Fischi di carta 1 (12/2012)

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Fischi di carta

Dicembre 2012 Numero

Editoriale

Se al primo sguardo che lanciate su questa nuova rivista vi chiediate chi siamo, prima di svelarvi i nostri nomi affermo il nodo che sottende alla creazione di questi pochi fogli che tenete in mano: noi siamo il paradosso nel paradosso. Ma una frase così da sola non basta, nel paradosso bisogna entrarci per capirlo e condividerlo, e questo dunque merita la sua spiegazione: i componenti dei Fischi di Carta sono cinque giovani poeti genovesi (Federico Ghillino, Silvio Magnolo, Alessandro Mantovani, Andrea Pesce ed Emanuele Pon) che, vissuti in un momento storico differente dal presente, con maggior attenzione e peso alla letteratura, probabilmente non si sarebbero mai associati; e questo è già il primo passo dentro al nostro paradosso. Sì, perché i nostri stili, come avrete modo di leggere, sono completamente differenti e spesso hanno davvero poco a che fare uno con l'altro; in che modo allora persone così diverse si ritrovano unite in un progetto come questo? La risposta è una e chiara: per l'amore e la devozione che sentono intimamente verso la letteratura. Uno scrittore o aspirante tale oggi non è più al centro della società ma è costantemente spinto verso i suoi estremi, isolato in una condizione liminare di solitudine sul precipizio del nulla, percependo spesso un invisibile muro che impedisce una comunicazione aperta del proprio sentire. Egli è aggiogato in un isolamento senza spinte né stimoli esterni, bove inutile che non produce, passato e lento, ma soprattutto inadatto al presente, incapace del conforto della sicurezza e tremendamente volto all'analisi della realtà, in un costante penetrarne la superficie

per giungere a qualcosa di più autentico. In una società che pone al centro dell'attenzione l'ipocrisia dell'apparire in una fatua celebrazione della superficialità noi vogliamo avviare, secondo un moto contrario, la comunicazione dell'essere lanciando il nostro fischio per le strade, arrivando anche al punto di risultare assordanti. Siamo qui per dimostrare come la poesia conti e valga anche e soprattutto in questi tempi. Quindi ecco il nostro paradosso (un'associazione di scrittori che condividono poco o nulla sul piano ideologico letterario, aggrappati solamente alla loro passione) nel paradosso di una società che mette da parte la figura del poeta come un essere che non è in grado di trovare un suo posto nell'ordine costituito e di restarvi tranquillo. In questa particolare condizione d'esistenza diviene chiaro come per associarsi in un progetto come questo le ideologie letterarie, le discussioni sullo stile e la poetica possono diventare, se male utilizzati, un insieme di torrioni dentro i quali ognuno potrebbe arroccarsi nelle proprie convinzioni, restando così però un'isola sperduta, nemmeno in mezzo ad un mare che la ignora ma al limitare di esso. Perciò, abbandonata questa chiusura e accettata come collante collettivo la sola idea di letteratura superando ogni tipo di differenza superficiale, ci prefiggiamo un contenuto da comunicare a gran voce: quello della propria interiorità. Questa rivista non vuole essere di un preciso schieramento letterario, bensì essere un contenitore di varie esperienze che si sono incontrate nello stesso milieu e che hanno deciso di collaborare insieme,

traendo da tutto ciò anche il vantaggio derivante da una simile condizione ovvero l'arricchimento reciproco in un cosmopolitismo di stili e idee che è la base per un'ulteriore spinta alla crescita poetica. La nostra intenzione è quella di raccogliere gli elementi residuali, i trucioli, i rottami, nei quali l'esistenza si è frantumata e sintetizzarli nel verso, affrontando una prova agonistica per rendere senso e colore a quello che ora è grigio e impenetrabile. Perdere il racconto della realtà, di sé, di una storia, di qualunque cosa che sia raccontabile, perdere la curiosità, l'ammirazione e lo stupore, la cognizione del male, il sentore della sofferenza e il gusto di esprimerle significa perdere un tipo di comunicazione naturale, perdere la letteratura, ma soprattutto significa ridursi ad essere macchine automatiche, un mero e complesso insieme di ingranaggi pieni di sangue, asettici nella loro scolorita freddezza. Per questo i nostri Fischi sono anche di Carta, per sottolineare un'appartenenza a un materiale terreno che, nonostante la seducente estetica e comodità della tecnologia, irretisca al tocco stimolando la punta di una penna, un oggetto che sia fisicamente esistente, non solo un dato perdibile per un qualche guasto: la nostra poesia non si perde e non si guasta, è un Fischio di Carta, richiamo al dimenticato, udibile da lontano, fastidioso se deve, ma non solamente astratto, può essere toccato, accarezzato e anche accartocciato, fatto a brandelli dopo la lettura, reso a quei frammenti da cui è stato creato.

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Il Salto del Pilota1

Sotto grevi nubi di pianto spacca la luce su questo equoreo piano mio breve; altro grigio non vedo se non il mio che si scontra con i tuoi confini colorati; la pilotina oscilla larga e al mostro m'affianco con solenne rammarico, ché questo mio essere in modo rapsodico è costretto a un sordo esilio dal tuo canto melodico.

Vivo un'esistenza strappata, mi attacco, al mostro come a te, con una scala e piolo dopo piolo, a salire e scendere, ho l'assoluta percezione di essere nulla.

La speranza più non mi divampa in cuore quando, ancor scendendo, la luce rotta è ringhiottita nel fusivo grigio e il tuo odore scolora nel ricordo; e così, a mezz'asta del mostro, come una bandiera indecisa al tuo collo liscio e lieve anelo, allo sbaglio e al ricordo.

Conduco navi e non la vita ma, oh se potess'io staccarmi da te balzando come salto dal mostro. Le tue rive un tempo esplorate sono ora il freddo salato di questo mio perpetuo movimento ciclico, rischiando ogni giorno che il mare mi spenga il calore. E salto e salto e salto da tutto fuorché lontano da te, che eppur è come mi sento.

E non basta quest'esilio della carne, ché la mia mente, quando stacco il piede dal piolo, sempre ti abbraccia; forse, forse sì, un giorno l'accoglierai ancora nel mio salto.

Ma lontana ti volti dall'alto, con te i colori, la luce, la vita, ed oramai, solo, io sono già in volo.

1 I piloti delle navi non sono i capitani, essi salgono sulla nave quando questa è vicina al porto per poi portarla all'attracco; scalano sulla nave e saltano giù da essa tramite una piccola barca chiamata ''pilotina'' e con il solo mezzo di una scala a pioli in condizioni spesso durissime.

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Praga

Il fuoco conchiuso Dei locali oscuri,

Fuori

Da ogni umbratile Luce di follia.

Sembra

Malvagia la vita Lungo l’acqua nera

Del Carlo

E i ferali gesti Di gioia degli amici

In festa…

Ma a volte capita Di apprezzare la chiarezza

Della notte.

Silvio Magnolo

Luna

Nell’alone rutilante Dei freschi sospiri Notturni, Mi ritrovo dentro Una strada deserta, Con l’ammasso di dolori Che essa ha trasportato, Davanti a un’enorme Luna rossa.

Pigiata nel medesimo Frutto di disperazione, Appare alla mia solitudine, Serena afflizione

Di giorni soltanto scoloriti. L’impressione che ho È una sottile Infuocata distanza, L’impressione è che tra noi Scorra del sangue.

Silvio Magnolo

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di
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Chiaroscuro

Dalla lampada sgorga luce e sul muro scrosciano ombre, nel fotonico gioco di oscurità rivedo l'uomo che è luce, che è buio, che è sempre in chiaroscuro.

Gli alberi spogli

Ascolta: ho incontrato nei versi la gioia che dura, la felicità degli altri. Io scrivo con cura la verità dei miei giorni; l'amore per me è finito, ora incontro la vita: la mia notte più scura.

C'erano giorni assolati e risi di visi passati; a volte ho ancora quel riso illuso sul viso marchiato. Ma non è più la vita di prima. Cadevano le foglie da chiome illuminate fin sui nostri corpi di minuscoli bambini stesi a terra perché a volte ci facevamo male ed assaggiavamo l'amaro di questo nostro esistere sotto i raggi del sole. Ora le mie ginocchia sono intatte, non perdo sangue da tempo, ma come quelle foglie morte sotto i miei primi passi mi disintegro lento.

Allora poggio la testa al muro e vivo una pienezza di dolore.

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Carne di Marmo (Rodin)

So quanti passi hai sentito già calpestare, silenziosi e affrettati i ricordi che stillano da te in attesa di chi ancora li viva: il tuo dolore è il mio, marmo figlio d'un poeta di pietra soffice, quando mi fermo a guardarti, solo.

Non ho memoria di un tuo sorriso, il tuo pianto mai s'è unito al mio: non piangi, non ridi, non rispondi, resta fredda la luce ferma delle tue perle bianche, vuote come finestre chiuse su un lontano altrove.

Ma ora dimmi chi sei, cosa vedi oltre il candore, cosa vedi in me che in te cerco specchi di perfezione immobile, vedo luce senza ombra nelle tue curve, che forse t'invidio.

Raccolgo di nuovo il tuo silenzio, e non pulsa il tuo bel cuore, sotto la mia mano.

Antartide

Spesso ti ho sognata tra i flutti della notte in solitudine;

dormo tra le tue braccia, lieve, fresca sorride la culla delle tue onde,

come l'oceano del cuore infinita lungo l'orizzonte non conosci terra ferma.

Sempre sei acqua timida, nel tuo fiume, indeciso immobile tra mare ghiaccio e cielo.

Accogli il naufragare di me, soffice sensuale riparo dal deserto dalla parte del gelo.

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Gradito

Voglio godere d’inganno celato Riempiteci di sol spezie superbe. Mente vuota e dolce sapor d’erbe Nei calici e sulle forme versato.

Carne sublime e vino fruttato Fra nostre bocche ancora bramose Stuzzichiamo le gote licenziose Mesciamo in letto dolce e salato.

Alcun imbarazzo, sui colli l’amor Fuori deserto urbano c’invidia, Culliamo barbaro nel ventre tepore.

Teniamo in noi il cupo dolore D’essere un lampo colmo d’insidia Cena pingue e proibito calor.

Riscrivo

Il vuoto nel viver Una nota lontana Il mezzodì già risuona. Colmo lo spazio del letto Mi è indifferente.

Nel sonno non v’è riposo Non voglio solo Godere del caldo del sole. Prediligo riscrivere ancora Nell'ombra i capitoli della nostra storia.

Arabeschi

Sei la mia carne. Singhiozzo divino Il tuo passo E il tintinnio Del velo a te Indosso.

Sei come tornare Negli Harem ricolmi Tu eletta odalisca.

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Riempi l’ambiente Col niente d’una tua essenza.

E ti privi del velo Già amo i profili. Negli attimi d’un Šarqi 1 Esco dal giorno, Nei miei istinti Sorgi e ti defili.

Come d’una farfalla Le braccia tue ali Come d’una pantera Gli sguardi tuoi grinfie infrangi e rimandi Crudele del cuor l’attesa.

Sol un’intesa Io fremente limbo Placa l’ansia d’averti. Quel lampo di Duat 2 Spezza il peso del ventre Pasce la mia speranza.

Un baglama3 muove Nel salone ti confondi Fra i fumi ei ritmici fiumi. Un req4 batte repentino E sulla melodia d’un qanun5 Ti pieghi raminga.

Sulle tue mani reti E così avvinghi la ragione Ai palpiti tessuti sui veli. Tremano milizie e cravatte. Eppure con tanta facoltà Timida sul bemolle t’inchini.

Tremenda legenda leggiadra Svolgi danzando la bolgia Della mia ansiosa voglia.

1 Stile di danza sensuale ed elegante di origine islamica.

2 L’aldilà nella cultura egizia.

3 Strumento a corda di origine turca.

4 Strumento a percussione, antenato del tamburello.

5 Complesso strumento a 72 corde di origine araba, usato nella musica tradizionale come accompagnamento.

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Contatti

fischidicarta@gmail.com

Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie!

Fischi di carta è fondata ed animata da:

Federico Ghillino

autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011)

Silvio Magnolo

Alessandro Mantovani

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri)

Andrea Pesce

Emanuele Pon

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri)

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