Fischi di carta
Febbraio 2013
Poesia di cinque giovani fischianti
Editoriale
Sono fermamente convinto che quello di “poeta” non si possa definire un mestiere: è sufficiente rivolgersi alla storia della letteratura per comprendere che si tratta, piuttosto, di una condizione esistenziale. E, mi sento di aggiungere, la condizione forse più complessa che si possa concepire. Complessa perchè volontariamente schizofrenica, spontaneamente ed ineluttabilmente sull'orlo del precipizio; ma è, dev'essere proprio sporgendosi a guardare nella profondità di quel burrone che chi scrive deve perdere il proprio respiro, per farsi inondare da ciò che vede, fuori e dentro di sé. Il pericolo è costante, costante è la paura di cadere, il rischio di perdere sé stessi lungo la strada è presente come un'ombra che incombe: nel descrivere la realtà esteriore, ci si può trovare a smarrire la propria interiorità, oppure al contrario, per l'impulso di dar voce con l'inchiostro al proprio inconscio, ai propri sogni e incubi, è facile perdere di vista il resto della realtà, dimenticandola. Come poeta, questa è la mia condizione. Spinte contrastanti, impulsi che sembrano annullarsi tra loro, agiscono sulla mia penna, in tutto simili ai due poli di un magnete. Questa coesistenza di opposti accompagna me e ciò che scrivo fin dall'inizio, e fin dall'inizio la domanda che sorge è apparentemente semplice: che cosa significa essere poeta,
scrivere poesia? E, ancora prima: si può “diventare” poeti? Da questi interrogativi discende la mia riluttanza nel fregiarmi di alcun titolo, e specialmente di quello di poeta. La poesia è un'attitudine nei confronti della vita, prima di essere scrittura: allo stesso modo in cui non è vero, ai miei occhi, che chiunque componga versi sia poeta, così un poeta può celarsi dentro e dietro ognuno di noi, di voi, anche se di comporre versi non avete nemmeno l'ombra dell'intenzione. L'unica differenza reale tra me e chiunque pensi o viva con indole “poetica” è che, per natura, io sono portato a trovare, in ogni momento, il coraggio per fissare nella scrittura ciò che vedo con i miei occhi, essendo consapevole che non si tratta di occhi qualunque. Sono occhi allenati e versati nell'arte della vista poetica, periferica fino all'estremo; occhi che non possono fare a meno di vedere il mondo da un'altra prospettiva. Ed è qui che sta la soluzione, la sintesi degli opposti che “creano” un poeta: sono proprio quegli occhi ad essere il tramite, l'anello di congiunzione e il collegamento costante tra i due poli del magnete, l'interiorità e l'esteriorità. Compito mio, compito nostro, per non cadere nell'ipocrisia o nella banalità (fantasmi per eccellenza di chiunque abbia l'intenzione di “creare”), è mantenere, per quanto è possibile, l'equilibrio tra le due spinte. Siamo, con il
nostro bagaglio interiore, fatto di pensieri e di emozioni, simili a filtri, a spugne: assimiliamo la realtà, vivendola, e dal viverla non possiamo sottrarci, per non ritrovarci soli, persi nei nostri abissi, per dare ai nostri abissi un senso. La poesia, così, non è altro che il mondo che passa l'ispezione del metal detector della nostra anima: si tratta non solo di restituire, sotto forma di versi, la vita come noi la interpretiamo e la viviamo, ma di plasmarla, quella vita, lasciando il nostro segno. Chiunque ha il diritto di influenzare e cambiare il mondo, in quanto di chiunque il mondo è la casa: dunque, perchè noi non dovremmo, a modo nostro, riarredare la nostra casa? E' esattamente ciò che facciamo, come Fischianti. Il nostro Fischio non ha una direzione unica, è rivolto a noi stessi, come a tutti gli altri, fuori, a tutti coloro che decidano di raccoglierlo, come provocazione, come sorriso, come urlo, come fiotto di lacrime. Abbiamo accolto il mondo dentro di noi, per renderlo più puro, più vero, meno statico nell'era della stabilità indotta, per togliere dal suo volto il sorriso ebete nell'era della felicità televisiva; da parte nostra, al mondo abbiamo regalato la nostra rabbia e il nostro amore, facendo camminare i nostri demoni sulle sue strade, senza più maschere.
Emanuele Pon
Numero 3 “
”
La Superficie
Tutta la notte, sola, sei stata qui con me. Con me, a scivolare sulle nostre vite lisce. Abbiamo camminato nella polvere, vicini e lontani, respirato il luminoso veleno del buio intorno a noi: polvere fuori e dentro, tagliata da luci fetide, ciechi, siamo caduti su rocce smussate, caldi falsi ricordi di liquori amari e violenti cosparsi del miele che cola da sorrisi irreali. Abbiamo invocato l'odore del sangue della verità: sempre, polvere a tagliarci il fiato, eterna, pesante gialla ruvida sabbia scorre nelle nostre vene secche.
In quel grigiore terrestre, ammattito, ci siamo mossi mano nella mano, senza sentirlo, non un sussurro: soltanto solitari barlumi di buio accogliente tra elettriche luci oscure, accecanti di bianco come pallidi neon ronzanti ci separavano, muti, ci rapivano.
In quel deserto sul cemento e sull'acciaio abbiamo ucciso sogni, avvelenato illusioni; abbiamo brancolato nella tempesta di luce di quei cento, mille sguardi, opachi cocci di bottiglia. Abbiamo scagliato manciate di dadi truccati contro le smorfie diverse del destino, del futuro, amati nostri eroi, le ossa dei supermarket; e il neon ronzava ancora, rideva a crepapelle. Per tutta la notte, in lacrime ci siamo specchiati nel sonno eterno di scheletri luminosi, ladri d'anime carichi di neve tremolante; persi in quella falsa buia profondità, precipitiamo nel fast food dei nostri eterni abissi.
Ci siamo abbracciati senza toccarci mai nel caldo respiro dei nostri monolocali, nella compassione triste delle missioni di pace, nel dolce tocco della ricchezza, profumo di carta vecchia: ci siamo abbracciati senza volerlo, stanotte. Abbiamo fatto un amore ubriaco d'odio; sudore, solo sudore freddo dentro di noi, bestie ansimanti, vermi al servizio del tempo. Insieme, tutta la notte abbiamo sguazzato nel canticchiante danzante fango del mondo, ora ci avvolge, ci soffoca, ora ci rende liberi. Per tutta la notte, ci dicono, abbiamo vissuto. Vieni quaggiù con me, aspetta insieme a me l'alba.
Emanuele Pon
Fischi di Carta
2
Timidamente
Tiepido osservo ancora Il viso d’un cuore acerbo Tenuto col fiato sospeso, Piccolo scrigno in grembo.
Vorrei tornare Nel baratro del pensiero Vorrei navigare Nel piccolo d’un veliero
Ed ormeggiare nel mistero Del soffio che da la vita. Cresce nel sogno il vero D’essere a letto.
Affianco labbra riposano Pregne di calore E negl’occhi suoi Appena schiusi
Dipingo la dolce illusione Che pensavo vera. Vorrei che col primo raggio Legassimo ancora timidamente
E nel vuoto dello spazio Incontrassimo ancora Quel sogno tenero Ora inattuabile.
Andrea Pesce
Cercami
Cercami di notte Mi trovi in disparte Mi rilasso fra le curve. Mangio parte di me E doppio le ore del giorno Spento ma sveglio Attendo l'alba Cercando quel me Che giace in te.
Andrea Pesce
Fischi di Carta
3
συχίαἨ
Vorrei esser la rugiada che bagna d'azzurro i tuoi occhi imbevuti nella luce di questo limpido mattino
Alessandro Mantovani
L'Orizzonte
Giallo, rosso, verde e ancora giallo sono i colori che m'insegnasti a vedere per mezzo dei quali migliorare il mondo, ma nulla valeva più del tuo sordido bianco e dell'arcobaleno del tuo riso.
Rosso, giallo, chiaro e ancora scuro; solo i colori dell'autunno sento vividi in un me stesso stanco e sbiadito, sciolto nel tentativo fallito di darsi un senso giorno per giorno.
Verde, rosso ma ormai in grigio vedo nella mia solitudine scolorare la realtà. I colori della mia resa sono quelli che trovo dove l'anima mi pesa.
Alessandro Mantovani
Notturno #7
Questa sera non verrai nell'ora in cui il mio sospiro lento giace solo. Questa sera lascerai il mio incolmabile vuoto riempirsi della notte nera. Questa sera nemmeno sul cammino
fatto di sentier lugubri e bui vedrò il colar di stelle in stuolo che sul mar di sogni mio insondabile sciolgon le paure come la cera quando, mioAmore, mi stai vicino.
Alessandro Mantovani
Fischi di Carta
4
Morte di dolore
Ho sentito di persone Morte di dolore. Re, papi, principesse Cui il cuore
In petto procombe Di luminoso pianto E si spegne il sangue vorticoso. Questo leggo nei libri Di storia o romanzi, Nelle fragili membra,
Sorrette soltanto da solenni Silenzi e forze commoventi, Sensazioni senza fine.
Ho sentito di persone Morte di dolore, Se ne sono andate Per un dissapore, Anch'io provo la morte Talvolta per qualcosa, Vertigine al contrario, Come se dovessi ribaltarmi Nel cielo, precipitare per sempre In un cosmo qualunque.
Ma poi affondo le dita In una zolla di notte, Nell'oscurità sicura.
Allora ripenso al dispiacere, Al tremore che sorrise, Alle agre parole Che in me s'intinsero
Come una penna affilata Nel calamaio
E mi chiedo cosa più conta Cosa ormai più sento... Forse pace, chiara violenza, E dolci raffiche di vento.
Silvio Magnolo
Fischi di Carta
5
La compagna
I
La Solitudine giunge con passo elegante; la osservo: è seduta su una seggiola vuota da cui mi scruta con occhi vivi ed espressione impietosa. Avolte alza una mano che poggia sulla mia nuca accompagnandomi il capo fin dentro le mani. Non mi dispero: solo provo l'emozione del vuoto ed io nel centro, e mi sento lacerare il petto, un po' come l'amore. Ho gli occhi aperti e nella luce che filtra io rifletto: la vita sfianca quanto il singhiozzo del pianto intrappolato nella mente. Ma fuori tutto è distacco; poi chiudo gli occhi ed è solo silenzio. II
Oggi è un altro giorno e lei è ancora qui seduta sulla sedia con le gambe accavallate. Accostandomi al suo corpo reclino il capo lentamente: voglio abbandonarmi col volto nel suo grembo. Ha le mani delicate e sento che ne poggia una sulla testa ed una sulla schiena, quasi con amore. Socchiuso nel suo tocco vivo una realtà di visioni immaginate esperienze non vissute e profonda eternità.
Fischi di Carta
6
D'improvviso sento fuori qualcuno che mi chiama “Federico! Federico!” è la vita a reclamare un diritto su di me ma mi fa sempre paura perciò non m'allontano. Solo mi alzo, guardo attorno, cerco quiete nello sguardo sottile della Solitudine poi poggio la fronte al polso e con gambe accavallate mi risolvo nel silenzio.
III – Solo tu
Gli occhi mi si bagnano di pianto nel momento in cui mi accorgo che dedichi solo a me il tuo calore. Sento il tuo respiro quando posi lievemente le labbra sulle mie, quando le guance si rigano di lacrime che bagnano gli angoli della bocca, socchiusa appena nel rossore del mio viso.
Gli occhi mi si bagnano di pianto quando mi accorgo che questo bacio mi tocca a fondo quanto forse quello di nessun'altra donna.
Oh Solitudine, mia profonda.
Federico Ghillino
Fischi di Carta
7