Fischi di carta
POESIA DI CINQUE GIOVANI FISCHIANTI
Non preoccuparti Giovanna, i falò prima o poi si spegneranno. Tanto vale che tu lo sappia: la felicità non dura.
E. Orsenna, I cavalieri del congiuntivo
IN QUESTO NUMERO
Planetario | Marina Cvetaeva, il continuo restare - G. Cultrone Elementi | Il foglio bianco e il cassetto delle mele marce - F. Asborno Intervista al signor C. - C. Calabresi
Prossa Nova | Denaro pulito (pt.1) - M. Karoli Infischiatene | La ragazza del treno - recensione - A. Moro
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n°30 Ottobre 2015 Genova
EDITORIALE
[…] [C’era Oreste fianco a me nel greto una o due notti fa e non lo ricordavo. Mostrava il suo corpo nudo ben più agile del mio cantava in spagnolo tra se ‘’Non è tremore uccidere la carne che si fonde addosso, non peccato tagliare il pellame unto dei bastoni anteriori. Non si può negare a qualcuno di bucarsi un occhio con l’ala spalancata anche se ancora in volo, né di coniugarsi al participio futuro.’’ Nell’acque le sostanze e il sangue dilavanti li curavano gli dei e io pensavo
-Oreste, tutti voi che fate, compite i gesti sulle cime, ci vedete a noi qui con queste code di salmerie pesanti? Oreste, tuo padre con la gola in fiamme pensava al Mirmidone trafitto, tibia o polpaccio, alla lacrima che perdeva insieme al nome? Oreste lo sanno le autobombe e i missili aerei i nomi del figlio
RES NOVAE
di Alessandro Mantovani
In latino le cosiddette res novae , a differenza di quanto possa sembrare a chiunque abbia masticato il livello liceale della lingua, non sono le “cose nuove” bensì le rivolte o rivoluzioni (ammesso che il concetto oggi di rivoluzione sia applicabile all’antichità). I Romani, che avevano un’idea di Stato solida e strutturata vedevano sempre l’innovazione (magari apportata da fuori, da qualche provinciale) come un quid in grado di minare gli equilibri della res publica . I primi a guardare storto la Grecia e la sua cultura sofistica, additata come fumosa e mendace, tanto da farne un caso culturale, i primi a costruire un muro in Europa, nel tentativo di tenere fuori; eppure i primi a cui non è da imputare un atteggiamento intollerante verso le culture differenti o ostile nei confronti della novità, avendo cambiato tre volte ordinamento statale, con imperatori provenienti dalla Gallia o dall’Hispania, e avendo introdotto tante leggi da creare un diritto studiato tutt’ora nelle Università italiane (viene in mente la grandezza del Giustiniano dantesco, «che, per voler del primo amor ch’i’ sento, d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano», ultimo erede di quella complessità). Ma allora, la paura delle res novae ? Come tutti gli uomini, da quando sedentari, anch’essi hanno subito il terrore del cambiamento. Di fronte ai mutamenti di equilibrio si possono fare due cose: o ostinarsi nel contrario e spezzarsi, come la quercia di Esopo piena di sé e misera di fronte alle flessuose canne, o assecondare la metamorfosi e correggerla e correggersi nei punti che offrono leva al miglioramento per accedere ad una condizione più elevata rispetto alla precedente, come ci insegna Ovidio nel suo capolavoro. Ecco, io credo e auspico che i Fischi di Carta abbiano trovato la loro metamorfosi e la loro strada per migliorarsi, senza più paura delle res novae , le quali, come in ogni ambito, richiedono tempo per essere assimilate. Così, dunque, nasce dopo la pausa estiva e il lavorio conseguente, una rivista profondamente
del padre e dello spirito umano che profuma diverso in tutti noi altri? Oreste, Oreste, Oreste, Eumenidi, e foreste di poeti, sapete i nomi di tutte le donne amate, dei cicli delle genti, del pescatore nel villaggio Focide che si tagliò Dio quando scoprì le mani? Ne avete di bene di gloria di fama di giustizia -non parliamo di felicitàne avete di ‘riuscire’ (di re-uscire fuori, dallo stadio dalla sbarra, dal legame), di salire questa pena anche per chi è rimasto con un gol segnato nella mente che si distoglie, raggelato nella sconfitta? E dopo gli altri, i patres, οἰ παλαίοι, i nonni il γένος di cromosomi e di mitocondri nel sangue che si vede solo porpora di Murice denso, resta qualcosa? Resta anche a me?] […]
differente da quella che finora avete potuto leggere, diversa nei suoi contenuti, nuova nei suoi scrittori, che vuole coprire un più ampio raggio di temi ed essere un luogo di accumulo di idee, di curiosità, spunti e suggerimenti. Insomma, i Fischi di Carta puntano al gradino successivo, ancora da raggiungere, ma con dei cambiamenti radicali presupposti per continuare questa scalata. Come potrete vedere all’interno, il ruolo della poesia, sempre imprescindibile, trova però da oggi un limite più costrittivo in favore di una maggior apertura alla pluritonalità culturale: si spazierà da articoli di attualità a interviste, passando per i profili d’autore, gli immancabili lettori, che invitiamo ancora a inviarci i loro scritti, per giungere infine ai racconti e alle recensioni di novità a cura di Prossa Nova. Già in questo numero credo, da lettore, che gli spunti di riflessione possano essere parecchi: Federico Asborno ci parla dell’ansia da foglio bianco, da crisi creativa e di come tutti i Giganti avessero i loro modi (piuttosto bizzarri) per superarla, nel tentativo di accorciare la distanza prospettica tra noi e loro. Gaia Cultrone ci indica all’interno della foresta di poeti l’albero di Marina Cvetaeva e Claudia Calabresi intervista il signor C., personaggio di uso (o disuso) più che comune ed importante. A tal proposito è di stimolante e affine riflessione un libretto, credo risalente al 2011, di Erik Orsenna, il cui vero cognome è Arnoult, scrittore francese e membro dell’Académie française e dunque intellettuale dalla spiccata conoscenza della lingua e dei suoi processi. Il libro in questione, da cui è tratta anche la citazione di copertina di questo numero, ha titolo I cavalieri del congiuntivo e altro non è che una sorta di favola in cui i personaggi sono due bambini attorniati da tempi e modi verbali personificati. La storia non la diremo per non disturbare il lettore curioso; il suggerimento, invece, è quello a non dimenticare che, se la lingua è ciò che esprime la realtà e il pensiero, non possiamo permetterci di perdere il beneficio della possibilità, dell’azione eventuale, del piano B, o, più semplicemente dell’immaginazione, e del sogno. Nella mente umana se un qualcosa non può essere formulato in lingua, esso non esiste; ecco perché c’è un nome per ogni cosa, anche per ciò che è solo nella nostra testa. Dunque, l’invito, oltre a leggere Orsenna, è quello di immaginare liberamente e senza freno e di scrivere in altrettanta maniera, non pensando che sia poco verosimile far portare un’armatura di bronzo pesante a un fantasma o che un pastore faccia invocazioni alla luna. Il regno del possibile è aperto a tutto, anche alle res novae , che accettiamo ci sconvolgano nel nostro perenne mutamento. Nell’augurarvi, dunque, una buona lettura invito chiunque sia interessato alla collaborazione a contattare la redazione per maggiori informazioni; le nostre frontiere sono aperte
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PLANETARIO
MARINA CVETAEVA, IL CONTINUO RESTARE di Gaia Cultrone
Ai miei versi scritti così presto, che nemmeno sapevo d’esser poeta, scaturiti come zampilli di fontana, come scintille dai razzi. Irrompenti come piccoli demoni nel sacrario dove stanno sogno e incenso, ai miei versi di giovinezza e di morte, versi che nessuno ha mai letto! Sparsi tra la polvere dei magazzini, dove nessuno mai li prese né li prenderà, per i miei versi, come per i pregiati vini, verrà pure il tempo.
Koktabel, maggio 1913
Marina Ivanovna Cvetaeva nasce a Mosca l’8 ottobre del 1892. Figlia di una pianista polacca, Marina Mejn, e di Ivan Cvetaev, fondatore di quello che oggi è il museo Pushkin, la poetessa trascorre l’infanzia in un ambiente ricco di stimoli culturali, tanto che non stupisce il fatto che si avvicini alla scrittura a soli sei anni. La sua formazione avviene in luoghi differenti (Mosca, Svizzera, Germania) a causa dei diversi viaggi cui la famiglia è costretta, a causa della malattia della madre; nei suoi spostamenti la famiglia Cvetaev soggiorna per sette mesi in un caseggiato di Nervi (tutt’oggi esistente) proprio qui, a Genova. Ciò tuttavia non ostacola la produzione della giovane poetessa: a 17 anni infatti, la Cvetaeva si trasferisce a Parigi da sola, e lì pubblica, a proprie spese, la sua prima opera, Album serale, che verrà subito notata da alcuni tra i più importanti poeti dell’epoca, tra cui Maksimilian Volosin (autore presso il quale soggiornarono tutti i poeti russi di quegli anni); è proprio presso la sua dimora che la Cvetaeva conosce Sergej Efron, l’uomo che sarebbe di lì a poco diventato suo marito e padre dei suoi tre figli. È tuttavia lo stesso Efron a segnare l’inizio delle sue disgrazie: seguendolo nei suoi viaggi infatti Marina vive la rivoluzione del 1917, e ciò le costa un lungo periodo di separazione dal marito, le sofferenze della carestia che colpì Mosca in quegli anni e la perdita di una figlia. Dopo un periodo di tregua, dal 1922 al 1925, anni in cui vive a Praga, Efron viene coinvolto nell’omicidio del figlio di Troskij e costretto a fuggire prima in Spagna e poi in Russia, lasciando la propria famiglia nella miseria. La poetessa tenta dunque di tornare in patria, dove però quel senso di emarginazione che la accompagnava già dall’immediato post guerra si intensifica ulteriormente: malgrado il supporto di qualche poeta russo, la donna era agli occhi di tutti una traditrice, nel clima di sospetto che gravava sulla Russia dell’epoca; nel 1939 la figlia e la sorella vengono arrestate e deportate, e Efron viene fucilato. Fadeev, capo dell’unione degli scrittori a cui la Cvetaeva aveva chiesto
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aiuto, la allontana da Mosca. Marina si ritrova sola a Elabuga, con un figlio che lamenta la loro miseria; il 31 agosto del 1941 si impicca nella propria casa, incapace di sopportare tutto quel dolore.
Come si ha subito modo di notare, Marina Cvetaeva condusse una vita frenetica e segnata dalle sofferenze, sofferenze tanto forti da spingerla al suicidio. Eppure sono proprio quelle esperienze a fare di lei quella che il poeta Brodskij definì “la prima poetessa del XX secolo”; tale affermazione è certamente vera, per quanto riguarda l’ambiente russo: la Cveateva è infatti la prima nella storia della poesia di questo paese a scegliere un approccio così intimo con la propria produzione scritta. La sua poetica fu per lungo tempo influenzata dal Futurismo (fu infatti cara amica di Vladimir Majakovskij), ma è impossibile non notare, specialmente nell’ultima parte della sua vita, l’influsso del Romanticismo (dovuto principalmente, come per ogni poeta russo che si rispetti, alle poesie di Pushkin, al quale dedica anche un componimento) e dalle opere di uno dei suoi più cari amici, Boris Pasternak. Il loro rapporto fu, per entrambi, qualcosa che segnò inesorabilmente le rispettive produzioni e vite, ne è prova un carteggio (di cui manca la traduzione italiana) dal 1922 al 1936. Tale relazione tuttavia non si risolse mai sentimentalmente, al punto che Marina Cvetaeva stessa descrisse il loro incontro, avvenuto nel 1935, come un “non incontro”. In mancanza di una traduzione delle loro lettere (è interessante menzionare almeno il titolo complessivo della raccolta, ovvero Le anime cominciano a vedere) ritengo sia tuttavia molto esauriente, per quanto concerne la forza del sentimento provato dalla poetessa nei confronti di Pasternak, questa bellissima poesia:
A Boris Pasternak.
Distanze: verste, miglia... ci siamo dispersi, disuniti per vivere dismessi, muti, buoni ai confini opposti della terra.
Distanze: verste, spazi... ci siamo dissaldati, spostati disgiunte le braccia – due crocifissioni, non sapendo che si trattava della fusione dai talenti e dai tendini annodati non disaccordati: disonorati, disordinati... Muro e buco d’argilla siamo soli, come due aquilecongiurati: verste, spazi... Non decomposti, spaesati. Per asili e tuguri terrestricome orfani, smarriti.
E quale, quale marzo è oggi? Ci hanno smazzato, come carte. 24 marzo 1925
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La premessa che è necessario fare, prima di qualsiasi commento inerente alla poesia in sé, è che se già analizzare una poesia la cui lingua d’origine non è la nostra, rappresenta un compito difficile, ciò vale ulteriormente per le poesie russe, in cui la maggior parte delle scelte stilistiche vanno perdute anche nella migliore delle traduzioni. La Cvetaeva vuole qui esprimere un concetto che segnò tutta la sua vita, incluso appunto il rapporto con Pasternak: la distanza, il senso di separazione e alienazione da tutto, anche da ciò che le fu più caro. Per fare questo, lavora essenzialmente su due aspetti: la composizione delle parole e i suoni, l’uno conseguente all’altro; la parola che è più comunemente considerata il titolo della poesia, Distanze, deriva dal russo Rasstojanije, che è a sua volta l’unione del prefisso ras- e il verbo stat. A voler compiere una traduzione letterale, il concetto di distanza racchiuso nella parola russa è “essere costretti in luoghi altri”, poiché il verbo indica uno stato in luogo piuttosto forzato e il prefisso ras- allude al disperdersi. Tale prefisso (che nel testo in lingua originale è enfatizzato dalla presenza di un trattino: rass-tojanije) ricorre per tutta la poesia, nel secondo verso di ciascuna strofa (un esempio indicativo: quello che in italiano è reso come “decomposti” in russo è indicato come, “rastroili”). Tale scelta nelle parole e nei verbi comporta un’enfasi del concetto di separazione, dettata anche dai suoni: letti in lingua originale, creano infatti una forte allitterazione della lettera “r”, dando quindi un tono ulteriormente doloroso al tutto. Un’ulteriore scelta emblematica, resa, questa volta, anche dalla traduzione italiana, è rappresentata dalla strofa finale, che forse più di tutto il resto dà un’idea efficace della forza che questo senso di distacco esercita nella poetessa: ciò vale tanto per il paragone di per sé, “ci hanno smazzato, come carte”, quanto per il fatto che il verso risulta, per l’appunto, spezzato: tutte le strofe precedenti hanno quattro versi, mentre quest’ultima ne ha solamente due, e per giunta a livello di lettura l’ultimo verso risulta come sospeso, incompleto, fuori dal ritmo rispetto agli altri, proprio a volerlo sottolineare ulteriormente.
Ho dunque voluto riportare questa poesia, tra le tante da lei scritte, perché è a mio avviso emblematica di ciò che Marina Cvetaeva ha rappresentato e rappresenta nella storia della poesia, soprattutto quella russa: la possibilità di prendere il proprio dolore e dargli una forma, far trovare una via d’uscita ai propri sentimenti e farlo mettendo qualcosa di sé in ogni singolo elemento che compone ciò che si scrive; e non necessariamente perché qualcuno debba comprenderlo, ma quasi per salvarsi da se stessi, per capirsi meglio e non sprofondare nel silenzio.
“Tutto il mio scrivere è un continuo prestare orecchio”
Lev Losev, Marina Cvetaeva (1892-1941), in Storia della letteratura russa. III. Il Novecento, a cura di E. Etkind et. al., Torino: Einaudi, 1990
Marina Cvetaeva, Distanze, da L’anima in fiamme: poesie, Milano, Acquaviva, 2008
Marina Cvetaeva, Ai miei versi, da Nemmeno sapevo d’esser poeta, Milano, Feltrinelli, 2014
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LE POESIE DEI LETTORI
Federico Ciaffi, 27 anni, vive a Padova e studia a Bologna, coltivando la passione per la scrittura: quella critica (dai tempi del liceo scrive recensioni di film e libri) e quella poetica. Ha un progetto ed un obiettivo: vedere pubblicata la sua prima raccolta di poesie.
ALCUNI
Siamo i Sogni irrealizzati e quelli realizzati male.
- Noi invece siam piccoli ma già stronzi fa la mmerda!
Noi siamo percorsi da fare e quelli percorsi già.
Siamo il prossimo debito e quello che non vorrai.
Siamo il tuo gusto preferito, che però è già finito.
Poi siamo anche eleganti quando con sgarbo ti passiamo davanti.
Federico Ciaffi
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La seconda poesia che vi presentiamo è di Alessandro Desiderio
CARO RAGAZZO
Caro ragazzo Spille sparute T’infilzano
E a me sferza il tentacolo Della pozza scurastra Ch’era dolce e salmastra Ma mai più tornerà. E non odo gli odori Pure quelli ho perduto Per tastare la vista Che fu E che per sempre svanì Dissolvendosi nel vuoto Nel vuoto del…..
Oh caro ragazzo Ignaro del ballo Immoto Potresti mai capire Tu Incantevole creatura Qualcosa che non c’è E che mai è esistita? Potresti? POTRESTI?
Caro ragazzo Queste spille sparute T’infilzano
E la lama ti penetra Nelle molli E incoscienti carni Mozzando il tentacolo Superbo tentacolo
Della pozza scurastra Ch’era dolce e salmastra Che mai più tornerà.
Alessandro Desiderio
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ELEMENTI
IL FOGLIO BIANCO E IL CASSETTO DELLE MELE MARCE di Federico Asborno
L’incubo del foglio bianco: l’immensità dello spazio del possibile che ti si staglia davanti e tu – piccolo scrittore impaurito – armato di un’esile penna che anche un bambino potrebbe spezzare.
È forse quello il momento più decisivo, quello in cui tu scrittore devi dare uno spintone alla porta che ti separa dalle parole. Il momento della creazione, quando Dio stesso ti cede lo scettro e ti lascia libero di amministrare il tuo regno di carta e di porvi il tuo Adamo, la tua Eva, di riempirlo di tutta la bellezza di cui sei capace. Discorsi metafisici a parte, le storie della scrittura hanno sempre il medesimo incipit: un foglio pulito e una mano che lo deve imbrattare con dell’inchiostro. Ho detto “pulito” e non “bianco” perché è cosa nota che molti scrittori prediligessero di gran lunga fogli colorati per la prima bozza delle loro opere: è il caso di Alexandre Dumas che addirittura attribuiva a ogni colore un suo specifico genere: carta blu per i romanzi; carta rosa per gli articoli di giornale; carta gialla per la poesia.
Una mania, certo, una mania come quelle di cui sempre sono stati prede gli scrittori, vizi che contribuiscono a vivificare queste figure da manuali di letteratura, figure che vediamo ritratte col viso imbronciato, inespressive facce da scaffale di biblioteca, distanti come i dinosauri. Di loro ci viene sempre raccontata la vita, le imprese, la poetica, le tematiche, tanto che alla fine diventano nulla più che un capitolo su un libro, ipostatizzazioni letterarie che fanno dimenticare quanto questi autori fossero in realtà semplici persone, spesso personaggi curiosi con curiose fissazioni.
Prendiamo Alfieri: il titanico, vulcanico
scrittore, per restare concentrato e dedito agli studi, si faceva spesso legare alla sedia dal fido servitore Francesco Elia, che lì lo lasciava per un certo numero di ore. Usanza molto più macabra quella di Dickens, che passava i suoi pomeriggi passeggiando per i corridoi degli obitori londinesi, osservando i corpi dei defunti.
Abitudini, vizi, ma spesso anche semplice superstizione, come quella di cui era preda Truman Capote: l’autore di Colazione da Tiffany e A sangue freddo detestava il venerdì, tanto che non concludeva mai un lavoro nel suddetto giorno. Allo stesso modo evitava le camere d’albergo il cui numero di stanza contenesse il tredici, oppure non lasciava mai più di tre mozziconi di sigaretta nel portacenere, mettendosi gli altri in tasca piuttosto.
Rituali che ci dimostrano come l’ispirazione a volte bisogni andarsela a cercare, così come Schiller che (come ci racconta Goethe) si sentiva inebriato dall’odore delle mele marce che teneva nel cassetto della scrivania, oppure Flannery O’Connor che prima di scrivere si circondava di starnazzanti tacchini, polli, anatre e quaglie.
Abitudini a volte anche dannose come quella di Balzac che, per sua stessa ammissione, era capace di bere più di cinquanta tazze di caffè al giorno, se non addirittura di masticarne i chicchi per poter lavorare fino a notte fonda. Una tazza quindi sempre presente sulla scrivania di Balzac, una tazza che – parlando di scrittori – nella maggior parte dei casi diventa bicchiere, con tutti i suoi sottintesi.
Risale alla fumosa e affascinantissima Parigi della Belle Epoque lo stilema
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bohémien dello scrittore alcolizzato, vittima di un inenarrabile dolore esistenziale che tenta di affogare in bevande come l’assenzio. È il caso degli scrittori maledetti e di tutta quella trafila di personaggi dediti all’autodistruzione su cui non è il caso di dilungarci troppo, ma dei quali non possiamo non citare i casi eccezionali di Ernest Hemingway o di Charles Bukowski e del suo personalissimo rimedio alla sindrome da foglio bianco, consistente in “una pinta di whisky e una confezione da sei lattine di birra”.
Patologico anche il rapporto con la droga, che molti di loro consumavano per trovare – a loro detta – l’ispirazione necessaria per scrivere.
Michail Bulgakov scrisse Morfina per ricordare la sua esperienza con la suddetta sostanza; nella Parigi dei poeti maledetti erano frequenti le serate passate nelle fumerie d’oppio, dove l’estro arrivava da uno stato di alterazione, al pari di JeanPaul Sartre, come lui stesso racconta a proposito della mescalina ne La nausea.
L’LSD rappresenta per alcuni un vero e proprio must, soprattutto per quegli scrittori facenti capo al movimento
hippie degli anni Sessanta come Allen Ginsberg, William Borroughs, Hunter S. Thompson e Aldous Huxley.
Vita e abitudini sicuramente più salutari quelle dello scrittore giapponese Haruki Murakami, instancabile maratoneta che si sveglia ogni giorno alle quattro di mattina per scrivere, passando poi quasi l’intero pomeriggio a correre (notevole a proposito il suo libro L’arte di correre).
Le bizzarrie degli scrittori sono tante e tali che non basterebbe un articolo per descriverle, quanto piuttosto un libro intero come quello di Celia Blu Johnson (Odd type writers), interessante collage di vizi d’autore.
Tutto questo per ricordare che il foglio bianco non è un ostacolo solo per chi è alle prime armi, ma anche per coloro che ci fissano con alterigia e supponenza dalle pagine dei nostri libri di letteratura. Uomini prima di tutto; uomini molto spesso affetti da manie, idiosincrasie curiose da raccontare e che contribuiscono a renderceli più vivi; debolezze che – per carità – nella maggior parte fanno solo ridere i polli, per la gioia di Flannery O’Connor
INTERVISTA AL SIGNOR C. di Claudia Calabresi
Quando arrivo di fronte al bar in cui ci siamo dati appuntamento, l’uomo sta fumando una sigaretta. Il posacenere sul tavolino è già pieno di mozziconi. Mi avvicino; lui sembra avere lo sguardo perso tra le nuvole. A Genova ci sono 31 gradi. Sudo.
“Salve!” gli dico, richiamando la sua attenzione.
Mi guarda a lungo, poi sembra riscuotersi. “Oh, salve. Deve essere lei… Quella che mi vorrebbe intervistare, giusto?” “Sì”, rispondo. “È un piacere conoscerla.”
È ancora un bell’uomo. Ha i capelli un po’ brizzolati e gli tremano le mani
ma emerge chiaramente, dai suoi gesti nervosi e dallo sguardo, la consapevolezza dell’antica celebrità. Dire che il signor C. sia soltanto un vecchio volto noto sarebbe un eufemismo.
“L’Italia intera piange la sua scomparsa dalla scena pubblica. È da anni che non la vediamo in televisione o sui giornali. Come mai questa decisione? Voleva forse ritirarsi all’apice del successo come Mina, o come…”
“No, no. Io me ne sono andato per evitare di impazzire, signorina. Quale apice? Già da tempo avevano smesso di chiamarmi a
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ricoprire un qualche ruolo. Politica, musica, cinema, letteratura… Non mi voleva più nessuno. Mi stavano dimenticando. L’unico modo per far loro capire la mia importanza, ho pensato, sarebbe stato andarmene. E così ho fatto.”
“Come si sente?” chiedo soltanto, studiando la sua espressione affranta. Mi guarda.
“Come qualcuno che non serve più al suo Paese”, risponde. Estrae un fazzoletto e si asciuga una lacrima invisibile all’occhio destro. Si accende un’altra sigaretta. “A cosa pensa che io serva?” mi chiede. Ora è lui che fa le domande. “Beh…” Ho la gola secca. Mi accorgo che non abbiamo nemmeno ordinato. “Ad esprimersi nel modo giusto”, dico infine. “A dire le cose come stanno”. L’uomo scoppia a ridere. “Ecco”, dice. “Le cose come stanno. Tempo presente. E’ questo il vostro problema. Il problema di voi italiani. Le cose, per voi, stanno e basta: non è che possano essere qualcos’altro, o che potrebbero essere qualcos’altro. O che sarebbero state qualcos’altro se noi avessimo agito diversamente. O che siano sempre state diverse da come le vedevamo, ma che noi non ce ne siamo mai accorti. Voi non volete più dubbi. Eravamo, siamo, saremo! Ma non potremmo essere qualcos’altro? Non è arrivato il momento che siamo qualcos’altro?”
Arriva il cameriere e nota l’agitazione nella voce dell’uomo. “Volete che ripasso dopo…?” chiede. L’uomo apre la bocca. La richiude, sospira e si prende la testa tra le mani. Faccio cenno al cameriere di andarsene. “Lei lo sa”, prosegue dopo una lunga pausa, “che il greco aveva addirittura il modo ottativo? Il mio antenato più illustre. Già, ma il greco, secondo tanti, è una lingua ’morta’. E anche l’italiano a quanto pare non si sente tanto bene.” “Secondo lei, di chi è la colpa?”
“Di tutti”, risponde. “Mia, vostra… Loro. Colpa di questo modo di pensare a senso unico. Colpa dei genitori che non leggono più le fiabe ai bambini. Colpa di insegnanti che non amano più insegnare.”
“Signore, ma la scuola non è gestita soltanto dagli insegnanti. Sono i politici a…” “Ah, i politici!” Scandisce l’ultima parola come se la volesse sputare. “I politici sono i peggiori. A loro proprio non servo, capisce? ’Gli immigrati se ne devono andare! Con la cultura non si mangia! Ridateci i nostri marò!’ Ci vomitano continuamente addosso una valanga di imperativi in maiuscolo che non fanno altro che intontire la gente…” “Ma lei invece, se potesse, cosa farebbe per questo Paese?”
“Di tutto. Trasmissioni culturali in prima serata. Migliori stipendi agli insegnanti. Politici onesti e competenti. Io vorrei che tutti capissero quanto la lingua costituisca lo specchio della società in cui viviamo. Un Paese senza congiuntivo è una Paese che ha dimenticato la facoltà di immaginare! Non è il pollice opponibile a distinguerci dagli animali: solo gli uomini sanno immaginare. E un uomo che immagina è un uomo che potrebbe immedesimarsi nei disperati sui barconi. Un uomo che immagina potrebbe comprendere l’importanza di ciò che stiamo perdendo. Un uomo che immagina…” Si ferma. Abbassa gli occhi. “…Non si sarebbe dimenticato di me.” “Direi che abbiamo finito”, mormoro, dopo una lunga pausa.
L’uomo mi saluta e fa per andarsene. “Aspetti” gli dico, senza neanche rendermene conto. “Mi dica.”
“La ringrazio, signor Congiuntivo. La ringrazio tanto.”
Lui mi sorride, pensoso. Adesso sembra più sereno. “Grazie a lei.”
Lo guardo allontanarsi nella via. Spengo il registratore. L’intervista è finita
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PROSSA NOVA
DENARO PULITO (PT.1) di MIlo
Karoli
“Padre Signore, mettici in comunione con le persone che contano nella società. Gesù, lascia che troviamo un buon lavoro.”
Un vero professionista ha un problema – risolve il problema – e passa al problema successivo. Il mio nome di battesimo vuole dire “uomo libero” e, tutto sommato, nel grembo materno voler essere libero è chiedere troppo. Ora, comunque fosse, decisero i medici di farmi nascere al settimo mese: sissignore, battezzato dal primario di ginecologia il 18 Dicembre 1982.
Un vero professionista dicevo ha un problema, e per risolverlo non guarda mai indietro. Ora, il problema è che un figlio è un investimento, come si dice, ad alto rischio: questo perché la vita è un’impresa personale e sarà lui a fare affari, lui, in soldoni, a scegliere le sue persone da qui in avanti. Ma il parroco scelse di bagnarmi in fronte una seconda volta e forse, un bebè che non si atteggia bene nelle acque materne, è giusto riceva un po’ di sacramento in più degli altri. Si tratta del battistero di Santa Maria Maddalena e si trova nel punto più alto del colle della Quercia Nera: storicamente il colle formava il confine naturale tra Pedona e il comune di Villa Lata e prendeva il nome dal sorgere, quasi a picco sugli altissimi scogli, di una maestosa quercia nera che si racconta avesse avuto ben 800 anni in più del sottoscritto.
Chiunque, però, scegliesse le sue persone al di là della collina, si trovava costretto a far passare beni e servizi attraverso impervie strade collinari, o a circumnavigare il crinale ed ogni volta, guardando indietro, poteva scorgere
l’immenso albero secolare e le sue foglie scure. Lo sbancamento portò incredibili vantaggi alla circolazione e una considerevole diminuzione dei tempi di percorrenza, ma si dovette asportare l’intera collina: oggi c’è la funicolare e l’ascensore con vista, e conserva la cima e la chiesa imponente che protegge dall’alto il quartiere luminosissimo dove sono nato.
Tutto questo per dire che il mondo, in qualche modo, aveva maturato con me un debito di due mesi di riposo. La cosa comunque non mi impedì di essere un uomo estremamente produttivo: a 22 anni ero laureato e lavoravo per una solida azienda nel settore della logistica, a 27 ero responsabile della rete locale di vendita di una multinazionale di abbigliamento. Avevo una moglie, e un migliore amico: Milo.
Prima dell’incidente, il padre di Milo lavorava per un’azienda del Gruppo di mio padre. Milo era un creativo, aveva alcuni anni in meno di me e un Indicatore della Situazione Economica Equivalente decisamente inferiore: veniva dal quartiere vecchio a nord di Villa Lata e recitava in un piccolo teatro per cui l’impresa di Costruzioni Generali del Gruppo aveva subappaltato alcuni lavori di ristrutturazione. Il teatrino della Quercia Nera risaliva infatti al 1700, costruito internamente alla Villa nobiliare per i privati svaghi della Duchessa di Lata, sul versante ovest. Dopo l’ampliamento del porto e lo smantellamento della collina la struttura subì numerosi danni
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da alluvione ed è solo grazie all’apertura del cantiere (o meglio la sua chiusura) che potei vederlo un’ultima volta: la compagnia per cui lavorava Milo era interna all’amministrazione del teatro stesso, interna, cioè, alla società cattolica operaia che scelse di posticipare la data dell’inaugurazione al giorno anniversario della morte di Antonio Gramsci. Per l’occasione, il 27 Aprile 2010, veniva messa in scena un’opera contemporanea: Gramsci a Turi di Antonio Tarantino.
Nel 2010, circa il 53% del lavoro uomo della mia azienda era localizzato nell’Africa inglese e francese. Lo stesso Gruppo di mio padre aveva contribuito, in mezzo secolo di storia, al completamento di 228 chilometri di strada, 26 ponti di ferro, 115 chilometri di ferrovia, con un movimento terra di 2.300.000 m³ aveva orgogliosamente realizzato opere basilari per lo sviluppo economico dei Paesi dell’Africa centrale. Oggi, l’irruenza dell’economia cinese, la corruzione locale, il terrorismo islamico costringono centinaia di migliaia di africani a cercare una condizione di vita migliore nei paesi avanzati e le nostre strade pullulano di poveri, mendicanti, clandestini portatori di infezioni antiche, da tempo debellate in Europa.
Come sta il tuo corpo, disse Dania. Grazie a Dio, risposi. Faceva, sei falso come una sciuetta. Nossignore. Un professionista non dice mai il falso, le sue verità, in qualche modo, sono di semplice ordine commerciale e con Dania, nel 2009, chiusi il contratto più importante della mia vita. Bellissima
esponente del ceto medio, Dania è una intellettuale, come si dice, un’alternativa e la sua famiglia, è vero, non è ricca altrettanto che la nostra ma sono persone per bene, affittano splendidi appartamenti nel Levante. La sua educazione è della migliore tradizione di Sinistra, a 23 anni frequentava i corsi dei più illustri professori di Filosofia ed era attiva in un importante collettivo giovanile che lottava per le unioni civili, l’antimilitarismo e la giustizia sociale: questo perché, diceva, non c’è niente di male a nascere fortunati, ma la politica deve essere intesa come un servizio rivolto a tutti, anche ai più deboli. Amo Dania, per la sua pelle bianca, per le sue idee, perché sa scrivere stupende poesie d’amore e la sua mente è oltremodo fantasiosa.
A 24 anni, dopo aver discusso la sua tesi sul Contributo del Concetto di Comunitarismo all’Etica negli Affari, partì alla volta dell’Africa centrale.
“Vivere non è difficile, è esistere che è difficilissimo”: Milo viveva in un mondo tutto suo, usava certe espressioni che per me erano incomprensibili. A volte avevo l’impressione che vivesse non al di fuori del reale ma, come posso dire, al di lato. Diceva che il pensiero è un Senso, esattamente come la vista o l’udito, e sosteneva che la logica ha una verità soltanto sua: “La natura è contestuale, invisibile. Se contestualizzi la parola, diventa invisibile”.
Ora, per qualche motivo, mentre stavano insieme Dania non gli disse mai della nostra relazione (continua)
Fischi di carta
13
Mi chiamo Laura Campanella, nata a Genova nel 1996 e futura studentessa di design della moda a Milano. Corro dietro le idee e le storie, leggo, sono avida di cinema, mi piacciono i centri storici e la creatività culinaria; queste le lodevoli, forse, fra le cose verso cui mi muovo e che mi muovono.
UNA VISIONE LAMPO
di Laura Campanella
LE PROSSE DEI LETTORI
I raggi di sole si sono allungati. La valle, conca accogliente, si riempie di questo oro freddo, che cola da un agglomerato lucente appena sopra il suo bordo. La bimba siede nella sala spoglia, è priva dell’ansia infantile, non sembra affatto bimba, ma un’anima sconosciuta alla madre, giunta per il tornaconto, silenziosa e incombente. Si spiegherebbe perché la madre è allora impedita nelle sue abituali mansioni da una specie di imbarazzo; è insicura in quel luogo in cui è venuta per prima.
Lei è giovane e la sua bimba seria. Occhi chiari e pelle chiara, capelli di un biondo cenere, che rilucono come filigrana. Nella fermezza della sala il tempo scorre attutito e, oltre il vetro della portafinestra, il paesaggio è una memoria. Si sa che l’inverno porta malinconia, i suoi colori, le sue tinte, sono quelli dei nostri ricordi, che allora rivivono e vengono celebrati e consumati nella liturgia del tramonto invernale: il calare percepibile del sole, l’ostacolo naturale alla luce -una collina- o artificiale -un palazzo- il tremolio delle foglie e delle superfici morbide, è così imbandito l’altare!
Al di là del vetro la bambina sente tutto agglomerato il Senso intraducibile.
ESISTIAMO DAVVERO SOLO NEL DOLORE CHE È LA FATICA CHE COMPIAMO NEL MOTO DELL’ANIMA, ANCHE IN FELICITÀ
(Le sue parole pronunciate a bocca chiusa cadono impietose sulla madre.)
Sul sito www.fischidicarta.it trovate la seconda prossa dei lettori di questo mese: “Poesia” di Paolo Mazzarello. Per contattarci e inviarci i vostri racconti scrivete a prossanova@fischidicarta.it
INFISCHIATENE
LA RAGAZZA DEL TRENO - RECENSIONE di Amelia Moro
Il romanzo di Paula Hawkins è uno dei casi letterari dell’anno: dopo tre soli giorni in libreria è già al primo posto delle classifica di vendita in America, dopo due settimane raggiunge il primo posto in Gran Bretagna e il successo aumenta al punto che, sostiene Piemme, “non si è mai visto un romanzo d’esordio vendere così tanto in poco tempo”. La Dreamworks sta già pensando al film. La protagonista, Rachel, prende tutti i giorni lo stesso treno e si diverte a fantasticare sulle vite delle persone che le capita di osservare dal finestrino, al punto da attribuire loro nomi di fantasia e da avere l’impressione di conoscerle veramente. Finché un giorno non nota
qualcosa che non avrebbe dovuto vedere, una “anomalia” che solo un occhio come il suoallenato alla banale routine delle vite dei suoi, chiamiamoli così, personaggi - può cogliere. Da qui si innesca un thriller che si promette pieno di suspense e colpi di scena. Ad incuriosirmi ulteriormente è stato un articolo di Repubblica dove si afferma che il suo nome “entrerà negli annali della letteratura contemporanea accanto a quelli della ristretta cerchia di autori che con un libro hanno istantaneamente conquistato il mondo. Un’altra J. K. Rowling? ”
Veniamo agli (in realtà pochi) aspetti positivi di questo libro: bella l’idea alla base della trama che, seppure non originale - alzi la mano a chi non ha pensato a La finestra sul cortile - stuzzica sempre. Inoltre la Hawkins aggiunge un elemento nuovo: non solo lo spazio è sempre il medesimo (il punto di osservazione del finestrino sulle finestre degli altri) ma anche il tempo (l’orario preciso in cui il treno passa davanti a quella precisa finestra). E anche qui, come nel film, la mania del voyeurismo finisce per rivelare le nostre paure più nascoste: come James Stewart nelle finestre degli altri crede di riconoscere soprattutto relazioni destinate al fallimento o fallite in partenza (come vede la sua con Lisa), così la fissazione di Rachel per una particolare abitazione e i suoi inquilini nasconde un motivo più profondo: guarda quella casa per non vedere l’altra, proprio a fianco, dove ha vissuto con il marito e dove lui tuttora vive, con la sua nuova compagna. Interessante è anche la scelta della protagonista: Rachel non è un personaggio fatto per piacere, non è bella, la sua vita è un fallimento, fa colazione la mattina con gin tonic in lattina. Non è neppure particolarmente arguta e decisamente non ha un talento naturale come detective, ma potremmo definirla una ficcanaso per vocazione. È molto più semplice chiedere a un lettore/ spettatore di provare simpatia per la perfetta grazia dell’adorabile Lisa Freemont interpretata da Grace Kelly che non per questa Rachel incorreggibile e patetica, ma, probabilmente, molto più vera: per questo ho trovato coraggiosa la scelta dell’autrice. Queste buone intuizioni non sono però sufficienti a salvare il romanzo. Il gioco del cambio dei punti di vista (alcune parti sono narrate da Megan, la vittima, altre da Anna, la rivale di Rachel) non decolla mai davvero e, dietro la voce degli altri due personaggi, continuiamo a sentire quella di Rachel: queste tre donne insicure e piene di nevrosi finiscono per assomigliarsi e per esprimersi allo stesso modo perché la Hawkins non varia mai lo stile e i toni con cui dà loro voce. Il cambio di punto di vista dovrebbe fornire al lettore un’altra ottica, mostrargli i personaggi da una prospettiva diversa, a volte addirittura ribaltata, mentre qui non avviene per nulla (ad esempio: Rachel crede che Anna sia una fredda sfasciafamiglie senza un briciolo di senso di colpa… e quando sentiamo la “versione di Anna” scopriamo che effettivamente lo è, e se ne vanta pure!) Anche i personaggi maschili risultano deludenti: l’ex marito di Rachel, il marito di Megan, il seducente psicologo, sono tutti belli, muscolosi, abbronzati e con il vizio di riempire di lividi le donne che amano. Di fronte ad una schiera di personaggi così meschini e monotoni conta davvero che il “supercattivo” sia uno, piuttosto che l’altro? Inoltre l’intreccio è debole e i vuoti di memoria di Rachel (dovuti ai suoi problemi di alcolismo) sono un espediente narrativo sfruttato goffamente: avvengono troppo spesso in momenti fondamentali (ed è possibile che non ci sia mai, mai nessuno che le possa raccontare come sono andate veramente le cose?) per poi ritornarle alla mente nel momento più comodo perché tutto si risolva.
Senza stare a scomodare i maestri del genere (come Chandler, per dirne uno), la Hawkins non può competere nemmeno con la Rowling, che di recente si è cimentata proprio nel romanzo giallo, un genere insolito per lei. Il suo Il richiamo del cuculo (Salani, 2013), uscito sotto lo pseudonimo di Robert Galbraith, non ottenne alcun successo finché, rivelata l’identità della penna che si nascondeva sotto il falso nome, non divenne un caso letterario, come era prevedibile. Senza essere un capolavoro, la prova della Rowling è molto più elegante, più frizzante e ben costruita di quella della Hawkins, che assolutamente non consiglio
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