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Elementi riflessioni – P. Martino, D. Porcheddu C. Calabresi
ELEMENTI riflessioni
L’ESTETICA DEL DISAGIO E IL PESO DELLE PAROLE
Advertisement
di Pietro Martino
L’uso contemporaneo del termine disagio sembra non avere più molto a che fare coi concetti che i dizionari, classicamente, attribuiscono ad esso: difficoltà, angoscia, inattitudine a sentirsi bene all’interno di una situazione. Se pensiamo brevemente ai contesti in cui questa parola compare oggi, ci rendiamo conto che si tratta di un vocabolo usato con facilità, quasi fino a perdere il suo vero senso, per trasformarlo in intercalare, in condimento e colore del discorso.
“Che disagio”, “Sono nel disagio più profondo”, e simili, sono locuzioni molto fortunate nel gergo odierno, basta scorrere le home di Facebook per verificarlo, disagi a destra e manca: in spiaggia, in aula studio, in cameretta e così via. Una lunga galleria di persone che adornano con questo termine la propria vita comune, che poi così disagiata non sembra.
Sarà che in questo disagio, da trucco sbavato e ubriachezza molesta, il giovane d’oggi ci si annega bene, in un certo senso ci gode: perché lo percepisce come un qualcosa di estetico.
Ma come può il disagio essere estetico? Come è diventato una specie di moda decadente, una superficie da indossare in società? Che gusto c’è a farsi vedere ed affermarsi come disagiati?
Ci si sente molto punk, a descrivere il proprio malessere come uno stile di vita, a farlo diventare moda imperante. Ma ci si dimentica che dietro al gesto, dietro al capo d’abbigliamento, ci dovrebbe essere un’idea. Potrebbe andare bene anche un semplice slancio ribelle, forse illuso e stupido, ma sarebbe già qualcosa di più di questa semplice elencazione di motivi di depressione farlocca e autocompiaciuta, che finisce per sotterrare nel marasma della comunicazione le angosce vere di chi magari nel disagio ci si trova per davvero.
Sembra che si possa imputare quest’estetica del disagio alla disillusione degli anni zero, alla malinconica rassegnazione che sembra il maggior prodotto culturale della nostra epoca.
Che produciamo una rassegnazione malinconica e dolciastra sembra dirlo pure la nostra musica, indipendente e non solo, giusto per fare un esempio artistico e meno legato al costume sociale, alle tendenze generali di cui il Web può dare solo proiezioni e frammenti. Ma più che dirlo, in realtà, sembra che la nostra musica partecipi a questo fenomeno.
Spopolano, e basta fare un salto su Youtube per verificarlo, tutti quei cantautori che hanno fatto del senso di estraneità uno stilema ripetuto e ormai canonico: vanno tutti al mare perché nel mare si è più puri; stanno tutti lontani dai luoghi d’aggregazione per non contaminarsi; non ce la fanno tutti a fare la vita che stanno facendo. In definitiva sono tutti, per usare il gergo dei giovani italiani, “presi male”, e in qualche modo contenti di mostrarcelo e cantar-
celo, con innegabile competenza e capacità di mezzi musicali e linguistici, finalizzata a convincerci che questa sia l’unica cosa che si possa ancora dire senza sembrare banali, quando in realtà, ormai, è stato banalizzato pure questo assunto, e da molto tempo fra l’altro.
Uscendo dal contesto musicale, occorre forse precisare che qui non si sta parlando di una specie di contrapposizione fra pessimisti ed ottimisti o fra illusi e disillusi: quello del disagio è un semplice esempio. Qui si sta parlando della facilità con cui un adolescente, oggi, può prendere una posizione e senza nemmeno accorgersene, se è in buona fede, farla diventare una posa, uno stilema, una forma di manierismo che può essere artistico, legato al gusto o esistenziale.
La moda della parola, allora, non si rivela poi così diversa da quella dell’abbigliamento, da quella della musica e di tutto il resto: si tratta sempre di un fenomeno che schiaccia il circostante, di qualcosa che impacchetta la volontà dell’individuo, soprattutto se esso non ha sviluppato i mezzi per porre una propria resistenza, che deve essere fatta, presumibilmente, di coscienza critica.
Tornando infine al vero tema di questo articolo, una nota di costume, occorre dire che senza dubbio gli ultimi anni sono stati ricchi di disillusione e che hanno contribuito a creare il fenomeno di cui stiamo parlando; ma questa estetica del disagio può essere vista come una delle tante derive del nostro sistema d’informazione e comunicazione, sistema che fomenta la moda stessa, e della moda, qualunque essa sia, si nutre come una pianta carnivora, senza alcun interesse per ciò che essa può significare, ma solo per ciò che può veicolare in senso economico.
Anche il linguaggio viene usurato dal sistema in cui ci muoviamo: le parole sono sempre più simili agli oggetti, significano sempre meno. In questo processo che pare irreversibile, l’unica alternativa, l’unica forma di resistenza, sembra essere un quotidiano sforzo di peso delle parole e dei significati che esse veicolano, per non scivolare nel magma indistinto della comunicazione di massa, dove anche il disagio è diventato una moda estetica
ELOGIO ALLA SPALLA
di Diletta Porcheddu
Tutti amano i geni.
Nella vita reale, in letteratura, nelle serie tv, siamo tutti inesorabilmente attratti da quel personaggio che seppure spesso sia scorbutico, irrazionale, a volte persino incosciente, con un guizzo improvviso rende la realtà meno ordinaria, presenta punti di vista totalmente nuovi su un argomento, risolve problemi considerati insormontabili da noi comuni mortali.
Così eccoci là, trasportati nel vortice del suo magnetismo, del suo inusitato carisma, incapaci di uscirne, di disintossicarcene, come forse razionalmente vorremmo. E quindi ci ritroviamo relegati, come il naturale ordine delle cose impone, al vecchio e inflazionato ruolo della spalla, adoranti spettatori di qualcuno che riteniamo troppo superiore a noi per poter solo immaginare di porci al suo stesso livello. Ma è
davvero un destino così infame?
C’è chi dice che la spalla sia una necessaria controparte del protagonista, senza la quale egli stesso non potrebbe esistere, o quantomeno sopravvivere, in un mondo che secondo la sua prospettiva “non è alla sua altezza” o “non è in grado di capirlo”.
In effetti, chi sarebbe Sherlock Holmes senza la spalla con la S maiuscola, il fido dottor Watson? Sempre un genio, senza dubbio, ma probabilmente sarebbe morto di overdose sulla sua poltrona del 221B Baker Street, pianto dalla sua landlady Mrs Hudson, ma sconosciuto al resto del mondo.
La spalla in molti casi fa da tramite tra la realtà del genio e la vita reale nel tentativo di farle combaciare e quindi di creare una versione del genio più “socialmente accettabile”. Ovvero più incline ad accettare quelle convenzioni che, sebbene percepite come irrazionali, gli permettono di coltivare le relazioni personali necessarie alla migliore (e più proficua!) espressione delle sue qualità.
Chi opera in questo modo è per esempio il colonnello Pickering, amico del signor Higgins nel Pygmalion di George Bernard Shaw. Higgins è un uomo che, sebbene intelligentissimo, è incapace di trattenere il suo tagliente sarcasmo e perciò spesso maltratta la sua cliente Eliza Doolittle, la quale si è rivolta a lui per imparare i modi di una lady dell’alta società. Essa è invece convinta a perseverare per raggiungere il suo obiettivo proprio dai modi da gentleman del non brillante ma empatico colonnello Pickering. Inoltre, la riluttanza del genio a entrare in contatto con la società si risolve spesso nella sua solitudine a livello affettivo, mentre la spalla, nonostante il rapporto simbiotico e di adorazione che ha con la sua controparte, è quasi sempre coinvolta in una relazione sentimentale, a sottolineare il suo ruolo più “sociale”. Ne sanno qualcosa le numerose fidanzate di Watson, o le ben tre ex mogli del Dr Wilson (Dr House – Medical Division).
Ovviamente essere una spalla non porta solo vantaggi, anzi, ma spesso causa una buona dose di malcontento.
La spalla si trova infatti ad essere messa in ombra dal fuoco che il protagonista a tratti sprigiona, così forte da mettere in secondo piano la costanza di chi, negli anni, quel fuoco lo ha alimentato e protetto. Solo un tipo “umano” come il buon Samwise Gangee, ciecamente fedele al suo Padron Frodo, può restare immune da una naturale invidia, non certamente un rosso di temperamento e di chioma come Ronald Billius Weasley, spesso geloso delle glorie attribuite all’amico Harry Potter.
Se il rapporto del protagonista con il suo sidekick risulta complicato anche quando i due sono una coppia di amici, per di più personaggi di fantasia, molti più fattori sono da considerare quando questa dinamica compare in una relazione tra una coppia reale, anche legata sentimentalmente.
Essere il partner/spalla di un protagonista/genio che dir si voglia è complesso, a tratti estenuante, logorante, persino se si è un fine intellettuale di buona famiglia come Leonard Woolf, marito nonché editore della famosa scrittrice Virginia. Trattare con una genialità così estrema, totalizzante e disperata si rivela il viaggio di una vita intera (l’autobiografia di Woolf si chiama, appunto, The Journey). Il rapporto tra i due è analizzato, o per meglio dire ricostruito, da Michael Cunningham
nel suo The Hours (1998), rifacimento in chiave moderna del celebre Mrs Dalloway della Woolf. Cunningham intreccia in esso il racconto del suicidio della scrittrice, la storia di Laura Brown, insoddisfatta moglie anni ’50 e quella di Clarissa, ex amante di Richard, un poeta ora malato di AIDS.
Proprio Clarissa, pensando al suo particolare rapporto con l’amore perduto a cui ha fatto e continua anche nei suoi ultimi giorni di vita a fare da “spalla”, durante una passeggiata a Central Park pronuncia la se-
IKEBANA
di Claudia Calabresi
Il giardiniere che cura i suoi fiori per anni si stupisce, ma non troppo, quando una mattina trova in mezzo ai gerani il bocciolo di una rosa selvatica. Prima o poi sarebbe successo, la successione ordinaria e testarda delle sue piante richiama infine il miracolo: l’ispirazione. Se Gabriel Garcia Marquez inventa Macondo, il villaggio al centro del suo romanzo Cent’anni di solitudine, e la favolosa storia dei Buendìa, questo è perché per tutta la sua vita osserva minuziosamente i dettagli del mondo che lo circonda cogliendone grandi e piccole cose. Così, dopo interminabili osservazioni della vita quotidiana, un giorno il nostro scrittore si sveglia, si alza e va in cucina a prepararsi un caffè; ma quando sta per berlo, ecco finalmente la folgorazione: un’Amaranta intenta a chiacchierare con Pietro Crespi nella veranda, o un colonnello Aureliano che disfa l’ennesimo pesciolino d’oro rinchiuso nella stanza di Melquiadès. Tutto questo, magari, avviene anche più di una volta e le tazzine si accumulano irrimediabilmente sul bancone della cucina. guente frase: «In questi giorni si valutano le persone prima di tutto per la loro gentilezza e capacità di devozione. Ci si stanca, a volte, dell’acume e dell’intelligenza».
Una frase che è stata probabilmente coniata dall’autore per la sua aderenza con la storia dei coniugi Woolf, ma che sembra applicabile a quella di tante altre spalle, letterarie e non. E che, in fondo, rassicura quelle reali del fatto che i loro sforzi prima o poi saranno riconosciuti da chi di dovere
Un processo alla Sei personaggi in cerca d’autore, tanto per intenderci: l’improvviso picchiare del cuculo contro l’albero inerme di Marquez.
Ed ecco, allora, un libro che è a un tempo favola e manuale, i cui personaggi sembrano vivere di vita di propria. Nugoli di farfalle gialle, tappeti volanti e spiriti errabondi circondano un’enciclopedia umana di rara ricchezza, accentuandone, anziché annebbiare, grandezze e debolezze, ma soprattutto restituendone fedelmente ogni più piccola sfaccettatura. Se il punto cardine del romanzo può essere individuato nel nascere e nell’appassire di una stirpe segnata dal peccato originale di incesto, “nel mezzo c’è tutto il resto”, come direbbe Fabi, “e tutto il resto è – giorno dopo giorno – […] costruire”. Pars costruens e destruens dell’essere umano volteggiano in un romanzo che riproduce in una sintesi niente affatto riduttiva il corso intero della storia umana e della vita di ogni individuo: un’armonia di contrari che farebbe sognare Eraclito e soddisfa il botanico, la storia di
un albero genealogico che racchiude in sé le foglie di tutti gli altri. L’energia esplosiva dei José Arcadio, la caparbietà taciturna degli Aureliano e il potere esoterico e di volta in volta peculiare delle donne di Cent’anni di solitudine si fondono in un’antologia di tipi umani che diventa erbario grazie a una penna che sa tratteggiare in ugual misura odori, suoni e colori dell’esistere: il lettore si addentra nei meandri di una casa dove il vero peccato, dopotutto, è l’impossibilità dell’uomo di condividere realmente la propria vita con qualcun altro. La solitudine è forse, per Marquez, lo stato primigenio e ultimo dell’uomo, qualcosa da cui né il progresso né l’ostinato ritorno a una vita primitiva possono salvarlo: è solo lo Jose Arcadio-albero, ormai incapace di comunicare con chi lo circonda, relegato in giardino; solo Aureliano Secondo, che divide la sua vita tra moglie e amante e vuole far studiare sua figlia a Bruxelles.
E il resto del villaggio? Macondo non può che piegarsi alle misteriose forze che dalla dimora dei Buendìa investono tutti gli altri cittadini: non a caso, i personaggi di rilievo esterni alla famiglia acquisiscono reale consistenza soltanto entrandone a far parte, e in maggioranza sono donne toccate dalla follia o dalla disgrazia che proprio per questo riescono a inserirsi nell’universo solitario della casa – un esempio su tutti: Rebeca, che si presenta alla porta di Jose Arcadio e Ursula con le ossa dei genitori in un sacco, orfana e divoratrice insaziabile di terra e calcinacci. I non-Buendìa – certo per volere dell’autore e non per sua dimenticanza – sono poco più che sagome ammiccanti o ignare rispetto alle insidiose leggi magiche di Macondo, demoni e ombre. In questo, forse, Marquez ha voluto che l’occhio del lettore coincidesse con quello dei Buendìa nel non riuscire mai veramente a osservare con interesse l’evoluzione del villaggio: la famiglia è totalmente ripiegata su se stessa e sulla propria maledizione e chiunque provi a cercare legami esterni viene prontamente punito o riportato sulla “retta” via dagli altri membri, spesso in modo violento. La casa ariosa e piena di vita chiude un’imposta dopo l’altra, mano a mano che ogni legame con l’esterno diventa sempre più labile e difficoltoso.
Per Marquez – alla luce di queste considerazioni è facile supporlo – l’incesto è il metaforico sintomo di una solitudine che, più che stato psicologico e fisico, assume in questo romanzo i tratti di un’estenuante malattia degenerativa che induce l’uomo a risolversi soltanto in se stesso o in chi condivide il suo sangue (e pertanto è, in qualche modo, pur sempre parte di lui), regredendo a un claustrofobico sistema tribale in cui la famiglia è l’inizio e la fine dell’individuo.
Neanche il diluvio biblico che investe Macondo e prosegue per “quattro anni, undici mesi e due giorni” riesce a purificare una famiglia – tribù destinata allo smarrimento esistenziale a causa del suo rifiuto nei confronti della realtà extrafamiliare, ma soprattutto non vi riesce l’amore, quasi a dimostrare che il sentimento dell’uomo solitamente considerato come il più puro e incondizionato non è che un’illusione destinata a piegarsi su se stessa ai primi rintocchi del gelo. Così che alla fine, del meraviglioso Eden in cui si diffonde il seme dei Buendìa, rimane un bambino con coda di porco e un rotolo di pergamene profetiche ormai decifrate, pochi istanti prima che un uragano porti via ciò che resta di cent’anni di solitudine