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Planetario autori – A. Lanzola, L. Calpurni
PLANETARIO autori
ANTONIN ARTAUD
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POUR FINIR AVEC LE JUGEMENT DE DIEU di Andrea Lanzola
Antonin Artaud (1896-1948), nativo di Marsiglia ma di origine turca per parte materna, trascorre gli anni dell’adolescenza studiando al liceo, appassionandosi alle lingue classiche, ai poeti francesi e inglesi più vicini alla sua indole (Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Rollinat, Poe). È però l’incontro decisivo a Parigi, nei primi anni venti del novecento, con Lugné-Poe, Jacob e Coupeau a introdurlo nel mondo del teatro, dandogli lavoro come attore e come critico, assieme alle parallele collaborazioni cinematografiche con Gance, Lang e Dreyer. Nel 1923 incontra il pittore André Masson e pubblica il primo numero della rivista Bilboquet da lui stesso diretta. Poco dopo esordisce come poeta pubblicando la plaquette Tric trac du ciel, ma sarà soltanto il ‘24 che lo farà comparire sulle scene della cultura (Correspondance avec Jacques Rivière sulla Novelle Revue Française) portandolo all’attenzione di Breton e dei surrealisti coi quali collaborerà tra il ‘24 e il ‘26 per poi distaccarsene dopo aver ricevuto accuse di renitenza nei confronti della rivoluzione russa. Le sue attività di attore e drammaturgo non riescono però a garantirgli un appoggio economico sufficiente mentre lo stato di depressione con momenti di squilibrio mentale presente sin dall’adolescenza – faceva uso di oppio su prescrizione medica dai diciotto anni – si accresce. Pasquale di Palmo, curatore moderno dei versi di Artaud, ha individuato due sostanziali fasi creative del poeta: i primi testi, composti tra il ‘13 e il ‘23, debitori degli autori amati dal poeta, privilegiano l’utilizzo dell’alessandrino e contenuti d’ispirazione crepuscolar-parnassiana legati a scenari tradizionali (la città, la piazza, gli eventi naturali). La fase successiva (192435, conclusasi con l’internamento in manicomio) prende le mosse dal periodo surrealista per poi evolversi, nelle raccolte L’Ombilic des Limbes, L’Art et la Mort, Le Pèse-Nerfs, i Textes surréalistes – dove prosa, versi e brani teatrali si alternano – verso una produzione ancora legata a strutture metriche codificate (sonetto, quartina rimata), ma più incentrata sul corpo e sulle sue esigenze anche più basse, dove si avvicendano immagini ripetute (gli organetti di Barberia, ad esempio), visioni oniriche e stravolte, ossimori lessicali e contenutistici. In seguito si aggiungeranno anche bestemmie, nonsense, glossolalie alienate a metà fra realtà ed ironia, dovute anche al suo interesse per i medium e i linguaggi, con un tentativo di recupero d’una lingua “universale e del ritorno all’utopica lingua precedente Babele” (Di Palmo, p. II) testimoniata anche, nella produzione drammaturgica, dall’attenzione del poeta per il teatro balinese. Il corpo umano, simbolo dell’essenza vitale soprattutto nella
sua martirizzazione analitica e spietata, viene letto alla luce delle antiche religioni, in particolar modo di quella egiziana: centrale in alcuni versi dei Textes surréalistes il riferimento al “corpo senza organi” da smembrare per far sì che rinasca sotto nuove forme (mito di Osiride) nonché alla mummificazione e alla “morte apparente”, preludio alla vita nell’aldilà. Sarà proprio il linguaggio multiforme la vera eredità poetica lasciata da Artaud che soltanto dopo l’internamento in diverse case di cura francesi e cinquantuno elettroshock riprenderà, nel 1943, a firmarsi col proprio nome. Ristabilitosi un minimo, potrà fare ritorno a Parigi sotto la tutela economica di amici che si occuperanno di pubblicargli la plaquette Révolte contre la Poésie (1944), con cui il poeta siglava il suo definitivo (ma già più volte tentato) distacco dai versi, croce e delizia di un'inquieta e tormentata esistenza. Nel novembre 1947 registrerà la famosa intervista radiofonica subito censurata – Pour finir avec le jugement de dieu, dove il delirio giunge agli estremi – pochi mesi prima di morire per un tumore il 4 marzo 1948
Un poeta perennemente alla ricerca del proprio io, del proprio scopo, del proprio ruolo nella società e nella quotidianità. Fernando Pessoa è lo spirito inquieto di una poesia sublime, che affascina e tormenta allo stesso tempo. È l’uomo afflitto dal dubbio, dall’incapacità di sentirsi parte di un unico corpo. Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro – solo per citarne alcuni – non sono altro che burattini nati dalla
Organi a manovella, organetti, angeli Inchiostri, lacche, incredibile miscela Di acidità, di soavità, Vattene, mio libro, dalle chiuse membra, dove il midollo dello spirito s’iscrive, separato In angeli, lacche, inchiostri, miscele O lucido incubo, sofferenza chiarita (da Tric trac du ciel, 1923)
BIBLIOGRAFIA • Antonin Artaud, Poesie della crudeltà (1913-1935), a cura di Pasquale di Palmo, Roma, Stampa Alternativa, 2011
FERNANDO PESSOA
HO DENTRO DI ME TUTTI I SOGNI DEL MONDO di Laura Calpurni
penna del poeta, ciascuno con vizi, incubi e visioni differenti. Pessoa si muove in una Lisbona ora grigia ora soleggiata, tra le inquietudini culturali di inizio Novecento e letture di Milton e Keats sotto braccio. Pur essendo un personaggio schivo, quasi una comparsa anonima di un romanzo qualsiasi, era deciso ad animare la vita culturale e letteraria della sua città. La poesia nasce dunque dall’indagine del sé e si trasfigura in una «danza frenetica sull’orlo di un precipizio», tra quello che si è e quello che si vorrebbe essere. Unico rifugio: l’abbandono totale ed incondizionato all’immaginazione che porta a visioni sospese, come su una corda troppo tesa e fragile. Ma l’equilibrio debole che la visione stessa dona, è apparenza venata di delicata ironia e disincanto, che il poeta, quasi con lucida preveggenza, sente come inafferrabile: «[…] chiuso nel mio sogno, / immoto emigro, e, senza volere, / inutilmente ricompongo / visioni di quel che non sarà». Il mondo, tutto ciò che quindi fa parte di esso è fugace, finto. Le cose tangibili, gli affetti, sono una realtà troppo intima e sfocata, che si perde in una ricerca spasmodica. Un viaggio nel vuoto, una continua rincorsa per uniformarsi ad un mondo che piega, spezza e non risparmia. Quando la corda si spezza ed il rimpianto di aver perso quel poco che trasformava la realtà si perde nel ricordo, le tante voci che si avvertono sono così in antitesi ed in contraddizione l’una con l’altra che non riescono a non formare una qualche armonia unica ed indivisibile. Pur nel paradosso della frammentarietà, Pessoa riesce a uniformare le visioni più forti e i sogni più deboli nel gioco caleidoscopico di eteronimie che si fondono sulla carta e nella mente del lettore
QUESTO Dicono che fingo o mento quando scrivo io. No: semplicemente sento con l’immaginazione, non uso il sentimento. Quanto traverso o sogno, quanto finisce o manco è come una terrazza che dà su un’altra cosa. È questa cosa che è bella. Così, scrivo in mezzo a quanto vicino non è: libero dal mio laccio, sincero di quel che non è. Sentire? Senta chi legge.
SO CHE MAI AVRÒ So che mai avrò quel che cerco, e che non so cercare quel che voglio, ma cerco, insciente, nel silenzio oscuro e stupisco di quel che so che non bramo.
BIBLIOGRAFIA • Fernando Pessoa, Il mondo che non vedo. Poesie ortonime, a cura di P. Ceccucci, edizioni BUR Biblioteca Universale Rizzoli, 2009