Nulla è importante se non la vita. Per questa ragione sono un romanziere. Ed essendo un romanziere, mi considero superiore al santo, allo scienziato, al filosofo e al poeta – che sono tutti grandi esperti di parti diverse dell’uomo vivente, ma che non colgono mai l’intero.
Fischi di carta
LETTERE DI GIOVANI FISCHIANTID. H. Lawrence, Why the Novel Matters, 1936
Umberto Eco 1932 – 2016
IN QUESTO NUMERO
Planetario| Cane tra le fate - E. Garlaschi
Al mondo huom singulare. I versi di Donato Bramante - A.Lanzola
Le poesie dei lettori | F. Sardanelli
Elementi | Il brivido del re - M. Podestà
Signore in giallo - D. Porcheddu Parola al professore - F. Asborno
Migrazioni | Tegen de Afgrond | Alptraumvrouw - M. Brancaleoni
Prossa Nova |Parola di bugiardo - M. Valentini
Prossa dei lettori | Due notti a Venezia - F. Secondo Infischiatene | recensione - I. Buselli
EDITORIALE
SUI GENERIS (PT.2) di Emanuele Pon Nell’epoca dei conflitti sotterrati, mascherati sotto un orwelliano «va tutto bene», forse è il momento di riesumarne un altro. Noi uomini non impariamo mai, e ce lo portiamo sulle spalle almeno dal Rinascimento, quando un manipolo di fanatici del «senso letterale» si ritrovò in mano la Poetica di Aristotele e fece vedere i sorci verdi, tra gli altri, al nostro Tasso e alla sua Liberata . Il problema è quello dei generi letterari , ed è irrisolto da allora: certo, ogni epoca ha detto la sua, e il risultato è stata nientemeno che la nascita del Romanzo come oggi lo conosciamo –il racconto di qualsiasi cosa in qualsiasi modo –ma non si intravede il finale di partita, e i contendenti, pur nell’atmosfera vischiosamente politically correct che ci circonda, sono agguerriti più che mai. Conta più quello che il romanzo dice, o come lo dice? Il romanzo dev’essere un dispositivo morale, un «precettore muto» ad indicarci la retta via, o una pura forma di intrattenimento? Sepolto Orazio, l’ aut aut posto tra il prodesse e il delectare , cioè la scelta tra il giovare e il divertire, è diventato davvero una disgiuntiva: essere utili e intrattenere paiono
CADERE di Fischi di carta Non dovevano essere questi il titolo ed il tema di queste righe. Non doveva essere questo il momento. Venerdì 19 Febbraio –lo stesso giorno che segna la morte della scrittrice Nelle Harper Lee –alle 22:30, Umberto Eco è morto. Non useremo giri di parole.
Con Eco viene a mancare uno degli ultimi appigli cui quasi tre generazioni si sono aggrappate per non cadere, durante l’impervio tragitto che porta a una cultura attiva, strumento di interpretazione della realtà. In questa prima catarsi primaverile egli sembra aver fatto l’ultima cosa che poteva fare per noi. Sembra essere caduto al posto nostro. Eco rappresenta davvero una delle pietre d’angolo irremovibili per la cultura italiana che da anni sente già la mancanza, nelle sue fondamenta, di Cesare Segre, Ezio Raimondi, Edoardo Sanguineti, e ancora prima di Italo Calvino. Un edificio, quello della cultura italiana, fondato sulla più irresistibile curiosità umana, capace di condurci a conoscenze, a scelte di pensiero e di vita, e in ultima analisi capace di condurci all’autonomia (dal greco, “dar
escludersi a vicenda. Impossibile che si compenetrino? Possibile che tutto ciò che passa col nome di letteratura di genere , magari di letteratura di massa, non ci porti alcun insegnamento, anche in negativo –questo libro mi insegna cosa non mi piace –? L’ultima volta che se n’è parlato qui (lo scorso Dicembre), emerse il rischio di una «frenesia incasellatrice nel vuoto» che segna il nostro tempo. Ma attenzione: questo non significa che non si debba dare un nome alle cose. Dando un nome sostanziamo, reifichiamo: da demiurghi, non possiamo rinunciare a farlo. Il genere non abbassa l’opera che qualifica: anzi, spesso le dà un senso più preciso, inquadrandola nel mondo artistico rispetto alle grandi opere «inclassificabili», viste come trascendenti emanazioni, più alte, più importanti per necessità. Ma quale necessità? Davvero il romanzo dev’essere così elevato rispetto all’uomo, alla vita? Perché in fondo il fatto è questo: Romanzo e Uomo si rispecchiano, dicono entrambi della Vita. L’Uomo dev’essere dalla parte del Romanzo, di ogni Romanzo, perché il Romanzo è sempre dalla parte dell’Uomo legge a sé stessi”: tra le passioni di Eco c’era anche quella per l’etimologia). Non ricorderemo qui Eco per il grande scrittore, filosofo, semiologo che era. Preferiamo ricordare l’Uomo Curioso che Eco è stato, un uomo che ha trasformato la sua curiosità in conoscenza e in libertà. La libertà finisce dove termina il pensiero, e siamo convinti che Eco non abbia mai smesso di pensare: con i romanzi, i saggi, le lezioni. E con le interviste, sempre pronte a fotografare l’istante: come se il pensiero raggiungesse la velocità della luce. Ricordiamo Eco come un intellettuale mai accondiscendente alle spinte altrui; come il fulcro dell’azione di Resistenza culturale al colosso editoriale MONDADORI-RCS (simile al Kraken della mitologia norrena, che attira e divora ogni cosa): la fondazione del progetto La Nave di Teseo . “Siamo pazzi”, disse. Nell’epoca della tecnologia e della velocità assolute, è un uomo di 84 anni ad insegnarci ancora che pensare significa sempre osare. Eco ci ha insegnato che per non cadere il modo migliore può essere procedere verso una nuova scoperta, una nuova idea: questa la sua eredità ora che è caduto, e che è caduto con lui un pezzo d’Italia. Possiamo solo ringraziarlo e seguire il suo esempio: continuiamo a camminare. Se Eco è caduto, forse è il momento per noi, se non altro in memoriam , di alzarci
FERRETTO (O PIAZZA SHAMIM)1
di Emanuele Pon
Andiamo – ci piace – come gocce mute di pioggia anche stasera sottili nel mare cadremo in onde tanto piene da essere vuote, anche stasera affogheremo per farci notare;
tra plastica e carta di bicchieri annaspiamo per fare quel che ci pare selvaggi – lo sballo di chi è nato quasi ieri, chi si vuole senza tregua riversare sulla pietra miliare del finesettimana a ricucirsi da capo – nuovo codice d’automa da imprimere alla tabula rasa.
E allora s’affastellano i cartelli dei locali come tane alle formiche, gli annunci di chi offre appigli tutti uguali sul nulla di questa folla – amici amiche chi offre di meno alle scie detersive di bottiglie senza etichetta? Non importa chi o cosa, è solo troppa la fretta; ma fretta di cosa? Tra l’invisibile di una gonna – falsa lascivia di sbronza – e un discorso artefatto urlato a passare quel nostro muro di gomma, si dimentica tutto nel colpo d’accatto: due spicci ancora e ce ne andremo a letto, ma prima due spicci ai re nuovi di Piazza Ferretto.
1 Componimento #11 di un ciclo intitolato Il Circondario, composto da dodici poesie introdotte da un prologo. Il Circondario parla di un cane, di Emanuele e di cosa succede nel posto in cui vivono quel cane e quell’Emanuele.
PLANETARIO
CANE TRA LE FATE
di Edoardo GarlaschiNato a Swansea, leva 1914, Dylan Thomas dedicò tutta la sua esistenza alla poesia, pubblicando svariate raccolte tra cui Eighteen Poems, The Map of Love, Deaths and Entrances. Sposò una ballerina irlandese e durante la sua carriera, che vide l’avvento dei Jazz and Poetry Readings, utilizzò un metodo di composizione poetica che procedeva per accostamento di immagini, retaggio della sua passione per il cinema, sviluppata quando, da bambino, curò una rubrica di recensioni cinematografiche del giornale scolastico. Tale passione lo portò, tra il 1942 e il 1945, a collaborare con la Compagnia Strand, che produceva documentari per il ministero dello Spettacolo, per morire infine nel 1953 negli Stati Uniti dopo aver bevuto, nonostante una forte polmonite, diciotto whisky. Il suo necrologio fu una pubblicazione da parte del Times in cui il poeta venne definito un “paradosso vivente” in quanto portatore del più grande di essi: la purezza.
Questa venne ricercata sia nell’elaborazione fonetica, ispirandosi ai bardi di cui il gallese Thomas si riteneva erede, sia nella simbologia. La poesia di Thomas esprime la sua sensazione di inadeguatezza e di prigionia, non solo “In una torre di parole” come affermò in Especially when the October Wind, ma anche di una struttura schematica della natura, ripresa da John Donne, la quale unisce, in un grottesco
girotondo dualistico womb-tomb, il ventre materno e il sepolcro. Un dualismo forte a tal punto che in Written for a Personal Epitaph accusò per il suo “amoroso crimine” la madre che “modellò la mia forma,/nel suo ventre/che mi diede la vita e poi la tomba”. In Thomas non mancano neanche i riferimenti al Blake di The Book of Urizen in cui emerge una visione proto-freudiana del contrasto tra impulsi sessuali e ragione (intesa come autocontrollo), che lo porterà a considerare la poesia come un mezzo per svelare ciò che per Freud era oscuro. Proprio le sue idee sul sesso portarono Thomas a definirsi un “puritano ma non per il sesso” e a condannare la Chiesa per aver definito peccato ciò che esiste davvero di santo, ovvero l’atto sessuale (altro concetto ripreso da Blake) in quanto forza motrice della natura e dello spirito, ma che troppo spesso diviene mero meccanicismo privo di sentimenti e dunque di significato. Nell’opera Thomasiana è dunque ben presente, accanto ad una religiosità della natura, la consapevolezza dell’elemento biologico, di quel rituale in cui “i nemici venuti dal profondo, / dimenticato buio” del corpo maschile si immolano dopo “uno sparo d’oro” nella “grande esca boscosa dalle labbra sgocciolanti” per consentire la nascita e di conseguenza la morte.
In questo susseguirsi di dualismi e immagini contrastanti, la donna viene
elevata, in contrasto con la condanna rivolta alla madre, a simbolo di rinascita e sacerdotessa di un amore che stona con la ricercata solitudine interiore del poeta, di cui apprendiamo nella poesia In My Craft or Sullen Art: quando “gli amanti giacciono nel letto / con tutti i loro affanni tra le braccia, / io mi affatico a una luce che canta”.
Dylan fu, in definitiva, un poeta ben conscio delle pulsioni umane e per questo consapevole sia della necessità bio-
BIBLIOGRAFIA
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logica della sessualità, sia della necessità di amare. La sua opera si imposta come un’arca che trasporta una ben precisa simbologia e un altrettanto preciso paradosso, questi generarono in lui una sorta di Terra Desolata emotiva, in cui il poeta definisce se stesso, in maniera significativa, “Cane tra le fate”. Una Terra Desolata che non è costruita dall’uomo ma bensì è quella che l’uomo deve portare dentro di sé come lascito evolutivo
AL MONDO HUOM SINGULARE.
I VERSI DI DONATO BRAMANTE di Andrea Lanzola
L’Umanesimo ha rappresentato il ritorno di una visione della globalità dell’esperienza umana, mirabilmente sunteggiata da quella circonferenza dove il leonardesco uomo vitruviano trova compiuta dimensione. Raramente vi furono umanisti che dedicarono tempo ad un solo ambito del sapere. Fra di essi, vi fu Donato di Angelo di Antonio di Renzo da Farneta (1444-1514) – per noi più conosciuto come Bramante forse proprio in virtù di quella “brama” di conoscenza che ardeva in lui – “al mondo huom singulare” (Vasari), il quale non fu soltanto matematico e architetto, allievo di Piero della Francesca, amico di Leonardo (che lo chiamava “Donnino”), pittore e “prospettivo” di Federico Da Montefeltro prima e di Ludovico il Moro poi, ma anche studioso di Dante, poeta per passione assieme ai suoi contemporanei Bellincioni, Pi-
stoia, Visconti, Tanzi, Da Taegio. A tutt’oggi resta ancora poco nota la sua produzione (venticinque sonetti in tutto) che mostra elementi di pregio e interesse per scoprire un altro volto del versatile genio urbinate. I versi di Bramante, tramandati dal Codice Parigino 1543, sono per lo più di stretta osservanza stilnovista per la struttura e le tematiche trattate: da una parte, due distinte figure femminili sono le protagoniste di una sorta di microcanzoniere amoroso dove i tradizionali temi (tormenti e pene d’amore, la donna fiera, il desiderio di pentimento, l’horror vacui, il tempo fuggente declinati anche sul modello petrarchesco) si arricchiscono di un lessico più vicino a Dante, conservando però marchigianismi e lombardismi. A questa dimensione si accosta, quasi in una sorta di brusco, voluto controcanto, quella comica di stampo angiolieriano-bur-
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chiellesco che vede Bramante cimentarsi con il sonetto caudato in discussione con Gasparo Visconti, consigliere ducale, poeta e drammaturgo a Milano, amico a cui dedica i versi “delle calze” al fine di ottenerne un paio nuovo per sostituire quelle lacere e rotte donategli a suo tempo dal Visconti stesso. È proprio in questi versi che Donato rivela maggiore genialità ed estro, restando fedele alla burchiellesca tradizione dell’accumulo di situazioni, personaggi ed eventi nelle due quartine e nella prima terzina di ogni sonetto (quasi un voluto nonsense) per poi chiarire alla fine l’effettivo scopo (quasi sempre, la richiesta di denaro per l’acquisto di calze nuove – quelle tipiche della moda rinascimentale maschile – o di vestiti in generale). Fra tutti, spicca però il sonetto, qui presentato (1492 ca), composto su richiesta dell’amico Paolo di Taegio per concludere il suo poemetto Apolonio di Tyro e dedicato ad una ignota dama ferrarese, dove allegria e scurrilità hanno il più spumeggiante risultato, a riprova di un’atmosfera cortigiana dedita alla vitalità e al divertimento: una gioia di vivere che verrà a sparire con il crollo del ducato di Milano (1499) e il conseguente trasferimento di Bramante a Roma al servizio di Giulio II, al suo ritorno definitivo alla matematica e all’architettura (per quanto il Papa amasse intrattenersi spesso con lui facendosi legge-
BIBLIOGRAFIA
re e commentare Dante). Da questo momento in poi, la vena poetica di Bramante viene totalmente a sparire. Soltanto Andrea Guarna, umanista meridionale autore della Simia, dialogo di matrice lucianea, ricorderà il Bramante poeta definendolo colui che “da vivo, ha sempre canzonato tutti” (Vivens omnes / ludebat iocis, miris modis) seguendo così nella vita, umanisticamente, solo il proprio istinto naturale e la massima, tutt’ora attuale, dell’“homo faber fortunae suae”
Questo è il libretto che ti scrive Paulo, madonna cara così brunamonte 1, nel qual vedrete il monte, il ponte e il fonte, l’inferno, il cielo e Christo col dïavolo,
Bramante e il Manacheo 2, lasagne e caulo 3 , e per vencer ciascun sudagli el fronte. O donna, or qui fian tue bellezze conte, e tua nobilità persin da l’avolo.
Che dirèn noi? El c’è sei versi ancora. Non altro, basta, e l’è fornita l’opra. Cazone in cul, tornate d’un’altra ora.
Ogni cosa a suo tempo ben se adopra, ognuno a un modo il ciel non avalora, quel è meglior che fa laudarse 4 a l’opra.
• Donato Bramante, Sonetti e altri scritti, a cura di Carlo Vecce, Roma, Salerno Editrice, 1995
1 Di dubbia interpretazione.
2 Domenico della Bella “il Maccagno”, amico di Visconti.
3 Cavolo.
4 Paolo di Taegio.
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LE POESIE DEI LETTORI
Francesca Sardanelli dice di sé: «Sono nata a Genova, il 13 novembre del 1983, liceo classico. Sono laureata in Lettere Moderne e faccio la specialistica. Amo le belle lettere e, quand’anche non siano belle, m’importa che siano espressive. Suono il pianoforte da autodidatta e sono curiosa del mondo e degli uomini. »
La sua poesia è scritta in risposta a versi composti qualche tempo fa (La posizione dell’escluso, potete leggerla sul #24) dal nostro Federico Ghillino
di Francesca Sardanelli
Finalmente l’ha trovato, qualcuno, il coraggio di dirlo, ché tutte quelle dame col rossetto così strabordanti di cultura umanistica, davvero, davvero in realtà sono vuote.
E io mi sento così sbagliata, oggi che piove, coi capelli arruffati e i pantaloni bagnati, avvolta nel mio cappottone molto, molto poco elegante -ho sempre freddomentre loro son certe di essermi molto, di molto superiori. Non uso il rossetto, io.
ELEMENTI
IL BRIVIDO DEL RE di Martina Podestà
Era solo un ragazzino Stevie King quando fu richiamato nell’ufficio della preside della sua scuola per aver smerciato un libercolo della dubbia originalità intitolato Il pozzo e il pendolo, il quale, contro tutte le aspettative di Stephen, era andato a ruba tra i suoi compagni: molti, addirittura, al momento di restituire il pericoloso volume, si erano coraggiosamente rifiutati di privarsene.
La donna, che non si era lasciata contagiare dall’entusiasmo dei ragazzi, fu la prima a chiedere al giovane scrittore cosa gli passasse per la testa: al di là di tutto, perché proprio i mostri, e il sangue, e gli arti strappati? Perché si ostinava a sprecare il proprio talento con quella robaccia?
Con gli anni, come sappiamo, il tempo diede ragione a King e al suo smisurato amore per il macabro, ma il Re volle comunque dare una risposta alla preside e a tutti coloro che negli anni gli chiesero perché proprio l’orrore; e lo fece nelle introduzioni delle sue raccolte e dei suoi romanzi: è naturale essere attratti dell’orrore, ci risponde con semplicità, poiché attrazione e paura sono legati indissolubilmente, e la curiosità verso la crudeltà è inevitabile.
In fondo non abbiamo paura dell’arto insanguinato o della testa mozzata: abbiamo paura della morte, della nostra morte, e il racconto dell’orrore è un modo per esorcizzala, per guardarla negli occhi; così come i ragazzini di Stand by me, che
affrontano una lunga avventura seguendo gli assolati binari della ferrovia per vedere per la prima volta un cadavere, per trovarsi faccia a faccia con la morte.
Il racconto dell’orrore ci permette di vivere il macabro pur standone lontani: vediamo il mostro e il cadavere smembrato, ma siamo al sicuro nel nostro letto, col libro in mano.
Il rapporto di King con la paura è morboso, carnale, ossessivo; tuttavia, quando ci parla della sua torna ad essere un bambino: ho paura di dormire con una gamba scoperta, ho il terrore che un mostro mi afferri le caviglie, e se dovesse accadere urlerei forte da svegliare i morti, dice, nell’introduzione di A volte ritornano.
Apprendere che il Re del perturbante abbia paura del mostro sotto il letto ci fa sorridere e riflettere: che il suo modo di inventare terrori sempre più sofisticati come macchine infernali, cani rabbiosi o piccoli medici calvi pronti a tagliuzzarci le parti vitali come in Insomnia, sia il suo modo per esorcizzare le proprie paure di bambino? Non sarebbe certo l’unico maestro del brivido ad affermare di avere paure banali e di non poter essere considerato un cuor di leone: Dario Argento ha affermato in più interviste di avere paura “un po’ di tutto”, ma di aver avuto un vero e proprio terrore per il corridoio della casa dove viveva da bambino; Hitckock ha ammesso di spaventarsi di fronte ai suoi stessi film (“Non
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capisco come faccia la gente a guardarli!” affermava, non senza una certa ironia), e per tornare al capostipite di tutti i terrori, Edgar Allan Poe che aveva la fobia di essere sepolto vivo, motivo presente in moltissimi suoi racconti come Sepoltura prematura o Il gatto nero (dove ad essere murato vivo è l’animale domestico del protagonista).
La claustrofobia che caratterizza molta della narrativa di Poe è un motivo presente anche nei libri di King, non parlo però di claustrofobia nel senso stretto del termine: penso al motivo ricorrente del carcere, che forse più di ogni altro rappresenta l’ancestrale paura della solitudine, dell’isolamento, del soffocamento.
Prendiamo L’occhio del drago, prima e unica favola scritta da King per sua figlia, in cui David, il protagonista, è costretto a passare la sua vita prigioniero in una torre per un delitto che non ha commesso; La redenzione di Shawshank, uno dei suoi racconti più belli, in cui un altro innocente si scava un varco per la libertà attraverso un poster di Rita Hayworth; Il miglio verde, che più di
ogni altro suo romanzo rappresenta la solitudine, il soffocamento derivato dall’essere incompresi.
È evidente la predilezione di King per questo tema che viene esorcizzato nelle opere sopracitate: nelle prime due attraverso l’evasione dei protagonisti; nella terza –nonostante la condanna a morte – grazie alla lunga vita che Coffey dona a coloro che lo hanno aiutato.
In definitiva possiamo dire che, nonostante sia l’autore dei best seller più venduti del secolo, le paure di King non sono molto diverse dalle nostre, e non sono nemmeno diverse da quelle del piccolo Stevie; il ragazzino alto e allampanato che si entusiasmava a smerciare libercoli di contrabbando: quella di restare solo, quella di avere i mostri sotto al letto. L’unico modo che ha trovato per affrontare il suo terrore è stato raccontarlo, prendere per mano il Fedele Lettore e condurlo nel suo cunicolo colmo d’incubi: cosa per la quale tutti noi gli saremo sempre grati
SIGNORE IN GIALLO
di Diletta Porcheddu… O meglio uomini in giallo, sempre e comunque.
Un’affermazione affrettata e superficiale, potrebbero obiettare gli appassionati del genere: in fondo i personaggi femminili in questo ambito della letteratura non mancano, e hanno spesso un ruolo di rilievo. Come non nominare la paziente quanto incredibilmente puntigliosa Livia, eterna fidanzata
del commissario Montalbano? Oppure Camille, la sedotta e abbandonata madre del figlio del commissario Adamsberg, partorita dalla penna di Fred Vargas?
Per non parlare delle vittime dei delitti dei romanzi o delle seducenti tentatrici capaci di distrarre anche il più irreprensibile funzionario di polizia, tutte in effetti descritte dagli scrittori, e perciò per bocca dei pro-
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tagonisti, come “bellissime”. Due tipi di bellezza differenti, certo: innocenti martiri nel primo caso, voluttuose, fredde e calcolatrici nel secondo.
Una dicotomia non molto originale (anzi, tradizionalista) quasi conservatrice, che certo non si può adattare alla realtà moderna, fatta di donne soldato, donne manager, donne presidenti della Camera; e allora, per amore delle quote rosa, dedichiamo un po’ di spazio anche alle (poche) donne della giallistica internazionale contemporanea davvero in prima linea nel risolvere crimini.
Uno degli esempi più famosi, sebbene forse poco adatto, è Lisbeth Salander, protagonista insieme al giornalista Mikael Blomkvist della trilogia Millennium (Stieg Larsson) nonché sua compagna di indagini. Poco adatto perché Lisbeth, come è noto, non è un poliziotto di professione, ma una hacker con un anticonvenzionale senso della giustizia e abitudini borderline che persino un abitante della Svezia progressista come Larsson mostra al lettore in una prospettiva straniata: anche se androgina, (quasi) lesbica, amante del pugilato che detesta gli uomini per sue esperienze personali pregresse, essa ricalca in effetti fedelmente, quasi in modo stereotipato, i tratti caratteristici di un preciso tipo umano, cioè la ragazza tomboy (maschiaccio).
Molto più istituzionalmente poliziotta per attitudine e per grado è il tenente Retancourt, membro della squadra Anticrimine di Parigi con a capo il commissario Adamsberg: alta, muscolosa, solida nel corpo (“come una colonna di marmo”) e nel pensiero, dedita alla causa ma spesso in contrasto con l’atteggiamento del commissario. Violette Retancourt è inoltre presa di mira dai commenti del suo collega Noël, riguar-
danti il suo peso e il suo essere “mascolina”: nel romanzo Nei boschi eterni si fa addirittura riferimento al fatto che sia ancora vergine. È strano osservare come anche una donna quale Frédérique Audouin-Rouzeau (Fred Vargas) tenda a caratterizzare il personaggio della detective dotandola di prerogative fisiche e caratteriali prettamente maschili. È anche molto difficile stabilire se il sessismo sia più presente nelle parole dello/a scrittore/ice o negli occhi del lettore che, ancora orientato da antiche convenzioni, attribuisce istintivamente la determinazione e l’ossessiva dedizione al lavoro al “sesso forte”.
Inoltre, contrariamente a quanto avviene nelle recenti fiction poliziesche (Candice Renoir, Profiling), nei romanzi la vita familiare delle donne detective spesso non è presa in considerazione, o le stesse vi si mostrano poco interessate: come se la forza caratteriale richiesta per il mestiere non fosse compatibile con la sensibilità ed emotività necessarie per l’assunzione del ruolo di moglie o di madre.
Fortunatamente, fa gradita eccezione l’ispettrice Petra Delicado del commissariato di Barcellona, tracciata magistralmente dalla penna di Alicia Giménez-Bartlett. La narrazione in prima persona consente infatti al lettore (e soprattutto alla lettrice) di addentrarsi nelle contraddizioni della mente della scontrosa, anticlericale, pluridivorziata Petra, capace però in Serpenti in Paradiso di commuoversi per i baci della figlia di un’amica, un tipo di affetto a cui ha scelto di rinunciare per sempre.
Ed è proprio la contraddizione, la controversia, ciò che caratterizza il profilo di ogni donna forte, poliziotta o non: ma agli autori e autrici di gialli spesso sembra non
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interessare molto un’approfondita caratterizzazione del personaggio, preferendo invece una tipizzazione secondo schemi più o meno rassicuranti (il maschiaccio, il donnone poco attraente) e confermando così la classica e netta distinzione tra femminismo e femminilità.
Osservando questa netta linea di demarcazione si sente la mancanza di qualche sfumatura in più, o semplicemente di un piccolo atto di coraggio; ad esempio, il riconoscere che la verosimiglianza del personaggio femminile nei gialli è costituita non dalle sue stereotipate prerogative, ma anche e soprattutto dalle sue particolarità, che con-
PAROLA AL PROFESSORE
di Federico Asborno
Nella lettera di fine 1951 a Milton Waldman – editor della casa editrice Collins a quell’epoca – John Ronald Reuel Tolkien sintetizza le vicende del suo mondo immaginario a noi noto come Terra di Mezzo, elencando i tre elementi fondativi che lo caratterizzano: la Caduta, la Mortalità e la Macchina. In realtà però, a sorreggere l’immensa impalcatura letteraria del Professore sta un’altra categoria: il Linguaggio.
Parrà tautologico porre il Linguaggio come fondamento di un’opera letteraria, ma nel caso particolare dell’autore del Signore degli Anelli non lo è affatto: è noto come Tolkien abbia inventato per ogni popolo e razza di Arda (così si chiama l’universo in cui è compresa la Terra di Mezzo) una sua lingua, addirittura un suo alfabeto.
Al di là delle alzate di sopracciglio di
tribuirebbero inoltre a renderlo interessante dal punto di vista letterario.
D’altra parte, le illogiche e distratte speculazioni del commissario Adamsberg non dovrebbero portarlo alla risoluzione di tutti i suoi casi, così come l’odio di Montalbano per la burocrazia non dovrebbe portarlo ad assumere un atteggiamento così irrispettoso verso i suoi superiori: tuttavia, sono quelle le caratteristiche che determinano il successo editoriale di entrambi.
Ma ancora, si tratta di uomini in giallo, non di donne. E chissà quanto dovremo aspettare per vederne davvero qualcuna
coloro i quali vedono l’opera di Tolkien come roba da bambini (o da adulti mai realmente cresciuti), la fatica dell’autore non è stata fine a se stessa, né espressione di una maniacalità per il dettaglio senza frutto. Le lingue sono necessarie a Tolkien e al lettore per vivificare e caratterizzare oltremodo i personaggi che le parlano e che fanno del loro idioma una cifra identitaria: pensate agli Orchi senza il Linguaggio Nero, pensate agli Elfi senza i loro dialetti, il loro alfabeto che pare un ricamo d’oro in una veste di seta, immaginate il Signore degli Anelli privato di quella complessità di nomi e luoghi che lo rende, se non vero, verosimile… L’intero corpus tolkieniano è espressione dell’amore incondizionato per la lingua e per l’infinito possibile che essa riserva a chi la adopera: pensiamo alle canzoni di Tom Bombadil che sono in grado di scacciare gli
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spiriti maligni dei Tumulilande; pensiamo alla parola (Mellon!) che apre la porta delle miniere di Moria; pensiamo all’incipit del Silmarillion (la raccolta dei miti e delle leggende di Arda pregresse alla vicenda di Frodo): tutto inizia con il canto degli Ainur, figli di Eru Ilúvatar (la versione tolkieniana del Dio dell’Antico Testamento), che sostanziano la materia tramite le parole dei loro canti, che creano gli elementi e i popoli tramite il potere della Parola.
Inutile sottolineare gli evidentissimi richiami alla tradizione biblica della Genesi («Poi Dio disse: Sia la luce! E la luce fu») e in generale alla dimensione ebraico-cristiana, che l’autore non ha mai rinnegato, ma con Tolkien non possiamo fermarci all’allegoria, anzi torniamo a un autore che ha sperimentato il potere vivificatore della parola, la parola che separa il detto dal non detto e fa esistere concretamente qualcosa; Tolkien ci fa assaporare il piacere di nominare le cose, che è poi anche il potere di creare: con lui torniamo al concetto greco della logopoièsi, la capacità di “fare” attraverso “il pensiero”, che è poi il senso stretto della poesia.
Possiamo definire “poetica” l’opera del Professore (e il riferimento non va di certo al solo Signore degli Anelli) non solo per l’intonazione e la gravità lirica di innumerevoli brani, situazioni e personaggi, ma perché sopra tutte le altre è l’opera in cui il Linguaggio svolge le funzioni principali: sono Lingue quelle donate da Tolkien ai suoi personaggi, è Parola quella che nel Silmarillion segna l’inizio di tutto, è Linguaggio quello che l’autore cesella così magnificamente per dare corpo al suo (ma anche nostro) mondo.
Per queste e molte altre ragioni non può che farci inorridire ciò che scopriamo
grazie all’articolo di Dario Fertilio, apparso sul numero del 7 gennaio 2012 del Corriere della Sera. Fertilio ci racconta come vari casi di autori di innegabile rilievo come Moravia, Graham Greene e lo stesso professor Tolkien siano stati clamorosamente bocciati al premio Nobel e abbiano ricevuto commenti nient’affatto positivi dalle giurie.
Il Nobel che ci riguarda in questo caso è quello che nel 1961 venne assegnato ad Ivo Andrić: a Tolkien – che figurava tra i candidati – vennero rivolte parole dure dal giurato Anders Osterling, che lo escluse dal riconoscimento perché la sua scrittura «non era affatto di qualità», con l’aggravante di non dimostrarsi «in alcun modo all’altezza della narrazione della storia».
Ebbene, la storia ha dimostrato ampiamente da che parte stesse la ragione (con buona pace di Osterling), eppure non sta qui, intendo nell’indubbio valore letterario degli scritti del Professore, il senso più profondo che ha mosso la sua mano: Tolkien non era tanto ossessionato da riconoscimenti e premi letterari, quanto dal senso di compiutezza dei suoi scritti. Una compiutezza, una definizione che regala una magnifica sensazione di hortus conclusus e il cui segreto risiede appunto nel Linguaggio e soprattutto nell’amore per il Linguaggio; per quella capacità tutta sua di creare qualcosa che vive al di là della carta, al di là dell’inchiostro: che sia vero in un certo qual modo.
Il mondo di Tolkien infatti non esiste che nella sua mente ed in quella di chi vuole credergli, ed è grazie a quelle parole, a quelle lingue e a quell’amore incondizionato per esse che diventa tanto reale quanto un mondo fatto di acqua, aria, fuoco e terra
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MIGRAZIONI
Poesie di Dirk van Bastelaere, olandese post-modernista, rispettivamente dalle raccolte: Gli accadimenti del cuore e Nel profondo dell’Amerika. Traduzione di Maurizio Brancaleoni.
TEGEN DE AFGROND
Dat ik je aanspreek, stom hart, is natuurlijk complete waanzin, je bent een generiek gegeven uit de cultuurgeschiedenis.
Dat betekent: een sterrennevel, drijvende paddesnoeren, een parcours d’accidents een zon die in het zwart verkeert, napalm, Reihung, een nevengeschikte wereld en we schrijven entropie.
Het is een woord, hart, tegen de wereld. Net zo goed kan ik tegen de afgrond gaan schreeuwen, een canyon [waarlangs op zorgvuldige plaatsen een houten framepje werd opgesteld met de vermelding Take Pictures Here. KODAK
ALPTRAUMVROUW
De nerveuze maan is haar mooiste Bloeiwijze. Ze wandelt als een schermbloem Op de natte weiden van de nacht.
Haar rug koelt af en wordt Van vlees. De droom Staat nog op haar gezicht
Te lezen, als koud zweet. Ik kan haar niet vertellen van de regenputten In de nacht, ze liep er zelf langs
Om mij bij te blijven. […]
DI FRONTE AL PRECIPIZIO
Che io mi rivolga a te, cuore muto, è naturalmente un’assoluta follia, tu sei un dato generico preso dalla storia della cultura. Ciò significa: una nebulosa, girini che galleggiano, un percorso d’incidente un sole che si fa nero, napalm, Ordine, un mondo coordinato e noi scriviamo entropia.
È una parola, cuore, di fronte al mondo. Allo stesso modo di fronte al precipizio posso mettermi a urlare, un canyon [dove in punti precisi è stata collocata una cornicetta di legno con la scritta Take Pictures Here. KODAK
LA DONNA DELL'INCUBO
La luna nervosa è la sua infiorescenza più bella. Lei vaga come un’ombrellifera sui prati bagnati della notte.
La sua schiena si raffredda e diventa di carne. Il sogno le si legge ancora in faccia, come sudore freddo. Non posso raccontarle delle cisterne nella notte, lei stessa ci passava accanto per restare con me. […]
PROSSA NOVA
PAROLA DI BUGIARDO
di Matteo ValentiniLa stracciatella si stava sciogliendo e gocciava sulle scarpe di Michele che, dietro la porta chiusa del tinello, ascoltava la sua famiglia parlare di lui. Si sentiva vecchio di mille anni; avvertiva il sangue nelle vene fermo, di piombo. Il cappello gli comprimeva la testa mentre le gambe, stufe di insudiciarsi, sembravano aver deciso di prendere e andare lontano, a farsi un giro.
Dal leggio pronuncio parole che imbarazzano tutti: «Ci sono tante belle corone qui, ma Michele oggi fa parte di una corona più grande. Come farete quando tornerete a casa e quella sarà vuota? Come farai, Livia? E voi, Roberto, Silvia? Tuo marito, vostro padre, veglierà su di voi dal cielo per non farvi smarrire nell’abisso che lui stesso ha creato andandosene al Padre». Sento i piedi muoversi per la noia e vedo bocche irritate e stirate dal disagio.
È difficile fare il lavoro del prete, devo sempre cercare poche pratiche cose da dire con delicatezza e convinzione, senza patetismo né freddezza. Certo, ai funerali il protagonista è il morto, ma il prete deve comunque garantire un marchio di autorialità, altrimenti al suo posto andrebbe bene un qualsiasi necrologio. Il prete deve essere un tecnico, non un amico. Un tecnico della consolazione. La gente è piena di amici, specie ai funerali, ma il prete è uno, solo. Quanto sarebbe meglio, anziché parlare di case, strade, abissi, alzarsi in piedi e dire: «Niente. Michele Murgia è morto».
Nel tinello illuminato dalla lampadina a basso consumo saltò su Livia e sbottò che Michele aveva sempre raccontato un sacco di balle. Era quello il suo vero problema. Non la testa dura, non l’attaccamento ai soldi, né il bere, cose che con l’età vanno e vengono, ma le balle. Le balle ai clienti. Che figure con i clienti.
Roberto, il figlio più grande, la interruppe dicendo che raccontare qualche bugia al cliente è il modus operandi del commerciante e che il problema era quando le balle le raccontava a loro, i suoi figli.
Un corno, Roberto, c’era da aver vergogna, ribatté Livia e raccontò delle volte in cui Michele, in negozio, si appoggiava con i gomiti sul tagliere ancora sporco e diceva a voce alta: «Che lavoro ieri. Io tanto lavoro come ieri non l’ho mai visto fare a nessuno». Poi aspettava che qualcuno rispondesse «Tanta gente?» e allora riattaccava: «Gente? No no, macché. Quella non è gente, le persone non fanno così: lupi, leoni, coccodrilli forse. Allucinante. Non facevo in tempo a servirne uno che l’altro saltava su e diceva “Michele, un chilo di macinata” e allora un altro “Ma signore, c’ero prima io! Vorrei sei fettine” e ancora uno “Che dite, è il mio turno!” e fuori una coda, una coda sempre più lunga, fino al piazzale». A questo punto Michele si fermava un secondo e guardava di sottecchi chi aveva di fronte per la stoccata finale: «Guardi che banco mi hanno lasciato, ho più due petti di pollo e questa lingua qua. Ieri li avrei anche potuti vendere (tutta roba freschissi-
Fischi di cartama del resto), ma cosa vuole, io a una cert’ora devo andare a casa. Non mi puoi arrivare in negozio alle sette e mezza di sera e pregarmi di venderti quella bella lingua. Torna domani!» Il cliente allora sorrideva e diceva «Buon per lei, arrivederci». E Livia, nel retro, che puliva i contenitori di plastica, rossa peggio del sangue che lavava. Lo sapeva lei quanta carne aveva dato ai gatti lì in giro, e mancava poco che la scansassero pure loro, tanto era marrone.
Roberto disse che suo padre mentiva per scappare in un qualche locus amoenus lontano dalla sua stessa famiglia, che gli aveva sempre sparlato alle spalle. Livia, incarognita, tirò una sberla al figlio. Che stesse ben attento, perché le cose che aveva detto in quel tinello, a Michele avrebbe potuto dirle anche sulla faccia.
Davanti ai fedeli venuti per il funerale continuo la mia omelia: «Nel passo di oggi Gesù dice ai suoi discepoli Non si turbi il vostro cuore. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei forse detto che vado a prepararvi un posto? E quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. E dove io vado voi conoscete la via. Al che Tommaso chiede ingenuamente al Maestro come possono percorrere la via verso un luogo che non conoscono. E Gesù risponde Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non attraverso di me. Se voi mi aveste conosciuto, anche il mio Padre conoscereste, e fin d’ora voi lo conoscete e l’avete visto». Faccio una pausa per osservare la platea. Chi ha ascoltato? «Livia, Roberto, Silvia, lasciatevi rincuorare da questo passo: esso ci assicura l’esistenza della vita dopo la morte. Testimonia che la vita terrena è solo un passaggio, che Gesù è pronto ad accoglierci nel suo amore per
sempre. Basta la nostra fiducia». Annuiscono come scolari al catechismo. È giusto, non ascoltate queste parole di speranza, non serve: ripetetele, ripetetele e basta. Credo in un solo Dio... è così potente, sembra uscire dalle colonne. Da milleseicento e rotti anni qualcuno ritiene giusto tramandare il Credo, per il suo comodo, per inerzia, perché pensa sia giusto. In un paese è lo stesso: al bar, al campo o dal parrucchiere, l’imbonitore di turno racconta di quando Paolo è scappato da casa in mutande e cappello o della rissa gigantesca con quelli di Trensasco. Di ogni storia c’è un canovaccio e infinite varianti, su cui si discute in liti da coltello fino a che ne vale la pena. Un funerale come questo è terreno fertile per l’epica del paese. Quando uno come Michele Murgia muore, appena la bara esce dalla chiesa si inizia a elaborare la sua storia per unirla all’enorme ciclo in cui il paese si riconosce. Anche se certo, lo so, Michele è un personaggio difficile da raccontare.
Roberto si toccò la guancia e disse alla madre, se era tanto spavalda, di rivelare a papà quella sera stessa tutto ciò che pensava. «Non c’è bisogno di aspettare stasera» disse Michele entrando nel tinello con le scarpe che sciacquettavano nella stracciatella. Era, quello, l’unico rumore nella stanza. «Allora, Livia, non ti stavi vergognando di me?». Ancora silenzio. «Sei una meschinetta. Anzi, tutti voi tre lo siete. Dei meschinetti che non hanno neanche il coraggio di affrontare un vecchio. Cosa avete da dire sul mio negozio? Ci avete mangiato per anni, continuate a mangiarci e non ci avete mai messo un piede. Ho un bel giro, vendo mezza bestia alla settimana, cosa volete? Alessio, il figlio del tabaccaio, oggi mi ha supplicato di venderglielo ed io ho rifiutato, proprio così. Allora
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mi ha chiesto almeno di affittarglielo. Ho accettato così possiamo goderci la vecchiaia, sì, ma intanto i muri restano in famiglia. Ho comprato il gelato apposta per festeggiare con voi, ma guardate che schifezza avete combinato». Disse tutto con calma, abbassando la voce a mano a mano che proseguiva il discorso.
Roberto chiese al padre se fosse proprio certo di avere affittato la macelleria ad Alessio, che era un suo amico appena laureato in ingegneria: gli sembrava strano che si fosse dato alla mercatura sordida. «È lui». Alzando un po’ la voce, Roberto invitò il padre a rifletterci bene perché gli pareva di aver sentito che Alessio avesse già firmato un contratto con un’azienda del Sud e che si stesse per trasferire. «È lui, ti stai sbagliando» ribatté Michele. Il figlio guardò la madre, come in cerca di un’autorizzazione, e lei annuì. «Cosa fate voi due? Cosa sono queste smorfie?». Roberto gli spiegò che aveva dato un’occhiata ai libri contabili della macelleria e che le cose non andavano come diceva lui. Era vero, non aveva mai capito molto di matematica, ma sui libri c’era scritto che nell’ultimo anno aveva speso trentamila euro di forniture e ne aveva guadagnato cinquemila. E
un buisness così non si cede, si chiude. «E la carne, caro il mio ragioniere? La mezza bestia alla settimana cosa faccio, me la mangio io?».
No, intervenne Livia, erano anni che i randagi ringraziavano lei per il filetto andato a male e le bistecche con i vermi. La dimostrazione era lì davanti, e gli mise sotto il naso i libri che lei stessa compilava. Non erano vere le code chilometriche dalla piazza della chiesa fino al negozio, non era vero l’affare con Alessio, né esisteva l’adorato zio John a Los Angeles che li avrebbe ospitati come sultani, né era mai stato ordito un complotto dalla Ferrari per soffiargli il progetto della Testarossa. Quante voci si sarebbero rincorse quando le sue bugie fossero venute a galla? Come avrebbero potuto andare in giro e parlare di lui? Che dicesse chi era, solo quello, porco mondo schifoso, che dicesse chi era, cosa aveva costruito, che districasse il vero dal falso, solo quello, per il bene della famiglia e del suo nome. Michele si sedette per terra, vi si rannicchiò, mentre il gelato gli macchiava il vestito
PROSSA DEI LETTORI
Nato a San Remo 24 anni fa, di solito mi potete trovare nel cortile di via Balbi 4, a Genova, coltivando svariati interessi. Ogni tanto scrivo.
13 febbraio. Ore 17.25. Campo Santa Margherita. Nuvoloso e leggermente piovoso.
– Giuro. È un caso mi trovi anche io in questa città.
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– Il mio treno aveva 5 minuti di ritardo. No, ti dico che è per puro caso che ho deciso di saltare sul tuo treno. –
– Ero in stazione ad osservare gli orari dei treni. Ogni tanto mi ci incanto davanti, al tabellone con tutti gli orari. Sai, lo fisso, e lo guardo mentre si aggiorna. E osservo i pallini che si illuminano quando il treno è al binario, e allora provo a immaginarmi quelli che stanno per salirci. Per non parlare dei ritardi che si accumulano, tempo sottratto ad altro tempo. E penso che chi sta aspettando quel treno deve mettere in conto di dover aspettare 35 minuti in più per poter aspettare di passare quei 40 minuti che lo porteranno a casa dopo una giornata di lavoro. – …
– Ah sì. Il perché del mio viaggio. Vedi, non saprei. Sono andato al binario dove sapevo passasse il treno per venire qui. All’ora precisa, non l’ho neanche controllata. E poi ci sono salito. Durante il viaggio ho dormito. Nel dormiveglia ho osservato i miei compagni di viaggio.
Ed ecco, più di cinque ore dopo, la città. All’altezza di Padova ho cominciato a sperare di trovare questa nebbia e questa pioggerellina. Sul ponte della Libertà ero felice. Non potevo che trovarmi lì, la laguna mi stava dicendo che il mio posto era quello.
La stanza dove pernotto ha una finestra dalla quale vedo un campanile. Ogni volta che ho guardato fuori ho fotografato quel panorama. Nella nebbia ho sentito solo i rintocchi del campanile, poi sono uscito. – …
– Ah sì, quella libreria. Ci sono rimasto 2 ore ieri, quando ne sono uscito era già buio, ero solo. Non sono mai stato così a mio agio, credimi. Ricordi quando passavamo
anche intere ore nelle librerie? – …
– Scusa, non farò più cenno a quel passato. Messaggio ricevuto. Pernotto due notti qua. Ora pensavo di andare alla Chiesa dei Frari, la sera quella piazza la ritengo semplicemente magica. – …
– Sì, sono solo. Stamattina sono rimasto due ore a San Pietro di Castello. Lo sai, sono nato e cresciuto in una città di mare. Ma mai come in un luogo come questo mi sono sentito attratto dall’acqua. Non quell’acqua putrida dei canali non parlo di quella. Quell’acqua che con questa nebbia perfetta si confonde con il cielo e con l’orizzonte, e confonde anche i sensi, e ti viene voglia di annegare. – … – Sì, non ti preoccupare, è tutto a posto. Sono molto sereno, l’aria della laguna mi sta rinfrancando. Lo sai, mi ha fatto molto piacere rivederti per caso. Sì, perché è un caso, una bellissima casualità. – … – Buona notte anche a te. ù
Da La Nuova di Venezia, 15 febbraio 20** Cadavere nelle acque dell’Arsenale
È stato scoperto all’alba di sabato un cadavere nei pressi dell’Arsenale. Dai documenti rinvenuti nello zaino del deceduto gli inquirenti hanno potuto identificarne il corpo. Si tratta di F.S., nato a *******, studente e residente a Genova. Dal biglietto del treno trovato nel suo portafoglio risulta esser partito dal capoluogo ligure in data 12 febbraio. F.S. ha albergato in una stanza vicino a Santa Maria dell’Orio. Sono in corso indagini ma le dinamiche del decesso fanno pensare ad un suicidio […]
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INFISCHIATENE
RAINER MARIA MALAFANTUCCI GOZZO UNTERLACHEN POETA MALEDETTO - DELOS BOOKS, 2015 di Irene Buselli
In una Milano trasfigurata, dominata da un Pantheon contemporaneo dove tra le numerose divinità possiamo trovare “Il Grande Expo”, “Tangenziana” e “Gli dei del Traffico”, vive Gozzo Unterlachen. Perseguitato dai venditori di angurie in ottobre, tartassato di multe pur non avendo nemmeno la patente, ricercato dalla polizia senza saperne il motivo, Gozzo si rende presto conto di essere maledetto; il vero problema, però, è che non sa quale sia la sua maledizione. Da qui hanno inizio le sue avventure: una sorta di poema epico ribaltato, dove Gozzo è tutt’altro che un eroe, le divinità sono ridicole, i luoghi sono l’apoteosi di tutti gli aspetti negativi di Milano e della sua periferia. Sebbene abbia vinto il premio Odissea, destinato ai romanzi di fantascienza, il libro non è ascrivibile a un genere in particolare; satirico, surreale, fantasy, a tratti persino filosofico: volendolo inserire in una categoria, andrebbe annoverato tra i libri che, appunto, sfuggono alle classificazioni. Il merito più grande di questo romanzo, in effetti, è la sua eccentricità: ogni volta che sfiora un genere letterario ne stravolge i tratti, ogni riferimento culturale è un’occasione per parodiare se stesso.
I tre autori (lo pseudonimo collettivo con cui si firmano è un’ennesima parodia) giocano con gli aspetti più grotteschi della nostra quotidianità, utilizzando a questo scopo anche tecniche prese in prestito dal cinema o dal fumetto.
Nonostante questa apparente “accozzaglia”
di generi diversi, Gozzo Unterlachen poeta maledetto scorre con un ottimo ritmo, senza mai cadere nella tentazione di strizzare l’occhio a una determinata categoria di lettori: se è vero che chi legge vi può trovare l’avventura del fantasy, il piacere della satira o il delirio del nonsense a seconda di quello che vi ricerca, il libro si mantiene su una linea tutta sua senza preoccuparsi troppo di piacere agli amanti di questo o quell’altro genere. Anzi, in più punti si ha la sensazione che gli autori, arrivati al culmine dell’assurdo, superino quel limite volutamente, quasi a sfidare la fantasia di chi legge o a prendersene gioco. – A te cosa è successo invece? – Niente di che. Mi hanno tagliato luce, gas e acqua calda... a momenti muoio precipitando in un cantiere. Ah, sì e poi ho ucciso il mio omonimo. Beh, quasi . L’ho seguito finché non è finito sotto un tram. Mai visto niente di più orribile in vita mia.
Il romanzo è, insomma, un grosso scherzo; senza prendersi mai troppo sul serio, riesce comunque a farci chiedere in quante forme e fino a che punto si possa parlare di letteratura, mandandoci col pensiero a Douglas Adams, Terry Pratchett e Neil Gaiman, ma anche, per certi versi, a Gianni Rodari e Daniel Pennac.
Se amate questi autori e siete curiosi di sapere come se la caverebbero nella periferia milanese, credo che dovreste leggere questo romanzo. Altrimenti, potrebbe essere la giusta occasione per avvicinarsi a questo straordinario universo unterdemlachen, sotto la risata
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GRAFICA Beatrice Gobbo
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