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Elementi riflessioni – F. Asborno

ELEMENTI riflessioni

RE(I)STITUIRE

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di Federico Asborno

Non si ha qui l’ardire di presentarsi in veste di giornalisti, ma a volte, quando ci si trova di fronte a persone che pendono dalla propria penna – come siete voi in questo momento – chi scrive è tentato di mandare tutto al diavolo e mettersi a raccontare fandonie insensate che commuovano fino a far ridere, sognare o piangere, così come piangeva il padre di quel famoso critico letterario mentre leggeva Les Misérables di notte, tenendo sveglia la famiglia coi suoi singhiozzi. Non è questo però quello che si farà e non è nemmeno questo il senso della letteratura: i facili sensazionalismi li lasciamo a quella nuova genìa di web-writer che con i loro romanzetti digitali definiti newporn soddisfano i pruriti di una generazione di lettori diventati, ahinoi, sordi alle voci che non somigliano a caciare tra trogloditi.

Ammettiamolo candidamente: ci siamo smarriti nella Selva e Virgilio stavolta è rimasto in panciolle nel Paradiso Terrestre. Continuiamo ad avanzare però, non arrendiamoci e cerchiamo un lume di raziocinio in questa masnada lanzichenecca e pestifera di terroristi della Parola, che foderano di prosciutto anche quelle orecchie che sarebbero ben disposte ad ascoltare.

Esiste una letteratura giusta e una sbagliata?

La risposta è no, perché giusto e sbagliato sono categorie troppo labili ed effimere per poter essere utilizzate in questo contesto, possiamo invece dire che esiste una letteratura con un’anima e realizzata con maestria; un’altra che sopravvive solo grazie a un briciolo di maestria e un’altra ancora che è solo brusio insensato e inutile.

Quale direzione prendere allora? Come districarsi tra queste Paludi Morte?

La risposta sarebbe lì, facile, accogliente e comoda: puntiamo sui classici!

Quante volte si è sentita, quante volte sarebbe stata da rigettare, non tanto perché i classici non valgano, ma perché non sarebbero sufficienti: per districarci dal chiasso di una Biblioteca inflazionata di parole vuote e caotiche, serve sporcarsi le mani e andare a rovistare anche dove tutto sembra essere solo sozzura e lerciume, perché le pepite esistono ancora, sono rare, ma si trovano.

Non saranno fatti nomi, non siamo qui per dare indicazioni stradali, ma per cercare di distinguere il sicuro asfalto dalle sabbie mobili, per tentare di portare a casa la ghirba: a tanto siamo arrivati.

Marcel Proust tra il 1909 e 1922 ha scritto un libro che potrebbe rappresentare la cifra di ciò che si sta dicendo: qual è in fondo il senso della sua Recherche, se non descrivere il potere che ha la letteratura nel recuperare la bellezza degli attimi perduti durante la corsa del tempo? Attraverso la scrittura Proust riconquista tutto il tempo che è passato, in modo che non vada perso, ma ritrovato; badate bene che l’ultimo dei sette volumi della Recherche si intitolava

appunto Le temps retrouvé (Il tempo ritrovato). Per Proust la scrittura non diventa quindi un momento di sospensione dall’esistenza, ma un momento in cui la vita viene resa eterna, così come nei sonetti di Shakespeare (Né dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra/Quando in eterni versi nel tempo tu crescerai/Finché uomini respireranno o occhi potran vedere/Queste parole vivranno, e daranno vita a te) ad esempio.

Cercare una letteratura con un’anima, significa andare a riscoprire gli attimi di una vita, significa andare a rimestare in quei libri in cui gli autori si sono spesi, dove hanno graffiato a loro modo la pagina non solo rovesciandovi sopra dell’inchiostro, ma lasciandoci un segno netto e incontrovertibile.

Perché gli scrittori migliori sono quelli con le unghie affilate, quelli che restano impressi su chi legge puntando alla più sublime delle espressioni; che scavano dentro loro stessi quasi fossero miniere di gemme da regalare.

I veri scrittori sono esseri egoisti: badano alle parole che vengono da loro e silenziano i pareri degli altri, perché solo così beneficeranno il prossimo; gli scrittori che valgono davvero si perfezionano al limite del maniacale, limano, sfrondano, cancellano, innestano, mostrano i pozzi luccicanti di tesori che possiedono, senza però permettere a chicchessia di avvicinarsi troppo, o il fascino che esercitano svanirà. Alla fine restano indefiniti, mai del tutto comprensibili, ma tremendamente familiari, simili ai ragazzi di Prevert che non ci sono per nessuno, perché alloggiano altrove molto più lontani nella notte: seduti al di là di tutto, fermi sull’ultima collina dell’universo, a chiedersi cosa ci sarà mai oltre la siepe.

Rassegnatevi: la letteratura giusta non esiste, esiste però una letteratura sana, una letteratura nata da un proposito cogente, ovvero da un autore che aveva qualcosa da dire e che l’ha detto nel modo a lui più congeniale, perché tutto quello che aveva dentro potesse in qualche modo essere eternato dalla magia della scrittura, in modo che tutto il tempo da lui vissuto non andasse perduto, ma ritrovato

LOGOPEDIA

di Claudia Calabresi

Sono passati più di duemila anni da quando Parmenide disse che “il non essere non è e non può, in alcun modo, essere”; con questo, voleva dire che ciò che non esiste non può essere pensato e, dunque, detto. Il paradosso non sfugge: come è possibile, allora, che si possa pronunciare con tutta tranquillità il nome di cose che non esistono? E via con gli esempi più o meno popolari dell’asino che vola, di mia nonna in carriola e via dicendo…

La parola può portare a verità e menzogne, e da questo cinquanta e cinquanta non si scappa.

Quando si parla del potere della parola, non può sfuggire quanto, persino nelle fiabe, l’uomo tenga conto di esso. Maghi, streghe e figure mitiche evocano qualsiasi sortilegio

A Umberto Eco

– e negativo e positivo, naturalmente – semplicemente parlando. La parola avvera: “sì, lo voglio”. La parola distrugge: “l’Olocausto non è mai esistito”. Uno dei più importanti sforzi umani degli ultimi decenni è stato volto a trovare il modo di comunicare anche a distanza, purché si continuasse a farlo utilizzando la parola. Radio, telefono, televisione: un carosello di voci. Un’evoluzione continua verso l’alto, per annullare il silenzio, perché se si parla non si è mai soli (a meno che non si sia un po’ matti, naturalmente). La parola avvera e distrugge: medicina e veleno – d’altronde phàrmakon, in greco, voleva proprio dire entrambe le cose.

Perché abusare di un farmaco può essere molto rischioso, soprattutto quando un Paese non capisce ciò che dice chi lo governa. Non si può non pensare ai nuovi oratori del Duemila: si tratta, perlopiù, di capi di Stato nel senso più ampio del termine – non soltanto di segretari di partito o di ministri, ma di conduttori televisivi, giornalisti, cantautori famosi.

La parola avvera, distrugge, ma in entrambi i casi è legge.

Il monaco Luciano Manicardi, classe 1957, dice in un’intervista che in tempi attuali “si corre il rischio di non affidarsi più al potere della parola ma alla parola del potere, del capo, a cui non si può controbattere”. Un importante equivoco concettuale che a poco a poco sta erodendo la facoltà di comprendere ciò che ci viene detto: non è un caso che lo studio del greco e del latino, linguaggi fondati sul senso della realtà e della verità, sia perennemente sotto attacco. Il grande Socrate, ad esempio, riteneva che per tirare fuori ciò che di meglio si nascondeva in un uomo fosse necessario intavolare con esso un dialogo vivace e ben strutturato nel quale il suo interlocutore finisse, sotto i sapienti colpi del filosofo, per autocontraddirsi e di conseguenza ad ammettere la verità che gli si stava via via disvelando, per poi darla alla luce: non a caso questo tipo di dialettica è chiamato maieutica: arte della levatrice. La psicoterapia moderna non è tanto lontana dalle concezioni di Socrate: in quarantacinque minuti di seduta si parla incessantemente fino ad arrivare al nocciolo del discorso. In anni e anni di quarantacinque minuti si dà un nome a cose che avevamo rimosso dalla coscienza; solo così le nostre paure si distruggono – e il sogno di stare meglio si avvera.

Ma se è indubbio l’effetto salvifico della parola, ciò che sarebbe meglio non dimenticare è il rischio che si corre a fidarsi di termini impropri, sottilmente illusori: la parola gridata, all’ordine del giorno, è un’instancabile divoratrice di neuroni. Basta aumentare i decibel ed è impossibile sottrarsi, il comando è perentorio e brutale: è sufficiente chiamare un concetto con un termine che non gli corrisponde ed eccolo spezzarsi, riaggregarsi, farsi altro da sé. Titoli di stampa campeggiano sui giornali e sulle nostre bacheche di Facebook inneggiando a verità poco sincere e ci sono relazioni tra attrici e calciatori più osannate di sagge analisi antropologiche. La parola abusata, sconvolta dal trauma, talvolta si fa patologicamente noiosa, ed ecco che dopo anni e anni “strage di migranti” non interessa più; “attentato dell’Isis” neanche. Fiumi straripanti parole formano una pappa informe in mezzo al fango quando basterebbero poche, asciutte, nuove frasi a restituire dignità a determinate notizie. Dunque la parola avvera, distrugge, ci tiene compagnia e talvolta, come una vecchia

zia, ci annoia.

In ogni caso ciò che più ci disturba è la sua assenza – ci si lascia quando si smette di dire “Ti amo”. Questo perché ormai siamo tossici della parola: ne dipendiamo. Stiamo ritornando al pensiero di Parmenide per cui, se si dice qualcosa, è perché esiste, altrimenti non c’è; e così la parola, una volta nobile mezzo, è diventato il fine della nostra esistenza. Siamo in balia di un’orgia di discorsi che ci anestetizza e ci fa dimenticare che, per citare i dieci comandamenti – altro esempio di parola fatta legge – non bisognerebbe nominare la Parola invano.

Non tutto può essere detto. E a volte la miglior parola è proprio questa: il silenzio

UN ARTICOLO CHE VI FARÀ...

di Martina Podestà Chiamato cliffhanger, negli ultimi anni è uno dei cardini della serialità e consiste in un finale in cui la narrazione si interrompe bruscamente in corrispondenza di un momento di grande suspense. Usato soprattutto nei finali di stagione (si veda la quinta serie di Game of Thrones), consiste solitamente nel lasciare uno dei personaggi principali tra la vita e la morte, o nel nonrisolvimento di un nodo enigmatico di grande importanza per la storia.

Quella del finale sospeso è però una tecnica usata da sempre sia in letteratura (si pensi ai romanzi d’appendice) sia al cinema, spesso in vista di episodi successivi (parliamo quindi di saghe), ma anche in narrazioni che non prevedono alcun seguito. È bene però precisare che non si parla qui di opere lasciate incompiute per svariati motivi, come la morte dell’autore, ma di opere concluse, con un finale intenzionalmente lasciato aperto dallo scrittore.

La domanda a questo punto sorge spontanea: perché un autore dovrebbe volutamente lasciare sospesa la propria storia? Una simile tecnica può essere usata con esito comico, come nella novella Romanzo medievale di Mark Twain, in cui l’autore crea un intreccio che, confessa alla fine, non è più in grado di sciogliere: «non troverete alcun finale in questa storia» – dice – «perché ho gettato l’eroina in un tale vicolo cieco che non mi resta che lavarmene le mani». Può altrimenti essere usato con intento satirico: il finale sospeso è infatti la cifra stilistica della raccolta Woobinda e altre storie di Aldo Nove, in cui i racconti contorti, ossessivi e assurdi terminano spesso con una parola lasciata a metà. Obiettivo principale dell’autore, qui, è quello di dipingere una società afasica e farneticante: i suoi racconti vogliono riprodurre le chiacchiere inutili che caratterizzano i nostri tempi e, in questo contesto, il fatto che il finale sia lasciato sospeso è la conferma del vuoto di contenuti che mette alla berlina, della non

importanza di ciò che si dice; le parole dunque restano a metà, si perdono nel vento, futili. Fondamentale è poi questa tecnica per l’horror: moltissimi racconti brevi di questo genere, tra i quali ricordiamo quelli di Ray Bradbury, terminano senza una vera e propria chiusura del finale, lasciando il lettore a bocca asciutta. Un simile finale è efficace poiché permette di conservare il mistero, elemento fondamentale della narrazione noir, e richiede la collaborazione del lettore, che deve ricreare da solo il proprio scenario orrorifico. Il finale sospeso può essere dunque usato per far ridere, intimorire o riflettere; talvolta per provocare o sorprendere: il punto interessante è che in ognuno di questi casi è richiesto al lettore uno sforzo interpretativo. Di fronte a un finale sospeso, infatti, chi legge deve immedesimarsi per un attimo non nella storia, ma nell’autore e creare un suo finale con il solo ausilio dei dati forniti dal testo e della propria creatività; molto chiaro a questo proposito è Umberto Eco nelle sue Sei passeggiate nei boschi narrativi, in cui teorizza la figura centrale del Lettore che deve riempire gli spazi bianchi lasciati dalla narrazione con la sua attività inferenziale.

Se non nella ricostruzione della storia, lo sforzo di collaborazione è richiesto a chi legge per capire il senso della sospensione narrativa: nei racconti di Nove, ad esempio, è necessaria un’analisi contenutistica per capire il motivo della sua scelta. Talvolta il racconto può terminare non con una sospensione della narrazione, ma con una reticenza: al lettore sono cioè forniti tutti gli elementi per costruire il finale che però non viene descritto dall’autore. In questo caso è richiesta una minima collaborazione – potremmo definirla “un gioco a unire i puntini” – che consiste solo nel raccogliere i dati presenti nel testo e nel creare la giusta sceneggiatura. Oltre a quello letterario, anche il caso cinematografico offre interessanti spunti d’analisi per i finali sospesi: non possono non venire in mente Inception di Christopher Nolan, in cui ci rimane il dubbio se il mondo in cui si svolge la storia sia reale o immaginario; Shutter Island (Martin Scorsese), che non ci consente di sapere la verità sulla salute mentale del protagonista; Zodiac (David Fincher), che non ci svela l’identità del serial-killer, elemento ancora più sorprendente dal momento che il genere giallo-poliziesco prevede per sua natura un finale chiuso, dato che è consuetudine che il lettore/spettatore si metta in competizione col detective (o chi per lui) e pretenda un riscontro finale delle sue supposizioni. Pensiamo anche al caso italiano del Pasticciaccio gaddiano, primo giallo nostrano a sconvolgere la struttura del genere classico lasciando il lettore senza un finale.

Parliamo quindi di una tecnica narrativa molto esplorata e sfruttata dai media soprattutto per stupire, per rendere memorabile una narrazione, usata soprattutto in quelle brevi che richiedono un finale “a effetto”, quindi a sorpresa o sospeso, il quale oltre all’efficacia nel creare sgomento nel lettore gli permette di non essere solo spettatore passivo, ma di mettersi in gioco diventando co-autore e riempiendo tutto lo spazio bianco che chi scrive gli lascia sulla pagina

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