le solite uscite in città con l’irrimediabile risultato di camminare a zonzo per negozi, magari in cerca di quell’offerta primaverile sui capi di marca. No ! Ne avevo proprio le scatole piene, così scesi sul mio poggiolo e invece di gettare gli occhi al mare mi voltai verso il monte. Era fatta ! Dovevo andare in vetta al monte dietro casa mia. Presi giusto un paio di cose : una bibita, il cappello, un bastone da passeggio, penna e taccuino e partii. In vero ragazzi vi sto descrivendo la cosa come se fossi partito per la Russia, in realtà, molto onestamente, il tragitto durò circa un’ oretta e mezza e non fu tanto faticoso. Ad ogni modo non è certo della difficoltà del percorso che vi voglio parlare, bensì della cosa in sé: avevo superato la noia del mio vivere. Quella breve passeggiata mi ha aperto gli occhi, mi ha donato panorami mozzafiato, e, anche se già conosciuti, me li ha fatti apprezzare sotto una luce diversa. Dopo quel pomeriggio ho capito di essere vivo, libero e liberato da quel senso di soffocamento che la noia aveva stretto al mio collo. Quindi mi sembra giusto oggi cambiare definitivamente l’argomento di queste due righe, da noia a stupore e meraviglia ed è proprio questo pensiero che insistentemente sento dentro e che quasi, da quanto è forte, non mi abbandona. Insomma un “M’illumino di immenso”

all’ennesima potenza è quello che ho provato allora ed è da questo, prendendo a prestito il verso del nostro amato Ungaretti, che voglio partire. Che cosa intendo per stupore e meraviglia ? Ebbene intendo la capacità di provare emozioni vere e consapevoli, in un’ ottica di scambio empatico. Questo lo affermo perché oggi siamo il ritratto del paradosso: da un lato vogliamo cambiare l’immagine identica di noi stessi ma dall’altro, essendoci disabituati a pensare al come farlo, non ne siamo in grado e ci nascondiamo in modelli prestabiliti e preconfezionati dalla società. Questa noia di vivere ci rende apatici ai cambiamenti che siano culturali, sociali o politici. Immobili come statue di sale, indifferenti e freddi alle immense potenzialità che in vero potremmo esprimere. Non so se capita anche a voi di sentire un vuoto diamine ! Proprio una malinconia intrinseca sia nei mattoni che chiamiamo casa, sia nelle ossa che ci trasciniamo tutt’ore e che abbiamo l’ardire di chiamare viventi. Io mi chiedo come possiamo non meravigliarci più di nulla. Vero, la società ci ha dato una grossa mano a riguardo: Media, giornali, prodotti, politica, lavoro, soldi, pubblicità ecc … ci hanno portato via la voglia di provare stupore per qualsiasi qualcosa, ma certamente non credo sia solo di costoro il merito di questa incapacità sostanziale di provare meraviglia. Credo piuttosto che questo globale disinteresse per la vita vissuta e per il cambiamento sia una valida scusa di ripiego, per non far fronte alla nostra incapacità di condividere emozioni reali e partecipi. In questo caso ci viene in aiuto persino Albert Einstein che molto semplicemente e scientificamente sembra voler dare una definizione a questo atteggiamento: « Chi non è in grado di provare né stupore né sorpresa è per così dire morto; ha gli occhi spenti.». La meraviglia invece è ciò che porta all’emozione e che quindi occorre come prova inconfutabile dell’esistenza. Essa è movimento e luce che di per se sono attributi necessari per lo sviluppo della vita. La grandezza della meraviglia non va sottovalutata per nessun motivo, perché è ciò che, in ultima analisi, ci sprona ad interagire con il prossimo, quindi a vivere. Ritengo azzeccato a riguardo il parere di un grande poeta come Jorge Luis Borges: «Senza dubbio, la nostra esistenza è un fatto curioso. Il fatto di stupirsi di fronte alla vita può essere l’essenza della poesia». Potremmo dire a questi punti che un essere

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vivente ha il dovere di stupirsi, poiché in un’ottica universale provare ed assaporare la meraviglia significa amare la vita e lo straordinario, per dirla alla Leopardi: « Anche l’amore della meraviglia par che si debba ridurre all’amore dello straordinario e all’odio della noia ch’è prodotta dall’uniformità». Noi fischi forse non salveremo il mondo, non scopriremo la cura per il cancro, non risolveremo la crisi economica mondiale, ma nel nostro piccolo ardiamo di luce, movimento, poesia, stupore e meraviglia. Vogliamo combattere contro questa dilagante noia prodotta dalla standardizzazione del pensiero, della quotidianità e delle abitudini umane.

Noi in questo libretto non scriviamo solo poesia ma un puro distillato di meraviglia in carta. Quella che coviamo nel nostro cuore e con la quale speriamo di contagiare il prossimo. Voi cari lettori siete già una testimonianza tangibile del nostro percorso e questo, non lo nascondiamo, ci rende molto orgogliosi. Tutto però diventerà vano se anche voi non vi stupirete a vostra volta delle enormi potenzialità che offre il vivere. Allora è proprio il caso di dire: illuminiamoci di immenso.

Donna di periferia

In memoria della Costa di Sestri

Donna d’orizzonte sulla linea collinare hai gettato oltre il tuo sguardo al Sole. È questione d’un sorriso donna d’un secondo e poi resto solo e via con la giostra del ricordo in questa periferia che mi tocca il cuore e segna la vita mia. Una borsa, un occhiale labbra rosse da provare. Donna d’un minuto che dall’occhio ha avuto il suo pane per vedermi in futuro alla sua porta bussare.

Donna di un’ora che al mattino mi riempie e colora di follie e pensieri selvaggi desideri battezzati e salpati come piccoli velieri, dalle corde tese dalla rotta tersa verso una meta ancora sconosciuta. Donna d’una sera

che tutti o pochi incontra e castiga. S’inchina e lesta spera in un prossimo incontro che non meni prima la parola e neanche duri un’ora.

Donna d’un giorno avuta in lungarno per assetarmi d’un male e viverlo forse insieme nell’arco delle ore pochi istanti e parole solo gemiti e furore.

Donna d’una settimana che conta i visi e forse solo uno ama, si nasconde nel mare perché il mio palato sente di lei solo il sale.

Donna d’una vita dama d’orizzonte sulla linea collinare non so chi tu sia ma nell’attimo corto in cui sei andata via sorridere al mio sguardo ti ha fatto mia.

Andrea
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Sincronizzazione Aleph1 Whatsapp a Martina

Dimentico che è un gioco vivo dire, unendo le lettere, parole e solo risate mi escono di bocca mentre il dito scorre lo schermo o pianti – ridi o scuoti la testa meccanico senza quanto né dove né quando.

Vibra il telefono che ho già tra le mani è il gruppo chiede notizie, stasera che faccio, che faccio domani.

E non ho il ricordo di un ascolto in silenzio senza fretta seduti a volte al bar a volte di fronte, – farlo ora sarebbe da amanti nervosi alle prime armi – non ricordo un ascolto senza un messaggio vocale.

Vibra il telefono, trema insieme il mio sangue è il gruppo chiede risposta dice che è stanco di fare domande.

Così misuro i miei tentacoli d'animale virtuale immortale – e via!Al calcolo rituale infinitesimale del bacino infinito d'utenza che penso sia mia. Non sento voci: vedo nomi aggiunti recuperati a memoria, sincronizzo numeri – contatti senza storia.

Vibra il telefono, è ronzio impazzito è il gruppo chiede attenzione chiede se sono ancora vivo.

Anse di torrenti che discendono dai monti, contenenti il grembo parentesi, o di oboe a note basse, sassi affusolati dalle correnti, ciondolanti gocciole gocciolanti, mandola tondi suoni vibranti, – ch'io ne sia il suonatore! –Volute voluttuose di fumo, odori morbidi, gote, melograni, arance, vetri soffiati da artigiani, tenerezza delle pesche bianche, nubi nette su cieli azzurri, sempre nuovi ai miei occhi stanchi, tuoi, di vertigine – riassuntivi – fianchi.

1 L'Aleph è una novella dello scrittore argentino Jorge Luis Borges, dove, per l'appunto, si racconta di un Aleph. “Un Aleph è uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti”, un punto che, se fissato, mostra “tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. In questa poesia vi parlo del mio personalissimo Aleph.

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Moneglia

“Credevo stesse abbracciando qualcuno”

mi vedono scrivere sdraiato a lato nel ventaglio di fogli, non possono capire quanto accovacciato sulla sabbia stringo la carta come pizzo violento del mare nel suo margine impaurito. Chi non ha avuto estremo terrore, all’estremità, agli arti, ha tremato la vita in mano?

“Credevo stesse abbracciando Qualcuno”

no, ti ho preso prima, amore, e mi è bastato in quanto ora sdraiato a lato tiro fuori le mie arterie e i miei tendini, accudisco - forse - un segreto ignoto pure a me. Non spaventarti se la notte mi ha spaventato, non pensare che mi abbia cambiato lasciami solo per un po’ col mio astuccio di luci

Raggiro

(girando nei vicoli)

Vedo i volti che voglio vedere. Mi confondo. Saluto gente che non conosco, saluto i miei pensieri, in realtà. Improvvisi occhi dalle scacchiere truccate delle inferriate, dove ogni vento passa ed è vana ogni mossa

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Silvio

A Vida Em Movimento III

Sono spariti adesso quei bicchieri per i sogni che mi avevano cullato di illusioni eppure, ugualmente, non mi curo dei malanni. Impazza la musica, scrosciano le coppe mani tra le mani, spalle da titani ed io mi specchio in occhi limpidi nel guardare questo movimento che ci investe fino alla gola. Poi usciamo avvolti dalla pioggia e rimbalziamo senza sosta, sassolini nella corrente, tra un bar e l'altro, un vetro e un'altra porta -noi le apriamo tutte per riprenderci i pezzi infranti della vita, corriamo tra nuove persone ed un cerchio di braccia che sento cingermi nel fiatoNon vediamo più la paura per le imprese di domani ed è solo scivolare cadere rovinare al suolo ridendo di quanto l'incavo tra i ciottoli sia pieno di sorprese -non si affonda, ci dirige il vento, erige monumenti a noi sopravvissuti, rinascite continue, che senza ali tentiamo il volo da uccelli acerbi, stendendo pelli a gonfiarsi come vele.

E che sia terra o mare o cielo più non mi importa perché l'unica sostanza sono io stesso, che includo eludo sbatto apro e poi chiudo, siamo noi, stretti in una felicità assordante che voglio mi pervada, che con gengive sanguinolente mordiamo le briglie della ragione fino a spezzarle, terribili uragani nella notte, che siamo umani e siamo poco, qui stretti in una macchina o al tavolo di un bar.

Dimentichiamo il male e scuotiamo con violenza le pareti che ci costringono, eruttiamo l'anima a fiotti per illuminare con la nostra forza ancestrale queste strade, portare tra le tenebre un'esistenza luminosa. E l'amore che ho, così si completa di sorrisi, come pezzi di un disegno, mi ricolora di vivo perché ora che una voce mi dice -tutto è casa tua-, nell'essere inserto fluente del mondo, il mio abbraccio include l'umano.

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Le poesie dei lettori

Sulla scia delle novità inserite dal numero di settembre 2013 abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica! L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

Il primo autore che vi presentiamo questo mese è Emanuela Mignone. Emanuela è nata a Genova, studia (per essere precisi fa finta di provarci) e frequenta il corso di laurea triennale in Conservazione dei Beni Culturali. Recentemente sta seguendo un laboratorio teatrale con il Suq. Spera un giorno di diventare restauratrice.

Amore in decomposizione

La morte arriva e porta via il profumo fresco della vita. L'amore fugge via dal cuore, lasciandosi dietro un vago odore di decomposizione. L'amore inizia lentamente a marcire, come la pelle di un cadavere esposto al sole in un afoso pomeriggio di agosto. I sentimenti ristagnano e fermentano come il sangue, fermo e disgustoso, dentro le vene putrefatte. L'odore dell'abitudine è nauseante come il fegato, divenuto ormai una massa grigia e informe. Il rancore è un tarlo che divora il cuore come i vermi che sgranocchiano e banchettano dentro quel corpo privo di vita. Si intravedono le ossa della disperazione, lisce e bianche, con ancora qualche brandello di carne attaccato. L'amore muore e fugge via da quel corpo decomposto, lasciandosi dietro solo ossa, polvere e brandelli di rabbia.

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Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Gabriel Benvenuto Gabriel nasce nel 1985 a Santa Margherita Ligure da padre italiano e madre tedesca, dopo il conseguimento del diploma nel 2005 al Liceo Classico Delpino – Indirizzo Psico Socio Pedagogico – di Chiavari abbandona per 7 anni gli studi svolgendo vari mestieri e diverse mansioni. In seguito, mentre lavora part-time, decide di iscriversi alla facoltà di Scienze della Comunicazione a Savona trovando nuovi stimoli e ottenendo buoni risultati in vista, alla conclusione della triennale, di una laurea specialistica in giornalismo.

In queste sere

In queste sere sospese nel tempo corvi volteggiano, stanchi nel sole e vivere appare più grande di quanto ci avevano fatto sembrare.

In queste sere sospese nel tempo vecchie emozioni, riacciuffate nel vento, alimentano ricordi sepolti dalla banalità di chiacchiere e pensieri sommersi.

In queste sere forse ci rincontreremo soli, io e te, fra fili d'argento e lacrime d'asfalto nell'inesorabile rincorrersi del tempo dove tramonta l'anima, senza tregua.

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Gabriel

Wasteland 2.0

Thomas Stearns Eliot è uno di quei poeti che alcuni non amano citare, per i più svariati motivi, ma principalmente in nome del politcally correct imperante. A Eliot è andata bene a non aver subito la damnatio memoriae che può aver subito un uomo, un artista come Ezra Pound. E anche costui non è citato a caso: mi capita spesso di chiedermi quanti abbiano sentito nominare Casa Pound, e quanti abbiano letto i suoi Cantos; la stessa sorte sarebbe potuta capitare a Eliot. Infatti, come Pound, Thomas non ha mai fatto mistero del proprio antisemitismo, schierandosi su posizioni decisamente reazionarie. Il suo nome tuttavia non è stato usato da un collettivo neofascista, e forse dovremmo chiederci perchè. Ma su questo riflettiamo in silenzio, e ripartiamo da un'amicizia. Di questo prima di tutto si tratta, infatti: amicizia, reciproca influenza e venerazione letteraria e poetica, ecco cosa c'è stato tra Thomas ed Ezra. Siamo nel 1922, nel bel mezzo del cosiddetto “modernismo”. Dostoeskij e Leopardi prima, Nietzsche, Freud e la Grande Guerra poi hanno spazzato via ogni singola certezza, sia essa politica, spirituale, filosofica, scientifica. E' l'apocalisse dei valori costituiti, e sta succedendo ovunque: proprio nel 1922 esce un libro che s'intitola Ulysses, firmato James Joyce. In casa nostra, la portata della novità non sfugge a Montale e a Svevo. In Inghilterra non sfugge a Thomas Eliot, che dà alle stampe quella che forse è la sua opera più importante, destinata a diventare una pietra d'angolo della storia poetica del novecento. Ha un titolo programmaticamente apocalittico: The Waste Land, ovvero La Terra Desolata. Entriamoci e cerchiamo di capirla. Innanzi tutto la dedica: “per Ezra Pound, il miglior fabbro”. Di nuovo l'amicizia letteraria, di nuovo la passione che ha fatto incontrare i due poeti: Dante. Ecco le due dichiarazioni d'amore di Thomas, il passato e il contemporaneo in sei parole. Nell'epigrafe subito sotto, dei ragazzi chiedono alla Sibilla Cumana che cosa ella desideri, e l'indovina risponde: “desidero morire”. Proviamo ad entrare proprio da questa scorciatoia, i modelli e le citazioni: essi sono capitali per lo stile di Eliot e per la comprensione di questo poemetto. Non c'è una struttura narrativa in questi 433 versi, non si riesce ad individuare una fabula che tenga insieme le cinque parti in cui essi sono divisi. Ci sono, però, l'Antico Testamento, Ovidio, Dante, Shakespeare e Baudelaire, citando solo le ricorrenze più esplicite.

Versi di questi poeti, parti delle Scritture, elementi mitologici ritornano ovunque nel testo: ma che cosa accomuna Dante a Baudelaire, e questi due alla Bibbia o alle Metamorfosi? E' proprio questo il filo rosso di questo lamento. Li accomuna ciò che negli anni '20 del '900 non c'è più. Un valore. Un punto di riferimento. Un ideale verso cui indirizzare la propria vita, quando non la propria Arte. E che cosa è rimasto? La Terra Desolata. Oppure, per usare un'altra accezione del verbo inglese “waste”, La Terra Sprecata. L'uomo moderno non ha più niente da dire, è vuoto, e ha svuotato di significato e di valore tutta la bella terra che aveva intorno a sé. Dunque, è questo il deserto che Thomas vede dinnanzi a sé: lo stesso deserto da cui il Re Pescatore, padre di Re Artù (personaggio che torna e ritorna nella Waste Land), si era trovato circondato all'improvviso. Eliot, come Parsifal cavaliere di Artù, cerca il Graal, e con esso la rinascita. Ed è vero: come affermano, proprio in quegli anni, i primi grandi antropologi, la creazione non è che vegetazione, ovvero rigenerazione della natura. Ma, dice Eliot, non c'è niente di positivo in questa rinascita, non c'è niente di veramente bello nella primavera, perchè essa non è altro che il primo stadio di un ciclo che si ripete senza fine: il tempo non ha senso se è sempre uguale a sé stesso. Ed è per questo che “aprile è il più crudele dei mesi”: vende illusioni “confondendo memoria e desiderio”, fa nascere fiori, sì, ma li fa nascere sulle tombe dei morti, e non c'è nessuna differenza tra i morti e i vivi di oggi. Siamo nel 1922, e Thomas Eliot, attingendo dalla cultura orientale e mescolandola con quella occidentale, ci parla di Zombie. Parla degli uomini del suo tempo come di cadaveri che coltivano e fanno crescere altri cadaveri, si spostano in massa, come un fiume mefitico e senza senso (volete un'immagine per concretizzare al meglio? Metropolis di Fritz Lang, 1926, potrebbe fare al caso vostro), in uno scenario in bilico tra il mitico e l'iperrealistico, tra la Gerusalemme biblica e la Londra industriale. Il passato travolto da un presente senza più alcun senso è emblematicamente rappresentato dai personaggi che animano i versi, anche questi posti in contrapposizione tra loro: un Tristano ed una Isotta contemporanei che chiedono il vaticinio dei tarocchi ad una cartomante; una coppia di amanti annoiati che, “in attesa che bussino alla porta”, gioca “una partita a scacchi”, come intitola la seconda parte del poemetto. Nella

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terza parte, “Il Sermone del Fuoco” (ripresa diretta di un testo dell'ascetismo Buddhista), Eliot cerca una qualche sorgente d'acqua che purifichi e renda di nuovo fertile il deserto attuale; ma il Tamigi, come il Gange ormai è “irreale”, come ogni città, e ogni cosa è coperta dalla “nebbia bruna” di ciminiere e macchine: le Ninfe mitiche sono partite, si sono appartate con “eredi di direttori di banca della City”, e alle sue spalle il poeta sente il rumore del “vicolo dei topi” e “lo scricchiolio delle ossa”. Poi, nei versi centrali del poemetto, fa la sua comparsa l'indovino Tiresia, cieco, vecchio, che assiste impotente al sesso monotono e meccanico tra una dattilografa che rientra a casa ed un giovane “foruncoloso”: costui non è altro che, come ha teorizzato lo stesso Eliot, il “correlativo oggettivo”, l'immagine concreta del sentimento e della condizione di Nulla e di Male in cui si trovano immersi gli uomini. Di fronte a questo “cumulo d'immagini infrante” che resta, Tiresia non ha potuto far altro che “presoffrire tutto”, e forse, come la Sibilla, desidera soltanto morire di fronte all'indifferenza totale. Ora anche Eliot e il Re Pescatore sono sconfitti, perchè non c'è più niente da pescare, nessun valore, nessun Graal: l'acqua, quando c'è, porta la morte al marinaio fenicio Phlebas con il suo gorgo infernale (“La Morte Per Acqua” è il titolo della quarta parte), finchè, nella

quinta ed ultima parte, non scompare del tutto, come all'inizio (ritorna l'idea del ciclo, infinito ed insensato). L'acqua non ha fatto crescere né ha purificato nulla: era già contaminata in partenza. Come un virus di aridità che, a partire dall'uomo, si diffonde. Resta solo un'eco, “Ciò che disse Il Tuono”. E' appunto la Voce del Tuono (contenuta, si crede, in un antico testo indiano) ad offrire, alla fine, l'unica speranza, ancora troppo vaga. Perchè nel frattempo il mondo continua a sfaldarsi. “Torri che crollano”. Vi ricorda qualcosa? E' questo il motivo per cui scelgo spesso di viaggiare nella Waste Land, rileggendola tutte le volte che posso: forse è solo suggestione, ma credo che, se riletto, Eliot possa dire molto oggi, per oggi. E credo che, in fondo, la sua Waste Land sia la nostra Waste Land. Ci sono scrittori che, volenti o nolenti, si trasformano in profeti. Penso a Dante, Svevo, Pasolini. E penso anche a Thomas Eliot. Forse, ora che anche noi abbiamo ben stampato nei nostri occhi e nei nostri ricordi il “correlativo oggettivo” di quelle “torri che crollano” di cui Eliot/Tiresia ci ha detto, possiamo rendere un po' meno vana la sua esplorazione nel Deserto. Partendo dalla Desolazione, proprio come Thomas, forse possiamo trovare anche noi quella parola, quell'idea che chiude La Terra Desolata. “Shantih Shantih Shantih”. Traduzione letterale: pace ineffabile.

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GENOVA è....

LA CITTA' DEI POETI!!

La Stanza della Poesia di Palazzo Ducale, col Patrocinio dei nove Municipi del Comune di Genova e la collaborazione di Coop Liguria, lancia un grande concorso di poesia aperto a tutti i residenti a Genova

LA CITTA' DEI POETI premierà 1 autore per ogni Municipio e 1 vincitore assoluto che potrà leggere la sua poesia a Palazzo Ducale durante il 20° Festival Internazionale di Poesia (9-16 giugno) insieme ai più grandi autori mondiali.

Trova il bando presso il tuo Municipio o su www.festivalpoesia.org

La data di scadenza per partecipare al concorso

LA CITTA' DEI POETI è il 30 aprile 2014

La partecipazione è gratuita.

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Contatti

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Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta

Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta

Fischi di carta è fondata ed animata da:

• Federico Ghillino

autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)

• Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)

• Alessandro Mantovani

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

• Andrea Pesce autore di gebEnut (Ibiskos Editrice, 2013)

• Emanuele Pon

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

Fischi di carta è illustrata da:

• Sara Traina per contattarla direttamente scrivete all'indirizzo sara_traina@hotmail.it

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