Fischi di carta 42 (12/2016)

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1. Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno.

2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge.

3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa autodifesa non contrasti con la Prima o con la Seconda Legge.

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Dicembre 2016 n. 42 • anno 5 gratuita
Genova

EDITORIALE

LA CULTURA AI TEMPI DI DONALD TRUMP

È noto da quasi un mese: Donald Trump è il nuovo Presidente Eletto degli Stati Uniti d’America.

Nonostante la massa abnorme di parole che si stanno dicendo e scrivendo sull’argomento, anche i Fischi hanno qualcosa da dire.

Non è questa la sede adatta per lanciarsi in improperi per l’elezione di «The Donald»; può essere interessante, tuttavia, evidenziare una tendenza largamente (anche da noi) condivisa.

La reazione più gettonata, infatti, è stata di stupore: nessuno sembrava aspettarselo. Non un giornalista, un intellettuale, un uomo di cultura, un artista pareva aver previsto questa possibilità.

Il mondo della cultura (almeno quella statunitense ed europea) non era preparato all’elezione di Trump, ed è questo il punto: non importa tanto, in questa riflessione, il risultato, quanto che di impreparazione, in ogni caso, si è trattato. Come ha potuto la cultura prendere una simile cantonata, non vedere quel proverbiale «elefante nella stanza» che avanzava?

Anche noi Fischi, con la nostra piccola redazione, non abbiamo saputo far altro che partecipare alla cantonata, allo shock della notte e della primissima mattina del 9 Novembre.

Sembra uno dei grandi, eterni difetti umani: ci piace speculare prima e dopo una tragedia, ma alla fin fine facciamo ben poco per impedire la tragedia stessa. Di più: se facciamo parte in qualche modo di quel club – esclusivo e confortevole come una poltrona di lusso – che è l’élite culturale, molto spesso non riusciamo a vedere al di là del nostro naso.

Ci piacciamo tantissimo quando parliamo, scriviamo, commentiamo. Sempre tra di noi. Siamo lontani, scollegati da ciò che ci circonda, da tutti gli altri.

E loro, tutti gli altri? Tutti quelli che, per le più varie ragioni, non possono permettersi il costo della cultura ufficiale, sempre più alto?

Se la cultura non voleva (e non vuole) l’elezione di Trump, erano queste le persone da intercettare, a cui dar voce, a cui passare la voce. A cui far capire che una voce la hanno anche loro, e che la cultura fatta deve essere di tutti.

Mi piace pensare che sia in direzione, a favore proprio di questi tutti, che esistono progetti come il nostro: adesso più che mai.

Se continuiamo a parlare tra di noi, ci sembrerà di vincere sempre, quando mai avremo giocato la partita: e la Storia ci passerà sotto il naso, sghignazzando

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L’INVENZIONE DELL’ELETTRICITÀ 1

TRASFIGURINE#1

di Claudia Calabresi

Se desideri abitare corpo doppio, non saranno le tue spinte a ricucirmi. Procederai a divellere il mio centro. Folgorato, scoprirai la carne elettrica.

Di certo, appartenessi alla mia pelle, non saresti più un tumore da asportare, ma un parassita liquido, muscoso abbecedario, tangibile promessa di un insieme: lo spontaneo doloroso del lichene quando infiltra piano prima, poi più forte ed incolpevole tra i sassi, nella sequenza intatta del carnale.

Sfiateremmo da cetacei, quasi strali di tempesta, nell’ordire il disperato accoppiamento.

Ma mi credi un esercizio di astrazione dal reale. Viscerale reticenza all’abbandono, sfiori i cavi, ricercando la simbiosi per tensione.

Non mi tocchi. Non toccarmi.

1 Con questo testo Claudia ha vinto nella sezione senior il Concorso per il Premio Eugenio Montale, indetto dalla Regione Liguria in occasione dei 120 anni dalla nascita del poeta.

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ECOCUP

È un bicchiere di plastica robusta, lo riuso perché voglio bere e bere, ho supersete. Sarà che questa aria di festa mi riempie la testa e gli organi interni: sono liquido, oscillo fluidamente, parlo con domande, risposte e risate per tutti, piovo a grappolo, come una secchiata. Questo bicchiere torna alle labbra, asseconda, dà ragione, scorpora, sublima. Ad un momento sono nella palla, nella bolla dove incrocio, per poco, la mia ex. Non capisco se mi vede oltre la sua vita dopo, cambiata, o se mi guarda oltre, a fondo, dove per me è già troppo sfocato. Sempre caruccia comunque, forse per un secondo la visione è di lei, primo piano, sesso orale: una dimensione olografica, reminiscenza. L’ecocup è riutilizzabile; solo lui però. Lo stringo bene, lo vedo meglio, lo scaglio nel prato, cado per terra, urlo forte di voce propria, trapano il cielo, pianto un fischer, gli altri dicono che esagero ma decido di superarli e mi levo, mi isso con un’imbracatura di esperienze difficili da allacciare, scopro una nuova porzione della festa e progetto di esplorarla. Poi calo inventariando potenzialità ed intuizioni. M’invischio. M’immischio. Progredisco.

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PLANETARIO

Prima dello scrittore con ventitré lauree honoris causa e del professore di Harvard, vi fu l’uomo. Un uomo il cui amore per la poesia angloamericana e per l’epica nordica si deve a due donne inglesi, la nonna e l’istitutrice, mentre deriva dal padre la grande conoscenza delle dottrine orientali. Non poté fare a meno di credere nelle connessioni ordite dal destino: professore come il padre e cieco come due poeti per lui fondamentali, Omero e Milton.

Dopo aver ottenuto nel 1955 l’incarico di Direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires, i cui due precedenti direttori furono anch’essi scrittori ciechi, iniziò a dedicarsi quasi esclusivamente alla poesia, più facile da ricordare grazie alla metrica e alla brevità. In essa infuse costantemente una determinata simbologia, più di carattere psicologico che esoterico, ricolma di scacchi, sogni, specchi e biblioteche. Alcune poesie come Poesia dei Doni, Un’altra Poesia dei Doni, Le Cose e Matteo, XXV, 30 mostrano perfetti sunti di questo variegato simbolismo. Ogni sua ossessione e paura si lega a cause ben precise. Il terrore degli specchi, ad esempio, è giustificato dal fatto che “moltiplicano il numero degli uomini” (dal racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius in Finzioni) e perché, come afferma nella poesia Gli Specchi: «Dio ha creato le notti che si armano / di sogni e le forme dello specchio / perché l’uomo senta che è riflesso / e va-

nità». Tale dio potrebbe essere paragonato al Re Cremisi di Carroll e al «Dio Balordo» Azathoth di Lovecraft, intenti a sognare l’esistenza stessa, o potrebbe essere il sogno di qualcun altro, in una realtà composta da più livelli come scrive nella poesia Scacchi: «Quale Dio dietro Dio dà inizio alla trama / di polvere e tempo e sogno e agonie?» Borges non solo riconobbe una stratificazione della realtà, ma cercò qualcosa che la potesse contenere per intero; cercò un libro che contenesse tutti i libri del mondo e inizialmente lo riconobbe in Foglie d’Erba di Whitman come si comprende da Righe che posso aver scritto e perduto verso il 1922: «Walt Whitman, il cui nome è l’universo». Tale concetto non è diverso da quello su cui si basa il racconto L’Aleph, incentrato su un punto dell’universo da cui sono visibili tutti gli altri punti da tutte le altre angolazioni in qualsiasi istante.

Altro concetto importante per Borges è l’esistenza del simbolo, come possiamo leggere nella poesia L’Altra Tigre: «la tigre vocativa dei miei versi / è una tigre di simboli e ombre, /una serie di figure letterarie / e di memorie dell’enciclopedia / e non la tigre fatale», concetto su cui si basa anche La Cerva Bianca. Tuttavia, constatando che la parola è un simbolo e non l’oggetto concreto, come possiamo distinguere tra l’oggetto reale e la rappresentazione che abbiamo di esso? La risposta a tale domanda è da

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cercare nella poesia La Luna in cui rappresentazione e realtà coesistono: «e, mentre io sondavo quella miniera / delle lune della mitologia, / era là, dietro l’angolo della strada, / la luna celestiale di ogni giorno».

L’ultimo quesito di Borges è, banalmente, “chi siamo?”. Come già detto, crede nella condivisione e reiterazione dei destini, ma vi sono altri due livelli di lettura: prima una lettura genetica, visto che ci portiamo, letteralmente, dentro parti dei nostri avi, come scritto in Rubaiyat: «tu sei gli altri / il cui volto è la polvere. Sei i morti». In secondo luogo vi è una lettura temporale, in quanto siamo il prodotto non solo di chi ci ha preceduto, ma anche di chi siamo stati, come si evince in All Our Yesterdays: «Voglio sapere di chi è il mio passato. / Di quale di quelli che sono stato?» e ancora «io sono quelli che non ci sono più. Inutilmente / io sono nella sera quella perduta gente», dove la perduta gente è la legione di individui che siamo stati, inconsapevoli del cambiamento in atto. Leggere Borges significa perdersi in un labirinto di rimandi, di citazioni infinite degli stessi simboli, come quando ci si perde e si finisce con il chiedersi “sono già passato di qui?”. Probabile, o forse era un altro, destinato a diventare quel che siamo adesso

EVERNESS di Jorge Luis Borges

Solo una cosa non c’è. È l’oblio. Dio, che salva il metallo, salva la scoria E novera nella sua profetica memoria Le lune che saranno e quelle che sono state.

C’è già tutto. Le migliaia di riflessi Che fra i due crepuscoli del giorno Il tuo viso ha lasciato negli specchi e quelli che non vi dovrà lasciare ancora.

E tutto è una parte del diverso Cristallo di quella memoria, l’universo; non hanno fine i suoi ardui corridoi e le porte si chiudono al tuo passo; solo dall’altra parte del tramonto vedrai gli Archetipi e gli Splendori.

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[Testo da: Jorge Luis Borges, Poesie (1923-1976), a cura di Roberto Paoli, traduzione di Livio Bacchi Wilcock, edizioni BUR Rizzoli, 2004]

ANDREA ZANZOTTO

L'OSSARIO

Sarebbe decisivo leggere l’opera zanzottiana a partire da una forte presa di coscienza sugli acuminati strumenti di indagine che il poeta ha lasciato alla lirica di tutti i tempi. Il caso più paradigmatico risiede ne Il Galateo in Bosco (1978), raccolta in cui le diverse istanze dell’autore toccano l’equilibro e la nitidezza più salde della sua produzione. Il nodo tematico attorno a cui ruota l’opera risiede nell’antinomia tra i due termini eponimi: da un lato il Galateo come figurazione del sistema di norme culturali, sociali e letterarie proprie della storia dell’uomo, dall’altro il Bosco come dato naturale estraneo alla categorizzazione. Proprio a partire dall’analisi dell’incontro tra questi due poli, Zanzotto si fa artefice della rappresentazione poetica dei rapporti che intercorrono tra i diversi piani della realtà. In questo senso il linguaggio assume il gravoso compito di sondare le infiltrazioni che i diversi campi semantici patiscono nel tempo. Il paesaggio del libro è quello del bosco del Montello, rilievo montuoso della provincia di Treviso bagnato dalle acque del Piave. In mezzo al rassicurante fondale naturalistico giacciono i segni più diversi del passaggio della storia e della cultura, dalle ossa dei soldati caduti nella Grande Guerra alle parole del Galateo che Giovanni della Casa scrisse proprio in questi luoghi.

In uno dei testi più noti della raccolta, Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto, Zanzotto invita ad immergersi, in un viaggio carico di pietas e di una tensione quasi iniziatica, in questa enorme pattumiera di codici e resti

biologici, «in quel grandore dove tutti i silenzi sono possibili», al fine di una riscoperta della realtà profonda dell’io e della lingua «tra pezzi di guerra sporgenti da terra». Il salto straordinario a livello epistemologico risiede nel fatto che la poesia stessa si fa ossario, la lingua diventa materia viva nel suo immischiarsi senza paura col divenire biologico e con le sedimentazioni culturali. Zanzotto inscena, all’interno di quella che Testa definisce «strategia della conflagrazione intersegnica», una descrizione del reale da una postazione di pura immanenza.

Nel Galateo si trovano, in seguito ad un percorso cominciato almeno nel 1962 con la pubblicazione di IX Ecloghe, una rassegna aggressiva di citazioni, segni grafici, termini provenienti dal campo filosofico, psicologico, tecnologico, pubblicitario, dialettale, in una messa in mostra del «linguaggio nella sua totalità, come luogo dell’autentico e dell’inautentico» (Agosti). È però importante sottolineare come questo abbandono ai significanti (per cui va segnalata la forte influenza che hanno esercitato su Zanzotto tre figure come De Saussure, Heidegger e Lacan) non sfoci mai in un atteggiamento di retroguardia dell’io lirico rispetto al mondo, in una riproduzione di immagini da museo dell’orrore per una sterile critica della contemporaneità; anche lo statuto di ordinatore dell’io e del linguaggio viene messo al banco degli imputati di quel gran tribunale che è la poesia zanzottiana.

Soprattutto la lingua si riscopre colpevo-

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le, nel suo ambiguo guardare al dato naturale come aspirazione e travisamento della propria connivenza con la storia e la cultura. La figura di poeta che emerge dall’opera di Zanzotto è quantomeno unica nel panorama lirico del novecento italiano: è quella di un autore allo stesso tempo politico (in senso

orgogliosamente lato) e incondizionatamente lirico, dove riesce a sopravvivere, in uno stupefacente anacronismo, l’idea che la poesia possa ancora rappresentare uno strumento fattivo di comprensione della realtà in un’ottica generale, fuori da ogni tentazione intimistica

Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto. Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto. Rivolgersi alle osterie. Dove elementi paradisiaci aspettano. Rivolgersi alle case. Dove l’infinitudine del desìo (vedila ad ogni chiusa finestra) sta in affitto.

[…] Padre e madre, in quel nume forse uniti tra quell’incoercibile sanguinare ed il verde e l’argentizzare altrettanto incoercibili, in quel grandore dove tutti i silenzi sono possibili voi mi combinaste, sotto quelle caterve di os-ossa, ben catalogate, nemmeno geroglifici, ostie rivomitate ma come in un più alto, in un aldilà d’erbe e d’enzimi erbosi assunte, in un fuori-luogo che su me s’inclina e domina un poco creandomi, facendomi assurgere a Così che suono a parlamento per le balbuzie e le più ardue rime, quelle si addestrano e rincorrono a vicenda, io mi avvicendo, vado per ossari, e cari stinchi e teschi mi trascino dietro dolcissimamente, senza o con flauto magico Sempre più con essi, dolcissimamente, nella brughiera io mi avvicendo a me, tra pezzi di guerra sporgenti da terra, si avvicenda un fiore a un cielo dentro le primavere delle ossa in sfacelo, si avvicenda un sì a un no, ma di poco differenziati, nel fioco negli steli esili di questa pioggia, da circo, da gioco.

BIBLIOGRAFIA

Agosti S., Una lunga complicità, Milano, Il Saggiatore, 2015 Zanzotto A., Il Galateo in Bosco, Milano, Mondadori, 1978 Zanzotto A., Tutte le poesie, a cura di Stefano dal Bianco, Milano, Mondadori, 2011

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LE POESIE DEI LETTORI

CAMBIAMENTI di Enrico Arlandini

Abitavano un palazzo senza ascensore, un problema da poco, perché c’era l’amore. Mettevano da parte sogni da realizzare, quando tasse e bollette avessero concesso un momento per fiatare. Al mattino inzuppavano sorrisi nelle tazze della colazione, guardandosi a lungo senza bisogno di parlare. Quando arrivarono le prime incomprensioni, gli screzi e i musi lunghi, l’iniziale sorpresa cedette il posto alla quotidiana rassegnazione. Immersi nei problemi nemmeno si accorsero del nuovo ascensore. Si potevano evitare le scale e salire fino in cima dove il panorama era spettacolare. Loro non sapevano che farsene ora che erano scesi in basso, perché non c’era più l’amore.

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ELEMENTI

riflessioni

FRANCO CALIFANO. ELOGIO DI UN POETA MINORE di Pietro Martino

In un saggio uscito negli anni ’60, Montale afferma che nell’Olimpo della scrittura c’è posto per pochissime persone. Afferma poco dopo che a quell’Olimpo si può accedere in diversi modi: non tutti passano per la porta principale; ci sono anche accessi secondari, persone che passano per la finestra, per la fessura inaspettata.

Non c’è dubbio che se la fama permetterà l’ingresso a Franco Califano egli sarà passato per un ingresso secondario. È sufficiente a motivare quest’assunto l’ampia messe di luoghi comuni che lo hanno reso un personaggio celebre agli occhi dei televisionari e dei lettori di riviste scandalistiche: rozzo donnaiolo col vizio della cocaina, macchietta televisiva con cui bollare lo stereotipo della romanità.

Ma Califano, prima di essere un semplice personaggio da rotocalco, è stato cantautore e autore di una brillante serie di monologhi sparsi nei suoi dischi. Essendo questa una rivista che si occupa di letteratura si tralasceranno i giudizi sulle canzoni per analizzare i monologhi: è qui egli che ha ottenuto i maggiori risultati poetici.

La forza di questi recitativi sta in una scelta di semplicità portata fino alla rozzezza, che è delle voci monologanti più che della voce autoriale e che si dà anche nei temi, che rasentano la banalità.

Per l’autore si tratta di dare un’occhiata sotto casa, mentre quella che vediamo noi è Roma negli anni ’60-’70 circa. Con una leggera storpiatura cronologica possiamo affermare che Califano ha raccontato la vita di borgata dei romanzi di Pasolini, ma soprattutto la miseria piccolo-borghese (tema toccato da un altro scrittore indissolubilmente legato a Roma, Alberto Moravia, soprattutto nei suoi Racconti e Nuovi Racconti Romani) di alcuni uomini, animati specialmente da un mito del machismo costantemente frustrato da situazioni e disagi, anche e soprattutto di tipo sessuale, che assumono nella messa in versi una connotazione fortemente ironica e/o malinconica.

In questi squarci di vita quotidiana, dove alla sessualità si aggiungono miserie come alcolismo, povertà ed emarginazione, l’autore usa l’endecasillabo, spesso a rima baciata. Questa scelta metrica assume un profondo significato etico : è una prova di fedeltà alla propria tradizione, quella della poesia dialettale romana, soprattutto di Belli e del suo “monumento alla plebe di Roma”, formula che introduce i Sonetti ma che riattualizzata si presta benissimo ad esprimere l’intento dei monologhi di Califano, il cui monumento è senza dubbio più parziale ed episodico, privo di una struttura organica come quella

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elaborata dal poeta ottocentesco. Nonostante questo discrimine la poesia di Califano è fortemente figlia di quella tradizione: ne eredita e sviluppa quella componente fondamentale che è l’ironia tragica , privata di ogni forma di becero moralismo e proprio in virtù di questa privazione fortemente intrisa di un’implicita tensione morale

L’ironia è il costituente fondamentale dei monologhi poetici di Califano. Mordace e sarcastica, essa si basa su doppi sensi, rime che coinvolgono parole volgari e sottintesi sessuali, ma non si distacca mai dalla necessità delle voci monologanti: si tratta della loro volgarità, del loro modo di esprimersi nel raccontare i fatti della propria vita. Lo schermo ironico, che introduce l’ascoltatore in un frammento di realtà, finisce quasi sempre per avere un risvolto malinconico, apre la strada all’altra componente fondamentale di questi testi: la tristezza sana .

Con questa specie di etichetta si intende una forma di tristezza priva di ogni cerebralità e di ogni fronzolo intellettualistico, che attinge direttamente dalla vita del personaggio che si racconta, nella sua nuda durezza e crudeltà.

In alcuni monologhi il dramma che si vuole esprimere assume una connotazione profondamente esistenziale, tramite la semplice rappresentazione e narrazione di uno stato d’animo di disagio che parte spesso da una situazione banale. È in questi casi che la poesia di Califano riesce a dotarsi di un potere universale ed astorico che trascende la situazione e il contesto di partenza per sfondare

il muro della situazione esemplare. Anche se le voci narranti sono in linea di massima inattuali, relitti di un’epoca che non esiste più, sentiamo che quelle miserie e tristezze sono problematiche nostre, sebbene presentate in un contesto differente, che è quello che l’autore conosce meglio: maschi romani che finiscono a letto con travestiti (Avventura con un travestito), sempre succubi di qualcosa: mogli (La vacanza di fine settimana e Piercarlino) alcol (Nun me portà a casa), amori passati incancellabili (Moriremo ’nsieme), ossessioni sessuali ( Disperati pensieri di un impotente).

In questo senso il sentimento del tragico di Califano e quello dei tragici greci non sono poi così diversi; sfruttando strumenti culturali profondamente differenti, vogliono entrambi riflettere sulla condizione umana e sulla sua dolente tragicità, riuscendo a metterla in bocca a voci significative

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MURO E FRANTUMAZIONE: PER IL ROCK

POETICO DI THE WALL di Federico Asborno

In merito alla recente polemica sul premio Nobel assegnato a Bob Dylan è ancora più urgente e necessario parlare sui Fischi di Carta del connubio tra Musica e Parole, di quanto sia degno di considerazione anche da parte dei puristi più recalcitranti. Quelli che sostengono l’antiteticità di parole e musica, quegli stessi – magari – che poi spendono interi corsi monografici di letteratura a concionare sui cantari medievali, scandalizzandosi se un moderno menestrello viene premiato per le sue parole rivoluzionarie.

A questo serve raccontare The Wall, perché raccontare The Wall, rock opera del 1979, è raccontare la storia del Novecento, il secolo dell’alienazione, della frattura umana e storica in corrispondenza della quale viene costruito un muro per far sì che diventi insanabile. Roger Waters, bassista dei Pink Floyd nonché vero e proprio demiurgo di questo doppio album, racconta nei suoi testi la storia disperata di Pink, rockstar tormentata dal fantasma di un padre morto in guerra (il padre di Waters morì ad Anzio nel 1944), di una madre onnipresente e soffocante, di un’educazione repressiva e tirannica e della generale sensazione di alienazione, assottigliamento, del venir meno. Il concetto rimpalla tra The thin ice e Comfortably numb, mostrando un uomo desolato, inseguito dal “tacito rimprovero di un milione di occhi rigati

di lacrime” (The thin ice) che accetta di buon grado il sentirsi “comodamente insensibile”, ripiego da non scartare una volta che “il bimbo è cresciuto” e “il sogno è svanito” ( Comfortably numb). In accordo alla filosofia leopardiana la coincidenza tra crescita e fine dei sogni infantili è totale.

The Wall è un volo radente sulla necessità di isolamento e sulle derive dell’alienazione: Pink/Waters osserva le brutture del mondo e sente il bisogno di costruirsi una barriera intorno, qualcosa che lo schermi da quelle paure trasmessegli dalla madre (“La mamma realizzerà tutti i tuoi incubi / La mamma ti trasmetterà tutte le sue paure”, Mother) e che lo preservi da un pubblico belluino che non lo capisce. La genesi stessa dell’album deriva dal fatto che durante un concerto Waters venne infastidito a tal punto da desiderare di essere isolato da una barricata. Un muro che viene a poco a poco edificato durante la prima parte dell’album (nonché nei mastodontici spettacoli live) e che una volta ultimato spinge Pink a rivolgere al mondo un disperato addio con Goodbye Cruel World. Interessante come l’edificazione della barriera attraversi tre fasi, tre canzoni (Another brick in the Wall parte I, II e III) che raccontano di come il lutto, un’educazione repressiva e in generale i dispiaceri della vita “Dopotutto non siano altro se non un ulteriore mattone nel muro” (Another brick in the wall I, II e

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III), materiale con il quale ci si accampa in sé stessi.

La seconda parte invece inizia con Hey you, ovvero il canto nel cui ultimo verso Waters racchiude l’unica speranza per un’umanità allo sbando: “Insieme restiamo in piedi / Divisi cadiamo”. Waters giunge alla stessa conclusione dell’ultimo Leopardi: dopo aver raccontato un’umanità alienata, oppressa dallo sfilacciarsi dei legami sociali e rappresentata dall’estraniato Pink (“Sono solo uno nuovo / Un forestiero in questa città”, Young lust), canta l’ultima utopia, una “social catena” che lo spinge a rinsavire, a sbattere i pugni sul muro gridando disperatamente “C’è qualcuno là fuori?” (Is there anybody out there?). L’ultima possibilità di salvezza risiede dunque nel prossimo: Pink vuole uscire, si rende conto di aver bisogno di “Quelli che davvero ti amano” e che “Vanno qua e là al di là del muro”. Quello che era solo uno spasimo si trasforma in coscienza, ma solo nell’ultima catartica canzone, la ballata Outside the Wall che riprende il tema musicale di apertura (In the flesh) creando in quel senso una struttura circolare.

Quella di The Wall è una narrazione franta, il racconto in prima persona di un disperato che alterna momenti di rabbia, delirio, speranza, follia, la stessa follia che accomuna Syd Barrett (ispiratore del precedente album Wish you were here) e il Pink impazzito di The trial (“Un pazzo sopra l’arcobaleno, sono pazzo”).

The Wall è forse l’album le cui tonalità poetiche e filosofiche meglio si accordano con i grandi temi della letteratura del XX secolo e del presente, coi Modernisti, la

filosofia Esistenzialista, i timori di un mondo fratturato, irrimediabilmente separato da muri posticci, con l’ansia di riempire i “walls” (“bacheche”) di Facebook con una falsa immagine di sé. Falsità, deformazione, repressione del proprio Io: The Wall parla di questo. Un album da raccontare e riscoprire per sottolineare ancora una volta la contiguità tra due forme d’arte molto spesso coincidenti, che non possono vivere separate solo per la smania di creare compartimenti stagni dell’espressività nella quale spesso cadiamo. Un canto tragico, che si conclude con l’immagine più bella, che supera anche il pessimismo leopardiano e la sua incontrovertibilità, aggiungendo un tassello all’immagine di speranza di Hey You: solo “I cuori sanguinanti e gli artisti/Resistono”. Appoggiarci l’un l’altro, preservare la bellezza e l’Identità: che il messaggio di fondo sia proprio questo?

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MIGRAZIONI

traduzioni

Poesia di Hermann Hess e, tratta da Romantische Lieder , 1899. Traduzione di Riccardo Bettini.

Herbstabende erinnern mich an dich -Die Wälder liegen schwarz, der Tag verblich Am Hügelrand in roten Gloriolen. In einem nahen Hofe weint ein Kind; Mit späten Schritten geht durchs Holz der Wind, Die letzten Blaetter einzuholen.

Dann steigt, des trüben Anblicks lang gewohnt, Einsam empor der ernste Sichelmond Mit halbem Licht aus unbekannten Ländern. Er wandelt kühl gleichgültig seinen Weg, Sein Licht umgibt Wald, Röhricht, [Teich und Steg Mit melancholisch blassen Rändern.

Auch Winters, wenn die Nächte lichtlos sind Und Flockenspiel und ungestümer Wind Ums Fenster geht, glaub ich dich oft zu schauen. Der Flügel tönt, mit lächelnder Gewalt Spricht mir ans Herz dein tiefer, dunkler Alt, Grausamste aller schönen Frauen.

Dann greift zur Lampe manchmal meine Hand. Ihr mildes Licht fällt auf die breite Wand, Dein dunkles Bild schaut aus dem alten Rahmen Und kennt mich wohl und lächelt sonderbar. Ich aber küsse Hände dir und Haar Und nenne flüsternd deinen Namen.

ELEANOR di Harmann Hesse

Le sere di autunno mi ricordano di te. Le foreste imbrunite, il giorno sbiadito, al limitare delle colline, cinto da aureole rosse. In una cascina poco distante un bambino piange. Il vento soffia le sue ultime note tra gli alberi, investendo le foglie caduche.

Poi, da tempo avvezza a questa triste visione, sorge solitaria la seriosa luna crescente, illuminata per metà, da paesi sconosciuti. Traccia fredda e indifferente la sua scia. Con luce pallida avvolge la foresta, il canneto, lo [stagno e il pontile, stringendoli in un abbraccio malinconico.

Anche in inverno, quando le notti sono buie, e alla finestra danzano i fiocchi di neve e ulula il vento impetuoso, credo sovente di vederti. Il piano risuona con gioiosa violenza. La tua profonda e scura voce da contralto parla al mio cuore. Tu, la più spietata fra tutte le belle donne.

A volte la mia mano afferra la lampada che, di luce tenue, bagna l’ampia parete.

Il tuo cupo ritratto mi osserva dall’antica cornice, mi riconosce e sorride bizzarro.

Io però bacio le tue mani e i tuoi capelli, sussurrando il tuo nome.

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PROSSA NOVA

RAGAZZA A INTERMITTENZA

Era una storia quella che col suo sguardo riprendeva. Sequenze irregolari che montava una dopo l’altra. Ogni situazione che descriveva aveva una durata specifica, adatta.

L’immagine era piuttosto discontinua, compariva e scompariva, si interrompeva, cambiava distanza e dimensione. Una ragazza correva, con una sciarpa rossa che svolazzava dietro alle spalle ad ogni balzo, un giaccone invernale le affannava i movimenti ed una cartella le appesantiva la schiena. Ora la vedeva tutta, ora per niente, ora ne vedeva solo le gambe che spingevano, ora il busto, ora solamente la testa, il cappello di lana le cadeva sugli occhi, la mano che di tanto in tanto lo riaggiustava. Era una ragazza a intermittenza, ora c’era, ora non c’era più. Dove si trovasse tra una vetrina e l’altra non lo sapeva.

L’aveva incontrata di nuovo quella stessa sera, l’aveva ripresa con calma col suo sguardo. La ragazza stava seduta poco distante da lei, la scorgeva da dietro le teste di un paio di signori: leggevano giornali uguali dandosi la schiena l’un l’altro mentre aspettavano il caffè a due tavolini diversi. La scena questa volta era molto più statica. Sola davanti a una tazza di tè fumante, ella lo portava lentamente alle labbra. Il calore della bevanda sotto alla punta del naso arrossato, la tazza che si inclinava, gli occhi si socchiudevano di piacere e all’improv -

viso la ragazza era scomparsa! Eppure un attimo dopo era di nuovo lì, ancora con la tazza in mano. Si era quasi spaventata.

Non si era ancora fatta notte quando l’aveva vista di nuovo, proprio nel bagno di casa sua.

Primo piano . Che viso che aveva. Di una bellezza fredda. Spesso la vedeva, eppure non sempre la riconosceva.

Primissimo piano . C’era qualcosa che non capiva. Gli occhi erano sempre gli stessi, eppure non lo erano. Le sopracciglia, sì, le sopracciglia sono importanti. Con la loro forma e posizione possono dare alla stessa persona espressioni differenti. Ma non si trattava di questo. Forse quella non era lei, forse si trovava davanti a un’altra ragazza. Ma la vedeva proprio lì, davanti agli occhi, non poteva essere altro che lei.

Con la mano si sfiorò un sopracciglio, assecondando il pensiero di prima e poi, lentamente, il suo dito scese lungo la guancia.

Avvicinò il volto a quello della ragazza e distese la mano fino a toccare la sua, ma la sensazione fu fredda e liscia. Se ne era quasi dimenticata. Quegli occhi, tanto abituati a penetrare superfici riflettenti, le avevano fatto dimenticare che c’era un confine fisico tra lei e quella ragazza.

Tra sé e quella ragazza?

Tra sé e la propria immagine?

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Quella ragazza era lei? O chi altro era?

E se era la propria immagine, cosa succedeva per tutto il tempo in cui non la vedeva? Si può vivere distaccati dalla propria immagine?

Quando viviamo emozioni e ci troviamo in determinate circostanze, questo traspare e si esprime nella nostra immagine? Oppure siamo noi ad esprimere i nostri stati d’animo e a modellare il nostro aspetto a seconda dell’immagine che abbiamo di noi stessi? Chi è che comanda? Noi o lo specchio?

Ecco che la ragazza di fronte a lei perdeva importanza, mano a mano che i pensieri si rincorrevano esplorando strade diverse e si espandevano nello spazio, quella che si trovava di fronte diventava sempre più un’estranea. Un’estranea a cui dover prestare un sacco di attenzioni e da curare sempre, anche controvoglia. Un’ospite indesiderata che la seguiva ovunque dal mattino alla sera, dalle vetrine di via XX per correre dietro a un autobus, allo specchio di un bar a sorseggiare un tè caldo, fino al bagno di casa propria.

Era una storia quella che con lo sguardo riprendeva, era la storia di un’estranea. In fondo si incontravano solo in occasioni particolari, anche se frequenti. Quella ragazza viveva per sé, aveva i propri interessi e le proprie amicizie, una vita per conto proprio, una vita autonoma. Così si sarebbero incontra -

te solo ed esclusivamente in occasioni e luoghi molto specifici, per coincidenza, svolgendo attività analoghe e certo avendo a che fare con mondi simili. Ma non con gli stessi. Per forza di cose. Due mondi che non comunicano non possono che svilupparsi autonomamente. Non avrebbe mai potuto offrire un caffè a quella ragazza, avrebbe potuto al limite guardarla prepararsene uno e berlo contemporaneamente a lei, ma Dio solo sa se quei due caffè avrebbero avuto lo stesso sapore.

Forse era meglio così, forse si poteva convivere anche in questo modo, facendo ciascuna la propria vita e guardandosi invecchiare attraverso portali invalicabili disseminati in ogni luogo. Forse non è così importante chi sia il riflesso di chi. E sfido ad immaginare che succede a mettere due specchi uno di fronte all’altro senza nessuno in mezzo. Ma quanto le sarebbe piaciuto rompere quella parete, valicare quel portale, esplorare un mondo nuovo, conoscere finalmente quella ragazza, sentire finalmente la sua voce, ascoltare la sua storia, sfiorare le sue mani e non sentire più una superficie liscia e fredda. Forse lo aveva desiderato, forse lo aveva sognato, o forse lo aveva semplicemente ricordato, un ricordo di una memoria lontana, un attimo di una storia intermittente

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PROSSA DEI LETTORI

ESTASI di Massimo Croce

Un pensatore, che aveva consumato gran parte delle sue vite nella ricerca Dio, se Lo trovò davanti una notte, quasi all’improvviso, e la sua gioia fu a stento trattenuta dal timore e dal rispetto. Prima di allora non aveva mai visto una divinità, ma non ebbe difficoltà a riconoscerla, perché dopo secoli di studio, preghiera e meditazione si era fatto un’idea abbastanza chiara di che aspetto dovesse avere.

«Chi sei tu?» chiese Dio.

«Mio Dio, Tu lo sai.» rispose il pensatore al culmine dell’estasi.

«No, non lo so.» replicò Dio «Ma suppongo tu sia un filosofo. Non sei il primo che Mi viene a trovare.»

«Dunque la via che conduce a Te» si rallegrò il pensatore «non è impraticabile come si dice!»

«Non direi. Moltissimi riescono a vederMi.»

«Eppure a me è occorso così tanto tempo!»

«Raccontami. Come cominciò la tua ricerca, e quando?»

«Fatico quasi a ricordarlo... è stata come una meta, un’ossessione, un’impegno costante in tutte le mie vite. Non so cosa mi spinse in principio. La natura, credo. La meraviglia che suscitava in me, o forse l’orrore... non ricordo. Dapprincipio credevo che Tu fossi buono – così mi avevano insegnato – poi mi convinsi del contrario, poi capii che un dio non è né buono né malvagio, e che questi aggettivi non Ti de-

scrivono.

Ho percorso molte strade per trovarTi… quella della ragione, quella dell’istinto, quella dello spirito… tutte al contempo stimolanti e inconcludenti, foriere di dubbi e tormenti più che di risposte. Sapevo che i labirinti del cervello mi avrebbero solo allontanato da Te, così ho semplificato la mia mente. E anche il mio corpo: non ho più la massa pesante e ingombrante della carne, ma solo il delicato soffio del vento. Mi sono fatto più puro, più simile a Te, degno, speravo, di accostarmi a un dio.

Eppure continuavo a non trovarTi. Ho errato a lungo nelle tenebre, nel gelo e nel vuoto siderale, fino ad oggi, fino a questo momento beato.

Ora Ti vedo!

Vedo che sei davvero luce, una luce accecante, ma per nulla simile al fuoco; non sei rovente, né discontinuo, né instabile.»

«Dici bene. La Mia natura si esprime anzitutto attraverso la luce. Io sono ciò che sono, entità immobile e perfetta, la Mia funzione, per l’appunto, è quella di rischiarare il creato, dandogli forma e colore.»

«Un tempo Ti avrei tempestato di domande, ma ormai sono al di là di tutto questo. La mia ricerca è finalmente conclusa, e sono stanco. Chiedo solo il mio premio: entrare in pieno contatto con Te. Non so se sarà una fusione, o morirò come Icaro: non m’importa. Voglio penetrare il Tuo mistero, voglio sciogliermi nel Tuo abbraccio.»

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«Vieni. Provaci. Se ci riesci, Io ti accoglierò.»

Il pensatore, rasserenato, si tuffò nella luce, ma subito urtò una parete solida.

«Che succede?!?» esclamò «Qualcosa mi impedisce di toccarTi! Che cos’è?!? Uno strato di materia!»

«Non ne ho idea. So solo che è successo a tutti quelli prima di te.» «Come!?!»

«Molti Mi hanno incontrato, ma nessuno è mai riuscito a penetrarMi.» «Perché?!?»

Il pensatore si tuffò ancóra, e ancóra, e ancóra, scontrandosi ovunque colla dura parete.

«No, no, no, non è possibile, non può essere così!»

«Basta, creatura, vattene via!» intimò Dio «Quando arriveranno i Miei padroni Io morirò, e tutto tornerà nelle tenebre fino alla prossima rinascita.»

«Ma cosa significa!?! Un dio non ha padroni! Non... non puoi scacciarmi così!»

Dio non rispose, e il pensatore, disperato, si gettò sulla barriera con tutte le sue forze.

«Mamma!» chiamò la bambina, sporgendo dalla finestra «Mamma c’è un’altra di quelle farfalle che picchia sulla lampada! Cosa faccio?»

«Una falena?» chiese la madre, raggiungendola sulla porta del terrazzo.

Osservò il faretto e l’insetto che svolazzava, come impazzito, sbattendo contro il vetro. Nel silenzio notturno s’udiva il tenue tin! tin! tin! dei piccoli urti.

«Nulla,» fece alla figlia «non preoccuparti. Sono attratte dalla luce, basta chiuderla e se ne andrà via. Guarda.»

Allungò un dito e spense l’interruttore

INFISCHIATENE

ANNIE ERNAUX

L’ALTRA FIGLIA (L’ORMA, 2016) di Francesca Gallo

Annie Ernaux, nello spazio straordinariamente breve di sole ottanta pagine, riesce con la sua scrittura asciutta ed evocativa a insinuarsi nelle pieghe di un dramma tenuto nascosto per una vita intera.

L’altra figlia è un breve racconto, edito in italiano da L’orma, scritto sotto forma

recensioni

di lunga lettera indirizzata alla sorella dell’autrice, Ginette, morta di difterite nel 1938 a soli sei anni, due anni prima della nascita di Annie.

L’esistenza segreta di questa sorella che Annie non ha mai conosciuto, diventa un’ombra concreta e ingombrante che si

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allunga sull’intera vita dell’autrice. Durante una conversazione involontariamente origliata a soli dieci anni, la madre le rivela la tragica morte della primogenita e pronuncia parole fatali: la figlia scomparsa era «più buona di quella là». Santa, irreale, buona, conservata nei cuori dei genitori come in un tabernacolo sacro e inaccessibile, la sorella spodesta l’autrice e ne sposta il peso e il ruolo. Non si trova più nella posizione della figlia unica investita di tutto l’amore dei genitori, ma diventa improvvisamente l’altra figlia.

Queste parole creano una distanza insormontabile tra le due sorelle; una distanza che l’autrice cerca di indagare, inoltrandosi in un terreno fangoso, rievocando continuamente episodi, interrogandosi, accompagnando il lettore con frasi brevi, piene di vuoti e di a capo dove i dettagli sono incisi, rievocati e fermati in un’istantanea che non può ingiallire. Qui entra in gioco la grande capacità dell’autrice: nonostante il tema sia senz’altro cupo, la lettura dà tutt’altra sensazione. Leggendo le pagine si ha l’impressione di sfogliare un album di famiglia, si percepisce il dramma, ma come attraverso una grande distanza, come se non fosse quello il vero centro.

Ernaux, con semplicità e finezza, collega alla morte della sorella un altro fatto fondamentale, intessuto indissolubilmente con il primo nella sua coscienza. Anche Annie ha rischiato di morire, a cinque anni si salvò miracolosamente dal tetano. Ginette è morta, la figlia più buona è stata strappata ai genitori, mentre Annie, la «scapestrata», è più che viva: miracolata. L’orgoglio per essere stata scelta dalla vita si mescola al senso di colpa. La scrittura aiuta Annie a sciogliere questo nodo: se la

sorella non fosse morta Annie non sarebbe mai vissuta. I genitori potevano permettersi un solo figlio. Attraverso questa cruda verità l’autrice riconosce nella scrittura lo scopo della propria vita, legandolo al destino della sorella: «Io non scrivo perché tu sei morta. Tu sei morta perché io possa scrivere».

La scrittura è la vera protagonista in filigrana di questo libro. Sono le parole a creare la distanza tra le due sorelle e le parole tentano di ricucire questa voragine. Il linguaggio diventa mezzo di analisi e medicina dell’anima, ma non solo. La parola è lo strumento per dialogare con i defunti – il pensiero va subito a Foscolo; la parola stabilisce le connessioni tra ricordi e il reale, la parola dà le chiavi per poter andare avanti.

Ma la parola agisce anche con la propria assenza, come incapacità di dire: «Ho l’impressione di non avere una lingua per te, per dire di te […]. Sei fuori dal linguaggio dei sentimenti e delle emozioni. Sei l’anti-linguaggio». La parola come letteratura che emerge costantemente con citazioni esplicite: Kafka, Pavese, Brontë, Éluard, Claudel, Beauvoir, ma anche narrativa per ragazzi come Barrie e il suo Peter Pan, tutti contribuiscono, tutti aiutano l’autrice in questo coraggioso e tenerissimo tentativo di «sviluppare una pellicola conservata in un cassetto per sessant’anni». Infine, ancora con la straordinaria capacità della scrittura di raggiungere i destinatari più impensabili, si chiude questa bellissima indagine dell’animo. I lettori potranno beneficiare di una lettera di cui non sono i destinatari, così come lei ha ricevuto a sua volta, col racconto involontario della madre, una rivelazione a cui non era destinata

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