Fischi di carta 36 (04/2016)

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Fischi di carta

Dell’educazione le radici sono amare, il frutto invece dolce.

Detto attribuito ad Aristotele da Diogene Laerzio, Vite dei filosofi

IN QUESTO NUMERO

Planetario| Entre le vide et l'événement pur - L. Calpurni

E. A. Poe - Oltre le ali del corvo - P. Palermo

Le poesie dei lettori | Il pagliaccio - S. Massa

Elementi | Menù - C. Calabresi

Diario di scuola - D. Porcheddu Il fascino del fuori tempo - P. Martino Migrazioni | poesia di Erwin Hurenkamp - A. Denaro

Prossa Nova | Rachele - A. Moro

Prossa dei lettori | Viaggio di ritorno - T. Caldana Infischiatene | recensione - G. Erriu

www.fischidicarta.it
Aprile 2016 n. 36 • anno 4 Genova

EDITORIALE

LA RICETTA PER ESSERE FELICI di

DAL FIORE AL FRUTTO

Amelia Moro

Di classifiche in rete se ne trovano di tutti i generi, tante se ne leggono e tante presto si dimenticano. Una ricca bibliografia in merito si può trovare anche a proposito dell’editoria (es: “gli 80 libri che ogni vero uomo dovrebbe leggere” –esiste davvero, l’ha redatta Esquire , e gli scrittori sono, naturalmente, tutti uomini, con l’unica illustre eccezione di Flannery O’Connor). Tra le tante, mi ha colpito in particolare una classifica pubblicata mesi fa da Amazon, in cui venivano indicati i dieci libri più sottolineati sui Kindle nel 2014. Alcuni dei titoli presenti mi hanno fatto sorridere (soprattutto accatastati così, uno di seguito all’altro): Pensa e arricchisci te stesso, Come trattare gli altri e farseli amici, Pensieri lenti e veloci, Le armi della persuasione, Il potere di Adesso: una guida all’illuminazione spirituale . Ammetto di non aver letto nessuno di questi libri, ma l’osservazione più evidente che si può trarre, anche solo scorrendo i titoli, è che si

Mantovani

di Alessandro

Un tema che si impone all’attenzione dei lettori di questo numero è certamente l’educazione . L’istruzione, l’insegnamento, l’insegnante sono questioni oggigiorno scottanti e in questo gran calderone finiscono accadimenti grandi e minori: muore, un mese e mezzo fa, Umberto Eco, illustre insegnante; entra in vigore la seconda parte della Buona Scuola, quella che introduce l’alternanza scuola-lavoro; esce il bando di concorso per le cattedre fisse e persino un avvenimento, anch’esso risalente a un paio di mesi fa, come il famoso “petaloso” vi rientra. Come tutti questi tasselli possono essere connessi? Perché riguardano un’unica parola: formazione. Claudia Calabresi indica nel suo articolo un modo più genuino di fare insegnamento rispetto a quello asfittico della nozionistica, professato a mo’ di litania da molti insegnanti di ogni fascia o età, che grossomodo condivido. Il magister ha un compito

tratta di manuali. Alla domanda “Perché leggi?” ho sempre risposto dentro di me: “Per essere felice”, ma il mio essere felice aveva a che fare con l’oblio , con l’immersione in un mondo che mi portasse lontano da me stessa attraverso le parole di un altro. Questi sono invece dei veri e propri manuali (alcuni di natura spiccatamente “pratica” altri più “spirituali”) per ottenere successo, stima, appagamento. Si possono annoverare nella lista, anche se il tema è più specifico, la biografia di Steve Jobs e SEO Google (una guida di web marketing : fosse vivo, Balzac inserirebbe senz’altro nella sua Comédie humaine la categoria dell’individuo che tenta la scalata sociale utilizzando le potenzialità di Internet). E poi c’è l’altro lato della medaglia, due libri che affrontano una grande paura del nostro tempo: il cancro. The China Study è il discusso manuale che imputa la causa di svariate malattie al regime alimentare; Un altro giro di giostra è un’opera del giornalista Tiziano Terzani, che, dopo averci narrato il Vietnam, la Cina, la caduta dell’URSS, racconta il sorgere del cancro e il suo modo di affrontarlo: mettendosi in viaggio, come ha fatto per tutta la vita. Di tutti questi libri ne ho letti solo due, ed entrambi li consiglio: Terzani e poi, al settimo posto, deliziosamente fuori dal coro: i Miserabili di Hugo

difficile da attuare: come strutturare una mente fornendole strumenti, senza condizionarla con il proprio modo di vedere le cose? Socrate è insegnate per eccellenza, ma sappiamo bene che egli non insegna alcunché, aiuta a tirar fuori ciò che è dentro il discipulus , le sue, diremmo oggi, capacità innate. Ciò che è bene che i docenti di oggi ricordino, però, è che non si deve confondere l’eduzione di tali capacità con l’accondiscendenza alla faciloneria, e qui entriamo nel “caso petaloso”. Il bambino-prodigio, se ricordate l’accaduto, che ha inventato il neologismo, ha ricevuto un pessimo insegnamento: cioè che per essere dei “geni” basta seguire una capacità tutta innata la quale si professa così gioiosa e libera da non aver bisogno di alcun canale che la indirizzi, da non necessitare di regole. Eppure se l’artista è colui che conosce così bene i dettami da poterli sovvertire, ci si rende conto di come questa modalità sia errata. L’insegnamento che si dovrebbe professare è che valori utili sono dedizione e conoscenza, che dietro l’allettante rapidità del baro esiste la morale. Il nostro caro Eco non è diventato un genio scrivendo un neologismo (chissà quanti ne ha inventati), ma in una ricerca lunga una vita. C’è gusto nell’apprendere progressivamente e c’è un gusto nell’impegno fruttifero. Questo bisognerebbe imparare

MONDELLO di Alessandro Mantovani

Non domandarti se le stelle marine appiccicate al molo siano un pezzo residuale delle speranze che conduciamo di guinzaglio come ciechi tra le spazzature gettate in strada nella luce scarsa delle notti.

I bambini più distanti, se li vedi, al centro della piazza fanno la ruota e le capriole si tirano cartacce, bisunte di merenda (qualche arancina da due soldi o il fritto di casa propria) sapendo che ancora è il crepuscolo.

Fermati e ascolta qui il loro grido vigoroso alle falde di questo monte che tutto ci vorrebbe dire ma non ha imparato a sillabare.

Digliela tu qualche parola su come siamo piccoli sciami di genti su come Palermo è un ammasso di rovine discorri del latte verde e dei parcheggiatori bengalesi del rifugio per cui non c'è mappa a cui tornare e di noi qui a rammendare le gomene delle barche future o qualche filo che tenga forte nella stessa rete ciò che questo vento strappa a tutti: i tavolini del bar, le palme sempreverdi, lo spazio intero.

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PLANETARIO

ENTRE LE VIDE ET L’EVÉNÉMENT PUR… di

“Non c’è poesia senza catene” – scrive – “il verso è lo stato puro, ripreso per selezione, coltivato senza mescolanza di errori, di una proprietà del linguaggio”. Paul Valery nasce a Sète nel 1871. Si avvicina alla poesia con brevi spunti stesi su svariati taccuini. Nel 1892 la vocazione letteraria di Valéry subisce un duro contraccolpo: scosso da una crisi personale, ripudierà la scrittura come forma di vanitosa autoaffermazione. Il malessere lo coglie nella notte tra il 4 e 5 ottobre del 1892 mentre si trova a Genova. Come egli stesso afferma in un saggio su Poe, sono i dubbi e le incertezze dei suoi vent’anni ad aver determinato quella che senza mezzi termini chiama “la crisi dello spirito”. Decide allora di annotare tutte le riflessioni successive a quella notte in un diario, con l’intento di raggiungere il massimo grado di conoscenza e di controllo del suo intelletto. Nonostante la decisione presa nella famosa “Nuit de Gênes” Paul Valéry non abbandona del tutto la poesia, piuttosto se ne tiene a debita distanza. Nel 1894 si trasferisce a Parigi e trova un impiego come redattore al Ministero della Guerra. La carriera poetica, invece, riprende quota grazie all’intercessione di Gide che gli permette di pubblicare, presso la casa editrice Gallimard, la raccolata La jeune Parque. La raccolta è un grande successo e seguono altre due composizioni: Le cimitière marin (1920), incentrato sulla figura e significato del mare e Charmes,

gli Incanti, del 1922. Le sue composizioni raccolgono consensi e approvazioni da parte di un numero di lettori sempre più numeroso. Eletto nel 1925 all’Académie Française, massimo riconoscimento per un letterato francese, durante l’occupazione nazista lavora come amministratore al centro universitario di Nizza, ma il netto rifiuto di collaborare con il regime provoca la rimozione dall’incarico. Muore a Parigi poche settimane dopo la fine della guerra, il 20 luglio 1945.

Valéry vive a cavallo di due secoli dal valore culturale cruciale. La sua è una figura di autore in grado di fare tesoro dell’esperienza simbolista dell’Ottocento appena trascorso; è consapevole dell’immensa portata di essa in campo stilistico e la rielabora affinandola meticolosamente, con un intenso labor limae sul verso. Esso risulta levigato, non scarnificato, ma vivamente musicale. Le immagini svaniscono e si confondono per lasciare spazio al suono, alla profondità della costruzione in alessandrini, al colore sempre vivo delle metafore. Il poeta si annulla nella stessa definizione di colui che produce, colui che compie, mette in ordine i richiami dell’intelletto. Ai suoi occhi, la poesia è frutto del lavoro che svolge un ruolo essenziale nel contrastare il caso. Ed è una poesia pregna di suono, ritmo e fisicità. La parola è espressa in maniera sensuale, quasi carnale. I protagonisti delle sue opere brillano di forza adamantina carica allo stesso

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tempo di oscurità demoniaca. Il tempo si ferma nella densità dell’azzurro, il colore predominante, nella forza del mare, nella fuggevolezza di leggiadre figure mitologiche femminili: Valéry è più classico di quanto sembri, la sua originalità consi-

BIBLIOGRAFIA

ste nella ripresa del tempo, nel ricorso alla forma, nella strenua volontà di mescolare il passato al presente. Consapevole che la poesia, nel Novencento, non sarà più la stessa

• Paul Valéry, Opere Poetiche, a cura di G. Pontiggia, Guanda Editore, 1989.

EDGAR ALLAN POE – OLTRE LE ALI DEL CORVO di Paolo Palermo

Prendendo in considerazione la vasta produzione letteraria di Edgar Allan Poe è facile soffermarsi al reparto dei racconti brevi, piccole perle che hanno contribuito a rinverdire tutto un genere letterario. Ma lo scrittore di Boston è molto di più: nella sua bibliografia compaiono anche articoli satirici, diversi saggi sull’arte della composizione e, a sorpresa, svariate poesie. Ora, per quanto riguarda il poeta Poe bisogna volare oltre la popolarità incredibile di cui il suo componimento maggiore – The Raven –gode ancora oggi. D’altro canto è necessario, per capire meglio la sua poetica, estrapolare alcuni concetti fondamentali dalle strofe della sopracitata poesia: primo tra tutti, quel bisogno di analizzare attraverso uno studio costante “l’umana sete di auto-tortura” che attanaglia l’individuo. The Raven è difatti la poesia della tensione inquieta, della presenza assillante di una coscienza che – attraverso sapienti allitterazioni e martellanti ripetizioni – riesce a scarnificare ogni volontà dell’uomo, costretto a fare i conti con la propria perversione. Emblematica è la strofa finale, che presenta un’anima stesa nella propria ombra,

impossibilitata a risollevarsi sotto lo sguardo severo del corvo: [da The Raven, 18] E mai più volando via, il corvo ancora lì si posa, [ancora lì siede, sopra il pallido busto di Pallade, sopra la [porta della mia stanza; e sembrano i suoi occhi d’un demonio che sogni; e la luce della lampada che l’investe ne getta l’ombra [sul pavimento; e la mia anima da quell’ombra che fluttua [sul pavimento non sarà sollevata – mai più!

Al di là di questo, però, la poesia proposta da Edgar Allan Poe arriva molto prima di The Raven, che è stata pubblicata soltanto nel 1845. Forse i più non sanno che l’esordio letterario di Poe sul mercato americano avvenne a diciott’anni mentre era in servizio presso la United States Army mentendo sulla sua età, nel 1827: Tamerlane, un ambizioso poema epico di spiccato gusto romantico, ricco

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di richiami a Lord Byron e a una cultura orientaleggiante, variopinta. Il Tamerlano protagonista dell’opera, difatti, altri non è che uno spietato ed effimero conquistatore mongolo del XIV secolo – qui rivisitato in punto di morte con contrasti in chiaroscuro tipicamente riconducibili alla poetica del Romanticismo inglese, sopratutto al già citato Byron:

[da Tamerlane, 1]

Dolce sollievo nell’ora in cui si muore! Ma non di questo, padre, ora tratterò con te –né riterrò, stoltamente, che da un potere terrestre possa mai salvarsi il peccato cui l’indusse un orgoglio che va oltre l’umano. Non ho io tempo per sogni o per fole: e tu parli di speranza – quel fuoco d’ogni fuoco! Non è che tormentosa brama […]

La raccolta non ottenne il successo sperato, ma Poe non smise di scrivere nell’ottica di ripubblicare – due anni dopo – una versione aggiornata di Tamerlane, con l’aggiunta di altre poesie. È del 1831, invece, la terza raccolta di composizioni chiamata semplicemente Poems: qui vennero ristampati i vecchi lavori insieme a nuovi inediti, e finalmente Poe cominciò a riscuotere successo. Compare qui un testo – probabilmente già del 1829 – che ci dice molto del lato personale del poeta, capace di ragionare sulla sua infanzia difficile con un’intimità quasi commovente.

[da “Alone”]

Fanciullo, io già non ero come altri erano, né vedevo come gli altri vedevano. Mai derivai da una comune fonte le mie passioni, né mai, da quella stessa, i miei aspri affanni. Né il tripudio al mio cuore io ridestavo in accordo con altri, tutto quello che amai, io l’amai da solo. […]

Estremamente toccante, se si considera il difficile approccio alla vita avuto da quest’autore, che in questi versi prende coscienza della sua diversità che l’avrebbe poi portato verso le strade più oscure dell’alcool e della follia.

Le poesie di Poe, svariate oltre agli stralci qui proposti – solamente estratti da composizioni più corpose e complesse – sono la pura testimonianza di una grande padronanza stilistica e gusto nella scelta delle parole, due qualità sottovalutate di un pezzo di bibliografia ricco di sorprese, capace di regalarci un diverso punto di vista per comprendere al meglio la poetica dell’autore statunitense, che, nonostante il passare degli anni, continua a essere un punto di riferimento importante per tutti gli scrittori contemporanei: chissà, magari anche per qualche poeta

TESTI IN ITALIANO TRATTI DA

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• E. A. Poe, Tutti i racconti, le poesie e «Gordon Pym, Newton Compton Editori.

POESIE DEI LETTORI

IL PAGLIACCIO

di Sara Massa Nascondo questa oziosa frustrazione di non essere altro che me. In quegli amari sorrisi che mi dipingono il volto, come tracce di un male espiato, io vedo il nulla e quella folle sensazione di impotenza mi preme il petto. E credo, nel tremolio del tedio, in te, amore mio, unica risata sicura in questa vita di ciottoli scuri, di mari celati in un mare d'angoscia. Cancella, su di me, questo volto tumefatto dalla gioia, questa commiserazione umana che chiamiamo ironia.

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LE

ELEMENTI

MENÙ

insegnare v. tr. [lat. *insĭgnare, propr. «imprimere segni (nella mente)», der. di signum «segno», col pref. in-1] (io inségno, ... noi insegniamo, voi insegnate, e nel cong. insegniamo, insegniate). –

1.

a. In genere, far sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione, o apprenda il modo di fare un lavoro, di esercitare un’attività, di far funzionare un meccanismo, ecc […]

Così dice la Treccani, e io le credo. Tra le molte cose che accomunano ogni persona a qualsiasi altro suo simile, di certo una è quella di aver avuto, prima o poi, qualcuno che ha fatto sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che essa acquistasse… etcetera.

Fin qui, tutto chiaro. Questo è il significato più comune, e infatti sfoggia una sostanziosa a a supporto della sua tesi. Questa a, a dire il vero, è talmente succulenta e appetitosa che chiunque dia un’occhiata all’enciclopedia si ferma a lei: non va avanti. Non legge quello che c’è dopo.

Non mangia anche la b, insomma. Che, però, è altrettanto nutriente, e ve la servo subito.

b. In senso morale, far contrarre a una persona,

con discorsi, con l’esempio, con la persuasione, un’abitudine o una disposizione buona o cattiva […]

Ogni volta che qualcuno si ferma alla a di un lemma, la b muore. Ed è un vizio molto comune quello di fermarsi alla prima lettera dell’alfabeto – all’insalatina dell’antipasto, per intenderci.

Quante persone hanno incontrato, nella loro vita, un insegnante che prima di insegnare avesse pasteggiato con la a? Tutti, fino a prova contraria.

Quante persone hanno incontrato, nella loro vita, un insegnante che prima di insegnare avesse pasteggiato con la b?

Sapete già dove voglio arrivare. Ma questa non è una polemica: la mia è una domanda molto articolata – di circa cinquemila battute – a chi ha insegnato, a chi insegna e a chi vorrebbe insegnare: quali sono i segni che è necessario imprimere nella mente dei propri studenti? Numeri e lettere sono sufficienti?

Oh, avanti. La lectio facilior non ha mai convinto nessuno.

Il punto è che nessuno conosce la risposta. Siamo finiti, io e voi, in quel prodigioso universo astratto chiamato “boh”.

Miriadi di insegnanti anoressici sono andati avanti ad a per tutta la loro carriera, senza mai chiedere al cameriere il resto del menù. Ulteriori miriadi lo stanno facendo ora e lo faranno domani. E dopodomani. Tra dieci anni.

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I cuochi della Treccani sono disoccupati da decenni, probabilmente.

No, non è una polemica, questa è un’interrogazione. L’esito non è scontato. Perché la maggior parte degli insegnanti non insegna nel senso pieno del termine? Perché nessuno ha insegnato loro a farlo. Perché nessuno ha insegnato a qualcuno a insegnare agli insegnanti? Di questo passo dovrò andare a chiedere a qualche divinità il motivo per cui nessuno, qui, abbia la più pallida idea di cosa stia succedendo.

Dico solo che uno studente ricorda cosa gli è stato insegnato più o meno quanto ricorda – se non di più – chi è stato a farlo; la sua espressione mentre lo faceva, forse persino i suoi pensieri. Professoressa, lei se lo ricorda che magnifico sorriso avesse mentre mi stava spiegando Platone? Io sì. E difatti Platone me lo ricordo. Ma ricordo altrettanto bene che faccia avesse la mia professoressa di matematica mentre mi spiegava il teorema di Ruffini, e perciò credo che neanche Freud riuscirebbe a tirarmi fuori un procedimento che avevo appreso a fatica e adesso ho rimosso dal cervello alla stessa maniera di un trauma.

Divertente, questa cosa che la psicologia c’entra in qualche maniera con l’insegnamento…

A me il Pulitzer per il grande scoop.

DIARIO DI SCUOLA di Diletta Porcheddu

Diario di scuola è la fantasiosa traduzione italiana del titolo dell’iperfamoso Chagrin d’école di Daniel Pennac (2008). Fantasiosa perché la parola francese chagrin

Ma veniamo al dunque. I segni che noi imprimiamo nella mente dei nostri studenti non sono tacche sul muro di una prigione, né iniziali d’amore su un albero o incisioni rupestri. Si tratta, piuttosto, di tutta l’empatia con cui riusciamo a porci in ascolto: un insegnante non spiegherà mai nulla di veramente utile finché non si sarà fermato a sentire cosa abbiano da dire i suoi studenti. Questa può essere un’opinione favolistica e lontana, talmente scontata da essersi persa in leggenda. Ma se smettessimo di pensare che per fare l’insegnante basti avere una valigetta e un bel po’ di cose in testa, forse questo sarebbe un mondo migliore in cui professore e studente si guarderebbero negli occhi. Ci sarebbe, allora, uno scambio equo tra le due parti in cui nessuna delle due morirebbe mai di fame, perché entrambe disposte a condividere ciò che sanno.

Perché anche gli studenti sono insegnanti. Chiunque di noi lo è, nel suo piccolo, per le persone che incontra. Perciò posiamo il gessetto e portiamo i nostri studenti a fare una passeggiata. Chiediamo loro cosa pensano di noi e cosa vorrebbero fare da grandi senza stroncare, come al solito, quello che vuole fare l’astronauta.

La b ci aspetta. Grassa e fiduciosa

non ha nulla a che fare con diari, astucci o quaderni, ma significa letteralmente dolore, afflizione: in questo caso specifico il dolore dell’ultimo della classe, del somaro che sof-

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fre per il suo sentirsi incapace, svogliato, solo e, nel contempo, lo struggimento del Pennac professore che lavora ogni giorno per dare un’adeguata preparazione anche a questi alunni, attraverso la comprensione e il dialogo.

La lettura integrale di questo libro (a dir poco osannato dai professori di lettere), viene propinata a quasi tutti gli studenti delle scuole medie e del biennio delle superiori italiane, ed è spesso da loro giudicato invece lungo, pesante e abbastanza confuso: probabilmente quest’ultima accezione deriva dal fatto che la struttura preferita dall’autore è tematica e non cronologica, a cui gli studenti di quell’età sono decisamente più abituati.

Ai quindicenni più ribelli, ansiosi di contraddire ogni autorità in quanto tale questo scritto del Pennac può addirittura sembrare stucchevole, pieno di retorica buonista fino all’orlo: dove si è mai visto un professore così innamorato della sua materia, consapevole del suo ruolo e bendisposto verso i suoi alunni, da far sua la frase del libro «insegnare è ricominciare, fino a sparire come professori»? Uno studente è probabilmente finora venuto più frequentemente a contatto con professori “mastini” o in preda a saltuarie crisi di nervi, data la difficoltà di gestire trenta ragazzi di età puberale in una sola classe.

I suddetti studenti capiranno il messaggio di quel libro solo qualche anno dopo, con qualche esperienza di rapporto studente/professore in più, e soprattutto con altre letture.

L’esaltazione forse esageratamente romantica data da Pennac del valore dell’insegnamento e della necessità di esercitare il proprio mestiere quasi come una missione, in favore di ogni alunno e con metodi anche

non strettamente “scolastici”, è infatti così tanto sottolineata per il suo contrapporsi a modelli differenti di professore, sia appartenenti alla letteratura che alla vita reale.

Se infatti Pennac sembra seguire l’indicazione del poeta irlandese William B. Yeats, il quale affermò che «Educare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco», altri insegnanti sembrano considerare i propri alunni come «pitchers to be filled with facts», celeberrima citazione di Mr Thomas Gradgrind, professore protagonista del romanzo Hard Times di Charles Dickens (1854).

Gradgrind è convinto che a scuola sia importante insegnare solamente “fatti misurabili”: è superfluo constatare che secondo lui le materie principe siano la matematica e la logica, mentre le emozioni e la creatività debbano essere escluse dal processo di apprendimento.

Dickens tracciò a suo tempo questo personaggio quasi caricaturale per condannare il metodo educativo dell’età vittoriana, considerato repressivo e soffocante per la personalità dei ragazzi, ma anche duecento anni dopo, qualche professore a cui in fondo non dispiacerebbe comportarsi come Gradgrind in effetti c’è ancora, almeno nelle scuole italiane: e qualcuno di essi non rinuncia a difendere le sue ragioni sulla pubblica piazza. Un esempio su tutti è Paola Mastrocola, con il suo Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, edito da Guanda nel 2011. Mastrocola, autrice di numerosi libri di narrativa, esercita tuttora la professione di docente di lettere in un liceo scientifico di Torino, e nelle 270 pagine del saggio si scaglia con accanita caparbietà sia sugli studenti «In tutte le scuole di Torino, d’Italia, d’Europa sono così: ammassati

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fuori, a parlottare, stazionare, sfumacchiare. Ombre, lemuri. Spettrali» che sull’attuale metodo educativo, secondo lei negativamente ispirato da Don Milani (Lettera a una professoressa, 1967) peggiorato da Gianni Rodari con la sua Grammatica della fantasia (1973) e poi definitivamente distrutto dai ministri dell’istruzione dell’ultimo trentennio.

Non è senza un certo orgoglio che l’autrice infatti afferma: «La scuola, lo ridico, è questo: l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete […] quel che ho detto a lezione», oppure si scaglia contro la (secondo lei) terrificante idea che un professore, tra le sue capacità, debba

anche avere quella di motivare i suoi alunni alla partecipazione e allo studio.

Ora a questo punto, anche glissando sulle altre affermazioni (provocatorie? leggere per credere) della Mastrocola contenute nel saggio, forse persino un’ex quindicenne pseudoribelle ha capito quale sia il messaggio che professori e professoresse delle medie e del biennio vogliono trasmettere agli studenti facendo leggere Chagrin d’école: «Questo è il modo giusto di essere un professore, perdonateci se non riusciamo ad esserlo sempre: ma attenti ragazzi, purtroppo non siamo tutti così. Sappiatevi difendere.»

IL FASCINO DEL FUORI TEMPO

di Pietro Martino

Tendenza comune a tutte le storie letterarie è il tentativo di tracciare linee, di identificare correnti e luoghi comuni per dar vita a un discorso organico, in cui le connessioni fra momenti e figure soddisfino la necessità umana di catalogare i saperi. Ciò sottostà all’idea che la letteratura di un determinato periodo possa tracciare il profilo di quell’epoca, le sue tensioni, le sue coordinate ideologiche, e viceversa che la congerie degli eventi ci restituisca il senso dei testi letterari che la tradizione ci ha lasciato. Un’interpretazione che si concentri solo sul valore storico è una limitazione all’opera artistica; rischia di sminuire il ruolo dell’autore, il suo modo di vedere il mondo che è unico per una questione naturale: ogni individuo è imbrigliato in una fitta ragnatela di parentele, ma non ne esiste un altro che gli sia del tutto identico. Questo

principio biologico ed evoluzionistico permette la variabilità delle specie e dell’uomo stesso; è ad esso che dobbiamo la bellezza dell’arte, perché senza dubbio il contesto influisce sull’opera, ma è l’individuo con la propria volontà a farle prendere vita dal nulla. A questo principio dobbiamo anche un’affascinante categoria di ogni storia letteraria: i fuori tempo.

I fuori tempo sono quei personaggi che non corrispondono al profilo ideologico della loro epoca, che non si sono adattati al loro tempo, o meglio, all’interpretazione che noi ci siamo fatti di esso. Questa categoria è viziata da un peccato originale: la nostra percezione non è assoluta, i profili ideologici che tracciamo sono semplificazioni, tracce che ci permettono di fare astrazioni, di creare formule che condensano verità possibili, più o meno probabili.

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Così l’Ottocento è il secolo dell’ideologia borghese, gli anni ’50 sono quelli del boom economico e della crescita: due esempi delle mille verità parziali che la storia ci dà e da cui la storia letteraria è inevitabilmente influenzata.

Possiamo interpretare i nostri fuori tempo come contraddizioni alle formule interpretative correnti. Essi però erano soprattutto esseri umani, che con con i loro pensieri e i loro scritti cercavano di proporre una visione del mondo alternativa all’ideologia dominante, talvolta con un’indole che possiamo definire tradizionalista, o comunque votata a vedere nel passato la soluzione per il presente, o un rifugio sicuro in cui manifestare il proprio disprezzo per i tempi correnti.

Pindaro, vissuto in pieno V secolo e coevo quindi alla stagione del teatro greco influenzato dalla mentalità della polis democratica, nei suoi versi in lode dei campioni agonali mostra una mentalità profondamente aristocratica, che si avvicina più a quella dei poeti arcaici che a quella di Eschilo, primo vero cantore della democrazia ateniese. Fra di essi citeremo la fede nell’ideale secondo cui bellezza e prestanza fisica vanno di pari passo con le virtù etiche, ideale che è già attestato nei poemi omerici, come valore fondante della società eroica, e a cui il poeta affida la sua speranza per una società che sappia coniugare gioia e buon costume.

Per rimanere nell’ambito dei grandi poeti proseguiremo con Umberto Saba, la cui opera poetica ci affascina nel suo presentarsi come intreccio di forme tradizionali, in un’epoca (la prima metà del Novecento) in cui ogni forma della tradizione viene ribaltata e distrutta: prima dalle varie

avanguardie e poi da quella serie di poeti appartenenti alla cosiddetta linea novecentista. In tutto il Canzoniere dominano endecasillabi, settenari e quinari, sono assenti del tutto metri alternativi, e il lessico si mantiene sempre su un registro limpido e rigoroso, lontano da ogni forma di sperimentazione e di oscurità. Paradossalmente è proprio per questa limpidezza che Saba si presenta come poeta misterioso. È contemporaneo di Montale, di Ungaretti, e altri poeti che intessono col linguaggio poetico un rapporto di ricerca che va nelle più varie direzioni, ma a quelle esperienze Saba rimane estraneo. La sua verità giace nascosta dietro poche figure, poche antiche parole che mostrano il suo spaesamento, il suo stare al confine fra epoche diverse, ancorato alla tradizione come unico valore capace di sostenerlo nella crisi umana che lo attraversa, pervadendo sottotraccia tutto il suo universo poetico.

Queste epoche potremmo anche chiamarle mondi, e il confine che li separa spinge Saba a ricreare i ricordi dell’infanzia, la sua Trieste, i suoi amori lontani: tutte quelle piccole cose che sono le sue sicurezze: cose che non esistono più, e che proprio per questo lo collocano fuori dal suo tempo, e ci emozionano, ricordandoci che ogni uomo, se osserva bene sé stesso, si scopre fuori tempo, fuori dalla storia, vivo in un universo personale, fatto di luoghi, di ricordi, e di quelle che proprio Saba definisce “le sue figure”: le immagini delle persone amate.

Ecco che l’esperienza fuori tempo può avere allora un valore paradigmatico, proprio perché si pone oltre la dimensione temporale, in un orizzonte universale che ci accomuna tutti

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MIGRAZIONI

Poesia di Erwin Hurenkamp, dalla raccolta Dit is huid (Questa è pelle), 2011. Traduzione di Anna Denaro

LIJF

Ik voel je warme lichaam, de hete huid, dat hardnekkige schild van je persoonlijkheid. Ineens beweging, je lijkt schurkend, hunkerend bonkend en kruipend klampend van ver te komen, diep weggestoken in het pantser van je vlees, botten en bloed. Het is niet van jou, of slechts in naam. Het is alsof je er niet mag zijn.

CORPO

Sento il tuo corpo ardente la pelle calda, quell’ostinato scudo della tua personalità. Tutto d’un tratto movimento, sembri arrivato da lontano frantumando, bramando, colpendo e gattonando, afferrando, nascosto nella profondità della tua corazza di carne, ossa e sangue. Non è tuo, o forse solo di nome. È come se non ti fosse permesso di stare lì.

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PROSSA NOVA

RACHELE

Erano mesi che non vedeva Rachele. Le capitava di ripensare a lei soprattutto la sera: allora immaginava di veder spuntare da qualche vicolo le sue gambe da ragno, la sua sagoma così nera e così lunga, che culminava con lo stretto manico della chitarra. Avrebbe riconosciuto ovunque la voce di Rachele: abitava tutte le strade, i marciapiedi, i gradini della sua città e della sua vita. La sentiva ancora cantare, sempre le stesse strofe, struggenti, ossessive (e chissà poi perché quelle, e perché proprio quella canzone, tra le centinaia che le aveva sentito cantare): I couldn’t resist him/ His eyes were like yours /His hair was exactly the shade of brown/You are everything – he means nothing to me/I can’t even remember his name/ Why’re you so upset?/Baby, you weren’t there… le capitava di pensare che se fosse stata il suo ragazzo tradito, come nella canzone, non avrebbe potuto fare a meno di crederle. Guardava le sue gambe – quelle gambe da ragno – il suo polso così sottile e bianco, con le vene azzurrine, che sosteneva il manico della chitarra con fermezza, il corpo ossuto e sgraziato infagottato in una vecchia tuta da casa: eppure era bella. O era affascinante. Insomma, era Rachele, tanto bastava.

Emma riteneva che Rachele fosse invincibile. Poteva suonare in strada per ore, anche sotto Natale, quando una folla urlante e stizzosa si spintonava e lottava tra borse e pacchetti senza neanche vederla. Aveva fatto amicizia con tutti i negozian-

ti, i musicisti di strada, pure con i vigili. La sera si allenava ad eseguire complessi arpeggi ed esercizi finché non crollava vestita sul letto, tra gli spartiti. A scuola non riusciva a tenere gli occhi aperti, ma i professori avevano un debole per lei, e spesso lasciavano correre. Emma era tutta diversa, timida e ombrosa, ma voleva bene a Rachele in modo tenace e viscerale. Era una delle poche persone con cui non si sentisse in imbarazzo: Rachele aveva il dono innato di far sentire tutti a proprio agio, Emma pensava a lei come all’acqua, che mantiene intatta la sua natura ma che adatta la sua forma al contenitore in cui viene versata. Emma invece tra le persone che non conosceva restava rigida come un soprammobile, con le braccia conserte. Se un ragazzo le rivolgeva la parola le pareva di essere come sottacqua, le voci le giungevano distantissime, e lei stessa non sapeva che avesse risposto, forse qualcosa di inappropriato, perché l’interlocutore faceva un sorriso di circostanza e si allontanava. Le sarebbe piaciuto scrivere, ma neppure quello le riusciva bene: si diceva che tutte le parole che negli anni aveva taciuto, risparmiato, negato agli altri e a se stessa, a qualcosa dovevano pur servire. Le pareva di essere circondata di belle parole che attendevano di essere scritte, se solo ne avesse avuto il tempo, ma quando tentava, sulla carta suonavano già fredde. Si ritrovava al buio, senza neppure un’idea, a fissare la spia del computer che pulsava come un

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cuore, al ritmo del respiro lento della macchina. Si diceva poi che la scrittura era un’arte differente dalla musica, che lei non poteva mettersi a urlare storie per strada come Rachele faceva con le sue canzoni. E invidiava l’amica quando suonava a scuola, nel cortile, con un gruppo di ragazzi che si stringeva attorno a lei e la ascoltava muto, o si univa cantando, tutti partecipi di una stessa emozione, che da lei arrivava fino a loro. La invidiava quando suonava con altri, spiava i loro sguardi d’intesa, la complicità che traspariva dai loro movimenti, da come avevano imparato con fatica e passione a capirsi e coordinarsi. E in quel momento creavano qualcosa che era loro solo per quel momento, irripetibile, diverso un poco ogni volta. Sebbene fosse passato molto tempo, Emma ancora non poteva credere che l’amica, la sua migliore amica (con tutto quello che di dolce, infantile e possessivo questo titolo comportava) se ne fosse partita così, da un giorno all’altro. L’aveva chiamata una mattina – vado via, dammi una mano con le valigie o Cristo non ce la faccio – e Emma l’aveva seguita come un facchino fedele, divisa a metà tra la tristezza e l’ammirazione mentre guardava l’amica che sfidava il mondo con la chitarra in una mano e la gabbia col gatto nell’altra. Nessuno può fermare Rachele, aveva pensato Emma, mentre gatto, chitarra e valigie finivano sullo scompartimento del treno. Che tra tutti i ragazzi che le erano morti dietro Rachele avesse scelto di raggiungere proprio il più brutto, il più viscido di tutti, era una conclusione tanto squallida quanto prevedibile. Emma lo disprezzava perché aveva lunghi capelli unti e una lunghissima unghia del pollice che limava con

la cartavetro, perché lui era un musicista e anche un duro. Certo, come no. Rachele l’aveva piantato dopo due mesi, ma ormai era partita ed era troppo orgogliosa per tornare sui suoi passi. La vita indipendente le piaceva, aveva iniziato un corso di fotografia, poi qui la gente è molto più ricettiva, c’è un ambiente pieno di artisti… così le aveva detto, quando ancora si sentivano regolarmente. Emma non stentava ad immaginarla mentre diventava la musa di una dozzina di pittori o mentre cantava per le strade di quella città nuova, dove tutto le piaceva. Poi avevano smesso di sentirsi. Era successo gradualmente: i messaggi si erano fatti più sporadici, alla chiamate rispondeva di fretta, la sua voce sembrava lontanissima, in sottofondo c’era sempre il frastuono della strada, o a volte, le era sembrato, dei gabbiani, o il rumore di un cantiere. Aveva molto da fare, suonava molto, faceva la cameriera. Aveva anche tanti nuovi amici. Un giorno, Emma scoprì da Facebook che era tornata in città “tesoro, sono stata pochissimo, giusto un paio d’ore, ho visto Davide, non mi lasciava più andare, non ho avuto tempo neanche di scriverti… magari ad Aprile vieni giù, ti ospito, farò una serie di serate in un locale, così mi sentirai… no non canto più I heard love is blind, tutto un altro genere, ho scoperto nuove potenzialità della mia voce, poi forse ho trovato un agente… eh sì, in effetti sono un po’ incasinata in questo periodo, potresti venire a maggio…” Emma si era arrabbiata con Rachele, ma una rabbia senza parole. Aveva smesso di scriverle e di cercarla. Un giorno, anzi una notte, alle due di notte, Rachele le aveva scritto un messaggio: “Probabilmente stai dormendo. Ma mi

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chiedevo: se non stessi dormendo… avresti voglia di consolare una vecchia amica? C’è di mezzo un ragazzo, ovviamente. Se mi richiami ti spiego. Ma tanto so che stai dormendo.” Emma era sveglia, ma non le rispose. Era offesa. In seguito si disse che era stata tutta colpa sua, che Rachele era in difficoltà, che doveva cavarsela da sola in una città nuova e che avrebbe dovuto essere lei, Emma, ad insistere, a cercarla, a starle vicino. Del resto, era mai andata a trovarla? Anche senza invito, così saltare su un treno con uno zainetto e via… aveva accarezzato l’idea, ma nulla di più. E adesso era passato talmente tanto tempo che non avrebbero più saputo cosa dirsi. Per molti mesi Emma continuò ad essere offesa con Rachele, senza neppure sapere il perché. Era partita, ma era suo diritto. Avevano smesso di scriversi, ma era stata colpa di entrambe. Eppure Emma si sen-

tiva come se l’altra le avesse portato via qualcosa, o avesse commesso un torto verso di lei. Solo molto dopo si rese conto del perché: in passato, quando ancora erano molto unite, Emma era arrivata a pensare che pur non valendo niente lei era amica di Rachele, e questa preferenza bastava a renderla meno insignificante. Rachele la definiva, le dava un senso. Ma nessuno le aveva mai detto – e lei era troppo ingenua per capire da sola – che non è possibile riporre tutta la propria autostima in un’altra persona.

Erano mesi che non vedeva Rachele, chissà forse se ne era partita per l’Australia a raccogliere fragole e a nuotare tra gli squali. Oppure l’aveva mancata di poco, forse era lì, dietro quell’angolo di strada, poteva raggiungerla, raggiungerla per dirle… per dirle…

PROSSA DEI LETTORI

Ho vent'anni, sono nato a Parma e vivo in provincia di Modena. Frequento il secondo anno della Facoltà di Scienze Politiche di Bologna, con indirizzo relazioni internazionali. Appassionato di scrittura, musicista, sono un aspirante giornalista. Ho scritto qualche articolo pubblicato su quotidiani locali modenesi. Nel 2015 ho aperto il blog POSSO PARLARE!(?) nato come spazio in cui trattare la tematica giovani-politica, in cui però pubblico anche articoli di vario genere sempre riguardanti la politica, locale, nazionale o estera.

VIAGGIO DI RITORNO di Tommaso Caldana

Solo adesso, a distanza di due anni, posso davvero apprezzare quel viaggio di ritorno: quello in cui Chiara perse la borsa e Pietro la rincorse a lungo per le campagne

francesi, in cui, senza cibo, trovammo un fast-food a Lione e Andrea non fu mai così contento, quel viaggio di ritorno in cui, ammassati in uno scompartimento, non

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fummo mai così sinceri. L’autobus rosso arrivò particolarmente puntuale per una banda di italiani sbandati come noi, che avevamo appena trascorso una settimana fantastica alla comunità di Taizè, nella bassa Borgogna, Andrea butta la cicca e la pesta caricandosi lo zaino in spalla, saliamo già carichi di profonda nostalgia. Il bus era completamente vuoto. Un gran regalo, lasciarci soli per riflettere su quella magnifica esperienza. Io me ne stavo raggomitolato su due sedili, con la fronte contro il vetro ad ammirare i pascoli sulle colline. Avevo timore. Quel viaggio lo avevo organizzato io… ed ora veniva la parte più complicata. Dovevamo arrivare nella cittadina di Macòn per prendere il treno che ci avrebbe condotti a Lione, alla stazione de Saint Exupery, di lì poi con un pullman avremmo dovuto raggiungere Torino e, in treno, arrivare a Bologna e poi a Modena. Una passeggiata insomma. L’autobus rallentò per fermarsi ad una pensilina completamente deserta incorniciata da un paesaggio romanzesco. Le porte automatiche si aprirono con un cigolio e tutti, assorti nei nostri pensieri, udimmo un grido: Chiara era scesa e correva indietro, verso il nulla: “La borsa! L’ho dimenticata!!” Andrea fece un cenno a Pietro che scattò giù, sull’asfalto consumato e cominciò ad inseguirla. “Ciao Al, sì sono Tommaso, dovrei chiederti una cortesia, siete ancora lì? Ottimo! Chiara ha lasciato la borsa alla fermata dell’autobus, potreste recuperarla? È bianca, Grazie! Sei il nostro salvatore! Ci vediamo a Torino!”

Non parlavamo, tutti guardavamo fuori. Solo io e Laura discutevamo. Chiara senza la borsa non aveva nemmeno il bi-

glietto per Torino e la cosa mi preoccupava molto. Laura cercava di rassicurarmi, ci riesce sempre, con quel sorriso largo e quelle gote rosee. Lei parla molto bene il francese e mi disse che avrebbe convinto l’autista e avrebbe sistemato le cose. “Sì d’accordo, ma se ci fermano saranno problemi suoi. Comunque potete salire.” Queste furono le parole che misero fine ad una lunga e sofferta attesa passata alla stazione di Lione mentre cercavamo disperatamente il pullman color turchese e mangiavamo con eterna soddisfazione. “Ecco la borsa, menomale che mi avete contattato subito. Buon viaggio. Magari ci si vede l’anno prossimo.” Veloce… ma non così tanto, il nostro treno avanzava. Quattro posti. Noi, nove. Tutti dentro.

Marta ascolta la musica. Simone pettina i capelli a Laura. Andrea parla e parla. Marco ascolta. Pietro e Chiara bisbigliano ed io e Francesco ci guardiamo e ridiamo della situazione, di noi stessi. Con una nota di felicità nonostante la giornata. “Ciao!”

“Ciao mamma.”

“Allora? Com’è andato il viaggio?” Solo adesso, a distanza di due anni, posso davvero esserne convinto. “Bene… c’è stato un solo inconveniente per tutti: è stato un viaggio di ritorno.”

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INFISCHIATENE

PANORAMA, TOMMASO PINCIO (NN EDITORE, 2015) di Giorgia

Erriu

Tommaso Pincio, vincitore del premio Sinbad, finalista al premio Bergamo, racconta la storia di Ottavio Tondi, “Il Lettore” per antonomasia.

Fin dall’infanzia la lettura è l’unico filtro che il protagonista utilizza per distinguere la realtà: questo condizionerà la sua vita a volte in negativo, come nel caso del rapporto col padre, rinomato commercialista, che lo osteggia nella sua mania fin da bambino; altre in positivo, come quando viene assunto da una prestigiosa casa editrice come Lettore di manoscritti.

La fama arriva dopo l’unica intervista concessa nella sua vita, che titola: “L’ORGOGLIO DI LEGGERE”. Citando Borges, Tondi è lapidario: “Non sono orgoglioso dei libri che ho letto ma di quelli che non ho scritto”. Coloro che leggono, nell’universo descritto da Panorama, diventano facilmente vittime di violenza, non ultima il pestaggio subìto dal nostro protagonista, reo di camminare avendo tra le mani un libro.

Da qui inizia la sua parabola discendente: diventa incapace di leggere, al solo pensiero i conati lo sfiniscono, e finisce per iscriversi al Social network del momento: Panorama. Questa prigione online sfrutta il principio del Panopticon di Bentham: l’utente deve mostrare una stanza della propria casa e in cambio può accedere in qualsiasi momento alle celle delle case di tutti gli utenti iscritti, ma ha l’obbligo di scrivere sempre qualcosa, pena la sempiterna impossibilità di connettersi.

È in questa nuova vita che Tondi conosce Ligeia Tissot. Il carteggio online con la ragazza, l’unica in grado di comprendere i colti riferimenti che il nostro passato lettore cita a memoria, continuerà fino alla scoperta di un’amara presunta verità.

I protagonisti del romanzo sono due: la letteratura e il social network Panorama. Il primo costituisce il filo conduttore dell’intero libro: la letteratura rappresenta il mondo in cui

Ottavio Tondi vive. La sua fama si basa sulla lettura perché nessuno più legge, questa rarità lo rende un fenomeno in un mondo in cui le librerie chiudono, i letterati muoiono e i libri diventano merce rara (“Ora che le librerie non esistevano più, la lettura era diventata una passione pericolosa e clandestina, e anche un comunissimo tascabile aveva il suo valore sul mercato nero”). Si assiste a una vera e propria forma di pornografia: nel momento in cui la lettura privata diventa lettura privata in pubblico, il raccoglimento del lettore è violato, si fa oggetto di spettacolarizzazione.

La vista diventa così il senso che sovrasta tutti gli altri: in primis lo si nota nella peculiarità del social network Panorama, che permette di sbirciare nelle case altrui e nelle vite degli altri come se fossero i personaggi di un romanzo, e che trasforma persino la letteratura – poiché sullo schermo del computer compaiono le conversazioni degli utenti – rendendola simile ai canti omerici (“La letteratura esisteva ancora, ma in una forma nuova, non più cartacea, non più scritta per essere letta. In un certo senso era tornata all’oralità, un’oralità diversa, non più fatta di voce e per essere ascoltata, e tuttavia in grado di parlare un linguaggio dei sensi, il verbo dell’organo dominante, l’organo della vista”). La letteratura quindi dimostra di avere il potere della fenice: rinascere dalle proprie ceneri; anche se rimane in sospeso la domanda: che tipo di rinascita?

In ultimo si crea l’interessante parallelo tra la funzione dei social network e quella dei libri. Panorama diventa un nuovo modo per sbirciare dal buco della serratura, come prima nei libri si origliavano i segreti più indicibili dei personaggi. Sui social network non siamo forse un po’ tutti personaggi?

“Se alla letteratura viene riconosciuta tanta importanza malgrado la sua scarsa utilità è proprio perché ciò che si dice di un uomo conta, in fin dei conti, più delle sue azioni. ”

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Riccardo Bettini, Maurizio Brancaleoni, Irene Buselli, Claudia Calabresi, Laura Calpurni, Marta Cristofanini, Anna Denaro, Giorgia Erriu, Giulia Gambardella, Edoardo Garlaschi, Andrea Lanzola, Pietro Martino, Paolo Palermo, Martina Podestà, Diletta Porcheddu, Francesca Torre

ILLUSTRAZIONI

Sara Traina

GRAFICA Beatrice Gobbo

Fischi di carta è stampata presso:

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