Fischi di carta 41 (11/2016)

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Genova

Fischi di carta

Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza.

Joseph Conrad, Lo specchio del mare

CROWFUNDING

È iniziata la nostra raccolta fondi online per diventare associazione culturale e registrarci al tribunale di Genova come rivista riconosciuta.

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www.fischidicarta.online
Novembre 2016 n.
• anno 4
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gratuita

EDITORIALE

NOVITÀ

Questo è un editoriale inusuale, di semplice comunicazione: abbiamo due grandi novità che sto per esporvi. Procediamo con ordine.

fischidicarta.online

Come avrete già notato seguendoci su Facebook o guardando la quarta di copertina del cartaceo che tenete tra le mani, il sito internet ha un nuovo indirizzo, accompagnato da uno spirito rinnovato. Abbiamo sempre trattato il nostro vecchio fischidicarta. it soprattutto come un archivio, ora l’abbiamo ricostruito e rivisto perché non fosse più solo quello di prima, ma un nuovo spazio. Sempre fischidicarta insomma, però reinterpretato: con nuove risorse e possibilità per chi già è nel progetto e per chi vorrà entrarvi. Per noi aggirare in primis il limite di battute/parole, croce di ogni articolista; per voi fruire delle potenzialità che offre la rete. Racconti di nuova generazione, poesia aumentata, articoli ipertestuali.

Crowdfunding

Ogni questione burocratica/legale è sempre un grattacapo per chi non ne mastica quotidianamente. Noi per primi. Sappiamo che una rivista è tale solo dal momento in cui viene registrata ad un tribunale. Questioni di firme, carte da bollo e qualche centinaio di euro. Abbiamo dunque deciso di lanciare all’inizio di questo mese una campagna di raccolta fondi online sulla piattaforma Produzioni dal Basso: per diventare rivista, sì, ma anche associazione culturale, così da rendere questi fogli pinzati (che questo mese compiono quattro anni) una realtà riconosciuta. «Vogliamo diventar rivista vera».

Da aggiungere poco o nulla: leggeteci (sul cartaceo ed online) e, se volete, sosteneteci (partecipando alla raccolta fondi). Diteci la vostra e discutiamo, confrontiamoci, cresciamo

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ADRIATICA di Emanuele Pon

S’era qui che si pensava al mare dall’altro lato rispetto al litorale che ci crebbe – è il fiato dell’Adriatico salmastro di palude che lo tocchi a perdita d’occhio o di passo oltre il frangiflutti, oltre i rumori, i passi incerti di tutti i giorni del tempo che abbiamo come venduto al miglior offerente –e senza un come un perché, camminiamo avanti in bilico sulla secca costante della fonda adriatica, cercando la fine

tra il verde e le alghe (il non toccare più, la cognizione del fondale che ci accompagna, tesori come scarti da scandagliare); tu forse la ami la meccanica di quest’acqua strana che almeno non ti sprofonda – io solo spero di discernere, alla fine, un’altra sponda.

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BOTECO

di Alessandro Mantovani

Hanno sussurrato per i bar di San Vitale che non ci avrebbero più visti così ben allineati, anche senza biciclette; che saremmo rimasti a mordere i marciapiedi senza precise gravitazioni.

Io invece ho detto che è solo questione di eventi interstellari il tempo che non possiamo contenere nel continuo oltrepasso dei confini.

Abbiamo dimostrato il primato dell’azione, sgominando i pensatori, tirando con precisione, dritto sul bersaglio.

Ora che la caccia è finita, amico, in quei bar di noi si mormorano mani, si parla di un’unità dispersa tra numeri meridiani e paralleli.

E tutta la notte è una coordinata per tradurre ancora il tempo in parole.

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PLANETARIO

autori

«Tennyson e Browning sono poeti, e pensano; ma essi non sentono il loro pensiero immediatamente come l’odore di una rosa. Un pensiero per Donne era una esperienza; modificava la sua sensibilità». Così T. S. Eliot designa in un lampo la fresca, inimitabile poliedricità dello stile di John Donne (1572-1631) all’interno del suo saggio The Metaphysical Poets (1921). Ed è proprio questo immediato, immortale profumo a raggiungere chi si accosti ai versi di colui che, compagno di taverna di Shakespeare e Ben Johnson sotto il regno di Elisabeth I Tudor, decise di dedicare la propria esistenza intellettuale alla produzione poetica tout court negli anni che vedevano sopraggiungere quella incerta fase di passaggio tra Rinascimento e Barocco ancora oggi definita “Manierismo”. Progressivo scardinarsi di certezze, perdita delle coordinate che l’Inghilterra, prossima al conflitto politico-religioso con la Spagna (del 1588 è la sconfitta di Filippo II) in nome di un’autonomia sempre difesa all’ultimo sangue, realizza in modo particolare rispetto al resto d’Europa, dimostrandosi più incline ad una cultura dall’immediato risvolto pragmatico se pur complesso nella ratio filosofica, luminosa e oscura, evidente e criptica al tempo stesso.

Su questa linea si muove la produzione lirica amorosa di Donne, e soprattutto nella raccolta Songs and Sonnets (1633) com-

prensiva di liriche giovanili e non. In essa si avvicendano varie combinazioni metriche basate sullo “zoppicante” giambo tipico del teatro per la cui irregolarità, secondo Johnson, egli avrebbe meritato l’impiccagione. Se i classici greci e latini restano la base imprescindibile, seguiti subito dallo Stilnovo e da Petrarca, Donne crea un “Canzoniere” dove è proprio la discordia concors dalle poliedriche declinazioni a dominare; all’interno di questa dimensione trovano posto concetti “metafisici” espressi tramite un wit (arguzia, facezia) già tipico dell’humor che, proprio degli inglesi, sarà tanto amato da Wilde e dai suoi successori. Ecco allora avvicendarsi testi come The Flea, dove l’ardita struttura “demonstrativa” si gioca su una pulce nelle cui punture il sangue degli amanti si mescola e uccide al tempo stesso, oppure The good-morrow, dove il buongiorno degli amanti suggella il reciproco amore, l’uno nello specchio degli occhi dell’altro come i due complementari emisferi terresti, rinnovando tale promessa ogni mattina. Ad essi si contrappongono l’ortodosso libertinismo di The indifferent in cui l’amante insaziabile giustifica, col beneplacito di Venere, il suo diritto di essere libero e svincolato beffandosi degli “eretici fedeli” o la truce e sanguigna atmosfera di The apparition, dove il fantasma dell’amato tradito ritornerà durante l’amplesso della donna col nuovo uomo. Le strutture formali della

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tradizione, molte delle quali prevedevano un accompagnamento musicale, vengono variate in libertà per consentire uno stile adatto alla poliedricità di arditi giochi lessicali e letterali, doppi sensi, sdoppiamenti di personalità, dialoghi immaginati e immaginari che spesso ribaltano il senso del testo, iperboli troncate, ardite architetture ragionativo-filosofiche. Le metafore di viaggio, così come le similitudini dal mondo quotidiano o dalla natura, si rivelano, accanto ad oggetti/concetti simbolo – preludio di quel “correlativo” che vedrà la propria piena realizzazione nel Novecento con Eliot e Montale, Savinio e De Chirico – veicoli privilegiati di questa poetica. Emerge così uno stile donniano protobarocco dove il concettismo fine a se stesso, così caro in Italia ai coevi Marino ed Achillini, viene respinto in nome di una volubile filosofia che ben può essere sintetizzata in ambito visivo dal precocissimo dipinto degli Ambasciatori di Hans Holbein (1533). Nel dipinto in questione, infatti, l’universo della cultura, dei viaggi, delle scoperte è rappresentato dai tangibili oggetti, dove, a mo’ di disco volante lanciato sulla scena, compare il teschio del memento mori a cui lo stesso Donne guarderà dopo la scomparsa dell’amata moglie Anne, il rifiuto quasi totale delle opere giovanili e la conversione al Protestantesimo con l’assunzione dei voti; ne è testimone l’ultima parte della sua produzione poetica, in particolar modo l’ultimo sermone pronunciato il 25 febbraio 1631, un mese prima della morte, poi pubblicato postumo con il titolo di Death’s Duell.

IL SOGNO (THE DREAME) di John Donne

Caro amore, per niente di meno che te Avrei interrotto questo felice sogno; era un tema per la ragione, troppo forte per la fantasia, perciò saggiamente mi hai svegliato; tuttavia il mio sogno non l’hai interrotto, ma continuato. Tanto tu sei verità, che bastan pensieri di te Per fare i sogni verità e le favole storie vere; entra tra queste braccia, poiché se hai creduto meglio che non sognassi tutto il mio sogno, mettiamo in atto il resto.

Come un lampo o una luce di candela I tuoi occhi, e non il tuo rumore, m’hanno svegliato; tuttavia ti ho creduta (poiché tu ami la verità) un angelo, a prima vista; ma quando ho visto che vedevi il mio cuore e sapevi i miei pensieri, ben oltre arte d’angelo, quando hai saputo cosa sognavo, quando hai saputo quando l’eccesso di gioia mi avrebbe svegliato, e sei venuta allora, devo confessare che non poteva che essere profano il pensarti altra cosa che te.

Il tuo venire e restare han mostrato te, te Ma l’alzarti mi fa dubitare che ora Tu non sia tu. È debole quell’amore in cui è altrettanto forte Il timore; non è tutto spirito, puro e ardito, se si mescola a timore, vergogna e onore. Forse, come le torce, che devono essere pronte, vengono accese e spente, così tu fai con me; sei venuta ad attizzare, te ne vai per venire; sognerò dunque quella speranza ancora, ché altrimenti morirei.

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L’INDIFFERENTE (THE INDIFFERENT) di John Donne

Io posso amare sia la bionda che la bruna, lei che l’abbondanza sceglie, e lei che l’indigenza tradisce, lei che ama la solitudine, e lei le mascherate e le commedie, lei allevata in campagna, e lei in città, lei che si fida, e lei che mette alla prova, lei che lacrima sempre con occhi come spugne, e lei che è sughero secco e mai non piange; io posso amare lei, e lei, e te, e te, io posso amare ognuna, solo se fedel non è.

Nessun altro vizio vi accontenterà?

Non vi servirà fare a vostra volta come fecero già le vostre madri?

O avete consumato tutti i vecchi vizi, e altri ora ne cercate?

O vi tormenta un timore, che gli uomini sian fedeli?

Oh, non lo siamo, e non lo siate voi. Ch’io ne conosca venti, e voi altrettanti. Rapinatemi, ma non legatemi, e lasciatemi andar via. Devo io, che venni a viaggiarvi dentro, diventar vostro suddito fisso perché siate fedeli?

Venere mi udì sospirare questa canzone E, per la Varietà, la più dolce qualità dell’amore, giurò Di non averla mai finora udita, e che mai più dovesse Esser così.

Andò, indagò, e presto ritornò e disse: «Ahimè, ce ne sono due o tre laggiù, poveri eretici in amore, che pensano di stabilire una costanza pericolosa, ma a loro ho detto, dacché volete essere fedeli, fedeli sarete a quelle che infedeli vi saranno».

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LA PULCE (THE FLEA) di John Donne

Basta che osservi questa pulce, e osserva in questo Quanto sia poco quel che tu mi neghi; me ha succhiato per primo, e ora succhia te, e in questa pulce è mischiato il nostro sangue; tu lo sai che ciò non si può chiamare peccato, o vergogna, o perdita di verginità, eppure questa gode prima di corteggiare, e, satolla, s’inturgida di un sangue fatto di due, e questo, ahimè, è più di quanto noi faremmo.

Oh, férmati, risparmia tre vite in una pulce, dove noi siamo quasi, anzi più che sposati: questa pulce è tu e io, e questo è il nostro letto nuziale, e tempio nuziale; se recalcitrano i genitori, e tu, noi siamo congiunti e claustrali in questi viventi muri di giaietto1. Pur se l’uso ti rende atta ad uccidermi, non lasciar che a questo si aggiunga il suicidio, e il sacrilegio: tre peccati nell’ucciderne tre.

Crudele e avventata, hai nel frattempo Imporporato la tua unghia nel sangue dell’innocenza? Di che cosa poteva aver colpa questa pulce Se non di quella goccia che da te aveva succhiato? Eppure tu trionfi e dici che non trovi più deboli ora né te, né me: è vero, impara allora quanto sono false le paure; proprio altrettanto onore, quando mi ti concederai, sarà sprecato, quanto la morte di questa pulce di vita ti ha privato.

1 Lignite nera, termine all’epoca indicante anche un tipo di marmo.

BIBLIOGRAFIA

• John Donne, Poesie, a cura e con traduzione di Alessandro Serpieri e Silvia Bigliazzi, Milano, BUR, 2015

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LE POESIE DEI LETTORI

POESIA SENZA TITOLO di Luca Ventura

ma che bella eredità scivola nelle le mie mani un cielo viola, violato da antenne, scie, luminarie e in mezzo, mezzo affogata in questa via lattea rancida una luna andata a male come una mozzarella blu ma che bella umanità con la sua striscia di lumaca: un lascito di rifiuti ai lati d’ogni carreggiata.

il bicchiere mezzo vuoto e il ghiaccio che si scioglie la vigna delle nubi devastata dalla botrite ma che bella eredità come posso rifiutare come posso rifiutare no, davvero, come si fa?

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ELEMENTI

GOTICO ITALIANO di Martina Podestà

Era il 1764 quando usciva Il castello di Otranto di Horace Walpole, primo romanzo gotico della storia che ebbe il merito di dare avvio alla narrativa dell’orrore: da metà Settecento un esercito di fantasmi, vampiri e scienziati pazzi invase la letteratura mondiale.

Nel corso dei secoli, però, l’Italia sembrò resistere con forza a questa invasione; escludendo le influenze gotiche di alcune opere degli Scapigliati, e i romanzi di autori come Mistrali e la Invernizio, nell’Ottocento questo genere ebbe ben poca presa sugli autori italiani.

La situazione nel Novecento non sembra cambiare; il racconto dell’orrore è prerogativa di divertissement isolati, e sebbene alcuni scrittori – come Mario Soldati nelle sue Storie di spettri – affrontino temi tipicamente gotici, le influenze orrorifiche per lo più si limitano a fare da sfondo nei capolavori di Landolfi, o nei racconti del mistero di Buzzati.

È solo negli anni Novanta che la letteratura di genere – in particolare quella dell’orrore – fiorisce: nel 1994 un gruppo di scrittori e registi si riunisce attorno alla figura di Dario Argento creando il gruppo neo-noir, che si proponeva di trasferire le atmosfere sanguinose dei film di Argento in racconti fulminei, crudi, in cui protagonisti non sono fantasmi e vampiri bensì serial killer.

riflessioni

Ci troviamo in presenza della negazione del genere giallo: non esiste alcun detective, non c’è giustizia; ogni atto, anche il più terribile, resta impunito. Ciò che importa a questi autori è descrivere l’ondata di violenza immotivata che aveva sommerso l’Italia in quegli anni, l’immaginazione degli autori si intreccia ai più neri fatti di cronaca.

Nel 1996, invece, Einaudi lancia sul mercato un’antologia che farà da spartiacque alla narrativa horror successiva, Gioventù cannibale, che vedeva in Ammaniti e Nove i principali esponenti. Centrali, nei loro racconti, branchi di giovani instupiditi dalla televisione e dalla pubblicità, figli di papà annoiati che usano la violenza come un’alternativa alla solita serata di svago. La crudeltà è talmente spinta da diventare grottesca; un umorismo caricaturale nei confronti dei personaggi creati permea tutti i lavori di questi autori.

La corrente neo-noir e quella Cannibale hanno in comune l’assenza dell’elemento soprannaturale: a terrorizzare non sono creature immaginarie ed oscure, ma la follia di persone che potremmo incontrare tutti i giorni.

Che fine ha fatto allora l’horror soprannaturale, popolato di mostri e

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creature immaginarie, all’interno della narrativa italiana?

L’orrore soprannaturale non è sparito, è relegato ai margini della letteratura, affidato per lo più a riviste e siti specializzati, o annidato nelle opere minori di alcuni autori: nei racconti di Lucarelli, molto meno conosciuti dei romanzi, troviamo fantasmi assassini; domestiche con poteri stregoneschi, ombre demoniache; ci troviamo di fronte a racconti che potrebbero essere inseriti in una raccolta di novelle dell’orrore del Novecento come Horroriana, edita da Mondadori.

È tuttavia nei racconti di un altro autore, Eraldo Baldini – altro giallista che fa incursione nell’horror, come il collega Lucarelli – che ci troviamo davanti ad una mitologia del terrore del tutto nuova e italiana; le atmosfere sono quelle agresti dei campi e dei boschi della Romagna in cui i bambini si muovono con le loro biciclette inseguiti dalle creature della leggenda: nascosta nella nebbia c’è la terribile Borda che «con una corda e con una legaccia, prende i bei bambini e poi li ammazza; con una corda di canapa rozza, prende i bei bambini e poi li strozza». Certo, abbiamo anche elementi classici come fantasmi, o animali indemoniati, ma nei racconti di Baldini tutto è rielaborato e filtrato in un’ottica italiana, rurale. Protagonisti sempre i bambini; terrorizzati o crudeli, vittime o carnefici: la descrizione dell’infanzia come periodo di scoperta delle proprie paure, di conoscenza del male, è, come nei racconti di King, fondamentale. Anche l’ambientazione scelta dai due autori è molto simile; siamo in paesini di

provincia in cui il tempo sembra essersi fermato, in cui i bambini si muovono in comitiva, ai margini dei boschi, imbattendosi nel nuovo, nel diverso: la Romagna di Baldini è il Maine di King.

Baldini ha creato un nuovo genere, quello del Gotico rurale (dal titolo di una sua raccolta di racconti): ha creato quindi qualcosa di nuovo partendo da elementi e spunti dell’horror classico. Molti altri autori italiani, come Valerio Evangelisti o Michele Mari hanno saputo intrecciare l’horror ad altri generi e rielaborarlo in un’ottica personale, creando ibridazioni del tutto originali: questo genere in Italia resta però emarginato ad un pubblico di soli appassionati, non conosciuto, nascosto nell’ombra, come i fantasmi da cui muove i primi passi

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OGNI ADOLESCENZA COINCIDE CON LA GUERRA di Diletta

Porcheddu

Il periodo della vita che va dai 13 ai 19 anni è forse soggetto del più grande numero di luoghi comuni che siano mai stati creati dal linguaggio umano. Rivaleggia solo con il tempo, ma vince al fotofinish grazie a definizioni come “Gli anni dello sviluppo”, “Una fase di transizione” o la più utilizzata di tutte: “Gli anni più belli”.

Forse non tutti saranno d’accordo con quest’ultimo giudizio sugli anni dell’adolescenza; tuttavia, ci sono oggettive ragioni per considerarli quantomeno come i più interessanti, sia a livello psicologico che soprattutto sociale.

Ed è appunto questo il motivo per cui la sensibilità di molti artisti ne è stata affascinata a tal punto da renderli il centro della loro attenzione; i primi anni del Novecento tedesco, in particolare, sono stati il fulcro di alcune delle migliori opere sull’adolescenza del secolo.

Che gli scrittori del periodo, vivendo il cruciale passaggio tra due secoli diversissimi tra loro, caratterizzato da estrema incertezza e timore per il futuro, abbiano avuto reminiscenze di un momento della loro vita in cui, in piccolo, le sensazioni erano state le stesse?

Questa è una teoria come un’altra, ma indubbio è che i romanzieri tedeschi, con le loro svariate opere, abbiano saputo trattare il tema con una profondità rara, ai limiti del filosofico.

E parliamo sia di libri conosciutissimi come il Siddartha di Herman Hesse (1922), romanzo simbolo dell’adolescenziale

ricerca di se stessi, sia di altri ugualmente belli ma meno conosciuti dal grande pubblico, come Il giovane Törless di Robert Musil (1906).

Törless è un ragazzo dotato di una spiccata sensibilità che studia in un collegio militare asburgico. Il romanzo si concentra particolarmente sulla sua vita interiore, ed egli appare sempre come spettatore esterno dei tragici eventi che lo vedono coinvolto.

Egli ne diventa partecipe solamente quando, bisognoso di sfuggire alla sua onnipresente «noia», è alla ricerca della «seconda vita delle cose», la quale in realtà non si rivela essere altro che la ricerca di se stesso portata avanti in modi molto diversi tra loro, per esempio studiando Kant e i numeri immaginari in matematica, ma anche soddisfacendo segrete pulsioni.

Per contro, uno dei momenti più interessanti del libro è il paragrafo in cui ci viene concessa un’occhiata alla vita del Törless adulto: egli liquida quelle che prima gli sembravano domande importantissime, fonti di infiniti turbamenti e angosce notturne, con le parole «una piccola dose di veleno, per togliere all’anima una salute troppo tranquilla e sicura».

È evidente come Musil, che scrisse questo romanzo mentre studiava psicologia sperimentale a Berlino, abbia colto perfettamente l’essenza effimera, la caducità del particolare stato d’animo che accompagna l’adolescenza, in fondo il motivo dell’atavica incomprensione tra

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chi quel periodo lo sta vivendo e chi l’ha già superato.

C’è anche però chi invece non riesce a dimenticare così prontamente le proprie turbe adolescenziali, ed è destinato a ritrovarle nella vita adulta, in negativo o in positivo.

Decisamente negativo è il resoconto di Franz Kafka, che nella sua Lettera al Padre (1919) racconta di come il cattivo rapporto che aveva col padre in gioventù abbia influenzato tutta la sua vita adulta, mentre una prospettiva più ottimista viene offerta da Thomas Mann nella sua novella Tonio Kröger (1903), il cui omonimo protagonista è l’alter ego dello scrittore stesso.

Tonio vive in un quartiere borghese, e mentre i suoi coetanei sono tutti animati da, a suo dire, «sane» passioni, quali lo sport e i libri sui cavalli, lui invece, musicista e avido lettore di classici, si sente costantemente «straniero tra gli altri ragazzi».

Questa sua diversità gli provoca sentimenti contrastanti: da una parte la detesta, poiché vorrebbe essere «rispettabile» come i suoi compagni di scuola e come il suo stesso padre, ma in fondo è sottilmente orgoglioso di non possedere la «solida mediocrità» degli altri.

Alla fine della novella egli, divenuto scrittore, capirà che la sua adolescenza è stata fondamentale per la sua futura carriera; che il forte turbamento che provava altro non era che la radice della sua sensibilità artistica, e che avrebbe potuto sublimarlo in un’opera senza tempo. Tonio, a quel punto, accetta i sentimenti provati durante quel periodo.

Ma, d’altra parte, egli è un artista, una condizione piuttosto simile a quella di un adolescente: entrambi, in fondo, hanno una profonda connessione con la propria vita interiore e una sensibilità più acuta verso il mondo e i suoi problemi, che spesso risulta in un tormento sottile e costante. La differenza sta tutta nella capacità di espressione dei sentimenti e dei pensieri, uno dei peggiori incubi dell’adolescente incompreso dai professori, dai genitori, da se stesso.

E forse, il compito degli artisti che scrivono di adolescenza è proprio questo: dare voce a chi si ritrova categorizzato in un luogo comune

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MIGRAZIONI

traduzioni

Dylan Thomas nasce nel 1914 a Swansea, nel Galles. Talento precoce, comincia a scrivere poesie da giovanissimo e lavora a Londra come sceneggiatore. Soggiorna a più riprese negli Stati Uniti, dove viene invitato a leggere i suoi componimenti. Per molti l’archetipo del poeta maledetto per via della sua dipendenza dall’alcool, viene ricoverato nel 1953 a New York per coma etilico, ma muore pochi giorni dopo di polmonite. Traduzione di Maurizio Brancaleoni.

MY HERO BARES HIS NERVES

My hero bares his nerves along my wrist

That rules from wrist to shoulder, Unpacks the head that, like a sleepy ghost, Leans on my mortal ruler, The proud spine spurning turn and twist.

And these poor nerves so wired to the skull Ache on the lovelorn paper I hug to love with my unruly scrawl That utters all love hunger And tells the page the empty ill.

My hero bares my side and sees his heart Tread, like a naked Venus, The beach of flesh, and wind her [bloodred plait; Stripping my loin of promise, He promises a secret heat.

He holds the wire from this box of nerves Praising the mortal error Of birth and death, the two sad knaves of thieves, And the hunger’s emperor; He pulls the chain, the cistern moves.

IL MIO EROE SNUDA I NERVI

Il mio eroe snuda i nervi su quel mio polso che governa da polso a spalla, spacchetta la testa che, come uno spettro assonnato, si appoggia sul mio mortale governante, la fiera spina dorsale sdegnante curve e torsioni.

E questi poveri nervi così connessi al cranio dolgono sulla carta priva d’amore che abbraccio per amare con i miei scarabocchi disordinati che manifestano tutta la fame d’amore e raccontano alla pagina il vuoto male.

Il mio eroe snuda il mio fianco e vede il suo cuore solcare, come una Venere nuda, la spiaggia della carne, e annodare la treccia [rossosangue; spogliando i miei lombi di promessa, promette una segreta calura.

Lui tiene il cavo di questa scatola di nervi lodando l’errore mortale di nascita e morte, quei due tristi furfanti di ladri, e l’imperatore della fame; lui tira la catena, e la cisterna si muove.

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PROSSA NOVA

«Ti amo. Dal profondo del cuore.» «Fottiti»

Per qualche motivo, il suo coinquilino riusciva sempre a renderla nervosa. Eccolo lì, steso sul divano, con quel suo odore forte da adolescente, di alcool, sudore e deodorante da pochi soldi, un braccio penzolante appeso alla sua maglietta mentre lei è in ritardo. «Dai Francesco, non fare l’idiota. Devo andare a lezione!» si sgancia dalla presa e si precipita al bagno. Chiuso. Riprova, ma è proprio chiuso a chiave. «Come si chiama questa ?» urla verso il salotto «Iris, si chiama Iris» le risponde Francesco ridacchiando. Anna fa un profondo respiro e si appende alla maniglia: «Iris, tesoro, tu non mi conosci, sono Anna, la coinquilina di Francesco, e vedi, io abito qui e questo è il mio bagno, e io ne ho bisogno adesso Iris, proprio adesso, perché devo andare a lezione e sono maledettamente in ritardo. Iris mi senti?» e prende a dare dei colpetti non proprio delicati alla porta. Quell’idiota di Francesco si rotola sul divano, e ride, come ride. Ride troppo. «Cosa nascondi, infame? Parla! Ma che c’è da ridere?» «Non si chiama… non si chiama… Iris» «E allora? Che vuoi che me ne importi? Tanto domani in quel bagno ce ne trovo un’altra, non sto certo ad impararmeli tutti, i loro nomi» lui le fa un sorriso da Stregatto: «Ma questa… questa è Selene». Quel nome Anna se lo ricorda trop -

po bene. Era l’unica ragazza che, a sua memoria, avesse mai respinto Francesco. Una sera, dopo aver suonato in qualche locale, lui era tornato a casa senza aprire bocca, sembrava un albero schiantato. Si era chiuso in camera con la sua chitarra, ripetendo per ore gli stessi tre accordi lamentosi che Anna aveva ascoltato tutta la notte, sdraiata nel letto attaccato alla parete che separava le due stanze.

In seguito, era riuscita a scoprire molto poco sulla ragazza misteriosa che tanto lo aveva fatto soffrire: Francesco era evasivo, si tormentava il ciuffo e accennava un sorriso mesto prima di cambiare argomento. Suggestionata dal nome, Anna la immaginava lunare, con un’aura mistica, i capelli lisci, lunghi, di un biondo freddo dalla luce argentea. E ora la risposta all’enigma sta lì, chiusa nel suo bagno, ad un passo da lei. Guarda Francesco e lo percepisce autenticamente felice dalla risata gorgogliante e sonora, simile a quella di un bambino piccolo, così diversa da quella strascicata, distaccata, che usa di solito. Ed è felice per lui, anche se questo non ha senso. «Dai, non andare a lezione. Resta a fare colazione con noi! Bruciamo la scuola!» «Io non vado più a scuola Francesco, vado all’università, e anche tu dovresti andarci. O almeno, farti vedere qualche volta.» ma il tono affettuoso smorza il sarcasmo delle sue parole «E va bene, entrerò per la seconda lezione.

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Tanto, ormai…». E poi, inutile negarlo, è curiosa di vedere Selene. Quanto si era tormentata su quel nome, chiedendosi cosa avesse di straordinario, cosa avesse più di lei.

Si chiude in camera sua e si fissa nello specchio, poi dice, a bassa voce, ma risolutamente: «Non puoi amarlo, è un idiota» ma dice idiota e le viene da sorridere, dice idiota, e le piace di più. Lo sbircia dalla porta: è ancora arenato sul divano, con il suo libro, una copia delle Elegie Duinesi di Rilke, tutto frusto, con le pagine ondulate, macchiate di caffè e zeppe di sottolineature. Era l’unico libro che Anna gli avesse mai visto leggere. Non lo finiva mai? Lo finiva e lo ricominciava ogni volta? Faceva solo finta, per darsi un tono? Di certo lo portava sempre con sé, in una delle enormi tasche del suo cappotto nero. Anna era affascinata dalla sua dedizione, anche senza comprenderla. E se era vero, come dicevano, che ogni scrittore non fa altro che copiare, mettendo dentro il suo libro tutto ciò che ha letto e ascoltato nella sua vita, allora si poteva concludere che in ciascun libro ci fossero tutti i libri. E allora forse leggere un solo libro, a patto che lo si facesse con instancabile puntiglio ed esclusivo amore, equivaleva ad averli letti tutti.

In quel momento la porta del bagno si apre, e Anna rimane congelata a guardare in faccia l’enorme differenza tra realtà e fantasia, che si concretizza di fronte ai suoi occhi nel corpo e nel volto di una ragazza dagli occhi scuri, con la bocca grande e i denti un po’ cavallini, un nastro nero che le decora il

collo. Non che fosse brutta, ma poteva, poteva mai essere Selene quella ragazza così, così… ordinaria?

Intorno al tavolo della cucina l’aria sembra di ghiaccio. Anna si sente in dovere di sciogliere la tensione: «Sai che il tuo nome in greco significa luna?» «Oh, ma che bello! Ma tu sai il greco! Deve essere molto… interessante!» «Ho fatto il classico» taglia corto Anna. «Anna è straordinaria» dice Francesco, convinto «studia sempre, studia matematica adesso. Ma fa anche un sacco di volontariato» aggiunge, indicando come prova la maglietta dell’associazione che Anna porta addosso, con un planisfero rappresentato al contrario e la scritta “questione di punti di vista”. «Lei è… Lei è…» e prende a fare disegni in aria con le dita, disegni in cui Anna vede tutte le cose belle, tulipani, brioches calde, temporali «lei è… un eroe dei nostri tempi. Secondo me, poi…». Sentendo quel complimento, Anna percepisce un palloncino arancione, frizzante come aranciata, che le si gonfia nel petto. «Caffè?» chiede Francesco. Per sé, aveva preso una birra. «Una birra anch’io» fa Selene. Anna lo guarda aprire il frigo, tirare fuori la bottiglia e appoggiarla sul collo delicato della ragazza. La vede sobbalzare al contatto del vetro ghiacciato sulla nuca e qualcosa sobbalza anche dentro di lei. Forse è solo il palloncino arancione che scoppia. Francesco, muovendosi come un gatto per la cucina, prende un pacco di biscotti, come a voler dare a quella strana colazione una parvenza di normalità. «Prendete e mangiatene tutti» dice, lanciandolo sul tavolo. «Aspetta…

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questa battuta… di che film era?» gli chiede Selene, con un’ingenuità troppo autentica per essere simulata. Anna decide che si è fatta del male a sufficienza e si alza per prepararsi ad uscire. Mentre mette il cappotto, nota che Francesco l’ha seguita, ed è alle sue spalle. «Sei arrabbiata» «No» gli risponde lei, con la gola stretta «Ma senti» fa lui «l’altra notte io… sei tu che non hai voluto…» «Si, infatti» «Io non ti capisco… non capisco cosa vuoi» ma Anna non sa spiegarglielo. Non vuole essere un nome tra i nomi nella lista delle ragazze che sono transitate dal suo bagno, tra Iris, Selene e chissà chi. E allora cosa vuole? Una “storia seria”, sposarlo e vissero tutti felici e… ma no, immaginare Francesco in

quella veste è come pensare ad un elefante come animale domestico, acconciato da ballerina. Cosa vuole? Vuole lui, e lei, sempre così, Francesco vestito di nero, che suona la chitarra sul divano, lei sdraiata sul tappeto, che gioca a far centro con le olive nel bicchiere. Semplicemente così, però per sempre … si può avere? E siccome tutti questi pensieri non riesce ad esprimerli in un modo che abbia un senso, si gira ed esce. Già sulle scale le viene da piangere, ma poi ripensa a “Prendete e mangiatene tutti” e comincia a ridere. In strada la vedono piangere e ridere, e pensano che sia pazza, ma è tutta colpa del suo coinquilino, riesce sempre a renderla nervosa

PROSSA DEI LETTORI

Fa teatro ma non è un attore e nemmeno un regista. Fa musica ma non è un cantante e non sa suonare. Scrive ma non è un autore. Non è niente, purtroppo o per fortuna. A scrivere per lui ci pensa un personaggio appena nato, ancora ben nascosto dentro il suo inconscio: Alessandro Marafioti

Vivo per nuocere a me stesso, ho il cancro. Spero di morire domani. Ho paura. Sono una moltitudine, non ho pensiero. Vivo per ammazzare il tempo. Ho mal di pancia. Sono io.

Non credo che questo sia un libro, credo che sia…

A qualche coglione questa roba potrà piacere, parlo di quei coglioni che oggi chiamiamo intellettuali. Parlo di quelli che vanno a teatro a vedere il teatro diverso, che cazzo vuol dire teatro diverso? È un genere teatrale?

Ora penso a come spacciare il mio libro, la mia ragazza è in Spagna che piange al telefono e io sto qui a fantasticare sul successo di una cosa che definisco merda ma che in realtà non vedo l'ora che diventi un fenomeno di massa in grado di farmi fare quei soldi

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che faccio finta di disprezzare. Mi comprerei una bella macchina, una bella casa con governante annessa (e poi camerieri, maggiordomi e autista) e soprattutto mi comprerei delle donne, mi piace masturbarmici dentro. Non voglio pagarle, potrei anche farlo ma a patto che riescano a convincermi che quello che sto facendo... a loro piaccia sul serio.

Si vede che ho fatto Ragioneria? Scusate... Si legge che ho fatto Ragioneria? Grassano! È questo il... No, è solo colpa mia.

Più vado avanti e più scrivo, questo non è il computer per le seghe, su questo computer faccio solo le cose serie, per masturbarmi uso il vecchio fisso; xvideos.com (ho messo un punto e virgola, ci sta) – tre puntini – è il sito che uso ma preferisco di gran lunga Pornhub, è il migliore di tutti, Youporn mette troppi virus e ha una qualità più bassa. Non so come mai ma avevo l'impressione che sarei finito a parlare di siti porno, sono la mia vita, me la distruggono e io continuo a farmici mangiare il cazzo. Madison Ivy, Asa Akira, Jessica Jaymes... No, non è un libro sulla dipendenza da pornografia, anche perché questo non è un libro, è più…

Sto solo fingendo di fare quello strano, sperando che nessuno s'accorga del mio pessimo italiano.

Titolo poesia: Sborra

Autore: Alessandro Marafioti Opera: Raccolta 1987 – 2015

Questo è il mio primo ditoscritto, perché ora non si scrive più con le mani... ma con le dita. (sono talmente un genio che morirò cornuto!)

INFISCHIATENE

ALEJANDRO ZAMBRA

RISPOSTA MULTIPLA (SUR, 2016) di Irene Buselli

recensioni

La particolarità più evidente di Risposta multipla, l’ultimo libro del cileno Alejandro Zambra, è sicuramente la sua struttura: modellato sulla Prova di Abilità Verbale – che, insieme a quella di Abilità Matematica, costituiva la Prova di Attitudine Accademica adottata in Cile dal 1966 al 2002 – il suo aspetto è in tutto e per tutto quello di un eserciziario “a crocette”.

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40. Gli studenti vanno all’università per , non per

A) dormire morire

B) bere pensare

C) studiare protestare

D) piangere leggere

E) comprare guardare le vetrine

La prima tematica del libro è, quindi, intrinseca alla sua forma: pagina dopo pagina, quello che può sembrare un semplice gioco linguistico si rivela una critica profonda al modello educativo cileno. Critica che si esprime quasi esclusivamente in modo implicito, attraverso la straordinaria parodia che Zambra fa scaturire dall’accostamento di quesiti in cui l’assurdo e il reale si mescolano fino a confondersi.

Come nella maggior parte dei test a risposta multipla, infatti, appare presto chiaro che per rispondere alle domande «non era necessario saper scrivere, non era necessario farsi un’opinione, non era necessario esprimere niente, nessuna idea: bastava barrare le caselle e indovinare il trabocchetto».

Il messaggio affidato a questa struttura così particolare, tuttavia, non si limita alla caricatura di un paradigma scolastico. Anche quando il gioco diventa poco più di un pretesto, il lettore continua a sentirsi chiamato, se non a rispondere, a esaminare le opzioni date alla ricerca di risposte che spesso non esistono, a studiare i suggerimenti casella per casella, scoprendo che essi possono essere troppi, troppo pochi, talvolta persino tutti uguali. Il coinvolgimento del lettore diventa parte integrante dell’opera, mostrando come per l’autore l’uso della lingua assuma una forte valenza etica. In questo – e, in generale, nel vedere la sperimentazione letteraria come opposizione a forme e poteri dominanti – Zam-

bra si avvicina molto a Roberto Bolaño, scrittore che egli stesso ha definito come «un fratello maggiore».

Ma il vero punto di forza di questo libro – ciò che lo distingue definitivamente da un esercizio di stile – è la sua capacità di raccontare storie e di farne percepire al lettore la potenza narrativa sfidando la frammentarietà della lingua. E queste storie hanno, ciascuna a proprio modo, un protagonista comune: il Cile. Ogni frammento di narrazione disegna tratti diversi della società cilena, perlopiù evidenziandone le contraddizioni e rimarcandovi passo per passo l’impronta del pinochetismo.

In questo senso, Risposta multipla può essere anche definito un romanzo sul conflitto: quella che viene messa in luce è soprattutto la tensione tra io e noi, che si esprime tanto nella descrizione dei rapporti familiari quanto nella profonda critica politico-sociale che si insinua in ogni pagina.

«Noi viviamo nel paese dell’attesa, passiamo la vita ad aspettare, il Cile è un’immensa sala d’attesa e moriremo aspettando il nostro numero.»

Affrontare una materia così disorganica e densa allo stesso tempo, muovendosi spesso sul confine tra fiction e non fiction, significa correre un rischio. Ed è questo rischio che rende Risposta multipla un’opera per molti aspetti straordinaria

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