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Prossa nova racconti – M. Karoli

PROSSA NOVA racconti

CARNE ROSSA

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di Milo Karoli

In principio c’è la parola ma non si sa mai bene da che parte prenderla. Prima di lei non c’è niente, nasce da sé, come un germoglio che germogli da solo quando nessuno se lo aspetta, alla luce dei primi raggi dell’alba. Nemmeno Dio ci guarda da lassù, bisogna ancora che ce ne facciamo una ragione, che in grazia di Dio riceviamo un’anima, nasca la mentalità. Ed è Pace. Poi fa sera e fa mattina, ma in questo modo chi racconta ha solo due colori, il giorno e la notte, il bianco e il nero. Le lucciole rimangono imbrattate, nell’acqua rimasta a gocce sulle pareti, mentre cercano di liberarsi dall’acqua tesa, capillare, a intermittenza. Ed è Guerra. Sfortunatamente per gli uomini, però, poi fa sera e fa mattina, e il terzo giorno la parola è fiorita e si allontana dalla terra, ha piovuto tutto il pomeriggio e dappertutto sono i colori dell’arcobaleno. Ci sono tante tonalità, tanti fiori e bisogna fare attenzione a non confondere i petali di uno con lo stelo di un altro, le parole di uno con i desideri di un altro. Nonna ha preparato la fettina di vitello, e il pane con l’olio e l’origano profumato, e Milo bambino desidera che arrivi la sera per vederci di nuovo chiaro, per catturare le lucciole con le bottiglie rimaste vuote, comprate al supermercato.

Casa di nonna sta a Ponteggia, a una diecina di fermate di corriera da Villa Lata, e quando piove sembra venire giù tutta la montagna: le pietre franano sulla strada battuta, le ripe si sfaldano, gli ettari di proprietà disperdono i confini e la facciata del colle è stravolta come una donna che si sia scordata di struccarsi, prima di mettersi a piangere. I nonni di Milo bambino venivano da Pedona, i soldi a debito del Banco Popolare hanno pagato quasi tutto, la pietra di Cerignola, il legno di abete rosso, le inferriate ai contorni del bosco e del roseto sul limitare dei terrazzamenti. Molti anni prima, in città, il nonno di Milo bambino aveva trascorso la guerra. I tedeschi, diceva, arrivavano in marcia nella piazza grande, l’avanzata guidata da un gigantesco carro armato costringeva tutti a rintanarsi nelle case o sotto i portici o negli anfratti dei canali. Il caporale uscì dal suo abitacolo con il fucile in mano, minacciando il nonno di sparare se non si fosse spostato. Ma un ragazzo, diceva, si chiamava Balilla, afferrò un sampietrino e lo lanciò diritto in testa al soldato tramorturo, spaccandogli il naso.

Milo ragazzo lo vide e gli assestò un pugno sulla faccia. Gli aveva mentito, lo aveva tradito e adesso era cieco di rabbia.

«Mi hai mentito» gli disse prendendolo per il colletto.

Chi si fosse soffermato, dall’autobus ancora in rimessa davanti alla fermata, avrebbe assistito ad uno spettacolo (subito ci fu un fragore, un fracasso di vetro in frantumi!): spaventato avrebbe creduto di vedere Milo ragazzo violentare una donna, col busto in avanti, l’eroe furioso che si schiacciava i

quadricipiti contro la sbarra strutturale, orizzontale, dove si saldano i seggiolini per l’attesa, sulla quale pareva sedesse una donna a gambe aperte. E Milo, ragazzo, tra quelle sue gambe.

In realtà le gambe in considerazione erano del suo rivale, i due si erano ritrovati in quella posa tanto erotica nel momento in cui uno scaraventava l’altro contro il vetro della pensilina, mandandola in mille pezzi, intralciati soltanto da quella sbarra metallica ad altezza culo. L’altro era remissivo, colpevole, urlava di smetterla con il tono di chi ritiene di avere espiato a sufficienza, ma lascia alle ragioni dell’altro di decidere se continuare a pestare. L’occhio nero, ora Milo lo fa cadere sui vetri ma devono essersi feriti entrambi perché anche il pugno che colpisce gronda sangue. Qualcuno ha chiamato la polizia. Un negro che assiste cerca di fermarli. Colpito e insultato. C’è una macchina e Milo ragazzo costringe il rivale a salire, ma bisogna portarlo in ospedale. Sono partiti di corsa e poco dopo arrivava una volante e scendevano i poliziotti con gli stivali in una pozza scura. L’africano ha fatto in tempo a prendere la targa ma interrogato riusciva a dire solo: «Se le sono date di brutto».

Raccontare una storia soprattutto se triste è un duro compito per uno scrittore. Se sceglie di narrarla da fuori, da un punto di vista che rimanga esterno alle vicende trattate, l’autore ha la responsabilità di raccontare come sono andate le cose in maniera oggettiva, senza mai dare quella fastidiosa impressione di onniscienza, di presunzione, di patetismo. Quando incontra gli oggetti o i personaggi non deve cedere alla tentazione di chiamarli troppo facilmente per nome, di darli per scontati. Lo scrittore ha il dovere di costruire delle geometrie, delle prospettive personali ma poi, da subito, esplicitarle: essere fotografico, mai pittorico. Così in quell’ospedale fu mattina e poi fu sera, e al narratore non resta che dire di Milo ragazzo mentre piange per l’amico che ha appena massacrato, per la donna che ha scoperto traditrice. Era stata pace, poi guerra, e il terzo giorno è molto più facile distinguere le parole tra di loro, le parole vere dai veri desideri, rivivere gli istanti di un passato tanto logico e capire che, in fondo, si è sempre stati ingannati.

È il momento di un breve escurso sulla storia di Eunice. Il nonno di Eunice bambina viveva per il suo lavoro. Da giovane aveva fatto le scuole ed era stato in marina e negli anni ’50, all’età di ventisei anni, col fido del Banco Popolare aveva potuto comperare i macchinari necessari a mettersi in proprio: guarnizioni navali e riparazioni. L’attività era molto cresciuta negli anni: Pedona è città di mare e il duro lavoro, parallelamente a una concezione solo “tripartita” della nozione di utile – in ordine prioritario: il dovuto agli operai, il dovuto ai fornitori, il restante alla famiglia (ciocchè almeno filosoficamente rendeva un ingiusto discredito al ruolo sociale occupato dal Fisco) – consentiva a qualunque piccola impresa familiare di moltiplicare il proprio capitale nell’arco di due o tre decenni. I genitori di Eunice iniziarono presto a lavorare per il nonno, la famiglia negli anni ’80 aveva una casa proprietaria, venti lavoratori a tempo indeterminato e due officine, al 9 e all’11 di via Gramsci. È nella prima di queste due palazzine che venne su il figlioletto unico ed è sempre lì che, alcuni anni dopo, nella stessa casa, fu allevata Eunice bambina.

Questa passava molto tempo nell’officina, poteva disegnare coi pastelli e imparare ad andare con la bicicletta. Una volta un operaio col suo camion era entrato di corsa

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