EDITORIALE
PROBLEMI RESTANO
LE TECNOLOGIE CAMBIANO E I
di Federico Ghillino Passato il 3000 d.C., in seguito ai mille anni ancora sconosciuti di probabili guerre, armistizi, paci e pace (verosimilmente poca), noi speriamo che l’UniEu, l’università unificata di tutta Europa, finanzierà la produzione di qualche cyberfilologo che si occupi di studiare com’è andata la Questione #33 . Si tratterà di definire le esatte dinamiche del perché le pochissime copie dei Fischi di carta #33 , sopravvissute negli archivi di chissà che ente o che privato, conservino tracce di inchiostro secco ed il solco di una punta in copertina, nell’angolo in alto a destra. La questione sarà piuttosto intricata, infatti le loro cybermenti, proprio per la perfetta conoscenza e struttura, avranno particolare difficoltà a comprendere l’ingenuità dell’errore umano; penseranno che abbiamo fatto due versioni di gennaio 2015 ed abbiamo saltato gennaio 2016. Allo stesso tempo non avranno modo di spingere la loro percezione temporale, per quanto potente, alle prime luci del millennio precedente e sentire la nostra piccola voce –la voce degli antichi –che gli urla: «Abbiamo sbagliato a correggere le bozze!». C’è poco da dire, è così che si formano i misteri della filologia. Un errore poco chiaro, un’imprecisione che rompe il ritmo e bam: qualche secolo dopo c’è sicuro qualcuno che ti insulta perché ha dei problemi nelle sue ricerche a causa tua. Visto che a noi dispiacerebbe essere motivo di grattacapi per i cyberfilologi dei tempi che saranno, volevamo assicurare che il numero coi solchi e l’inchiostro secco è il primo dell’anno 2016, precedente a quello su cui leggete questo editoriale, che per la prima volta porta a 20 le pagine di questa rivista. Inoltre è importante ricordare che l’attuale numero contiene anche la nuovissima rubrica
MIGRAZIONI , che per l’occasione presentiamo anche a tutti i nostri lettori contemporanei. Una pagina di traduzioni poetiche fatte ad hoc da una parte della ciurma dei Fischi. Spero di essere stato chiaro, cyberfilologo del mio futuro. Buone ricerche
NIENTE DI PERSONALE, SONO AFFARI
di Amelia Moro Quando penso all’argomento “librerie indipendenti”, mi viene subito in mente un film dal titolo C’è posta per te . È questo un piccolo film, una commedia ispirata al classico di Lubitsch The shop around the corner , dove lui e lei si innamorano per lettera, battibeccano nella vita reale e poi, e poi… si sa come andrà a finire. È un piccolo film, ma ben scritto. Lui, Joe Fox, è uno dei dirigenti della catena di librerie Fox (“è vero, vendo libri a poco, è forse proibito?”), lei, Kathleen Kelly, gestisce un negozio di libri per bambini che subisce il peso della concorrenza (“io l’ho conosciuto, Joe Fox, e l’ho sentito paragonare la sua libreria ad un negozio in cui si vendono damigiane di olio d’oliva”). Da una parte Joe crede nel “niente di personale, sono affari”, dall’altra Kathleen consiglia solo libri che ha letto e amato, per ogni titolo ha un aneddoto della sua infanzia da raccontare, conosce per nome tutti i suoi clienti. Vinceranno le leggi dell’amore, sì, ma anche quelle del mercato. La regista e sceneggiatrice Nora Ephron si ispirò alle vicissitudini di Shakespeare and Co . –la libreria in cui aveva girato alcune scene di Harry ti presento Sall y –costretta a chiudere dopo tre anni di lotta contro un negozio della grande catena Barnes & Nobles , aperto a breve distanza. Perché vi racconto questa storia? Perché con Fischi di carta abbiamo scelto di approfondire l’argomento delle librerie indipendenti, andando ad interrogare proprio i diretti interessati: i librai. A breve usciranno sul sito le nostre interviste, curate dalla sezione Elementi . Nel frattempo per prepararvi andatevi a rileggere gli scorsi editoriali di Prossa Nova “Letture critiche”, “Amazonia” e “Bibliodiversità” sulle case editrici indipendenti e sul mercato del libro. Oppure, se siete in vena di romanticismo, guardatevi C’è posta per te !
FRATELLANZA
di Tobia Fredioce
Quando tornavamo a casa col mio amico mi stringevo sempre nella giacca. Lui lo pungevo dove potevo trovarlo: negli occhi suoi, lucidi tanto che c’erano dentro anche i miei, di sempre, languidi. Mentre lo guardavo lo schernivo: «Ma tu che cazzo fai?». Lui mi diceva che scalciava e si dimenava divertito. Vivo. «Io scalcio!». E rideva. A me metteva tanta tristezza perché lui ci credeva davvero di scalciare ma in realtà era solo, solo uno che annaspa. E quindi anche io ridevo e lo abbracciavo forte e gli dicevo: «È vero amico mio, ma non preoccuparti, ora è meglio andare a letto.»
PLANETARIO
I MIRACOLI COMUNI di Gaia
CultroneSei bella – dico alla vita –è impensabile più rigoglio.
Wislawa Szymborska , Allegro ma non troppo
Ricordo ancora il giorno in cui scoprii le poesie di Wislawa Szymborska: era il 14 febbraio del 2011, quindi san Valentino, e mia madre si presentò in camera mia con un pacchetto in mano: “Il regalo lo faccio a te perché sei tu l’amore della mia vita”, disse. Mai avrei pensato, data la dichiarazione, che il pacchetto contenesse l’opera omnia della poetessa. Ricordo inoltre che passai la serata leggendo poesie prese dalle diverse raccolte, e di come mi stupii del fatto che, per quanto trattassero i temi più disparati, quelle parole emanassero sempre, continuamente, una leggerezza di fondo, incapace di venire meno persino nel parlare di solitudine e di perdita. È stato allora che ho capito perché la poetessa polacca, classe 1923, premio nobel alla letteratura nel 1996, fu definita da un articolo del Sole 24 ore “la poetessa del sorriso”.
Già, perché Wislawa è la poetessa che parla di ciò che tutti vediamo e tutti sentiamo, ma lo fa dimostrando che è esattamente questo ciò che nella vita vi è di meraviglioso, o per meglio dire, di stupefacente (il concetto di stupore è molto caro a Wislawa e ricorre spesso nelle sue poesie), dal momento che ognuno di noi ha a che fare con dei “miracoli comuni”, appunto, qualcosa che è alla portata di tutti ma che ogni volta si presenta con una sua irripetibile individualità; a tal proposito, Wislawa concepisce il tempo come un fluire continuo, dove “nulla due volte accade”, esattamente come fu per Eraclito; non è un caso, infatti, che il filosofo greco venga chiamato in causa esplicitamente all’interno di una sua poesia ( Nel fiume di Eraclito).
Questo approccio potrebbe sicuramente essere causa di una visione pessimista della vita, ma certo non per lei; tra una parola e l’altra infatti, Wislawa Szymborska e la sua ironia sembrano sorriderci e dirci che di fronte alla bellezza di tutto questo vivere non abbiamo nulla da temere, neppure la morte. A conferma di ciò, Wislawa Szymborska scrive di essa come di una vecchia conoscenza – anche un po’ imbranata – che prima o poi va incontrata nuovamente, senza timore, ma al massimo con curiosità e forse anche con un po’ di compassione, perché, dice, “la morte è sempre in ritardo di quell’attimo: a nessuno può sottrarre il tempo raggiunto” (da Sulla morte, senza esagerare). Questo atteggiamento emerge soprattutto in I ntervista
con Atropo, straordinario dialogo con una delle Parche dove la poetessa, nel ruolo di intervistatrice, mette alle strette la dea cui spetta il compito di recidere il filo della vita, in un climax di ironia via via sempre più evidente fino ad arrivare al “colpo basso”: dichiarare alla morte la propria mancanza di paura (“In tal caso, addio. O per essere più esatti…” “Lo so, lo so. Arrivederci.”). Qualcuno, dando un’occhiata alla biografia di Wislawa Szymborska, potrebbe dire che le fu facile guardare alla morte in quest’ottica: la poetessa visse la Polonia della seconda guerra mondiale trascorrendo la sua esistenza tutta a Cracovia, sfuggendo agli orrori che colpivano il suo paese e avendo sempre l’opportunità di scrivere per riviste letterarie di diversa sorta; una vita piuttosto tranquilla e felice, quindi, ma c’è da ricordarsi che Wislawa, nel 1990, perse il marito, Kornel Filipowicz; e la consapevolezza di cosa si provi nel perdere qualcuno che si ama si fa, ancora una volta, poesia: nella raccolta Fine e principio, del 1993, la poetessa pubblica Il gatto in un appartamento vuoto, malinconica metafora della solitudine incolmabile data dalla morte di qualcuno a noi caro. Troviamo quindi il tema dell’amore, della morte, dell’irripetibilità, della perdita: ma, per citarne altri ancora, anche casualità, superficialità e guerra. Wislawa Szymborska tratta i più disparati temi, ma la sua poesia diventa, per ovvie ragioni, più intima e sentita laddove
essa affronta un discorso metapoetico: Wislawa si autoriconosce, si scopre come poetessa, e a questo riconduce le sue qualità, il suo potere, anche se non rinuncia a ironizzare anche al riguardo (nel componimento Ad alcuni piace la poesia dirà che persino nei poeti possiamo trovare solo due individui su mille che apprezzino realmente l’arte della scrittura). Tuttavia, la poetessa realizza una meravigliosa sintesi di ciò che rappresenta la poesia per lei, una sintesi di un’efficacia tale da divenire il titolo della sua opera omnia: La gioia di scrivere. Perché più di tutto e molto semplicemente, Wislawa Szymborska è questo, una poetessa: una donna che scrive di ogni cosa che la smuove, e che smuove ogni cosa scrivendo
FONTI
• Wislawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), a cura di Pietro Marchesani, Adelphi, 2009 • www.poetarumsilva.com
Fischi di carta
LA GIOIA DI SCRIVERE di Wislawa Szymborska
Dove corre questa cerva scritta in un bosco scritto? Ad abbeverarsi a un’acqua scritta che riflette il suo musetto come carta carbone? Perché alza la testa, sente forse qualcosa? Poggiata su esili zampe prese in prestito dalla verità, da sotto le mie dita rizza le orecchie. Silenzio – anche questa parola fruscia sulla carta e scosta i rami generati dalla parola “bosco”.
Sopra il foglio bianco si preparano al balzo lettere che possono mettersi male, un assedio di frasi che non lasceranno scampo.
In una goccia d’inchiostro c’è una buona scorta di cacciatori con l’occhio al mirino, pronti a correr giù per la ripida penna, a circondare la cerva, a puntare.
Dimenticano che la vita non è qui. Altre leggi, nero su bianco, vigono qui.
Un batter d’occhio durerà quanto dico io, si lascerà dividere in piccole eternità piene di pallottole fermate in volo. Non una cosa avverrà qui se non voglio. Senza il mio assenso non cadrà foglia, né si piegherà stelo sotto il punto del piccolo zoccolo.
C’è dunque un mondo di cui reggo le sorti indipendenti? Un tempo che lego con catene di segni? Un esistere a mio comando incessante?
La gioia di scrivere. Il potere di perpetuare. La vendetta d’una mano mortale.
NULLA DUE VOLTE di Wislawa Szymborska
Nulla due volte accade né accadrà. Per tal ragione nasciamo senza esperienza, moriamo senza assuefazione.
Anche agli alunni più ottusi della scuola del pianeta di ripeter non è dato le stagioni del passato.
Non c’è giorno che ritorni, non due notti uguali uguali, né due baci somiglianti, né due sguardi tali e quali.
Ieri, quando il tuo nome qualcuno ha pronunciato, mi è parso che una rosa sbocciasse sul selciato.
Oggi che stiamo insieme, ho rivolto gli occhi altrove. Una rosa? Ma cos’è? Forse pietra, o forse fiore?
Perché tu, ora malvagia, dài paura e incertezza? Ci sei – perciò devi passare. Passerai – e in ciò sta la bellezza.
Cercheremo un’armonia, sorridenti, fra le braccia, anche se siamo diversi come due gocce d’acqua.
di carta
LE POESIE DEI LETTORI
Mi occupo di cinema da una vita (sono codirettrice del Genova Film Festival e filmaker) ma da qualche anno ho cominciato a scrivere versi: io le chiamo osservazioni casuali. Mi capita di incontrare persone che mi rimangono dentro come delle visioni, che riposano in me fino a quando non le sciolgo nella scrittura. Il rapporto che ho con le parole è lo stesso che ho con le immagini al montaggio. È una scrittura “di getto” dove racconto un improvviso moto di empatia o di conflitto
LA MISURA DEL VUOTO di Antonella Sica
Il vuoto si misura nei quattro passi della tua casa nel senso rovesciato dei calzini da lavare nel piattino orfano che conservi nel materasso macchiato che copri nel cassetto delle cose che non hanno un posto dove ogni tanto metti le dita cercando. Inutilmente
ELEMENTI EXTRAVAGANZA
di Federico AsbornoLa feroce polemica con la vita politica è sempre stata una delle numerose costanti della vita letteraria: pensiamo allo stratagemma dell’allegoria, con la quale Dante ha raffigurato e polemizzato con un’epoca intera; pensiamo all’opera di Pasolini; pensiamo anche alla moderna narrativa e alla puntuta critica del consumismo fatta in Fight club da Chuck Palahniuk.
Spesso e volentieri però, anche il culto della bellezza assurge al valore di critica a un establishment cupo e grigio, a un presente conformista, che si ammanta di (dis)valori gretti e materici. Basta riprendere in mano il superbo saggio di Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905) e ricordarsi che descrive perfettamente l’epoca di cui è figlio, ovvero proprio quel periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo che vede anche la nascita di movimento culturale stravagante e alternativo.
Stiamo ovviamente parlando di ciò che è stato definito Decadentismo, cioè quella variegata trafila di poeti, artisti e filosofi che tra Otto e Novecento si accorgono di vivere in una realtà affogata nel grigiore di un tran-tran di facciata e una smania di possesso che da Weber sono sì analizzati, ma che questi artisti vedono come codarda mascheratura di deprecabili voragini interiori, in realtà ben visibili. Queste voragini sono figlie
di un crollo generalizzato: l’uomo, la società, i valori di riferimento, tutto sta cambiando e sta per essere stravolto dai poderosi eventi internazionali che sconvolgeranno il mondo; una decadenza che anche il filosofo Spengler in qualche modo indaga nel suo saggio Il declino dell’Occidente
L’Arte Decadente (ovvero quel complesso di opere che possiamo riunire sotto questo marchio), risponde tramite tre antieroi che sintetizzano e parodizzano l’uomo fin de siècle e che saranno fondativi per gli autori che verranno; parliamo in primo luogo dell’inetto, ovvero di colui che è inabile a vivere, che ha dimenticato la bellezza e che insegue (senza mai raggiungerli) valori privi di senso come ad esempio il successo: semplici palliativi di una realtà mortifera, che lo relega ai suoi estremi confini e non gli lascia spazio d’azione. Pensiamo ovviamente agli inetti sveviani: gli Alfonso Nitti e Zeno Cosini, perdenti sempre e comunque. L’inetto è la caricatura del borghese sperduto in un mondo che è quello kafkiano: rigido, asettico e inumano.
Il converso è rappresentato poi dalle figure del dandy di D’Annunzio e dell’Übermensch (“oltreuomo”) di Nietzsche, opposti, ma uniti dalla loro iperbolicità. Dico opposti perché mentre il dandy è la rappresentazione magnificente di un vuoto interiore necessario a
di carta
sostenere un’apparenza impeccabile, l’oltreuomo è saturo del peso di tutta la sua impareggiabile personalità, che rende inutili tutti i legacci della morale imposti dal consorzio umano e che lo rende libero.
E così la totalità dell’oltreuomo diventa il contraltare letterario di un borghesuccio impedito dal protocollo, dall’etichetta, dalle leggi severe di una società fatta di grigi impiegati di banca, con lo stesso vestito, le stesse valigette, che ambiscono tutti al successo proprio dell’esteta, che è però figlio di un vuoto dilagante.
Il Decadentismo non è stato un movimento militante o di protesta, è bene chiarirlo: molti degli artisti riuniti sotto questa etichetta sguazzavano nella
ETÁ DELL'ORO di Claudia Calabresi
Con l’età di Nerone tramontano, forse definitivamente, le speranze del Senato e di ciò che resta della Repubblica romana di sopravvivere; gli intenti autoritari del giovane imperatore – prima soltanto intuibili, poi violentemente manifesti – procedono ad annientare chiunque si opponga al suo regime.
A far da contraltare a un dispotismo sempre più evidente è un folto gruppo di intellettuali e membri della classe dirigente di Roma che ordisce la celebre Congiura dei Pisoni. Si dice che le stelle più luminose nascano in tenebre profonde: è il caso di Petronio, Lucano e Seneca, che rifiutano coraggiosamente di asservire il loro talento al potere e partecipano al complotto.
Di questi autori, il primo è il più miste-
loro epoca. A noi posteri però, quell’arte, quelle opere tanto variegate e innovative paiono stridere e non poco nei confronti di un mondo in fondo cupo e in declino, che precipiterà nel disastro della Grande Guerra e al quale i poeti e gli artisti opporranno la bellezza, la stravaganza, il colore, la potenza delle loro parole, le stesse parole che serviranno per segnare non un’aderenza, ma anzi la distanza da quel tipo di società dalla quale si sentivano differenti.
Essi sono i padri di un’arte non solo fine a se stessa, ma che può essere anche salvifica, che è anche di denuncia e che trova nell’opposizione al presente un senso nuovo e ulteriore
rioso: ammesso che il Petronio autore del Satyricon coincida con l’omonimo cortigiano e pupillo di Nerone descritto da Tacito, si tratterebbe di un raffinato esteta seguace dello stoicismo, autore di un’opera rivoluzionaria.
Il Satyricon è, infatti, una complessa parodia di cui i moderni possono cogliere solo alcuni degli aspetti più geniali: in essa sono presenti critiche alla Roma e alla corte imperiale del tempo, in preda a un lusso sfrenato che mina gli antichi ideali di moderazione e umiltà. Memorabile, in proposito, l’episodio in cui un certo Trimalcione organizza un banchetto, dandosi arie da intellettuale, pur essendo rozzo e ignorante: basti dire che la sontuosa cena si conclude con la celebrazione di un finto funerale in
Fischi di carta
suo onore e la venuta dei vigili per sedare gli schiamazzi. L’ultima frase pronunciata dall’uomo prima di essere portato via, avvolto in un sudario, è «Fate finta che io sia morto. Dite qualcosa di bello.» e queste parole non possono non rievocare il gusto di Nerone per l’autocelebrazione. Il Satyricon è impregnato da una sottile e costante derisione di un vuoto morale nel principato che sfocia in avvenimenti e personaggi assurdi, confusionari, grotteschi.
Anche Lucano, inizialmente fedele cortigiano dell’imperatore, una volta resosi conto della realtà non esita ad aderire alla Congiura. Se prima compone encomi in suo onore, nell’ultimo periodo della propria vita scrive un poema decisamente critico nei confronti dell’autorità imperiale: la Pharsalia, che narra della guerra civile tra Cesare e Pompeo.
L’opera ha una genesi particolare, forse connessa all’evoluzione ideologica del suo autore: inizia con un apparente elogio a Nerone, ma in seguito si fanno evidenti la critica e il distacco di Lucano rispetto all’assolutismo. Nella Pharsalia Cesare viene dipinto come l’opposto dell’uomo clemente e giusto tratteggiato dagli autori filo-imperiali, mentre uno stanco Pompeo soccombe alla sua temerarietà sfrontata; dallo sfondo emerge Catone, incarnazione dello stoicismo caro a Lucano, deciso a combattere fino alla fine l’avvento del principato. Nel poema non ci sono eroi, ma vincitori e vinti; gli dei sono totalmente assenti, nell’audace presa di consapevolezza che sono gli uomini i veri artefici del loro destino; il testo è costellato da profezie oscure che annunciano l’imminente rovina di Roma e di certo ciò che contraddistingue Lucano rispetto a Petronio è l’angoscia che sembra permeare
la Pharsalia.
Ma è Seneca, forse, l’autore più emblematico dell’epoca.
Il filosofo viene incaricato da Agrippina di fare da precettore al figlio Nerone e non si lascia sfuggire l’occasione di applicare la filosofia stoica al principato: finché presiede all’educazione dell’imperatore, il governo è equilibrato e giusto.
In questo primo periodo Seneca è autore dell’Apolokyntosis – traducibile come “Ascesa al cielo di uno zuccone”, in evidente derisione della morte di Claudio – e del trattato De clementia, rivolto direttamente a Nerone, che mette in luce la principale dote necessaria a un sovrano: la benevolenza nei confronti dei suoi sudditi. Ma il tentativo di Seneca di porre a capo del regime un imperatore filosofo si conclude in tragedia: Nerone perde progressivamente il controllo di se stesso. Tra le numerose vittime della sua crudeltà troviamo la madre, la prima moglie e la seconda. Seneca non può che assistere impotente al proprio fallimento e si ritira a vita privata fino alla sua probabile partecipazione al complotto contro il tiranno.
Nel 65 d.C. la Congiura dei Pisoni viene scoperta: chi è coinvolto, ucciso. In un ipocrita tentativo di apparire meno sanguinario, Nerone ordina ai personaggi più cari a Roma di togliersi la vita tra le proprie mura – quasi come fossero essi stessi a volere la propria morte.
Petronio si uccide su ordine di Nerone e continua, fino all’ultimo respiro, a parlare con i suoi amici di poesia e letteratura, rifiutandosi di dare al suo assassino la soddisfazione di saperlo prostrato e sconfitto; Lucano muore suicida prima di aver terminato il suo poema, dove
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probabilmente sarebbe stato narrato il suicidio di Catone: la vita dell’autore sostituisce, macabramente, l’avvenimento che l’uomo non ha avuto la possibilità di descrivere. Seneca si somministra la cicuta e la moglie Paolina, disperata, vorrebbe morire con lui ma ciò le viene impedito per ordine di Nerone, che non intende concedere altri martiri ai suoi oppositori.
Petronio, Lucano e Seneca sono protagonisti della ribellione alla falsa era di pace e prosperità inaugurata da Cesare, che
con Nerone si avvia allo smascheramento: vivendo in prima persona l’inganno del principato, comprendono che il sovrano illuminato non è che una maschera destinata a cadere, un’eccezione alla lunga regola di imperatori incompetenti, viziosi e corrotti che sta portando l’Impero alla decadenza – e non esitano a tornare sui propri passi, anche a costo della vita.
Non è oro tutto quel che luccica, e questi scrittori lo sanno meglio di chiunque altro
UN POLEMICO DI PROVINCIA (MA NON SOLO) di Pietro Martino
Luciano Bianciardi (1922-1971) appartiene alla generazione fuoriuscita dalla guerra e fu pienamente partecipe al clima che seguì ad essa. Fu un’epoca di contraddizioni politiche e sociali, di grandi progetti culturali, iniziative che avrebbero dovuto costruire la nuova cultura, ma che troppo presto finirono per adeguarsi alla vecchia cultura più o meno velatamente. Si fondavano riviste e cineforum, si scrivevano programmi, si facevano riunioni, si aveva la sensazione di muoversi per qualcosa, come se il vento del cambiamento avesse iniziato a soffiare su tutto il paese. Le cose però sarebbero andate diversamente.
Ampi ranghi di intellettuali si sarebbero fatti rinunciatari, avrebbero tradito loro stessi (con qualche eccezione solitaria), si sarebbero impiegati nelle agenzie, negli uffici, negli schemi dell’industria editoriale e culturale.
È con questa generazione di intellet-
tuali che Bianciardi polemizza, pienamente cosciente di farne parte. La sua polemica si scaglia contro linguaggi e protagonisti della nuova cultura: è la critica di chi si assume le proprie responsabilità, di chi non ha paura di mettersi in mezzo e non si tira indietro, in virtù della propria tendenza ad avere con la scrittura un rapporto viscerale, profondo in una costante tensione alla semplicità e alla sincerità. Da questi due caratteri discende la sua cifra intellettuale, il suo rapporto col lettore, che trae la propria forza da una totale adesione alla realtà, storico-sociale e autobiografica: la scrittura non conosce deformazioni di alcun tipo, perché ha la forza immane della nudità e della passione umana e politica.
Bianciardi era nato a Grosseto, e aveva conosciuto l’industria culturale e la cultura di massa dopo essersi trasferito a Milano per collaborare alla fondazione della Feltrinelli. L’esperienza milanese
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segnò profondamente la sua visione del mondo e lo spinse ad elaborare un discorso critico nei confronti delle istituzioni allora vigenti e dei metodi di elaborazione e diffusione della cultura di queste istituzioni: una polemica che egli aveva già abbozzato nei suoi anni grossetani.
La vis polemica sopracitata si manifesta soprattutto in due romanzi (all’interno di un’opera molto più stratificata e complessa di quanto è sembrato doveroso riportare alla maggior parte della critica letteraria degli ultimi quarant’anni): Il lavoro culturale (1957) e La vita agra (1962).
Il protagonista del ’Lavoro’ e della ’Vita’ è un personaggio autobiografico; in un certo senso è una figura unica presa in due differenti momenti. Prima la vita di provincia, negli anni del sorprendente boom economico che deforma l’ambiente grossetano, in cui si muovono figure caricaturali, prese a organizzare eventi e programmi culturali animati da febbrili entusiasmi, ma che finiscono per rivelarsi nella loro essenza sommaria. Poi la vita milanese, l’industria culturale fatta di pescecani senza scrupoli, il lavoro editoriale ripetitivo e inutile, in una città che patisce lo sviluppo forzato e si anima di reietti e intellettuali velleitari.
Nella resa di questa Milano demoniaca l’ironia si fa meno affettuosa, assume connotati sarcastici, diventa polemica pura e sofferta, reazione alla definitiva percezione di una crisi; le tensioni verso il rinnovamento si rivelano nella loro impossibilità di realizzazione: la cultura è completamente immersa nel sistema economico del boom, e immerso con essa è l’autore stesso.
È da questo scacco fra intellettuale e
società che nascono i citati capolavori: qui le contraddizioni della società italiana emergono nella loro complessità grazie ad un narratore che non si fa scrupolo nel rivelare le proprie colpe e quelle degli altri. Qui la tendenza al progresso tanto auspicata, viene definitivamente smontata rivelando al lettore che tutto ciò che sembrava progresso e crescita altro non era che imborghesimento di massa, invasione dello spazio geografico e mentale. E infatti sono gli anni delle province invase dalle fabbriche, nel tentativo di trasformare l’Italia, in un solo decennio, in paese industrializzato; delle menti sommerse da una cultura di massa che tramite nuovi e vecchi media si ostina a tranquillizzare il lettore-ascoltatore-spettatore con rassicuranti mediocrità: un livello base rispetto al quale chiunque possa sentirsi alla pari. Limitare l’opera di Bianciardi alla sua vena di polemista è un errore; errore che la cultura italiana commise quando lo scrittore era ancora in vita, facendone un personaggio di culto, un ritrattista dell’intellighenzia milanese: ruolo che egli occupò solo in parte. La sua polemica non aveva nulla del polemizzare sterile di chi vuole farsi un nome o una reputazione: seppe mettere in luce con partecipazione la vera ansia di progresso, che è scoperta del male, della contraddizione, e messa in luce di ciò che deve essere cambiato; ma che è soprattutto un profondo, e spesso doloroso, esame di coscienza
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MIGRAZIONI
TODESFUGE
Schwarze Milch der Frühe wir trinken sie abends wir trinken sie mittags und morgens wir trinken [ sie nachts wir trinken und trinken wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man [ nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den [ Schlangen der schreibt der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland [ dein goldenes Haar Margarete [...] er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein [ Grab in der Erde er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich [nachts [...]
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den [Schlangen der schreibt der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland [dein goldenes Haar Margarete Dein aschenes Haar Sulamith wir schaufeln ein [Grab in den Lüften da liegt man nicht eng [...] dein goldenes Haar Margarete dein aschenes Haar Sulamith
FUGA DI MORTE
Latte Nero della prima luce lo beviamo di sera lo beviamo a mezzogiorno e di mattina lo [beviamo ogni notte beviamo e beviamo scaviamo una tomba nel cielo lassù non si sta [stretti nella grande casa vive un uomo egli gioca con [le serpi e scrive al calar delle tenebre in Germania egli scrive i [tuoi capelli dorati Margarete [...] fischia ai suoi Ebrei ci fa scavare una tomba [nella terra ci ordina suonate ora e danzate Latte Nero della prima luce ti beviamo [di sera [...] nella grande casa vive un uomo egli gioca con [le serpi e scrive al calar delle tenebre in Germania egli scrive i [tuoi capelli dorati Margarete i tuoi capelli cinerei Sulamith scaviamo una [tomba nel cielo lassù non si sta stretti [...] i tuoi capelli dorati Margarete i tuoi capelli cinerei Sulamith
PROSSA NOVA
DENARO PULITO (PT.2)
di Milo KaroliLa pt.1 è stata pubblicata sul #30, ottobre 2015. Trovate il racconto completo sul sito web.
“Padre Signore, mettici in comunione con le persone che contano nella società. Gesù, lascia che troviamo un buon lavoro.”
Ora, per qualche motivo, mentre stavano insieme Dania non gli disse mai della nostra relazione.
Faceva: «Un’esperienza per cui non ero pronta. Non avevo studiato niente sull’Africa, laggiù non c’è rispetto per l’individuo. La malattia, la povertà, la morte, cadaveri umani per strada come cani morti. Ci passi sopra. Da noi, i diritti ce li abbiamo nella coscienza, il rispetto ce lo abbiamo nel sangue. Loro invece ti toccano tutti, con le mani, con le piaghe, c’è un contatto forte. A Kigali una volta mi trovai in un locale, una bettola, non so davvero come ho fatto a non sentirmi male e a un certo punto, di fuori, sono stata aggredita: prima uno, poi due, poi tre, alla fine stavo scappando da un convoglio di cinquanta uomini. Un’altra volta a Kampala ho visto una baraccopoli. Era la stagione delle piogge, e vivevano tutti lì ammassati, nel fango fino alle ginocchia, mangiavano nel fango. Ho rischiato grosso: non c’è rispetto per la vita umana, è tutto per il denaro, tu turista sei un portafoglio umano. Farebbero di tutto per i soldi. Solo i soldi.» […]
Milo mi aveva chiesto di incontrarci al teatro, voleva mostrarmi qualcosa.
Conoscevo bene il posto, mi ricordai di quando una volta trovai lì vicino un piccolo coltello a serramanico e incuriosito me lo misi in tasca. Più tardi venni a sapere che un’ala dell’edificio, internamente a quella che un tempo era la Villa nobiliare, era stata da pochi mesi adibita all’accoglienza degli immigrati richiedenti asilo, in attesa che la commissione territoriale competente gli assegnasse i documenti necessari a rimanere sul suolo italiano. Infatti, da quando una ragazza che faceva danza presso la società era stata assassinata, gli iscritti al corso erano venuti meno, la sezione era stata chiusa e quella sorta di palestra adattata a campo per l’emergenza profughi. Da fuori sentivamo il corteo, da pochi minuti Milo mi aspettava dentro. Mi fece strada.
Erano divinità antiche, uomini enormi, imponenti, altissime statue occupavano immisurabili depressioni nei muri, imponevano allo sguardo la severità che lo scultore aveva voluto stigmatizzare nelle loro vesti brevi, nelle barbe corpose, nella profondità dei loro muscoli nudi. Sotto erano sacchi, infradito, vestiti ammassati ai piedi di trenta materassi che coprivano il pavimento di gomma. Uomini enormi,
di carta
imponenti, a petto nudo, decine di africani abitavano come in un mare la palestra: si pulivano, si coprivano la pelle con fanghi e creme, cercavano di organizzare al meglio la loro vita ordinaria, in quelle disordinate condizioni. Qualcuno pregava inginocchiato, qualcuno leggeva la bibbia, altri uscivano in quel momento dall’unico bagno, chi con i capelli tagliati, chi con un asciugamano intorno alle pudenda: nessuno si vergognava, erano fieri mentre si preparavano per il pranzo generosamente offerto loro. Il quale, però, tardava ad arrivare a causa dell’imprevista manifestazione. Ciao, salutavano, come stai, tutto bene? Qualcuno mi rivolgeva, con notevole sforzo di pronuncia, le frasi fondamentali della mia lingua. Dammi acqua, mi disse un ragazzo che avrei detto nord africano, e mi accorsi da una moltitudine di bottiglie vuote che in quel posto non c’era acqua potabile. Ben presto mi resi conto che essi erano più, come posso dire, occidentalizzati di quanto immaginassi. Uifi per favore, disse un altro porgendomi il suo telefono cellulare. Capii che desiderava una connessione senza fili. Milo aveva fatto amicizia con alcuni di loro, mi sorprese la familiarità con cui lo accoglievano. Non aveva imbarazzo a toccare quei corpi nudi, segnati, a modo loro belli, parlava con loro in una lingua che non era propriamente inglese, o in altre lingue di cui aveva appreso solo le espressioni familiari. Non me ne resi conto ma passai in quel posto tutto il pomeriggio. Qualcuno gli parlava del suo viaggio in mare, altri gli raccontavano della loro permanenza in Libia, tappa obbligata di molti migranti africani. Venni a sapere che lì i profughi vengono
messi in prigione, la chiamano Zazun: vivono in condizioni tremende, picchiati orribilmente, mangiano tutti i giorni quella che chiamano banku, farina di mais fermentata, fino a che non riescono a scappare o le famiglie non pagano un riscatto salato. Un ragazzo, che veniva dalle indie, ricordo le sue parole in un inglese stentato, cercherò di renderle come posso: Libia (anche lui infatti, vi era rimasto alcuni mesi) tutti lavorano persone da altri paesi, uomo di libia dice ’io sono il grande capo’, dieci persone lavorano per lui, lui dice ’io sono il grande capo’. Europa: tutti uguali. Vita europea, vita buona, gente europea, gente buona. Io pensare, io andare dai ricchi del mondo, andare il mare, moltissimo troppo ricchi, magari morire nell’acqua, troppo ricchi, io andare dai troppo ricchi in Europa. Vita europea, vita buona. Finalmente, dopo alcune ore, fu possibile portare loro il vitto. Quel giorno, devo ammettere, ascoltai rapito le loro preghiere, non ne avevo mai sentite di così belle, di così, mi viene da dire, terrestri. Pregavano Dio, lo ringraziavano per il cibo chiedendo che rigenerasse il loro corpo. Lo ringraziavano per aver creato il mondo, la religione, la famiglia, la realtà. Lo ringraziavano per averli guidati, per averli benedetti, per aver scritto il loro nome nel libro della vita e averlo cancellato da quello della morte. Lo pregarono di dargli un buon lavoro, di dargli il suo favore, di farli prosperare, di non essere lasciati soli dalla società. Resero grazie, nell’onnipotente nome del Signore. Ora, mi sentivo stanco, volli uscire, ma al momento di andarmene un uomo, che proveniva da un paese mediorientale, mi fece prendere uno spavento tale che non seppi mai scordarlo: mi si parò davanti con un coltello di plastica in mano. Era
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spaventosamente magro, scavato, non usava parole comprensibili. Dai pantaloni corti, ben visibile emergeva una piaga di alcuni centimetri di diametro che gli forava la gamba e ne scopriva i tessuti. Nell’altra mano teneva un uccello, un piccione proveniente dalla strada, e cercava di immobilizzare l’animale come poteva. Vuole aiutare la colomba, disse qualcuno. A ben guardare, infatti, il piccione aveva le zampe impigliate in un corda colorata, di tutti i colori dell’iride.
“Anche guardare è attribuire un significato al reale, è dare un senso ottico alla realtà, otticizzarla. La fisica è semplicemente un genere letterario”.
Faceva, raccontami una storia. Mentre lo facciamo? Adesso, mentre mi tocchi, una storia di sesso. Un racconto erotico? Sì. È difficile, non sono bravo con i racconti.
Quel giorno, appena usciti dal campo, Milo mi raccontò di aver conosciuto una ragazza. Diceva che era bella, che aveva una mente brillante e fantasiosa e che era entrata nella sua vita come all’improvviso. Mi spiegava che la notte, quando si svegliava, gli raccontava i sogni che aveva fatto: era così colpito dall’immaginario di lei. Diceva che lo amava, ne era certo, gli aveva chiesto di portarla via con lui. Mi spiegava che era poetessa, che prima aveva studiato e poi era partita per girare il mondo. Si chiamava Dania. Mi disse che magari potevamo frequentare certi ambienti in comune, che lei ama farsi notare, mi domandò se l’avessi mai incontrata.
Rispondono gli esperti che, a partire dal 2000, l’Africa Nera ha registrato una dinamica economica positiva, con tassi di
crescita del Pil reale attorno al 5% medio annuo. Il settore delle costruzioni è stato un importante traino di crescita negli ultimi anni: le aziende di mio padre, ad esempio, hanno contribuito a importanti progressi nelle condizioni della popolazione, in termini di miglioramento degli indicatori di sviluppo umano. Bisogna ricordare che certi paesi presentano gravi problemi di disoccupazione o sottoccupazione, e l’emigrazione di forza lavoro può allentare la pressione sul mercato e contribuire all’innalzamento di questi indicatori. È la verità.
Un vero professionista ha un problema – risolve il problema – e passa al problema successivo. Ora il problema è che la verità è una questione coordinativa: è necessario, in certi casi, coordinare tutti i movimenti, dagli occhi fino alla punta delle dita, come unità di un discorso logico, a ciò che si ha da dire. Non si tratta di far vedere, di esibire sicurezza, di recitazione. Sapevo di loro due. Anche io mi sono sempre riservato certe relazioni, come posso dire, migratorie. Credo che persino quella sera Milo le abbia telefonato, perché ricordo che si è alzata dal tavolo ed è andata fuori qualche minuto. Si tratta di convinzione pura, di essere certi di quello che si dice, con entrambi i piedi ben piantati sullo stesso lato del campo. Si tratta di giocare bene al gioco della vita, come col denaro: a volte il gioco può essere sporco ma il denaro, lui, nossignore, il denaro resta sempre pulito. Non è mentire, io amo Dania, a volte al suo fianco è come se emergesse la mia parte infantile, è come se desiderassi, ancora solo per un paio di mesi, di ritornarmene nel grembo materno. E forse un giorno lo scriverò davvero un
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racconto erotico, in cui dirò la verità sul mio conto, magari confessando a tutti i miei tradimenti, le mie avventure: dovrà essere spiritoso, avrà un titolo evocativo, sacrale. Magari mi inventerò un finto ritrovamento di un antico manoscritto, come si dice, userò un pretesto letterario: mescolerò le sentenze di Milo a quelle di un profeta, le sue parole diventeranno quelle di un santo! Ma così, per gioco, per far ridere i lettori. Almeno questo glielo
devo, alla sua memoria, per le cose che mi ha insegnato, per le sue verità che, tutto sommato, non rimanevano al di fuori del reale ma sempre se ne stavano in disparte, come posso spiegare, al di lato. Mentre le mie, in fin dei conti, sono soltanto di puro ordine commerciale…
Ci tengo a dire però che il mio nome, quello sì, sissignore, il mio nome vuole dire “uomo libero”
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INFISCHIATENE
LA VOCE DI CASSANDRA - GIUSEPPE NIBALI - ORIGINI EDIZIONI, 2015 di Alessandro Mantovani
La voce di Cassandra è prima che un libro un’esperienza. La mirabile fattura degli oggetti che sono i libri della casa livornese Origini Edizioni introduce il lettore ad un corpo di pagine dense, costellate di sorprese, a un’esperienza tattile, ancor prima che visiva e mentale. L’operetta è composta da una parte poetica e una fotografica sullo stesso tema che funge da sottotitolo esplicativo: studi sul corpo di una vergine. La vergine ha, per l’appunto, nome Cassandra, il cui riferimento, spiegato dall’autore stesso nei Chiarimenti posti in calce al libro, non vuole essere mitologico (anche se, tirate le somme, lo è e non ce ne stupiamo), ma il
nome di una donna qualunque, simbolo dell’oggetto di amore e di poesia insieme.
Su questa dialettica tra il poeta e la donna, vergine e Cassandra (che più che un nome, diventa una qualità desublimata, una veggenza sul piano terreno), si innesta un altro tema parallelo che tende a dare uno sfondo narrativo e continuativo, modellato sui protagonisti del Diario del seduttore di Kierkegaard, in cui due amanti C e G (Cordelia e Giovanni) consumano un amore epistolare che ricalca la realtà della vita del filosofo, rimasto sentimentalmente attaccato a Regine Olsen, anche dopo la loro separazione e il secon-
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do sposalizio di lei. Dunque una triplice stratigrafia: poeta/Cassandra che è Cordelia/Giovanni che è Kierkegaard/Olsen, in un gioco di identificazioni che ha però lo stesso risultato, la separazione del binomio.
Negli 11 componimenti di 11 versi ciascuno, con una predilezione per la chiusa epigrammatica composta da uno a tre versi, il dialogo di Nibali va però ben oltre il filosofo danese; nelle poesie si sviluppano (come negli studi fotografici di Massimo Dell’Innocenti nella seconda parte del libro) illuminazioni episodiche che, incastrate di volta in volta in un dettaglio o in una parola, aprono un velo (e tornerebbe in mente Schopenhauer) sulla realtà complessa dei sentimenti, in un’attesa d’amore segmentata negli appuntamenti al buio di una stanza, da dove si sentono gli echi del mondo esterno che filtrano terribili («ero solo con lo Stige, Cassandra, sentivo la guerra, caduta sulla mano»), ma che resta di pinteresca memoria, un perimetro oscuro e chiuso, un témenos, recinto sacro, in cui la felicità di un risultato, di provare e riprovare ancor prima che il gesto sessuale, la messa in gioco degli intrichi personali e dei dolori che ne derivano, potrebbe accadere, ma non si realizza.
La poesia fa poi emergere altri tipi di tensioni; primariamente il sapere/non sapere della vergine, che è donna e bambina e la conseguente trama tra innocenza («la maglia la piego/mi dici bambina e la sfili/alzando le braccia al soffitto») ed esperienza, incarnata nello sguardo del poeta che rimane osservatore comprensivo, («Che ne sai di cosa nidifica sopra/ le nostre maledizioni»), rimando corposo a William Blake (la cui poetica delle “vi-
sioni” non mi sembra peraltro estranea al poeta in questo caso). Un’educazione sentimentale, dunque, nel senso specifico del latino e-ducere, condurre fuori, maieuticamente, un’esperienza biologica e mentale insieme che permetta una crescita e una consequenziale definizione di sé, è quanto si snoda nel percorso poetico di Nibali, velato da un eros sottile, un vedere a metà le parti del corpo, nella penombra, rapprese, divise, coperte. Come le foto successive mostrano, c’è una sensualità dell’immaginazione come essenza poetica, che si scontra contro la realtà monastica delle ritrosie di lei, che, non svincolandosi dalle proprie catene, non varca neppure il proprio limite: «siedi e dici che te ne vergogni/ché siamo cattolici per tono di voce».
Da Greco di Sicilia, infine, Nibali si rapporta anche col modello antico che, a tratti, s’insinua prepotente nel testo, causando un cortocircuito con la figura della vergine; la sua capacità mantica diventa orizzontale, ripiegata solo su se stessa: «si aprirà una soluzione, dici, e levi/i pantaloni, ma è l’averti nuda, qui/mentre pensi cosa sia la tentazione/di essere vergine per l’ultima volta./Solo questa, Cassandra, la tua preveggenza». Ecco allora che notiamo come grande assente sia proprio la voce, che di questa Cassandra, poco indovina, resta balbettio imbarazzato, incapacità di comunicazione, da cui deriva l’impossibilità di proseguire che è l’epilogo: «è impossibile, per me, per questa carne,/ enfiarsi in un ultimo amore» dice il poeta, cristallizzando ciò che è stato nella propria memoria e tornando ad essere il G di Kierkegaard che si domanda in epigrafe: «è forse il mio amore opera della memoria?»
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