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Planetario autori – L. Calpurni, E. Garlaschi
PLANETARIO autori
CESARE PAVESE
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QUESTE DURE COLLINE CHE HAN FATTO IL MIO CORPO di Laura Calpurni Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi/e saprò d’esser io… Cesare Pavese si affaccia alla poesia pubblicando nel 1936 la raccolta Lavorare stanca. Meditata e continuamente rielaborata, questa raccolta si fa strada quasi in sordina, lontana dal ruvido verso ermetico. Pavese è un giovane scrittore che ha passato l’adolescenza e gli anni di studio universitario affascinato dalle poesie di Whitman, prova e riesce a trascinare il suo mondo, il suo ricordo del mondo con voce nuova e acuta, dando una fisicità al verso come le letture degli scrittori americani gli avevano insegnato. L’abbandono della metrica per scivolare nel verso narrativo, nella prosa ritmica essenziale è l’espediente con cui, come scrive nel suo saggio Il mestiere di poeta, ricerca – quasi in maniera confusa – l’«essenziale di fatti essenziali». Il tono quindi non è mai didascalico, bensì in continua tensione, per poter adattare la dimensione poetica a quella più prosastica e quotidiana del vivere. La poesia è come tesa nella scoperta esistenziale di se stessa attraverso situazioni, luoghi e incontri: nasce nell’attesa ed in essa si compie; il poeta si nasconde nel verso e nell’affinità che lo lega ad un luogo, sia esso la terra che sporca le mani, la collina che rivela l’orizzonte o la luce che svela terre lontane. Pavese mescola il sangue e le carte che i personaggi usano per giocare la loro esistenza: tutto è ricerca, tutto si mostra ai loro occhi come una lunga e graduale formazione alla scoperta, che dalla Paesaggio VIII, da Lavorare stanca
I ricordi cominciano nella sera sotto il fiato del vento a levare il volto e ascoltare la voce del fiume. L’acqua è la stessa, nel buio, degli anni morti.
Nel silenzio del buio sale uno sciacquo dove passano voci e risa remote; s’accompagna al brusio un colore vano che è di sole, di rive e di sguardi chiari. Un’estate di voci. Ogni viso contiene come un frutto maturo un sapore andato.
Ogni occhiata che torna, conserva un gusto di erba e cose impregnate di sole a sera sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. Come un mare notturno è quest’ombra vaga di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora e ogni sera ritorna. Le voci morte assomigliano al frangersi di quel mare.
terra e dagli oggetti comincia e nella vita finisce. I protagonisti vorrebbero essere tutto sebbene allo stesso tempo si annullino nel fumo di una sigaretta, nel volteggiare cercando i colori al di là delle strade lastricate di Torino, nel richiamo lontano di voci sempre più sconosciute; si è di fronte quindi ad una poesia dalla grande carica semantica, nella quale ogni oggetto, ogni forma, ogni avventura si appropria di una forza spietata che molto spesso non trova via d’uscita. Allora i personaggi, quasi sfogandosi, si gettano fuori dal controllo di una dimensione sociale e mentale alla quale vorrebbero appartenere, con un senso ed una personalità propria. Gettando un’occhiata,/mi vedrò tra la gente, tutto è proiettato nello sguardo, in una visione della moltitudine di una vita che trascina e confonde
BIBLIOGRAFIA • Cesare Pavese, Le poesie, 1998, Giulio Einaudi editore, Torino. • Le citazioni all’interno del testo appartengono alla poesia Agonia, sempre tratta da Lavorare stanca.
EDWARD ESTLIN CUMMINGS
UN PUNTO DI DOMANDA di Edoardo Garlaschi
Cummings nacque nel 1894 a Cambridge, dove ebbe occasione di frequentare l’università di Harvard dedicando il suo discorso di laurea al movimento dei Preraffaelliti, vista la sua necessità, di trovare un equilibrio tra pittura e poesia. Il concetto di immagine è di primaria importanza nella sua poetica, tanto da farlo annoverare fra i padri della poesia visiva. In seguito si arruolò come autista di ambulanze per evitare il fronte e, una volta giunto in Europa, venne rinchiuso in un campo di rieducazione, a causa delle continue insubordinazioni che la sua simpatia per l’ideologia anarchica lo portava a compiere. Una volta liberato, scrisse The Enormous Room, romanzo che però non mostrava ancora lo sperimentalismo che sarebbe divenuto suo marchio di fabbrica, ben visibile, invece, a partire dalla prima silloge poetica, edita nel 1924, Tulips and Chimneys, per la cui genesi Cummings dovette recarsi nuovamente in Europa nel 1921, dove ebbe modo di visitare Rapallo insieme all’amico Pound, e Parigi con Picasso e Marinetti. In quanto cultore dell’immagine cercò di conferire alle parole la forma più pertinente al concetto: ad esempio “bIrd”, per simboleggiare un uccello che si alza in volo, “mOOn” per accentuare la forma della luna piena; o l’abitudine di usare il pronome “I” in forma minuscola, così come le iniziali del proprio nome. Il pensiero anarchico e il virtuosismo verbale di Cummings gli permisero di utilizzare le parole in maniera non convenzionale, tanto da trasformare sostantivi in verbi come in Thy fingers make early flowers of in cui leggiamo “we will go amaying”, tradotto come “andremo alla festa di Maggio”. Addirittura arrivò a completare gradualmente la parola “Star” in BrIght, scrivendola inizialmente come “S???” e aggiungendo le lettere ogni volta che la parola viene ripetuta. Vi sono due errori in cui si potrebbe incorrere approcciando la poetica di Cummings:
il primo sarebbe pensare alla sua poesia come una sorta di sperimentalismo con atmosfere eccessivamente moderne o con tendenze iconoclaste. Non del tutto corretto, alla luce della sua tendenza a dilettarsi con immagini e atmosfere simil-romantiche, creando una difficile collocazione tra gli estremi “tradizione” e “innovazione”: ne sono un esempio i versi “Verdevestita il mio amore cavalcava/su un grande cavallo d’oro/nell’alba d’argento” in All in green went my love riding e “una notte/quando fra le mie dita/si piegò il tuo corpo lucente/quando il mio cuore/cantò fra i tuoi seni/stupendi” da If i believe. A questo si aggiunge il pregevole utilizzo di arcaismi quali “Thy”, “thee” e “thou” come nella già citata Thy fingers make early flowers of. Il secondo errore, il più grave, sarebbe considerare questo poeta come esponente di un’avanguardia Americana ancora acerba. Occorre citare l’introduzione di is 5 del 1926, in cui l’autore stesso giustificò il proprio modus operandi come subordinato ad una “precisione” generatrice di movimento. Cummings è, infatti, talmente preciso e minuzioso nella trasposizione di immagini che non solo risulta difficile capire come e dove collocarlo, ma non sembra dire nulla di nuovo, perché ad essere nuovo è il modo in cui viene detto questo qualcosa. Rappresenta un nodo gordiano nel tessuto dello spazio-tempo poetico, impedisce al lettore di fare una cosa del tutto spontanea (su cui era incentrato l’editoriale del mese scorso e a cui abbiamo dedicato un evento): categorizzare e dunque etichettare, operazione di cui bisogna riconoscere sia l’utilità logistica che gli svantaggi concettuali. Tuttavia al poeta deve essere riconosciuto un altro merito, ovvero come con lui si possa tirare, finalmente, un sospiro di sollievo, riuscendo a riavvicinarsi a ciò che probabilmente determina l’accostarsi di quasi tutti al concetto di cultura: un’emozione antica e quasi dimenticata. Cummings è la Poesia che ritorna ad essere libertà.
starsene (solo) in qualche meriggio autunnale: a respirare funesta quiete; mentre
questa enorme così paziente creatura (che mai da mai è spogliata del dì) di sempre si veste sempre di sogno, è
assaggiare in-(oltre morte e vita)immaginabili misteri
BIBLIOGRAFIA • E. E. Cumming, Poesie, 1998, Giulio Einaudi editore, Torino