Fischi di carta 33 (01/2016)

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Fischi di carta

François Rabelais, Gargantua e Pantagruele

NUMERO

www.fischidicarta.it
Gennaio 2016 n.33 • anno 4 Genova
L’ appetito vien mangiando, diceva Angest di Mans, ma la sete se ne va bevendo.
“He invented a muse: her name was mediocrity” - L.
Il martin pescatore - F.
lettori |
N.
Elementi Prometeo e Dio
Le
effimere e la
storie
|
Infischiatene
IN QUESTO
Planetario
Calpurni
Ghillino Le poesie dei
I sorci della gelosia -
Giana
- D. Porcheddu
ginestre
fine delle
- F. Asborno La prossa dei lettori
La voce di un altro - A. Lidonnici
| Mia Couto - L’altro lato del mondo - recensione - F. Torre

EDITORIALE

LA PARTE DEL MAIALE

di Alessandro Mantovani Dicono che del maiale non si butti via nulla e, personalmente, sono sostanzialmente d’accordo. Il tema per questo breve editoriale è stato evocato durante una cena in osteria nel freddo di Bologna e precisamente parte proprio dal maiale, anzi dalla porchetta, e da un quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, datato 1559, dal titolo Lotta tra il carnevale e la quaresima . In questo quadro il fuoco converge al centro, dove campeggiano, in posta da carica, i condottieri delle due armate: un grassone con uno spiedo (e annesso prosciutto inforcato) da un lato e dall’altro un vecchio macilento con due aringhe su un vassoio dal lungo manico (precisamente, il richiamo è alla “saracca”, l’aringa che i contadini mangiavano durante il rigore degli inverni e seppellivano in primavera con un rito particolare). Questi gli schieramenti, e noi? Noi intimamente stiamo con il carnevale, con il grasso, con la festa; perché è proprio qui che soggiace uno dei nodi fondamentali della nostra civiltà. La libertà, tanto decantata in questi bui momenti del medioevo moderno, arriva fino a noi partendo proprio da là, dal maiale. La capacità di dissentire, di negare, l’anarchismo (quello buono) che spezza i poteri asfissianti, sovverte gli ordini, e poi le rivoluzioni, i dinieghi, risiedono tutti lì: ben prima che dalle radici democratiche degli aulici Pericle e Tucidide, la libertà si costituisce nella facoltà satirica dell’insulto, nella festa giubilante, nella libertà del corpo umano, di mostrarlo, celebrarlo e accettarlo in quanto tale. Non si parla di dionisismi, si badi, ma di quel legame ancestrale con la terra che la nostra cultura ha imparato a instradare nei binari della letteratura: da Aristofane, Plauto, Giovenale fino ai moderni la coscienza dell’Occidente

risiede in Rabelais molto più profondamente che in Voltaire. È infatti nel moto pantagruelico e vitalistico che incontriamo i fondamentali della laicità e della libertà d’azione, nella terra sta l’opposizione oltranzista, anche arrogante, e infine, la capacità di ridere, di qualunque oggetto: si può ridere dell’uomo così come di Dio, senza catene ideologiche o reali. Ecco perché, in fondo, noi restiamo dalla parte del maiale

BIBLIODIVERSITÀ

di Matteo Valentini Di solito si dice che l’occasione faccia l’uomo ladro. Nel nostro caso, l’occasione fa scrivere gli editoriali, e pazienza per chi ci voleva guadagnare qualcosa. Le dimissioni di Elisabetta Sgarbi da direttore editoriale della Bompiani (ormai nell’orbita Mondadori), per fondare una nuova casa editrice ha dato il la al proseguimento della nostra serie di articoli: si era cominciato passando in rassegna i colossi della Grande Distribuzione Organizzata, si è continuato illuminando la misteriosa editoria online, si prosegue parlando delle case editrici indipendenti. L’editore indipendente non fa parte di alcun gruppo, non è legato a movimenti politici o religiosi, non esercita una posizione di monopolio né sulla filiera distributiva né sulle librerie e non prevede, al suo interno, una partecipazione societaria monopolizzante. Tenta, inoltre, di essere alternativo alle grandi case, proponendo titoli non sempre adattabili ad un pubblico di massa, ma che garantiscano quella bibliodiversità già in pericolo prima dell’ affaire Mondazzoli . Il manifesto dell’ Osservatorio degli editori indipendenti (a cui faccio riferimento e che invito a consultare) segnala che dal 2000 al 2012 il 32% dei piccoli editori è fallito. Si può trovare la causa nelle leggi del libero mercato (quel 32% non piaceva ai consumatori ed è affondato), oppure nelle conseguenze della deregulation, per cui è permesso che un gruppo, o un singolo marchio editoriale, sia proprietario della distribuzione e di una parte consistente dei punti vendita: questo rende totalmente impossibile una contrattazione ad armi pari tra il piccolo editore, le librerie-catena e i distributori che a queste ultime fanno riferimento. Ad alcune case, ad esempio, la filiera libreria-distribuzione sottrae il 63% del prezzo di copertina. L’editore può sottostare a questo monopolio, può soccombere (le due cose non si escludono a vicenda), può costruire reti alternative che rispettino la bibliodiversità. Dal manifesto dell’ODEI: «Favorire la “bibliodiversità” non solo a parole significa immaginare strumenti che limitino lo squilibro tra chi può dettare prezzi e condizioni, in virtù di un “potere” di concentrazione, e chi non ha altra scelta se non accettarli»

L’IPPODROMO di Alessandro Mantovani

Forse sei un po’ più diverso da come ricordavo ora, amico mio, tra la nebbia dell’ippodromo qui che sono per sentirmi ancora un poco greco, un piccolo argonauta da brividi quotidiani, che no, non molla l’osso.

Tu poi mi dici che qui c’eri venuto quando ancora giocavamo a pallone nella palestra della scuola, che lo facesti per amore, ma poi, cosa è successo? Negli occhi vedo spento quel portento che ti avrebbe potuto fare rosa, scienziato, poeta o militare. Tu continui – Non ti preoccupare è questa nebbia che m’ha confuso, sarà andata all’ippodromo a giocare, pensavo, mettendo piede qui. Ora invece è un genio maligno che mi allatta e lei l’ho vista solo una volta che tentava un terno su un ronzino macilento, era invecchiata più di me, più di te – continua – e non ricordavo più quel rumore che avevo sentito da giovane, tra i banchi –.

Prima che rispondessi mi ha poi restituito il biglietto di quella scommessa fallita dicendo solo – ecco, è tutto tuo.

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PLANETARIO

HE INVENTED A MUSE: HER NAME WAS MEDIOCRITY di Laura Calpurni

Figlio della media borghesia, Philip Larkin trascorse l’intera vita fuori dalle luci della gloria letteraria, in maniera appartata e silenziosa, quasi come se esistesse un legame intimo e solitario tra l’opera e la stessa esistenza dello scrittore. Nato a Coventry, in Inghilterra, nel 1922, lavorò tutta la vita come bibliotecario e votò l’intera esistenza, fino all’anno della morte avvenuta nel 1989, alla poesia ed alla critica musicale, pubblicando quattro raccolte di versi: The North Ship, The Less Deceived, The Withsun Wedding e High Windows. Grande appassionato di jazz, scrisse diverse recensioni sparse su svariati quotidiani. “La privazione rappresenta per me ciò che i narcisi rappresentarono per Wordsworth”, dichiarò in un’intervista, sottolineando l’elemento della privazione come fondamentale stimolo per la creatività nella propria opera. Larkin, per l’appunto si è sempre messo a confronto con lo spirito avanguardista nato dai radicali cambiamenti di stili e costumi – non solo letterari – che descrisse nelle proprie poesie con un sguardo sommesso, quasi come se tentasse di contenere l’entusiasmo per il cambiamento malcelando una certa invidia per non poterne prendere parte. Il poeta sente che anche l’Inghilterra post bellica ha un volto nuovo; svuotata della retorica imperiale è ricondotta ad un piccolo Paese insulare, divisa tra grandi centri industriali e abitudini ancora rurali. E Larkin cerca il senso dell’esistenza al di fuori di questo mondo nuovo che sempre di più lo attrae e soffoca; gli interessano chiese decadenti che non ispirano più sensazioni mistiche; desolate periferie; è interessato a svelare il mistero della distanza tra maturità e giovinezza, tra la high window e il suolo freddo, tra il paradiso della liberazione dalla morale e l’inferno di una vita modesta. “Inventò una Musa: il suo nome fu Mediocrità” scrisse di lui il critico Derek Walcott in The Master of the Ordinary; Larkin fa nella sua opera una continua ricerca volta ad una via d’uscita tra le pieghe dell’ordinario, cercando un compromesso per tentare di recuperare tempi ed attimi perduti. La poesia è un rifugio per la sua incertezza, quell’incertezza che lascia trasparire da versi piani, aspri, quasi prosastici, ma che con acuto senso ironico, da essere umano, egli ammette di avere

BIBLIOGRAFIA

K. Elam, L. M. Crisafulli, Manuale di letteratura e cultura inglese, Bononia University Press, 2009 P. Larkin, High Windows, a cura di E. Testa, Einaudi, 2002

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Dicono che sotto i dieci centimetri scatti il bacio. Non posso confermare, non so. Posso invece confermare che sotto i dieci centimetri si inizia a vedere sfocato, a vedere male. Per questo motivo – da genovese che vive a Genova – non sono mai stato in cima alla Lanterna, non ho mai visitato le segrete del Ducale e non avevo mai letto Edoardo Firpo. Mentre le prime due sono ancora work in progress, mi sono recentemente imbattuto nel terzo al Porto Antico, in libreria. Firpo era un uomo d’altri tempi. Per lo stipendio era un accordatore di pianoforti. Per gli italiani era un genovese che scriveva poesie in genovese. È nato nel 1889 ed io l’ho incrociato sessant’anni dopo la pubblicazione del suo terzo libro di liriche, Ciammo o martinpescòu, del 1955. Terzo ed ultimo pubblicato in vita perché morì poco dopo, nel 1957. Altro su quest’uomo non voglio dirvi, vi lascio alla poesia.

…de belle ægue nette quande co-o becco affiòu pâ ch’o fracasse un spegio de cristallo, ma o canto malincònico do gallo in mëzo a-a neutte o pâ un crïo ch’o se perde in mëzo a-o mâ…

Sento pösâme in sciâ lontann-a sponda vixin a-u nònno a-i giorni sensa scheua, e o canto che sentivo in lontanansa zà fin d’allöa o me strenzeiva o cheu.

Chi ghe l’aveiva dïto a-o cheu piccin che o tempo o xeua? e chi à dubitâ de l’avvegnî?…

A caravella ch’a batteiva o mâ a sperava de vedde unn’ätra sponda, ma à chi into tempo nàvega ogni stagion l’è unn’onda verso o scilensio d’unna riva mòrta.

E mi che intanto nàvego mentre che l’onda a franze, ciammo o martinpescòu ch’o pòrte l’öa de belle ægue nette quande co-o becco affiòu pâ ch’o fracasse un spegio de cristallo.

…delle belle acque monde quando col becco affilato sembra frangere uno specchio di cristallo, ma il canto malinconico del gallo in piena notte sembra un grido che si perde in mezzo al mare…

Sento posarmi su quella lontana riva vicino al nonno nei giorni senza scuola e il canto che sentivo in lontananza già fin d’allora mi stringeva il cuore.

Chi l’aveva detto al cuore piccolino che il tempo vola? e chi di dubitare dell’avvenire?…

La caravella che batteva il mare sperava di vedere un’altra sponda, ma per chi naviga nel tempo ogni stagione è un’onda verso il silenzio di una riva morta. Ed io che intanto navigo mentre l’onda s’infrange chiamo il martin pescatore che porti l’ora delle belle acque monde quando col becco affilato sembra frangere uno specchio di cristallo.

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CHIAMO IL MARTIN PESCATORE CHE PORTI L’ORA…

LE POESIE DEI LETTORI

Il mio nome è Nicola Giana, ho 20 anni e da poco ho abbracciato l’arte della poesia. Diciamo che è capitato così per caso, ho iniziato a sfogarmi su pezzetti di carta e da lì è nato tutto. Non sono un professionista, piuttosto un principiante e temporaneo incompetente

I SORCI DELLA GELOSIA di Nicola Giana

La tua vita pende dall’altro capo. Sono un ciottolo spaccato in due nel mezzo della macerie della città. Un pensiero fastidioso pervade, come quella macchia di vino sul maglione nuovo. Amici, che fine avete fatto? Dove si sono persi i nostri sorrisi?

Nei miei pensieri gelosia si nutre delle tue parole. Occhi di carta bruciare. Sono uno scarto: squallido e sporco. L’invidia è la mia peggior malattia. Nei suoi occhi vedo il riflesso appannato della tua anima Giaci morente sul flusso dei miei ricordi Sei l’ostacolo a qualsiasi mia piena felicità.

La notte appoggiata sulla terra con le sue ali d’oscurità. Rapace notturno dal collo spennato osserva dall’alto e scaccia questi insulsi sorci dal mio letto.

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ELEMENTI

È possibile realizzare uno spettacolo dinamico nonostante una necessaria e sostanziale staticità della scena?

Chi abbia visto il Prometeo e Dio di Emanuele Conte, in scena al teatro della Tosse dal 14 al 31 ottobre 2015, non può fare altro che rispondere di sì.

Quest’opera fa parte della cosiddetta Trilogia del potere, un tris di spettacoli diretti da Conte, i cui primi due sono Antigone di Anouilh, messo in scena nel 2013, e Caligola di Camus, nel 2014. Le storie dei tre protagonisti (due dei tre interpretati dall’attore triestino Gianmaria Martini) sono accomunate dall’elemento che dà appunto il nome alla trilogia: Antigone e Prometeo come incarnazioni della ribellione alla tirannia dell’uomo o a quella degli dei, mentre Caligola come follia derivata dal potere stesso. Nonostante le tre opere – pur differenti nella trama – presentino tematiche affini, Conte si dev’essere trovato di fronte a maggiori difficoltà nel mettere in scena il Prometeo incatenato di Eschilo rispetto ai due copioni francesi della prima metà del Novecento: come riuscire a rendere efficacemente sulla scena la forza morale di Prometeo nel rubare il fuoco dal carro di Elio per donarlo agli uomini, disobbedendo

agli ordini di Zeus? Oppure il dolore fisico provato dal Titano, condannato a subire per questo la tortura quotidiana di un’aquila che si nutre del suo fegato? E, soprattutto, come rappresentare uno spettacolo godibile con il protagonista incatenato alla rupe/impalcatura per l’intero spettacolo e quindi immobile?

Gli espedienti sono stati numerosi ed alcuni davvero ben riusciti: la sopracitata impalcatura di ferro ha permesso allo spettacolo di avere un diverso e più completo uso dello spazio, rispetto a un palcoscenico “tradizionale”. L’ambiente risultava infatti allargato sia in verticale, come nella scena iniziale in cui Efesto incatena di malavoglia Prometeo mentre una carceriera incappucciata batte la sua spada contro i tubi di ferro del livello superiore, ma anche e soprattutto in profondità.

L’efficace struttura della rappresentazione prevedeva infatti il coro delle Oceanine, caricaturalmente interpretato da Andrea della Casa, in primo piano, Prometeo al centro della scena e dietro di lui, quasi messi sullo sfondo, altri personaggi come Ermes, figlio di Zeus (Enrico Campanati), servile, sottomesso, secondo Prometeo “anziano”, e la

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mortale Io (Alessia Pellegrino), sedotta da Zeus e trasformata per questo da Era in giovenca.

Quest’ultimo personaggio, con le sue urla strazianti (e, forse volutamente, molto sgradevoli) ha incanalato su di sé il dolore fisico della punizione degli dei, aspetto non particolarmente messo in evidenza nel personaggio di Prometeo: egli infatti, nonostante gli evidenti riferimenti cristologici propri di interpretazioni medievalistiche del mito, (Tertulliano, Apologeticum XVII, 2: L’unico Dio è il vero Prometeo) è stato rappresentato più come un eroe intellettuale che come un martire. Mai visibilmente piegato dal dolore, il Titano ribadiva con forza la sua scelta di aver donato il fuoco e con esso la conoscenza agli uomini, scagliandosi con infuocati monologhi verso Zeus: il re degli dei è stato definito provocatoriamente più volte “padre-padrone”, in un accenno alla kafkiana tematica del conflitto padre-figlio sviluppata poi nel dialogo con l’isterico Ermes, in scena inspiegabilmente dotato di una mazza da golf.

Questo aspetto del protagonista del mito può ricondurre all’interpretazione a tratti riferibile allo Sturm und Drang, a tratti illuministica che ne dà Goethe nel suo inno Prometheus (1774): Prometeo come genio, provocatoriamente ribelle alla generazione che lo ha preceduto, ma anche generoso donatore dell’emancipazione dal potere delle divinità agli esseri umani, per merito

suo in grado di autosostenersi grazie al progresso scientifico derivato dal fuoco.

Con uno spettacolo così ricco di soluzioni stilistiche votate non solo a risolvere il problema della staticità del protagonista, ma anche a aumentare uditivamente la tensione e la drammaticità della sorte del Titano (urla di Io, “Baby-faced killer” di Lydia Lunch nella prima scena), è stato un peccato trovare un finale forse un po’ sottotono: il momento della liberazione di Prometeo che rinuncia alla sua immortalità, difforme tra l’altro dalla versione che ne dà lo stesso Eschilo nel Prometeo liberato, non è stato sottolineato con nessun altro effetto se non la nuda espressività dell’attore protagonista, che ha reso la scena certamente intensa e toccante, ma in fin dei conti meno d’impatto rispetto a un inizio francamente eccezionale

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LE GINESTRE EFFIMERE E LA FINE DELLE STORIE di Federico Asborno

C’è un gigante nella letteratura del secolo decimonono. Non era un gigante di proporzioni –tutt’altro – e non era nemmeno un devastatore di villaggi o divoratori di bambini. Era un gigante delle parole, di quelle belle, di quelle con grossi significati, di quelle che regalano illusioni a chi le legge.

La fiaba tenebrosa che è la vita di Giacomo Leopardi non manca mai di accendere la fantasia di chi vi si accosta. La fiaba di questo gigante, relegato nel corpo di un pigmeo: un corpo fragile, scomodo, in cui si contorce, da cui vorrebbe scappare; sarà pure una fiaba, ma non di certo per bambini. Eppure l’intera opera del recanatese è legata a doppio filo con l’immagine della fanciullezza, l’unico periodo – ci dice Leopardi – in cui è possibile scorgere all’orizzonte il tenue fantasma della felicità, flebile come un ricordo, effimera come un’illusione.

L’amore per chi non è ancora gravato dal peso dell’esperienza, lo porta a progettare persino una Lettera a un giovane del XX secolo, proponimento (che non verrà poi realizzato) in completa sintonia con le riflessioni dello Zibaldone e dei Pensieri, in cui spesso l’autore prende i «giovani inesperti» sotto la sua ala per guidarli, per consigliare loro di godere delle passioni ignorando i freni imposti dai vecchi, perché sono semplicemente frutto della loro invidia.

I giovani scorrono sotto lo sguardo di Giacomo come meteore iridescenti, come lucciole in un mondo tenebroso che va disfacendosi sotto i colpi della

dittatura dell’egoismo, per colpa della negligenza degli illusi progressisti che ignorano la felicità degli individui sproloquiando di popoli, come se le masse non fossero formate da singoli.

Leopardi non crede nelle masse, le teme: sa che “massa” equivale a “conformità”, all’uguaglianza a tutti i costi, al dover per forza corrispondere alle aspettative degli altri per potersi dire parte della comunità. Al contrario difende il valore del singolo, dell’individualismo, della libertà di esprimere la propria unicità divergendo dagli altri, soprattutto per quanto riguarda i giovani.

Inutile dire che la lettura di Leopardi come poeta sofferente e lacrimoso è ormai trita e ritrita, ed è innegabile come la sua intera opera nasconda le tracce di un manuale per ribelli, ad uso di una gioventù che rappresenta un bene da non sprecare, il periodo in cui la ragione non ha ancora cancellato la capacità di immaginare, in cui l’esperienza non ha ancora dimostrato, con tutta la sua tragica irrimediabilità, che la vita è un piano inclinato che sfocia nell’insensatezza.

La vera fine dell’uomo però – dice Leopardi – non sta nella morte, ma nella rinuncia a godere dei fugaci

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momenti di gioia, pretendendo una felicità più grande che non esiste.

La lezione di Leopardi ci suggerisce che le certezze infantili – come per esempio il lieto fine delle fiabe –saranno spazzate via con violenza, che alla fine il lupo pasteggerà con la principessa, che i principi a cavallo sono vili e codardi, che nel mondo gelido si muore assiderati come la piccola fiammiferaia, che Barbablù la farà franca. Ma nonostante tutto, finché queste illusioni sopravvivono, è bene crederci, è giusto goderle, perché sono l’unico barlume di felicità vera di cui possiamo disporre.

Dice William Goldman nel suo sottovalutatissimo romanzo La storia fantastica: «La vita non è giusta. Che lo è lo diciamo ai nostri figli, ma è una cosa terribile: non solo è una bugia, ma una bugia crudele. La vita non è giusta, non lo è mai stata e non lo sarà mai». Queste sono le parole di un padre che sta leggendo al figlio il suo libro preferito, e gli dice che le cose potrebbero non andare come ci si aspetta, che nei romanzi – così come nella vita – il lieto fine non è per forza dietro l’angolo come credono i bambini.

persone sbagliate e la ragione è questa: la vita non è giusta».

Sulla base di quello che sostiene Leopardi, dunque, possiamo dire che la letteratura è più che mai lo specchio della realtà: il momento in cui siamo cresciuti è indescrivibilmente vicino a quello in cui capiamo che le storie possono andare male, che l’eroe arriva troppo tardi e l’orco si è già mangiato l’intero villaggio.

Il dolore del diventare uomini e della morte dell’innocenza, ha come conseguenza il senso di insopprimibile nostalgia per la gioventù, di quando i confini tra fantastico e reale restavano sfumati e il fascino per il mistero, l’energia dell’avventura, il brivido dell’orrore erano sensazioni capitali e totalizzanti.

Possiamo dire che il più valido sostituto dell’infanzia sia forse il patto finzionale, l’unico modo che abbiamo di sospendere la nostra incredulità e regredire consapevolmente alla fanciullezza.

I giovani di Leopardi sono splendide ginestre: tenui virgulti di speranza effimeri come le stagioni che mutano, cresciuti – in attesa della fine – sul fianco del vulcano sterminatore che è la vita. I giovani sono gemme gettate sul fondo di un pozzo tenebroso, brillano nel momento in cui il sole le illumina e poi precipitano, precipitano inesorabilmente. Il gigante fissa il tramonto e il mondo che muore al di là della finestra. Un altro giorno è passato e nel profondo sente un brivido per tutto quello che si cela al di là del suo campo visivo, al di là della siepe che si staglia laggiù, per scoprire il mistero dell’ultimo orizzonte. Il gigante guarda e gode della bellezza insita in ogni sfumatura del mondo, non pensa, si lascia semplicemente naufragare

«Questa non è una storiellina. Nessuno mi aveva mai messo in guardia – dice Goldman parlando in prima persona al lettore – Muoiono le

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LA PROSSA DEI LETTORI

Ho 31 anni e sono di origini calabresi, anche se gli studi universitari mi hanno portato lontano da casa, a Torino. Cinque anni fa ho realizzato il desiderio di ritrovare tutti i giorni sotto il naso l’odore del mare di casa, trasferendomi a Genova; qui ho rispolverato la mia vecchia passione per la scrittura grazie soprattutto a Sergio Badino e ai suoi corsi di narrativa. Scrivo per guardarmi dall’altra parte degli occhi, per sco prirmi e scoprire di più, per fermare davanti ad un punto i miei pensieri e condividerli con chi avrà il piacere di leggerli.

LA VOCE DI UN ALTRO di Antonio Lidonnici

Me ne stavo tranquillo accanto al mio padrone, assaporando le vibrazioni che le ruote tremanti davano a tutta la cabina. Avevo un po’ caldo onestamente, anche per colpa del frac che Mr. Jones aveva deciso di farmi indossare: come al solito aveva deciso tutto lui. «Dai Robert, che stasera saranno tutti per te! Vedrai quanti applausi, e quante donne tutte per noi! Dai amico mio, non fare quella faccia triste» mi aveva detto tirandomi delicatamente su dal mio lettino. Se ne era accorto che ero stufo di quella vita; ormai da un pezzo non ero più quello di prima, solare e giocherellone con tutti, nonostante in pubblico mostrassi solo il mio bel sorriso. Una ragazza si era seduta al posto di fronte a me e, come spesso accadeva, aveva subito iniziato a fissarmi incuriosita. Mr Jones si accorse subito di lei, e le sorrise dicendole che se voleva poteva parlarmi. «Mica morde!» le aveva detto con un sorrisone dei suoi mentre mi prendeva in

braccio.

Norma, così si chiamava, aveva iniziato allora a farmi un sacco di domande alle quali risposi tranquillamente e con gran gentilezza; da me riuscì a scoprire che lavoravo in giro per le piazze e che facevo un mucchio di cose interessanti. Si era accorta che avevo caldo perché continuava a ciondolarmi la testa come se dovessi addormentarmi da un momento all’altro e mi aveva offerto della limonata fresca che aveva con sé; fui però costretto a rifiutare: certe bevande mi davano decisamente fastidio.

Sembrava offesa dal mio rifiuto, ed il mio padrone se ne era accorto; prontamente si era allora prodigato in una serie di battute delle sue, di quelle che di solito facevano piegare in due il pubblico dal ridere: Norma aveva allora iniziato a ridere di gusto, ed io con lei. Mi stavo innamorando di quella ragazza, inutile dirlo, e secondo me lei ricambiava: perché

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altrimenti avrebbe chiesto a Mr Jones se poteva tenermi un po’ in braccio?

Il mio padrone aveva acconsentito, con un pizzico di diffidenza lo ammetto, ma non poteva resistere neanche lui a quel sorriso giovane e smaliziato.

La conversazione era proseguita, ed avevo scoperto che Norma non aveva un fidanzato, per mia fortuna, e che le piaceva cantare e suonare la chitarra. A quest’ultima affermazione Mr Jones era balzato sul seggiolino con un’inaspettata euforia: «Aspetti signorina, le mostro una cosa!», e prontamente aveva tirato fuori dalla sua fida valigetta un piccolo banjo: «Anche Robert sa cantare, lo fa a tutti gli spettacoli: dai Robert, cantagli il tuo pezzo forte!».

Avevo allietato lo scompartimento con uno dei miei pezzi migliori, che dovetti però interrompere bruscamente proprio sull’assolo: Mr Jones aveva iniziato a tossire in un modo che mi preoccupava molto. Gli succedeva un po’ troppo spesso negli ultimi giorni.

«Signorina, sia gentile, dia un’occhiata a Robert, vado un attimo in bagno e torno» aveva detto alzandosi dal seggiolino e caracollando nel corridoio del treno verso la toilette.

«Signorina, lei è certa che prima di dirigersi verso il bagno il signore non le abbia detto niente in merito al suo stato di salute?» Mi aveva apostrofato il controllore, con il tono di chi ha passato 12 ore su un treno e l’ultima cosa di cui

ha voglia è trovare un anziano morto nella toilette durante il suo turno.

«Io quel signore non lo conoscevo» avevo risposto con la massima sincerità «quando sono salita lui era già nello scompartimento. Non mi sembrava che stesse male, anzi abbiamo chiacchierato un bel po’. Pensi che ad un certo punto ha anche tirato fuori dalla sua valigia un banjo ed ha iniziato a suonare!»

Il controllore mi guardava come se non fosse del tutto convinto di quello che gli stavo raccontando, ma io non sapevo più come difendermi.

«Vada signorina, ma prima lasci il suo numero di telefono al collega: nel caso le venisse in mente qualcosa, mi chiami» mi aveva detto accompagnandomi fuori dalla stazione «Il signore era senza documenti, per cui ci metteremo un po’ prima di risalire a qualche suo conoscente. Nel frattempo lascerei a lei i suoi pochi effetti» aveva concluso porgendomi una borsa di tela con il banjo dentro e quel pupazzo da ventriloquo, con quel bel sorriso piacione e accondiscendente stampato in faccia

Per contattarci e inviarci i vostri racconti scrivete a prossanova@fischidicarta.it

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INFISCHIATENE

MIA COUTO – L’ALTRO LATO DEL MONDO - SELLERIO 2015 di Francesca Torre

Il titolo originale dell’opera è Jerusalém: il microcosmo al di là del quale si apre L’altro lato del mondo che dà il nome all’edizione italiana. Dopo la sepoltura della moglie Dordalma, Silvestre Vitalìcio sceglie una riserva naturale per fuggire dalla realtà di sofferenza e corruzione della città. Il suo deliberato isolamento coinvolge i due figli, un servitore e il cognato; a concludere il quadro degli abitanti di Jerusalém (L’umanità, come intitola il primo dei tre libri in cui è diviso il romanzo), è la giumenta Jezibela. Solo addentrandoci nella storia possiamo capire cosa rappresenta davvero Jerusalém: “non un luogo ma l’attesa di un Dio che ancora doveva nascere”. E “solo questo Dio mi avrebbe sollevato da un castigo che io stesso mi ero inflitto” aggiunge, alla fine del libro, Silvestre. I nomi dei personaggi, all’inizio della storia, che danno il titolo ai capitoli del primo libro, ne hanno sostituito di precedenti: veniamo a sapere che Silvestre Vitalìcio era Mateus Ventura, zio Aproximado si chiamava Orlando Macara, l’aiutante Ernestinho Sobra è diventato Zacaria Kalash, il figlio maggiore Ntunzi, invece, Olindo Ventura. L’unico a mantenere lo stesso nome dopo questa “cerimonia di sbattezzamento”, è il piccolo Mwanito, punto di vista predominante nella narrazione della vita della comunità, esule a Jerusalem. In questa sorta di luogo apocalittico non è concesso pregare, piangere, raccontare storie, ricordare, provare nostalgia,

sognare: queste azioni sembrano non essere nemmeno più possibili per gli ultimi sopravvissuti alla fine del mondo. Secondo la spiegazione di Silvestre, infatti, il sogno (in quanto “discorso con i morti”) e il ricordo non esistono in un mondo senza più nemmeno antenati e aldilà. Mentre il padre aspetta un cenno da parte di Dio e la vita a Jerusalém ruota attorno a questo delirio, Mwanito ha undici anni, ma non ha mai visto una donna in vita sua. Il fratello Ntunzi rappresenta per lui una piccola finestra sulla vita precedente a cui è stato strappato senza conservarne il minimo ricordo. A turbare l’equilibrio del rifugio, giunge nella riserva una donna portoghese, bianca, alla ricerca del marito scomparso.

Quando il quadro della trama sembra essere chiaro, nuovi particolari conducono la narrazione verso esiti inaspettati, che mettono in crisi le certezze del lettore intorno alla storia e alla psicologia dei personaggi, mobile e dalle molte sfaccettature. La trama è dunque articolata e mai scontata; ecco che alcuni particolari, a prima vista irrilevanti, ritornano e risultano determinanti per la comprensione della vicenda.

Il particolare trattamento a cui viene sottoposta la parola è il centro dell’estetica e della poetica del romanzo. “Niente mi precede, inauguro il mondo, le luci, le ombre. Mi spingo oltre: fondo le parole. Sono io che le battezzo, creatrice del mio stesso idioma”: attraverso la voce della

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donna portoghese, Mia Couto sembra riferirsi proprio al suo linguaggio, che guarda alla metafora ed è per questo volto ad evocare immagini, fino quasi al punto di “creare” la realtà stessa. Ho immaginato che l’autore avesse voluto ricreare uno stile il più possibile simile a quello del racconto orale, che si avvale di simboli e immagini esemplari che si traducono in massime, sempre valide e riutilizzabili, che a loro volta attingono a una tradizione popolare tramandata nei secoli e di cui si fanno portavoce l’autore e i personaggi. Ne ho avuto conferma in alcune righe di una tesi di laurea intitolata Il racconto mozambicano e lo stile unico di Mia Couto (amslaurea. unibo.it/7478/1/ romboli_anna_tesi. pdf) di Anna Romboli. Attraverso l’uso di massime è possibile toccare tematiche assolute come l’amore, la morte, il lutto, il senso della vita, la guerra, l’intolleranza con una semplicità e franchezza, senza alcuna autocensura, che trovo inusuali.

Tutto questo concorre a creare un “mondo letterario” originale, a cui il lettore occidentale può non essere abituato, nel quale è difficile, in alcuni momenti, distinguere la realtà dal sogno, ma anche dalla credenza. Gli stessi personaggi (in particolare i maschi adulti) partecipano di questa ambiguità, sempre più evidente con il procedere della narrazione. A far loro da contrappeso sono proprio le donne che, seppur bandite da Jerusalém, rappresentano un’assenza che pesa e che si farà sempre più “presenza”, non solo emotiva, ma anche fisica. Ne è prova il fatto che ogni libro e ogni capitolo è introdotto da poesie scritte da autrici (tranne il secondo, che presenta una citazione del filosofo Jean Baudrillard): Sophie De Mello Breyner Andresen, Hilda

Hilst, Adélia Prado, Alejandra Pizarnik. Il Mozambico postcoloniale, in cui i fantasmi della guerra di liberazione e della guerra civile sono ancora vivi, nonostante si cerchi di dimenticare, non rappresenta un semplice sfondo del romanzo, ma ne costituisce la ragion d’essere; in altre parole, la storia non può prescindere dalla sua specifica ambientazione, al punto che i personaggi stessi possono essere considerati una metafora di quel mondo. Zacaria, infatti, dice di non ricordare niente, perché ha “sempre combattuto dalla parte dei portoghesi”, “soldato di tante guerre, soldato senza nessuna causa”, senza una vera patria. Eppure, “il desiderio di oblio” non può che cedere, infine, al recupero della memoria, in vista di una possibile rinascita

Fischi di carta

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