Fischi di carta 32 (12/2015)

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Fischi di carta

Quello che apprezzo di più, soprattutto per quanto riguarda i romanzi, è non riuscire a comprenderli completamente. Non nutro interesse per le opere di cui mi sembra di capire tutto.

Haruki Murakami, 1Q84

IN QUESTO NUMERO

www.fischidicarta.it
n°32 Dicembre 2015 Genova
Planetario | “Hic constitit viator” - A. Lanzola Elementi Tiramisù - C. Calabresi Un secolo di frammenti - P. Martino Prossa Nova | Febbraio 2013 - A. Moro Infischiatene | Troppa importanza all’amore - recensione - F. Torre

SUI GENERI(S)

di Emanuele Pon Prendiamo gli anni ‘20 in Francia. Quelli di Midnight in Paris di Woody Allen. Ci sono Hemingway, Fitzgerald, Eliot e gli altri: ognuno sa qual è il proprio posto nella pulsazionevitale della storia della cultura. Spesso il posto coincide con il proprio ego, ma gli si dà anche unnome, inquadrandolo in qualcosa di più grande. C’è Dada, c’è Surrealismo, c’è Futurismo. I movimenti hanno seppellito i generi, che andavano di moda nel “progressivo” Ottocento, al quale ci si ribella con dolore. E’ il Modernismo. A frapporsi fra noi e loro sono intervenute alcune cose: vuoi l’innalzamento di muri che sono stati poi abbattuti, vuoi il ’68, vuoi la “morte delle ideologie”. E a quel punto fu il Post-Moderno, in tutto il suo splendore di nulla che si fa tutto: i generi non esistono, ma nemmeno i movimenti. L’arte riflette su sé stessa e sui suoi dispositivi; nulla è reale, tutto è concettuale: si recuperano generi codificati, e va di moda destrutturarli e ribaltarli. Il Post-Moderno ci ha tolto da sotto i piedi

AMAZONIA di Milo Karoli
EDITORIALE

Il 2015 si conferma come un anno di grandi trasformazioni per Fischi di carta: mentre la tiratura rimane sostanzialmente stabile (+0,1%), gli indicatori segnano una crescita dei canali trade (Librerie, Università, Cinema, Teatri) e soprattutto online (SitoWeb, Social Network) del 50,3% complessivo. Da settembre 2014, quando Fischi di carta acquisisce Prossa Nova, a Genova la rivista controlla il 36,2% della produzione poetica indipendente e circa il 42% del settore della Prosa. Ad aumentare sono anche le presenze ad eventi di interesse culturale (i palinsesti dell’UGA, il festival L’Altra Metà del Libro a Palazzo Ducale), il numero di partner e collaboratori (Studio Storie di Sergio Badino) e, nell’ultimo anno, il progetto ha saputo adattarsi alle oscillazioni di mercato senza mai perdere in qualità dell’offerta. Sicuramente più interessanti e meno burleschi, i dati degli ultimi anni sull’editoria in Italia: crescono le vendite di e-book, chiudono le librerie, si ingegnano gli editori indipendenti, Messaggerie e PDE fanno cartello, Mondadori acquista RCS Libri e… Amazon da distributore diventa anche casa editrice, in barba ai clienti suoi (più o meno) affezionati. Da questo Novembre, infatti, arriva in Italia Amazon Publishing con 8 titoli di lancio tra cui “Non ho paura del buio” di Robert Dugoni e “Guida agli Appuntamenti per Imbranate” di Tracy Brogan, selezionati, alcuni, tra quelli autoediti sulla piattaforma proprietaria KDP in base al gradimento dei lettori, in pratica in base al numero di recensioni positive che hanno ottenuto. Cambiano i supporti, cambia la fruizione, cambiano le tendenze: cambia il mondo della letteratura. Oggi ad esempio sembra che modelli editoriali come il self-publishing possano essere efficaci online, il passo successivo è che alla tecnologia non si adattino solo gli indici di vendita ma anche il prodotto artistico in sé, le forme letterarie, che dovranno guadagnarsi credibilità in campi del tutto nuovi (immaginiamo esperimenti artistici nel Social Story Telling o nelle Fan Fiction) e lasciarsi indietro i formati tradizionali. In quanto a noi, Fischi di carta si auto-pubblica da 3 anni, accoglie stimoli nuovi e conserva valori vecchi, cura con passione le sue declinazioni cartacee e digitali diffondendo cultura gratuitamente. In conclusione, per citare un classico dell’editoria vecchio stampo, noi, speriamo che ce la caviamo

quel terreno su cui si erano ritagliati un posto persino i vari Proust, Joyce, Woolf. Siamo rimasti senza appigli per squadrare la cultura che ci circonda, vaghiamo nel mare magnum delle idee, che arrivano come informazioni, o poco più. Quale

distopia,

drammatica

vero? Ripartiamo proprio da qui. Non è un genere di assoluta tendenza oggi, quello della distopia? Olocausto nucleare, Zombie, Giochi/ Reality sanguinari per ragazzi/gladiatori da mietere...e poi la Trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer, il trittico che mi ha spinto a questa riflessione. Se cercate su Wikipedia notizie sull’autore, lo troverete definito come un esponente del genere New Weird. Quello che accade oggi mi pare simile all’Ottocento. Ci hanno definiti NeoModernisti, ma penso che Neo-NeoPositivisti sia più adatto. Siamo enciclopedisti-wikipedisti-archivisti, il nostro culto è incasellare, dare un nome ad ogni cosa. Per questo creiamo generi in continuazione. La domanda è: capiamo, nel frattempo, quello che leggiamo/vediamo? Oppure la nostra è frenesia nel vuoto? Non giudico ancora: facciamolo insieme

BLUECRACY

Aprendo la finestra della sala (perché non l’ho mai fatto) mi poggio e sento freddo ma buono freddo di sole aureo freddo. Quel pomeriggio d’oggi è scavato via; nel giro di due ore nella bocca dell’ora questo pomeriggio è questo vespro blu, governo del blu più tenebroso, Tempo, sintesi tremenda. Amiamoci con ciò che abbiamo di rimasto, una coperta un bicchiere e un secondo di libertà, in cui la pensiamo.

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PLANETARIO

“HIC CONSTITIT VIATOR” : L’EROICA SOLITUDINE DI CECCARDO ROCCATAGLIATA - CECCARDI di Andrea Lanzola

“Ti lascio il mio nome, Tristano! Ti lascio una terribile eredità di amore e di odio!”. Così Ceccardo RoccatagliataCeccardi era solito rivolgersi al figlio di quando in quando, mentre il bimbo faceva i compiti al tavolo della stanza comune nella casetta di Sant’Andrea Pelago: la frase sarebbe riapparsa nel testamento del 1918, pochi mesi prima della sua morte. Queste parole, spesso tornate alla memoria dei biografi Ceccardiani (Rosina, Viani, Clades) nel ripercorrere il calvario umano e intellettuale del poeta genovese, ne rappresentarono realmente la premonizione: prima Francesca, la moglie, nel 1918, poi Ceccardo, il 3 agosto dell’anno seguente. Infine Tristano nel 1932.

Da quando Lazzaro Roccatagliata e Giovanna Battistina Ceccardi si erano definitivamente separati, Ceccardo (nato a Genova il 6 gennaio 1871) e il fratello minore Luigi si erano trasferiti ad Ortonovo in Lunigiana, nel palazzo di famiglia (unico residuo dell’antica ricchezza nobiliare) con la madre, donna colta e appassionata lettrice, che sarebbe stata la prima loro fonte per quella passione intellettuale di cui furono entrambi protagonisti, seppur in maniera diversa. Qui Ceccardo visse l’infanzia, l’adolescenza e frequentò per un anno il Liceo Classico Rossi a Massa, alternando agli studi le letture dei poeti prediletti (Shelley, Keats), dei simbolisti francesi – suoi primi punti di riferimento assieme ai classici greci e latini – le lunghe

passeggiate nella natura, sentendosi viva parte di una stirpe antica, profondamente legata alle terre apuane. Richiamato poi a Genova dal padre, che sognava per lui un avvenire da notaio, strappò la Licenza Liceale presso il D’Oria nel 1892 per iscriversi a Giurisprudenza. È a Genova che nascono le prime frequentazioni con gli ambienti letterari cittadini (su tutti il circolo Bohème di Vico Paglia, dove Ceccardo incontra Giuseppe De’ Paoli, giovane poeta crepuscolar-parnassiano che per primo dedicherà all’amico un articolo comparso sulla Rivista Ligure di Scienze, Lettere ed Arti nel 1910); alterna poi soggiorni liguri a ritorni in Lunigiana, dove matura anche la passione politica con spiccate tendenze repubblicane e punte anarchiche sulla scia dei moti rivoltosi avvenuti nel carrarese. Sono gli anni in cui Ceccardo si cimenta anche con l’esperienza giornalistica, trovando impiego a Genova presso la redazione dell’Elettrico (numerosi articoli sulfurei sul pietoso stato di conservazione d’importanti opere d’arte genovesi nei musei cittadini). Nel 1896 assume anche la direzione de Lo Svegliarino di Carrara, esattamente un anno dopo la pubblicazione della sua prima fatica poetica, il Libro dei frammenti (Milano, Aliprandi), opera che mostra chiaramente le tracce delle sue passioni letterarie più vive (Carducci, Pascoli, Verlaine, Rimbaud, solo per citare i principali, a cui si aggiungerà poi D’Annunzio più avanti) e testimonia sin dal titolo l’attenzione per la parola preziosa, ricercata, per il lacerto

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(“frammento”, appunto, premonitore già degli scampoli sbarbariani e dei frantumi boiniani, reboriani, nonché della parola scavata di Ungaretti, che proprio in Lunigiana avrebbe avuto modo di incontrare Ceccardo e di collaborarvi per qualche tempo), l’evocazione di matrice classica e leopardiana – pur fedele a metri e versi tradizionali – scavata nelle pieghe di un crepuscolarismo simbolista sofferto e solenne, preannunziando quello stile eroico, politum ed intimo caratteristico di tutta la sua produzione letteraria; quello stile che Renato Serra di lì a breve avrebbe criticato, ignaro forse, nello scrivere, di evidenziarne proprio i principali e più significativi aspetti (“In questa sua devozione e sacrificio della vita alla poesia [c’è] qualche cosa di un po’ trapassato, come quell’amore che cantavano i trovatori, così puro e tuttavia così convenzionale, per una Madonna che ci pare dipinta”).

Nel 1900 Ceccardi incontra a Genova Francesca Giovannetti e l’anno successivo la sposa decidendo di trasferirsi con lei nel suo paese natale (Sant’Andrea Pelago, nel modenese), dove l’anno dopo nascerà Tristano. Il ritorno in un luogo meditativo, appartato, tanto vicino, nella sua memoria, alla amata Ortonovo, lo induce a scrivere ancora: fra il 1905 ed il 1908 compaiono, fra le altre opere, la raccolta di sonetti Apua Mater e l’elegia In morte di mio fratello (La Riviera Ligure, febbraio 1904). Nel 1905 il poeta fonda, tra Pisa e Carrara, la “Repubblica di Apua” assieme a Giuliani, Pea, Viani e Formentini, segnale di una vivissima attività culturale, politica e letteraria da cui nascerà, nel 1910, Sonetti e Poemi. Il volume, accolto freddamente, si apre col sonetto Genova e contiene il poema Il Viandante – autoritratto e controfigura del suo stesso autore – due testi dove è

possibile cogliere bene il suo stile più maturo, la fedeltà al metro classico, fra l’epica e l’elegia, la ricerca di un lessico musicale, espressivo, l’amore per la storia, per la descrizione e il paesaggio come celebrazione eroica, quasi fiabesca, del passato e quale tentativo di riscatto e consolazione ai dolori dell’esistenza, il culto pascoliano per gli oggetti e i particolari, simbolisticamente inquadrati come punti di appiglio e tappe regolatrici della vita (come poi avverrà anche per Montale, grande ammiratore del poeta).

Disperato e depresso per i continui insuccessi Ceccardo, nell’autunno del 1913, ritorna a Genova nel tentativo estremo di trovare un più stabile impiego. Ma la strada si fa sempre più difficile: le serate fra alcool e fumo per dimenticare lo privano della lucidità, del poco denaro, l’ispirazione lonabbandona. Nel 1916 viene rappresentato al Carlo Felice di Genova il suo Don Chisciotte, un prologo e due atti con musica di Dall’Orso: l’ultima sua battaglia contro i mulini a vento, perduta in un fiasco totale. L’amarezza cede il posto al peggio: Francesca si ammala gravemente e muore nel 1918.

Rimasto solo con Tristano, vaga disperato fra Genova, Lavagna e Carrara alla ricerca di lavoro, affidando di quando in quando il figlio all’amico Pilade Caro a Carrara o alla zia Erminia a Sant’Andrea. Colpito da un’emorragia cerebrale a Genova nella notte del 2 agosto 1919, muore il giorno seguente all’Ospedale di Pammatone. Sulla sua lapide, nel cimitero di Staglieno, resta a tutt’oggi incisa l’essenza della sua vita, da lui stesso composta nel testamento: “Hic constitit Viator”.

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GENOVA di Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi

Un dì le torri, aeree, giganti, munirono le tue darsene fiere com’ira e libertà tra lor balzanti armate, il cor del tuo popolo artiere. Ed ira e libertà strepeanti in nere Gronde, o rotto il civil tedio, in sonanti Impeti s’esprimevano sincere Con virtù di guerrieri e di mercanti. Onde se il Fieschi per serena notte In te percote la grand’Ombra oscura, ed un baratro liquido lo inghiotte; Colombo il cor tenace in tra sarcasmi Cresce, e si lancia a glorïa sicura Per abissi di gorghi e di fantasmi. (in Sonetti e Poemi, 1910)

IL VIANDANTE di Ceccardo Roccatagliata-Ceccardi Così viandante, nel cuor mi crebbi, ed un amor de l’aspra mia terra azzurra ingentilìa quel primo desìo vago di errori, con pensose, illusïoni di ricordi. O primi vïaggi a prova, a tarda sera, a mezzo il verno!; o a’ piedi, tra la piova e il vento, improvvisi ritorni da gli studî, per una ragïon nel petto ascosa, sì che né pur io la sapea! […] Mi chiarì, poi, tardo tal ragïon il cuore; e su quel tempo irrequïeto e gli anni quindi, torbi, galoppò il sole come tra ventose nuvole ne l’Apuane Alpi: o destino del viandante! […] (in Sonetti e Poemi, 1910)

BIBLIOGRAFIA

Urio Clades, Roccatagliata Ceccardi, Firenze, Sansoni, 1969.

Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Colloqui d’ombre. Tutte le poesie 1891-1919, a cura di F. Corvi, Genova, De Ferrari, 2011.

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LE POESIE DEI LETTORI

Mi chiamo Andrea Bagnoli, ho 20 anni e nel mio tempo libero studio Lingue e Letterature Moderne a Genova. Attualmente mi trovo a Lisbona e ricordare un po’ quella cupa e bellissima città in cui viviamo fa veramente piacere a volte

GENOVA di Andrea Bagnoli

Tra gli sparuti vicoli grigi, i vecchi ponteggi cadenti, le viuzze che svicolano in piazze larghe, come lacrime tra le mie palpebre, pazze. In mezzo al fumo dolce d’un vecchio sigaro, alla barba ingiallita d’un anziano signore che sbuffa la vita. Tra i gialli sorrisi sinceri dei viandanti gli ispidi peli dei randagi i loro occhi verdi di lacrime e speranza. Con i denti consumati e sporchi mai dimenticano come sorridere a Dio. Porgo un pezzo di pane, e mi donano la vita. Tra le tortore e i piccioni, le chiesuzze, i ciglioni i tuoi giovani figli tristi, il tuo respiro affannoso, grigio. È qui che ti amo, madre mia. È ora che mi sento tuo tra i mimi e i vagabondi sotto il tuo cielo pesante non chiedermi se sono felice guarda i miei occhi grigi e taci Genova.

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ELEMENTI

TIRAMISÙ

Male sempre in auge, il suicidio. Suicidio di star della musica, canonico a ventisette anni; di giocatori d’azzardo e in borsa troppo temerari; ma anche dei grandi della storia o della letteratura, da Seneca a Cesare Pavese passando per Virginia Woolf; letterario (Anna Karenina, Jacopo Ortis)… e persino di adolescenti, piccoli imprenditori, impiegati: vicini che salutavano sempre, per così dire. Persone comuni che ci è capitato di conoscere o incrociare per strada; con cui abbiamo fatto la fila al supermercato o chiacchierato distrattamente dal parrucchiere.

Ma cosa sappiamo, ad oggi, di ciò che davvero spinge a suicidarsi?

Sopravvivere al suicidio è cosa rara, salvo i casi in cui l’intenzione non sia seria. Ma sappiamo dai tarocchi che morte è anche sinonimo di cambiamento profondo, spirituale: e se prima o poi – sbriciando nel nostro futuro – ci troviamo ad affrontare questa carta, dopo un inevitabile senso di paura non possiamo non ricordarci che per rinascere bisogna prima morire.

La morte è l’estremo tentativo di cambiare e noi stessi e chi ci è intorno al punto da voler mutare anche lo spazio e il tempo in cui, attualmente, ci muoviamo. Un balzo verso la realtà metafisica, ammesso che ci si creda. Un rozzo, ingenuo, disperato intento di lasciare una vita che non ci soddisfa (sperando, sotto sotto, di raggiungerne in questo modo un’altra) o, perlomeno, di rinunciare finalmente al proprio dolore distruggendosi insieme ad esso.

Forse il suicidio appartiene proprio a chi troppo vuol vivere; a tal proposito consiglio la lettura de La ballata di Adam Henry di Ian McEwan, dove un quasi diciottenne testimone di Geova affetto da una grave forma di leucemia, grazie a quel quasi, viene salvato dal dogma della propria religione per cui non potrebbe accettare trasfusioni di sangue: il tribunale dei minori gli impone di sottoporsi ad esse e di salvarsi. Il ragazzo, talentuoso poeta e musicista – in realtà avido di vita – inizialmente rinnega la sua religione ed è grato alla decisione del giudice che ha emesso la sentenza, una donna di quarant’anni più di lui, tanto da innamorarsene e tentare di baciarla; ma quando lei, dopo un’iniziale esitazione, lo rifiuta, Adam viene colto da una ricaduta della malattia e misteriosamente rifiuta un secondo ciclo di trasfusioni. Avendo ormai raggiunto la maggiore età stavolta decide per se stesso – determinando così la propria morte.

Adam Henry vuole vivere, ma si suicida; e il libro non si esprime sul misterioso gap tra l’impulso di morte e l’impulso di vita, evidenziando il labilissimo confine tra di essi e lasciandolo sapientemente irrisolto. Perché nessuno ha la risposta al quesito, e chi ce l’ha – come si può dedurre facilmente – non è più tra noi, se non per errore o per un inaspettato colpo di fortuna. Talvolta, infatti, chi sta per porre fine alla propria vita cambia idea o viene costretto a farlo; doveroso, in tal proposito, ricordare Non buttiamoci giù di Nick Hornby dove quattro

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aspiranti suicidi, incontratisi sul tetto di un palazzo e animati dall’identica intenzione, scelgono di vivere e di superare insieme il proprio dolore esistenziale. Riuscendoci.

Tutto questo senza dimenticare che il suicidio non è sempre questione di morte; non fisica, perlomeno. Singolare è l’opinione di Manuel Pereira al riguardo, sostiene Tabucchi. Pereira, giornalista di Lisbona alle prese con la dittatura franchista, alla morte del proprio collaboratore – un dissidente portoghese ricercato dalla polizia, trovato e infine ucciso – suicida, per così dire, il proprio Io decidendo di cambiare identità con un nuovo passaporto e di fuggire in Francia, ormai apertamente schierato contro un regime che per troppo tempo ha finto di non vedere. Pereira, per sopravvivere moralmente, rinuncia alla propria vecchia vita: e chi ha letto il libro ricorderà cosa viene detto a proposito della

UN SECOLO DI FRAMMENTI di Pietro Martino

Il Novecento italiano si apre con una generazione di frammenti: frammentari sono i testi futuristi, le prose brevi ed espressionistiche dei vociani, i romanzi di Tozzi. A voler andare a caccia di testi fatti e compiuti non si naviga nell’abbondanza: non ci sono opera omnia, ma costellazioni di scrittori, a loro volta autori di costellazioni di testi, spesso brevi, quasi animati dal gusto del non-finito, spesso disseminati in una lunga serie di riviste, di giornali, di opuscoli che prima e dopo la guerra spopolano soprattutto nei grandi centri di aggregazione culturale, dove una media borghesia in ascesa inizia a scontrarsi coi grandi temi che il finire dell’Ottocento ha messo in ballo. Spesso

“teoria della confederazione delle anime”. L’Io dominante del giornalista – in una teoria secondo cui esistono tanti Io, tante anime, tanti volti in una stessa persona – è stato scalzato da un altro, suggerendo così il rimedio a un suicidio reale: una morte apparente che consenta una rinascita, qualcosa che ci coinvolga soltanto a livello psicologico e morale e che, pertanto, possa farci davvero del bene. Un metodo coraggioso e decisamente più saggio che ricorda le vicissitudini di Arya Stark, la ragazzina delle Cronache del ghiaccio e del fuoco che sceglie di lasciarsi indietro la sua vecchia pelle alla maniera di un serpente e di cambiare volto – psicologicamente e alla lettera.

Una morte di tarocchi, dunque, la sua e quella di tanti altri: il perdere foglie degli alberi quando sopraggiunge l’autunno. In attesa di una rinascita

l’essenza frammentaria dei testi contamina con la sua disorganicità il ruolo del lettore, dell’interprete, del destinatario, lo spinge ad osservare come questo magma culturale e artistico vada a riflettere i cambiamenti che sono in atto nella realtà concreta, nel tessuto sociale, in cui sono crollati meccanismi secolari, barriere che si erano mantenute rigide per secoli e che ora sono esplose, facendo fuoriuscire una massa di soggetti umani che prima erano considerati alla stregua di oggetti e che ora, in nome delle varie tendenze socialiste, reclamano spazi d’azione, aree libere in cui muoversi, a livello sociale e culturale, dando inizio ad un discorso continuo, che in modalità diverse e

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con protagonisti di volta in volta differenti è arrivato fino a noi, conservando sempre il suo anelito di emancipazione e liberazione, ma frammentandosi sempre di più nelle sue forme espressive: narrative, saggistiche e poetiche.

Se è vero che si può cogliere una sorta di vocazione frammentaria in molti autori dei primi vent’anni del secolo (quella che viene comunemente definita la stagione delle avanguardie, le quali fra l’altro assumono spesso nelle loro espressioni artistiche il connotato della frammentarietà), occorre anche evidenziare che questa vocazione da lì in poi non è mai venuta meno, e che in un certo senso può rappresentare una delle tante direttrici di interpretazione e riscoperta del secolo appena trascorso: un secolo fatto senza dubbio di percorsi monumentali e unitari, immensi eppure percepibili come cosa unica e compiuta (basti pensare alle parabole poetiche di Montale e di Caproni, per fare due nomi fra i tanti), ma costellato anche e soprattutto di figure “minori”, che necessitano di essere riscoperte e riattraversate con l’aiuto della distanza critica che si è frapposta fra noi e loro grazie all’incessante movimento della storia: una distanza che deve essere senza dubbio percezione di cambiamenti, ma anche di continuità, sia essa tematica o formale, fra le varie figure e le relative opere.

Questo perché il nostro dovere, il nostro intento, deve essere l’elaborazione di un discorso culturale, ed esso non può prescindere da due aspetti: la volontà di innovare, di aggiungere qualcosa, ma con la coscienza di proseguire un qualcosa, di avere dietro di noi una base solida su cui edificare, una base che è necessario fare nostra a livello conoscitivo.

Una conoscenza completa del nostro passato recente non può non comprendere

quella che con sforzo di restrizione possiamo definire come linea del frammento, termine col quale non intendiamo solo la possibilità del non-finito, o quella della forma breve e lapidaria, ma anche e soprattutto un modo di pensare la realtà come qualcosa di frastagliato e disgregato, alla luce di un discorso che può derivare tanto dalla comprensione storica quanto da un approccio esistenziale, ma che in ogni caso discende dall’osservazione di una società che allo scrittore sembra andare in questa direzione, stimolandolo a riportare quest’impressione in forma artistica, tanto in un romanzo di mille pagine quanto in una poesia di otto versi. Dunque possiamo pensare la possibilità del frammento come forma di resistenza ad una realtà frammentata, e domandarci questo: oggi questo tipo di strategia comunicativa fa da padrone, tanto ad un livello basso quanto ad un livello alto, tanto nello sfogo da social network quanto nella poesia contemporanea; ma alla luce dei nuovi cambiamenti, quelli che hanno interessato il nostro paese diciamo dagli anni ’60 ad oggi, è l’unica soluzione espressiva possibile? E la presa d’atto di questa limitazione non è forse un’enorme sconfitta storica ed intellettuale? Ma soprattutto: la poetica del frammento corrisponde fino in fondo alla società che ci troviamo davanti, considerata l’ennesima ondata di globalizzazione socio-culturale, che sembra tendere a omologarci dentro e fuori? Essa è davvero una reazione soddisfacente? O forse, dopo aver decostruito e frammentato per un secolo è necessario almeno tentare di ricominciare a costruire, sebbene coscienti che ogni opera racchiude in sé un germe di frammentarietà ed incompletezza, e che esso non è soltanto limite ma anche costitutiva causa di forza dell’opera letteraria?

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PROSSA NOVA

FEBBRAIO 2013 di Amelia Moro

(Tra la spossatezza di un esame passato e l’ansia per quello successivo c’è uno spazio bianco, e quello spazio è libero, pieno di promesse. Ecco il momento più desiderato, quel posto della mente dove finalmente tace il senso di colpa per quello che avresti dovuto fare, per quello che ancora non hai fatto. Può durare un giorno, o settimane, o anche poche ore, ma da questo soltanto lo riconosci: quella sensazione di espansione, e mille bollicine che ti scoppiettano nel petto, come in un giorno di primavera.)

È febbraio, camminiamo. Non andiamo da nessuna parte, non abbiamo nessun impegno: lì sta tutto il bello. È un giorno grigio, di vicoli grigi. La cioccolata, il bar pieno di specchi, ma quella faccia pallida, spettinata, sono proprio io? Urti la teiera, fai cadere il cucchiaino (difficile amarsi – tra le tazzine). Qui vendono calamai, quel genere di oggetti di cui non ti importa niente, eppure li desideri. C’è pieno di quadri – di croste – ma tu dici: “Mi piacciono i colori”, ah le buone cose di pessimo gusto, cineserie, soprammobili. I bambini sfrecciano, lanciandosi coriandoli: solo un soffio, sono già passati. Dei vecchietti cantano in cerchio, a cappella, tu potresti guardarli per ore. Io no, perché a star ferma divento cattiva. Bella la contemplazione, ma che non sia per più di cinque minuti. C’è un bar con i tavolini all’aperto, e il suo cameriere che scrive sul blocchetto delle ordinazioni. Tutti i tavolini sono vuoti, non c’è nessun cliente. O forse c’è, ma è invisibile. O forse il cameriere sta solo scrivendo la amo, la amo, la amo, la amo e glielo dico (ma non oggi, forse domani). Quel professore gira l’angolo con la sua sciarpa rossa svolazzante: lo seguiamo. In quale vicolo oscuro ci condurrà? Ma no, va solo dritto verso il centro. Tu mi dici che di questa giornata potrei farne un racconto. È vero, ma vedi, sono prigioniera di questa adolescenza eterna –o forse solo vittima di suprema pigrizia – e non so scrivere d’altro che di me di me di me di me di me

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PROSSA DEI LETTORI

FEMMINICIDIO

di

Luca

Vince’, dammi un po’ questa Taggiasca dell’undici, così chiudo il tavolo, che ho la gente in piedi che mi aspetta! Affacciata nel piccolo varco del passavivande, insisto con Vincenzo, che non sembra neanche ascoltarmi. Lui, bicipiti tatuati e sguardo indecifrabile dietro quei suoi occhi grigi, è impegnato in altro: guarda gli spaghetti nel bollitore. Per sapere quando sono cotti, non li tocca, o li gira, né – meno che mai! – li assaggia. Lui li guarda, e sa. Sa quando scolare, e quanto ancora li farà saltare in padella. Non ha mai sbagliato una cottura, che io sappia. Fa magari più fatica con i conti, novantacinque grammi, cinque persone… Novantacinque per cinque… Riflette ad alta voce davanti alla bilancia fino a che qualcuno non lo aiuta: fa quattro e settantacinque, Vince’, buttane quattro e ottanta… Ma sulla cottura, mai un dubbio. I clienti assaggiano, e poi si complimentano: gli spaghetti al dente, perfetti. Da noi gli spaghi sono il piatto forte, un piatto abbondante, con le acciughe fresche, o allo scoglio, al sugo di mare, con il baccalà… La gente viene a pranzo, li ordina, spende poco poco e se ne esce soddisfatta. E torna, soprattutto. Così il locale è sempre pieno, vabbè che è piccolo, però c’è sempre qualcuno che rimane in piedi e aspetta che ci sia un posto libero, o si fuma una sigaretta lì fuori nel vicolo, e tocca pure poi chiamarlo, venga, s’è liberato un tavolo… Per fortuna è sempre pieno, che ci devono uscire gli stipendi, e non è mica facile.

Però, quando siamo nel pieno del servizio, e già c’è tanta gente, e ne arriva ancora, è una bella sfaticata, e bisogna farla in fretta, e magari pure bene.

Certo, se adesso mi danno ‘sta Taggiasca, chiudo l’undici e vado a prendere l’ordinazione a quei due francesi, speriamo che capiscano un po’ l’italiano, e se quelli del tredici si decidono ad alzarsi, sparecchio, riapparecchio e faccio sedere questi qui dell’Agenzia, sono clienti fissi, se c’è un po’ da aspettare non fanno mai problemi, però non è mica bello lasciarli troppo lì, e poi, mi stanno pure in mezzo ai piedi quando passo con i piatti… Ma il tortino di acciughe – la Taggiasca, appunto – se ne sta tranquillo dentro al forno, e non dà segno alcuno di volerne uscire… O qualcuno che lo tiri fuori!

Vincenzo, se non fosse che sono una donna… Inizio a protestare. Ma mi fermo, subito. Chissà se è vero, quello che mi ha raccontato la Sabrina una delle prime volte che ero qui a lavorare, chissà. Si parlava di un altro caso di femminicidio, e lei, la Sabri, se ne viene fuori con ‘sta storia su Vincenzo e su sua moglie, la racconta e, intanto, le scappa da ridere… Certo lui non c’è, se no, non so se riderebbe. O se la racconterebbe. Dunque, Vincenzo stava a casa una sera con sua moglie, lei ha un problema con il bere (beh, questo non è strano, tutti qui abbiamo qualche problema, io mi sono fatta di roba quasi per vent’anni, per fortuna che era buona, mio marito era un trafficante, mi passava

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roba buona, così non mi sono fatta tanto male…) ma quella volta lui ha visto che non era cosa, insomma, che non era cosa, e se ne è andato su di sopra, e si è messo a letto. Lei è rimasta giù di sotto, e continuava a bere. Lui la sentiva, ma poi si è addormentato, perché tanto non sapeva cosa fare, non poteva farci niente. E così dormiva. E poi, invece, di colpo, si è svegliato, e sua moglie gli sta sopra, presa dal delirio alcolico, e gli pianta una lama dove capita, la spalla, il braccio, anche il viso, la mano che tenta di fermarla… Però niente, non la smette. E tu, che hai fatto, allora, gli ha chiesto la Sabrina,

come te la sei cavata? E che dovevo fare, gli ha risposto lui, manco mi sentiva se dicevo qualche cosa, e poi, non è che ci ho pensato tanto, mi sono tirato su con uno scatto, e le ho dato una testata, proprio lì sul naso, secca, che l’ha stesa. Ho preso il telefono, ho chiamato, lei l’hanno portata dentro, e me al pronto soccorso, ero sangue dappertutto…

Ah poi, avevo chiesto io alla Sabri, poi, come è finita? È finita che lei sta ancora dentro, e lui aspetta, e quando esce, dice che se la riprende in casa – e poi, come per scusarsi, aggiunge: e che, posso lasciarla nel mezzo di una strada?

Per contattarci e inviarci i vostri racconti scrivete a prossanova@fischidicarta.it

INFISCHIATENE

TROPPA IMPORTANZA ALL’AMORE - VALERIA PARRELLA (EINAUDI 2015) di Francesca Torre

La scrittrice napoletana ritorna al racconto: otto storie molto diverse tra loro, ma ognuna capace di scavare nell’umanità dei protagonisti, forti e fragili allo stesso tempo, uniti dalla precarietà delle loro esistenze sconquassate da eventi improvvisi, dopo i quali nulla sarà più come prima. Alcuni personaggi possono ancora scegliere, altri sono stati segnati da un destino inesorabile. Alcune sono storie dedicate all’amore nelle sue diverse declinazioni, altre, come recita il sottotitolo, sono “storie umane”.

Il giorno dopo la festa racconta la nascita inaspettata della relazione fra un’insegnante e un cameriere, che cambierà in meglio la vita della protagonista al punto da farle scoprire che

“alla festa siamo buoni tutti a partecipare, ma quello che più importa è come ti senti il giorno dopo”.

In Gli esposti, un’Abbadessa nasconde nel suo monastero una prostituta straniera incinta. Dopo aver partorito, la ragazza scappa; Madre Pia, sentendosi responsabile della fuga, decide di fingere che il bambino sia suo e di lasciare l’abito, quindi di “divorziare” da Gesù dopo vent’anni e ritornare Silvia.

Behave è la storia di un marinaio di Liverpool in pensione, Buddy, che “dentro le persone normali, che camminano, fanno le loro cose” vede “i morti”. Il “Behave” è il pub dove tutti i giorni Brandon, il figlio disabile, aspetta il suo turno prima di sedersi, con la bocca

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aperta, senza rispondere, e per questo scavalcato e deriso. E’ una storia d’amore e di dolore: il protagonista è intimamente legato alla moglie Jude, l’unica persona con cui si poteva “permettere la ricchezza del silenzio assoluto”, che vive la disabilità del figlio in maniera più consapevole del marito, accompagnata da un fortissimo senso di colpa, da un sentimento profondo che però ferisce. La morte improvvisa di Jude non significa per Buddy solo sofferenza e rimpianto, ma anche la possibilità di un nuovo approccio con il figlio e di un rapporto consapevole. Sullo sfondo della storia aleggia l’evento che più ha segnato la vita del protagonista, fino a convincerlo a lasciare la navigazione: l’incontro ravvicinato con le vittime di un naufragio nel Mediterraneo.

99/99/9999 è la data della scarcerazione di un ergastolano: la vita fuori dal carcere è ormai un’idea mediata dalla lettura di libri e giornali, dalla testimonianza di altri. Eppure il protagonista riesce a trasformare la sua esistenza da prigioniero in un “percorso di consapevolezza, e virtù”, che si traduce in una laurea in legge e nello studio della filosofia. Benché sia un uomo ormai molto cambiato, alla società questo non interessa più.

In Troppa importanza all’amore Susanna critica duramente la vita di coppia dei genitori e l’atmosfera familiare fatta di frasi non dette interamente, fantasmi di relazioni extraconiugali, segreti non troppo segreti, incapacità di chiarire, lasciarsi o modificare le basi del rapporto, insegnamenti ambigui.

L’ultima vita è quella di una ragazza malata di leucemia, figlia di una buddista che crede nella reincarnazione. L’esperienza quasi onirica vissuta un

giorno della sua malattia spiega il titolo e la citazione iniziale da La scrittura del dio di Borges: “Vidi l’universo e vidi gl’intimi disegni dell’universo”.

Ogni storia è il frammento di una realtà che attraversa momenti di stasi, ma che un singolo evento, improvvisamente, smuove, talvolta in tutt’altra direzione rispetto a quella prevedibile all’apparenza.

Solo così l’amore, da formula idealizzata, altisonante, da cosa “troppo importante”, può trasformarsi in un fatto umano, da vivere, da sentire concretamente nelle sue molteplici forme.

La forza di questi racconti sta nella capacità di cogliere l’essenziale di ogni vicenda e di esprimere chiaramente un pensiero, grazie a un linguaggio concreto, sincero, aderente a ogni storia, da alcuni critici e giornalisti definito “sperimentale”(Francesco Longo, in un articolo pubblicato sul sito www. rivistastudio.com scrive: Parrella ha trovato una lingua per ogni frase. Piega la sintassi, gioca con il lessico, forza la grammatica). Colpisce, quindi, la varietà stilistica di questo lavoro: all’interno dello stesso racconto possono coesistere una parte marcatamente dialogica (che ci riporta al teatro, genere frequentato e riletto dalla Parrella) e una più descrittiva. Mai l’autrice si risparmia in inventiva, con una scrittura semplice e diretta, volta a stupire ma senza eccedere, in cui proliferano gli odori (in particolare di Napoli), le metafore, le similitudini.

La Parrella, inoltre, non manca di posare lo sguardo sull’attualità (il tema dei migranti ne è l’esempio più lampante) e, quindi, di proporre una letteratura impegnata, in grado di lanciare un messaggio umano, prima ancora che politico

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ILLUSTRAZIONI

Sara Traina

GRAFICA

Beatrice Gobbo

Fischi di carta è stampata presso: Genova Marassi Via Tortosa, 51r

Tel. 010.837.66.11 www.nextgenova.it centro.stampa@nextgenova.it

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