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POESIA DI CINQUE GIOVANI FISCHIANTI
Eti comando, o Sole, di guidarmi in capo al mare, là dove esso affonda tra le isole delle nubi e si perde, come un fiume, nell’infinito!…
Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista
IN QUESTO NUMERO
Planetario | García Lorca: il cantore degli ultimi - P. Palermo Elementi | La scomparsa delle lucciole - D. Porcheddu Prossa Nova | Ignoranti alla conquista del cielo - M. Valentini Infischiatene | Ultimo piano (o porno totale) - recensione - I. Buselli
www.fischidicarta.it
n°31 Novembre 2015 Genova
EDITORIALE
DIADE di Federico Ghillino
Dal 24 al 27 settembre si è svolto nel modenese un festival di poesia chiamato, molto didascalicamente, PoesiaFestival . Ho avuto modo di assistere ad alcuni degli incontri svoltisi in quelle giornate, tornandone interessato e stimolato. In modo particolare hanno suscitato il mio interesse Aldo Nove –eclettico ed a tratti irriverente –e Milo De Angelis –il Poeta, per capirci –che hanno presentato i loro ultimi lavori (rispettivamente Addio mio novecento ed Incontri e agguati ) nel pomeriggio di sabato 26. Due figure così diverse di intellettuale (o, molto più semplicemente, di uomo) mi hanno suggerito una riflessione generale che prendendo spunto da loro ne prescinde completamente.
Chi si interessa di cultura, e lo vuole fare bene, studia. Studia in senso ampio: vive in una condizione di costante attenzione verso ciò che gli ruota attorno. Studia perché vuole cogliere, analizzare ed essere curioso. La curiosità diventa esercizio continuo e quotidiano. Per fare questo non servono solo i libri. Serve, potenzialmente, tutto: la pioggia, tua nonna, youtube, l’università, lo sporco, le città, le fasi della vita, i pensieri ricorrenti, i viaggi, la carta igienica, l’aurora…
Parrà evidente che questo tutto sia una materia che sfugge. E di fronte a questa realtà (perché se la somma delle parti fa tutto , conseguentemente tutto sta a dire realtà ) mi sembrano delinearsi due tendenze nell’affrontarla. Da una parte c’è chi sceglie un ambito e scava finché c’è da scavare (quindi, spesso, senza una fine), mentre dall’altra c’è chi voracemente morde qua e là e vuole sentire tutti i gusti possibili. Dunque la domanda ingenua e fanciullesca che mi sono posto è “Cos’è meglio?”. E prima ancora “Ma c’è un meglio?”. E questa è una questione annosa ed anche dannosa. La gente ci litiga. E quando non si litiga se ne esce almeno spettinati, non è come fare i conti per la spesa. Meglio fare gli speleologi, scandagliare e conoscere la grotta fino in fondo oppure scoprire quel tutto tra te che stai lì e la fine dell’orizzonte (che non esiste)? Io voto per l’orizzonte, voi fate i vostri conti
LETTURE CRITICHE
di Matteo Valentini Sono le 22 e 37 del 4 ottobre e Mondadori twitta laconico: “Questa sera è stato siglato l’accordo per l’acquisizione di RCS libri”. Nello stesso tempo Mondadori controlla il 38% del mercato librario italiano, confermandosi al primo posto nell’editoria commerciale. Questo avvenimento, prima che delle riflessioni, impone delle indagini: chi c’è dietro i libri che compriamo? In barba ad ogni dietrologia, i dati si trovano navigando sui siti delle diverse case editrici. Si scopre così che Mondadori, già proprietaria di Einaudi, Piemme ed Electa, con l’assorbimento di RCS acquisisce anche Rizzoli (e con lei BUR), Bompiani, Archinto, Fabbri, Marsilio e Sonzogno. Del gruppo RCS, solo Adelphi riesce a restare fuori dall’orbita di Fininvest, holding appartenente a Silvio Berlusconi. Per completare il riassunto sull’editoria media e grande è necessario citare altre tre case editrici: Feltrinelli, Giunti e il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol (Gems). Quest’ultimo, che si trova ad essere il secondo gruppo editoriale italiano, può contare su Bollati Boringhieri, Chiarelettere, Corbaccio, Garzanti, Guanda, Longanesi, Salani e altre. Dopo aver scorso questo turbine di nomi ci si rende conto che ciò che gravita attorno alla letteratura italiana (a cominciare dai premi letterari) fa capo a una manciata di nomi. Sarebbe ingiusto gridare al boicottaggio e smettere di leggere libri di Pavese, Hemingway o Fred Vargas. Usciti dai megastore, si possono, però, cercare altre vie: e/o, Effequ, Minimum Fax, Sur, sono alcune delle case che noi di Fischi di Carta cerchiamo di scoprire ogni settimana attraverso Infischiatene, la nostra rubrica di critica letteraria.
In questo numero Irene Buselli recensisce Ultimo piano (o porno totale) di Francesco D’Isa, romanzo in bilico tra assurdo e realtà. I due racconti che vi proponiamo sono invece profondamente radicati nella quotidianità, anche se molto distanti per tematica e stile: sono La mosca del lettore Gennaro Esposito e Ignoranti alla conquista del cielo del sottoscritto. Buona lettura... critica
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AGLI ASINELLI di Emanuele Pon
Vedo scorza di limone da mangiare masticando con calma tra i discorsi – assemblee di politica internazionale sugli scacchi di carta rossa e bianca delle vecchie tovaglie – parole a sorsi rubati alle bottiglie; nel buio zona franca.
Quando, decisi, di qui a una parallela anche stasera si trinca il non-essere, ha già alzato le imposte intorno la più vera delle notti, per noi avventori di bottega per brindare ai futuri rotti ai ricordi a quello che in itinere ci lega.
Allora in alto i calici dolci d’Asinello e facile scorre in gola a buon mercato il fresco dolceamaro del Corochinato: sono vivi di bicchiere in bicchiere i mondi sulle stampe al muro, parlano piano i ritagli di giornale, la voce di Adriano.
Saggio, per il vicolo, forte ancestrale disegno tribale di quanto e come l’uomo può non essere, all’altro, animale: ora riunisce vetro e plastica andata sul bancone, non cede allo sporco di comodo neanche un bicchiere: vecchio china fino a terra la schiena – tesa a rialzarlo, la mano della Marchesa insegna avvizzita al locale perché si deve amare.
È tardi, a bassa voce “si chiude”: domani chi avrà capito potrà tornare.
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PLANETARIO
GARCÍA LORCA: IL CANTORE DEGLI ULTIMI di Paolo Palermo
«Se avessi fame e mi trovassi abbandonato per strada non chiederei del pane, chiederei mezzo panino e un libro […]»
Federico Garcìa Lorca all’inaugurazione di una biblioteca a Fuente Vaqueros
Basta poco per rendersi conto che quando la Guardia Civile Spagnola si presentò a casa di Federico García Lorca per prelevarlo, non fu soltanto un semplice uomo ad avviarsi lungo il cammino della morte. Nel momento in cui venne autorizzata la sua fucilazione lo stesso giorno, il 19 agosto del 1936, non fu soltanto un poeta stimato e da tutti riconosciuto ad andarsene. Nel medesimo anno in cui la Spagna vedeva cominciare la sanguinosa Guerra Civile che avrebbe portato al regime di Francisco Franco, la penisola iberica assisteva impotente alla morte di uno tra i suoi più grandi cantori. Federico García Lorca fu un artista a tutto tondo, poeta in primis, dotato drammaturgo in secondo luogo e, a tempo perso, disegnatore (ma anche musicista di flamenco), la cui vita sembra quella di un predestinato: basti vedere come tre date fondamentali della sua esistenza combacino con eventi che avrebbero sconvolto la sua contemporaneità. Dall’anno della sua nascita, quel 1898 in cui la Spagna perse le sue ultime colonie oltreoceano, al 1936, quando Lorca morì e la guerra scoppiò, passando per il 1929 durante il quale viaggiò a New York per partorire una nuova opera mentre la borsa andava incontro a un drammatico crack finanziario, l’impressione è quella che il vate andaluso sia stato un uomo il cui destino ebbe a legarsi con eventi più grandi di lui, rimanendone infine schiacciato prematuramente. Lorca fu un minatore della poesia, un operaio sempre a rischio, ma incredibilmente umile. Non ebbe problemi a sporcarsi le mani nonostante il periodo di repressione sociale, difendendo pacificamente a colpi di letteratura i diritti delle donne – sopratutto attraverso il lavoro teatrale, con opere come La casa de Bernarda Alma o Yerma – e degli emarginati. Attorno agli ultimi, infatti, Lorca seppe tessere trame di versi capaci di avvicinare gitani o ladroni alla sensibilità di tutti, facendo leva sulla semplicità dei sentimenti che un essere umano può provare. Emblematica è, a questo proposito, la poesia Romance sonámbulo, contenuta nella raccolta Romancero gitano del 1928, della quale riporto alcune strofe:
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(I)
Verde que te quiero verde.1 Come il vento, come i rami. La barca sta sul mare e il cavallo su in montagna. Con l’ombra alla vita ella sogna alla sua balaustra, verde la carne, verdi i capelli, gli occhi freddi, argentei. Verde que te quiero verde. Sotto la luna zingara, le cose la stanno osservando ed ella non può guardarle.
(III) […] - Compagno, voglio scambiare il mio cavallo per la tua casa, la mia sella per il tuo specchio, il mio coltello per il tuo mantello. Compagno, vengo sanguinando fin qui dai monti di Cabra. - Ragazzo, se potessi già chiuderei l’affare. Ma io non sono più io, né casa mia è più la mia casa. - Compagno, voglio morire decentemente nel mio letto. Se possibile, con molle d’acciaio e le lenzuola olandesi. Non vedi la mia ferita,
dal petto alla gola? - Trecento rose scure sulla tua camicia bianca. Il tuo sangue gocciola e odora intorno alla tua cintura. Ma io non sono più io, né casa mia è più la mia casa. - Fatemi salire almeno fino alle alte balaustre, lasciatemi salire, lasciatemi, fino alle verdi balaustre. Binari della luna per cui l’acqua rimbomba.
(VI) Sull’orlo del pozzo dondolava la gitana. Verde la carne, verdi i capelli con occhi freddi, argentei. Un ghiacciolo di luna la sostiene sull’acqua. Si fece intima la notte come una piccola piazza. Guardie civili ubriache colpivano la porta. Verde que te quiero verde. Verde il vento, verdi i rami. La barca sta sul mare. E il cavallo sulla montagna.
Questa poesia contiene tutto l’essenziale della poetica di Lorca: la figura del bandito ferito a morte di ritorno a casa della sua amante, una gitana, ignorando il suicidio di lei oramai dondolante sul pozzo con gli occhi d’argento freddo, è un quadro perfetto grazie al quale il poeta riesce a penetrare nella sensibilità del lettore, avvicinandolo a personaggi che, nel pieno degli anni dittatoriali di Primo de Rivera, erano quasi cancellati dall’immaginario collettivo della società. Nel finale, l’interruzione delle
1 Il verso “Verde que te quiero verde”, lett. “Verde, ti voglio verde” o “Verde, ti amo verde”, è intraducibile. Giocando con la pronuncia in castigliano, nella quale le parole “verde” e “verte” (vederti) si assomigliano, Lorca intende probabilmente simulare le voci morenti dei protagonisti, che arrivano a confondere i termini da usare. La poesia ne ricava una musicalità sorprendente. I colori, ad ogni modo, sono importantissimi nell’analizzare il lavoro del poeta andaluso: il verde, infatti, è stato a lungo il colore rappresentante l’omosessualità in Spagna, nonché simbolo di ribellione e tenacia.
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guardie civili ubriache che spezzano l’atmosfera è una precisa critica al clima pesante di censura e oppressione che la popolazione spagnola viveva sotto il regime del militare, durato fino al 1933.
Compare in questa composizione, inoltre, un ulteriore pezzo fondamentale della poetica dell’autore: l’Andalusia, quella terra fertile di folklore e ispirazione che qui è soltanto citata attraverso i monti di Cabra, ma che in realtà spesso e volentieri diventa protagonista integrante della poesia. Accade ne La canción del jinete, contenuta in Canciones 1921-1924:
Nella nera notte dei banditi rintoccano gli speroni.
Cavallino nero, dove porti il tuo cavaliere morto? … gli speroni duri del bandito immobile che perse le redini. Cavallino freddo, che odor di fior di coltello! Nella nera notte sanguinava il costato della Sierra Morena.
Cavallino nero, dove porti il tuo cavaliere morto? La notte pungola i suoi fianchi scuri tirando fuori stelle. Cavallino freddo, che odor di fior di coltello! Nella nera notte, un grido!, e il cono di fumo grande del focolare. Cavallino nero, dove porti il tuo cavaliere morto?
La poetica dell’ambiente diventerà fondamentale nell’evoluzione stilistica di Lorca, culminante nel sopracitato viaggio a New York del 1929: in terra statunitense, il poeta entrerà in contatto con una realtà tanto lontana da quella andalusa che lo sconvolgerà a tal punto da criticarla ferocemente nella sua opera Poeta en Nueva York, dove compare La Aurora, vero e proprio attacco al cambio di mentalità dell’uomo che rinnega la natura in favore della meccanica e del grigiore artificiale. La poesia, venata di sfumature surrealiste ereditate dalle amicizie condivise da Lorca con Dalí e Buñuel, è una descrizione di una tipica alba newyorchese:
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L’aurora di New York ha quattro colonne di cemento e un uragano di colombe scure che sguazzano nell’acqua putrida. L’aurora di New York geme per le immense scalinate cercando tra ogni bordo nardi di disegnata angoscia. Ecco l’aurora e nessuno la riceve in bocca perché lì non c’è mattina né speranza possibile. A volte le monete in furiosi tumulti tintinnano e divorano bambini abbandonati. I primi che escono provano sulle ossa che non ci saranno paradiso né spogli amori; sanno di dirigersi al cemento di numeri e leggi, ai giochi senza arte, ai sudori senza uno scopo. La luce è sepolta da catene e rumori in un’impudica minaccia di scienza senza radici. Per i quartieri la gente vacilla insonne come se fosse appena uscita da un naufragio di sangue.
La sensibilità di Lorca verso qualsiasi cosa si possa definire viva è tangibile, e quasi commuove rendersi conto che anche oggi quei pochi che, più o meno silenziosamente, cercano di preservare o difendere eroicamente le tradizioni di un popolo o i diritti dei più sfortunati siano continuamente esposti ad attacchi che, nonostante vengano mascherati come interventi propedeutici al controllo e all’equilibrio, si rivelano soltanto sintomi della grave malattia dell’ignoranza. Mentre scrivo questo pezzo, mi trovo immerso nei giorni post-esecuzione di Nassar Khaled – decapitato dai miliziani dell’Isis – ed ex capo del sito archeologico di Palmira, reo tra gli altri capi di imputazione di aver nascosto delle statue che i folli terroristi avrebbero voluto distrutte; mi trovo immerso nel mare di notizie che raccontano delle minacce di morte perpetrate a Malala Yousafzai, Nobel per la Pace 2014, attivista giovanissima che si è occupata di rispettare il diritto all’istruzione nel suo Pakistan travolto dalla guerra e dalla violenza. Il corpo di Lorca ad oggi non è ancora stato ritrovato, probabilmente si è perso in una delle tante fosse comuni riservate dal regime a chi non sottostava ai detestabili ordini e agli editti censori: soltanto dopo la morte di Franco si è ristabilita in Spagna l’esaltazione della sua figura e del suo operato fino a quel momento tenuti in considerazione all’estero grazie ai suoi amici, tra gli altri Dalí, Neruda e Alberti. Adesso a Madrid si può ammirare una sua statua nel bel mezzo di Plaza Santa Ana, la quale lo ritrae sorridente con una colomba tra le mani pronta a spiccare il volo: forse la miglior rappresentazione possibile Traduzione dallo spagnolo dell’autore.
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LE POESIE DEI LETTORI
Enrico Giomi, vent’anni, frequenta la facoltà di Filosofia a Genova. Se volete leggere qualcosa di più, ha partecipato con una prossa dei lettori pubblicata sul sito durante l’estate: andate a ripescarla su www.fischidicarta.it!
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Non ci pensare La luna è dissotterrata Ogni artificio è stato lavato via Ogni impiccio sospinto allontanato Volevi solo un poco di pace Mentre inutili pensieri ti impedivano Il movimento e la quiete
Una parola ambigua ti fa sorridere Poi scoppiare in lacrime Ma non sei libera di piangerle Che cos’hai? Tutto bene?
Non è colpa tua ti capisco Il fisico si esprime senza Chiederci prima il permesso Siamo corpi di terra Spiriti d’acqua Un torbido miscuglio di angoscia Una marrone armonia di vita
Non ci pensare Hai già fatto tanto per noi Ora penseremo noi a accudire te Enrico Giomi
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ELEMENTI
LA SCOMPARSA DELLE LUCCIOLE
di Diletta Porcheddu
La sera dopo la notte di San Lorenzo ero nelle campagne dietro casa mia, sdraiata in un campo di presunte patate con un amico a fianco, a fare a gara a chi vedeva più stelle cadenti tardive.
“Ma la notte in cui si vedevano non era ieri?”
“Non è solo una notte, genio, è un intero periodo in cui la terra interseca la sua orbita con quella di gruppi di asteroidi, che sono attratti dalla massa terrestre e quindi vi cadono, dissolvendosi nell’atmosfera sotto forma di meteore.”
“Ah.”
Dopo qualche ora siamo tornati a casa, allegri come non ci succedeva da tempo; non avevamo infatti idea della pasoliniana rivelazione che ci avrebbe toccati il giorno dopo.
“Te lo devo chiedere: ieri sera tu di lucciole ne hai viste? Perché, ora che ci penso, io nemmeno una.”
Ed era vero, non c’era nemmeno una lucciola. Ma non le avevamo viste davvero o non avevamo prestato attenzione a una loro eventuale presenza o assenza, rapiti com’eravamo dallo spettacolo celeste sopra le nostre teste? Lucciole, che sono un’efficace rappresentazione degli elementi (convinzioni, passioni, valori) che costituiscono la nostra identità generazional-collettiva, quella che per il poeta era stata distorta, schiacciata, reificata dal potere totalitario e totalizzante del consumismo; quella che per me, oggi, è semplicemente stanca di riuscire a comparire solo a intermittenza, quando quello che le viene richiesto è invece uno sforzo abnorme.
Esattamente quarant’anni dopo il profetico articolo del Corriere, intitolato Il vuoto del potere in Italia, ci troviamo infatti di fronte a un periodo storico forse ancora più determinante rispetto al 1975. Questo perché Pasolini, a suo avviso scrive a scomparsa delle lucciole già avvenuta, mentre a noi, autoconsapevole generazione 00, sembra richiesto un compito ancora più arduo: farle ricomparire. Non solo qualche piccola colonia: ciò che si vuole da noi sono allevamenti intensivi di lucciole, roba che nemmeno i pollai cinesi. Lucciole oltretutto geneticamente modificate, a 40.000 watt di potenza l’una. Fucine di personalità e volontà straripanti, il cui compito non è più quello di riempire il vuoto di potere politico dietro alle “maschere funebri dei democristiani”, ma di rivitalizzare spiritualmente, quindi, in senso lato, culturalmente, il nostro presente.
Ce lo si aspetta da noi, sì, ci viene addirittura richiesto: poi però, un’iniziativa come il Festival di Creatività Stanziale dell’agosto scorso (Cresta.genova) viene pubblicamente svalutata e denigrata. Ovvero, una serie di concerti ed eventi culturali mirata a
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riqualificare i Giardini di Plastica, viene bollata come “caotici bivacchi di fracassoni”. Ma questa è un’altra storia.
A pensarci bene invece, forse la storia è proprio la stessa.
La generazione di chi riversa su di noi la propria inattuata tensione verso il rinnovamento è infatti paradossalmente anche quella di chi svaluta e denigra: quella dei nostri genitori, nati e cresciuti nella pasoliniana epoca della “libertà regalata”. Pochi, tra cui appunto Pasolini, si stavano rendendo conto dei lati negativi del periodo.
La maggioranza aveva aspettative per il futuro molto rosee, a dire il vero: era opinione comune che “sviluppo” (economico) e “progresso” (culturale) fossero due processi inscindibili, destinati ad attuarsi l’uno come effetto diretto dell’altro, quando invece erano stati delineati dall’intellettuale come sostanzialmente diversi già in vari articoli dei suoi Scritti Corsari (1973-1975).
Sta di fatto che la conseguenza, per noi “figli” di questa generazione double-face, è di subire spesso l’angosciante pressione di dover rendere realtà le loro nostalgiche speranze. Una pressione che può essere giustificata da un distacco generazionale sicuramente non enorme, ma che spesso, sull’onda della malinconia, non tiene conto di alcuni fattori chiave. Per citarne solo uno, la disillusione: ereditata dai tentativi falliti in precedenza, essa è sovrana assoluta del nostro tempo, ed i nostri progetti sono inevitabilmente suoi sudditi. Essi infatti, benché diversi e anche potenzialmente migliori dei passati, si sentono spesso molto deboli: insomma, pronti a chinare il capo davanti alla regia dichiarazione “non ce la farai”. C’è poi chi al rinnovamento è proprio allergico e l’unica opinione che si sente di esprimere riguardo ad essi suona più o meno come “se non l’ho fatto io ai miei tempi, non vedo perché dovresti farlo tu, giovinastro fracassone drogato” Tuttavia, per essere corretti, c’è da dire che i soggetti sopracitati generalmente agiscono per un motivo molto più banale: ovvero, per totale e incondizionato menefreghismo verso lucciole, stelle cadenti e qualunque altro metaforico elemento del mondo naturale.
Nonostante tutto, sarebbe bello riuscire nell’impresa, davvero, se pure più liberamente. Senza, insomma, quell’impellenza della necessità, del Doverlo Fare, e soprattutto senza la pena dello scenario post-apocalittico che ci si profila davanti in caso di fallimento. Sono arrivata alla conclusione che quella sera le nostre lucciole avevano forse bisogno di spegnersi, di non “vedersi vivere”, almeno per un po’. Di abbandonarsi alle stelle cadenti, uno di quei pochi riti naturali e tuttavia mitici, che nonostante la ripetuta banalizzazione letteraria hanno ancora il potere di dare riposo alla nostra sovraesposta volontà confondendola nel loro necessario e ciclico esistere.
Al fine, ovviamente, di continuare la battaglia e risplendere la mattina dopo
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IGNORANTI ALLA CONQUISTA DEL CIELO di Matteo Valentini
Per tutto il pomeriggio ha soffiato un vento da portar via i tetti e ora non è rimasta nemmeno una nuvola a frapporsi tra la luce della luna e i tre fuggiaschi che si arrampicano su per il sentiero. «La luna, rana d’oro del cielo» sospira Berto, minuto professore di letteratura in pensione. «Ma che d’oro, papà: di merda. Rana di merda. – risponde Matteo, che guida la famiglia verso il valico – Tra poco il bosco si dirada e noi siamo sotto questa stronza che non tramonta. Speriamo solo che in giro non ci siano...» «Non dirlo neanche, Matteo, porta male.» lo interrompe sua madre, che si stringe al petto il vecchio rosario e ricomincia a bisbigliare tra sé. Ad ogni rumore, il mormorio si ispessisce e tutti riescono a sentire imprecazioni molto lontane da quelle montagne: «... arabi coddaproccusi... minc’e cuaddu vi currada... minc’e cuaddu vi coddidi.». «Gli spiriti meschini sono soggiogati dalla sfortuna, gli animi forti su di essa s’innalzano.», sentenzia Berto. «Smettila con queste citazioni, papà. Sento sempre le stesse da quarant’anni. Più che fortuna ci vuole silenzio.» dice Matteo. Mentre camminano, dagli zaini riempiti alla rinfusa un libro o un paio di pantaloni ogni tanto cade sulla terra sassosa e lì rimane.
Non resta molta strada per arrivare al valico, forse duecento metri, ma il sentiero è totalmente allo scoperto e il vento dalla valle sale a spazzarlo. Per paura che qualche sentinella tiri loro addosso, Matteo fa avanzare la famiglia zigzagando
sotto ai massi che possono offrire riparo. I due vecchi ad ogni pausa ansimano più forte e le loro facce sembrano diventare più magre. Quando anche i massi spariscono e la via illuminata si stende nuda di fronte a loro, Matteo istintivamente aumenta l’andatura e neanche si accorge che Berto, in fondo alla fila, crolla a terra sfinito. Sua moglie, con la gola chiusa dallo spavento, lo tira su e prova a trascinarlo per un tratto, ma inciampa in un sasso sporgente e cade. Abbandonata ogni prudenza, Matteo cammina senza nemmeno guardare dove mette i piedi: pensa al valico e alla Francia, “un paese ancora libero dove riorganizzare le forze, armarci e marciare uniti contro il mostro islamico. Dal mare sono arrivati e ce li ricacceremo!”. Un rantolo animalesco lo fa voltare: è la madre, rovesciata sullo zaino come una tartaruga, che prova a chiamarlo senza fare troppo rumore, mentre Berto, sdraiato anche lui a pancia in su, si tiene il cuore come se dovesse uscirgli dal torace. Matteo torna indietro e rovescia il contenuto di tutti gli zaini sul sentiero, risparmiando solo acqua, cibo, sacchi a pelo, e solleva da terra i due genitori per percorrere gli ultimi metri verso il valico che in quel momento si punteggia di luci bianche.
«Chi sono, Matteo?» chiede la madre. «Se stanno lì e non sparano sono guardie francesi.». Ma le luci cominciano a scendere per il sentiero. Sono arabi, forse hanno ucciso le guardie doganiere e si sono impossessati del passaggio. Matteo non capisce perché non abbiano già
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cominciato a sparare, ma vuole approfittare del momento per andarsene: fa segno alla madre di andare verso l’avvallamento e al padre di aggrapparsi alle sue spalle. Berto si appoggia alla schiena del figlio ma ad un tratto scatta indietro, tira fuori la colt e corre verso le sentinelle: «Sul mio corpo alzo il mio forte scudo. Dai, Macduff, e dannato chi...» una scarica di mitra squassa la terra lì attorno e lo prende in pieno nel petto. Le immagini si fanno più lente. La vecchia è stata colpita in testa da una scheggia di pietra. Muore dopo aver accarezzato le guance del figlio e avergli lasciato un debole grazie. Matteo non ha tempo di piangere i morti né di portarseli dietro: gli arabi, anche se più lentamente, si avvicinano. Si cala nell’abisso, aggrappandosi a rientranze e a radici sporgenti. Arrivato a un punto del sentiero percorso ore prima, si sistema con un rumore secco contro un albero. “Tutta la mia famiglia è in mano agli arabi.”, pensa, “Dove vado ora? Ci sarà sicuramente un altro valico. Troverò quel valico, anche a costo di dover camminare per sempre”.
Sul suo viso inondato di luce lo schermo diventa nero e sopra vi appare una scritta: «Sorti non si sa da dove, degli ignoranti si impadroniscono del cielo. Sant’Agostino, Confessioni, VIII, 8.19.». La sala comincia a battere le mani e chiama sul palco il regista: «RO-SI. RO-SI. RO-SI.». Francesco Rosi sale sul palco e si posiziona tra il fascio del proiettore e lo schermo su cui stanno passando i titoli di coda. La luce in sala è ancora spenta e lui, immobile, si gode l’applauso infernale del pubblico, pensando già al confronto con Tacchetti, quel giornalista da niente messo contro di lui perché anche qui, nel centro sociale più a destra di Roma, piace badare alla par condicio.
La platea ammutolisce quando
Tacchetti sale sul palco. «Buonasera a tutti. So che non ci siamo mai stati troppo simpatici» a confermarlo, nel silenzio parte uno «Zecca di merda». «Ma oggi sono qui esclusivamente per discutere Ignoranti alla conquista del cielo, quindi lasciamo perdere le vecchie ruggini. Rosi, le confesso che nel film ho trovato diversi aspetti positivi: mi ha molto colpito l’espressione degli stati d’animo dei personaggi attraverso i colori e le luci. Mi riferisco soprattutto alle scene finali: l’alternanza tra bianco e nero, creata dalle ombre degli alberi e dalla luna, rende perfettamente l’incertezza dell’intera compagnia. La luce che progressivamente si diffonde sul sentiero senza più alberi, invece....» «Sì, Emilio, grazie per le leccate, ma arriviamo al punto.». Tacchetti è spiazzato dall’irruenza del regista: «Scusi?» «Emilio dai che qui ci si addormenta. Cosa vuoi chiedermi veramente?» Ricomincia il RO-SI RO-SI, interrotto da Tacchetti che si allunga sulla sedia e riprende sicurezza: «Va bene, Rosi, vuole la verità? Il suo film è indecente. Si nutre di un’ideologia che solo il pazzo revisionismo di questi anni può riabilitare. Davvero lei sta esortando a una guerra contro i profughi o la sua è solo un’azione pubblicitaria?». Rosi alza la mano e zittisce il brusio del pubblico. «Rispondo con una domanda: qual è la sua posizione riguardo l’emergenza profughi?» «Non esiste l’emergenza profughi, esiste un processo storico che si chiama migrazione. In quanto figlio, come lei, di diverse migrazioni evito di schierarmi contro un flusso che, oltre a essere inarrestabile, è anche occasione per una crescita culturale e sociale. Inoltre penso che lo Stato debba...» «No, scusa la maleducazione ma io ho chiesto di te, non dello Stato. Scommetto, comunque, che fai spesso le raccolte di cibo e di firme, le fiaccolate, le preghiere
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in piazza e le letture contro la guerra.» «Non vedo il problema. Sono civili prese di posizione.» «Non civili, Emilio. Inutili e, soprattutto, ipocrite. Le mettete in atto con il desiderio che i profughi stiano di fronte ai supermercati, ai lati delle strade, dentro lo Stato ma fuori dal vostro giardino. Non fate che ripetere che ognuno deve dare qualcosa perché qualcuno non sia costretto a dare tutto, ma il vostro qualcosa sono alcuni chili di pasta e poche ore in manifestazione.» «Questa è una sua opinione Rosi. Il nostro movimento fa capo a una morale più alta e più complessa del vostro odio.» «Non me la raccontare, Emilio, la vostra morale è viva solo nelle intenzioni, e forse neanche in quelle. Non è più complessa, è solo falsa. Il mondo ha sempre visto un manipolo di vincitori dominare su un oceano di vinti: non c’è più tempo per i vostri rimorsi e le vostre soluzioni a metà. Sì, guerra. Fermare i clandestini con l’esercito e la marina. Questa è la mia soluzione, Emilio, e torno a chiederti: voi cosa siete disposti a fare?». In sala molti cominciano a battere
i piedi, creando un rimbombo opprimente. Tacchetti, a questo punto, si alza dalla sedia e, dopo aver urlato: «Non posso sostenere un confronto in questo clima medievale», se ne va senza stringere la mano a Rosi, che mantiene un’espressione soddisfatta ma compassata, quasi placida se inquadrata all’interno di quella pletora di saluti romani e insulti.
Arrivato al parcheggio con la paura di essere seguito, Tacchetti sguscia in macchina e parte. È furioso: “Cosa siete disposti a fare, a me lo chiede quel fascista! La questura dovrebbe interessarsi a quello che sono disposti a fare loro”. Un paio di curve che “se mi vede Anna mi ammazza” gli calmano i nervi, ma è come se avesse una grossa falena intrappolata nella testa. “Dove vado ora? Cosa siete disposti a fare? C’è un altro valico che posso cercare? Cosa siete disposti a fare? La vostra morale è falsa o morta. Non avete identità, solo pretesti a cui appigliarvi. Avete tradito la vostra causa, se ne avete mai avuto una”
Sul sito www.fischidicarta.it trovate la prossa dei lettori di questo mese: La mosca di Gennaro Esposito. Per contattarci e inviarci i vostri racconti scrivete a prossanova@fischidicarta.it.
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RECENSIONE DI ULTIMO PIANO (O PORNO TOTALE)
–FRANCESCO D’ISA (IMPRIMATUR 2015) di Irene Buselli
Non è a voi che scrivo, ma di voi. Frank Spiegelmann, voce narrante del romanzo, ci avverte già dalle prime pagine: saremo noi lettori i protagonisti. Difficile a credersi, forse, quando ci viene presentato
l’ambiente in cui tutto si svolge: un palazzo di cinquanta piani, sede di un’enorme casa di produzione pornografica, appunto di proprietà di Frank. I personaggi principali, Claude e Claude,
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sono fratello e sorella, l’uno regista e l’altra attrice di film ’per adulti’. Tanto ambigui quanto pieni di talento, i due abitano i piani più alti; il palazzo, infatti, è un campione completo e variegato del genere umano, un formicaio dove miseria e lusso convivono in modo dissonante e sono distribuiti secondo un ordine ben preciso: ai primi piani vivono “gli ultimi”, centinaia e centinaia di attori falliti e tecnici dimenticati, ma salendo di piano in piano dalla sopravvivenza si passa alla comodità e dalla ricchezza al lusso più sfrenato. Quando Claude, regista eclettico e animato dalla volontà di liberare l’uomo dal desiderio, realizza il suo film più estremo, il cosiddetto “porno totale”, esso diventa un’arma: un’arma che i piani bassi desiderano per soverchiare i potenti, e i piani alti ricercano per fare in modo che tutto resti com’è.
Si scatena così una guerra piano contro piano, ricchi contro poveri, la guerra più antica del mondo. Non è a voi che scrivo, ma di voi: forse non era poi così assurda come premessa.
Se la trama è spesso totalmente surreale, infatti, il suo significato è invece incredibilmente vicino alla realtà.
A spingere il lettore a saltare dal piano dell’azione a quello più profondo della sua interpretazione, è lo stile dell’autore. Benché la sua prosa sia asciutta e dal ritmo scorrevole, il lessico è decisamente vario: ogni momento narrativo ha ritmo e vocabolario adatto, tale da dare al lettore l’impressione di passare di scena in scena, dal comico al grottesco, dal filosofico al tragico. I personaggi sono ben lontani dall’essere maschere: sono invece personalità complesse e mai stereotipate, come la voce narrante tiene a sottolineare sin dall’inizio: I volti che si associano a questo genere di persone sono una grottesca carrellata di maschere,
buone a caricaturare un singolo aspetto dell’animo umano. Per contenere la sterminata grandezza della follia è necessario un volto più ambiguo e complesso. Ogni parola suggerisce un’accezione nascosta, cosicché D’Isa riesce a indurre nel lettore il desiderio di smascherare la finzione data da un’azione sin troppo lineare e scovare l’intenzione dietro le quinte. Quel che si scopre al di là del palcoscenico è una foresta di metafore, tanto che l’intera opera sembra contenere una metafora di se stessa. Come il film di Claude è un tentativo disperato di trovare una qualche forma di verità in mezzo all’eterna finzione dello spettacolo per adulti, il romanzo stesso sembra volersi spingere alla ricerca del senso ultimo del comportamento umano. O, meglio, dell’azione umana per come essa si mostra esteriormente, fragile rappresentazione di una verità più profonda che, secondo Claude, risiede proprio nel desiderio, unico eterno motore del mondo. Questa concezione ricorda il pensiero di Schopenhauer – che D’Isa ben conosce, essendo laureato in Filosofia –con la sua analisi del mondo come volontà e rappresentazione.
Le chiavi di lettura, tuttavia, sono molteplici. I due Claude, fratello e sorella e allo stesso tempo spinti da un desiderio reciproco l’uno verso l’altra, ricordano molto Adamo ed Eva – e proprio “Eva” è il nome d’arte che la giovane attrice sceglie per sé. Frank Spiegelmann, che tutto vede e tutto controlla dall’alto dell’ultimo piano, si definisce deus ex machina o diabolus in machina, proprietario di ogni centimetro di quell’illusorio paradiso terrestre. Insomma, il libro è un enorme gioco di prestigio, una sfida a trovare il trucco dietro l’incanto. Sfida da cui, sorpresa dopo sorpresa, vale la pena di lasciarsi trascinare
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