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Elementi riflessioni – P. Martino, F. Asborno

ELEMENTI riflessioni

ESULI

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di Pietro Martino

Sàndor Màrai è una figura esemplare del Novecento. È stato un grande romanziere, ma è la sua vicenda umana a renderlo esemplare, molto più dei suoi romanzi, giostre giocate su trame semplicissime, che nulla hanno a che fare con le sperimentazioni narrative del tempo.

La sua vita è il perfetto manifesto di un secolo di guerre e spostamenti di confini, di lotte razziali e politiche che hanno sballottato popoli, valori e nazioni fino a costruire il sistema politico in cui ci troviamo. Basti pensare a due date, nascita e morte: 1900 (l’inizio del secolo) e 1989 (caduta del muro di Berlino). Basti pensare che Màrai era nato in Ungheria e ungherese si è sempre ritenuto, ma la città dove è nato, Košice, oggi si trova in Repubblica Ceca. Basti pensare che uno dei suoi diari, le Confessioni di un Borghese, contiene già nel titolo uno dei concetti distrutti dalla storia del secolo trascorso.

Nel corso della sua esistenza Màrai si è trovato senza patria, senza valori, senza appigli per ritrovare le condizioni all’ombra delle quali si era formato come uomo e scrittore: il mito asburgico dell’impero austro-ungarico; il ceto borghese come dovere della conservazione della tradizione e collante fra l’aristocrazia in lento declino e le nuove forze popolari; il sogno di una cultura, quella mitteleuropea, che si fa patria. Tutti questi valori con la prima guerra mondiale iniziano a crollare, e Màrai sarà l’esule degli esuli, costretto a viaggiare e a muoversi per l’Europa e non solo (il suo ultimo esilio sarà a San Diego, dove si ucciderà pochi mesi prima di veder cadere il muro che gli impediva di tornare in patria, in quanto scrittore “del realismo borghese” e dunque nemico dell’Ungheria sovietica).

Ciò che colpisce, leggendo i suoi romanzi, è l’analisi costante di una realtà che non esiste più. Non c’è nessuna allusione contemporanea, tanto che Màrai potrebbe sembrare uno scrittore ottocentesco, nello stile, nelle movenze, nei temi. Nessuna allusione si trova nella sua opera al tema dell’esilio, che è stata la costante drammatica della sua vita.

Le uniche riflessioni si trovano nei diari privati scritti nel periodo ’84-’89, ma l’autore di questi diari non è più un letterato, non scrive più letteratura, come afferma più volte nel corso della quotidiana annotazione sulla morte, che lo accompagna nella forma degli scomparsi: i fratelli, il figlio e la moglie. Màrai si riduce al silenzio. Il suo esilio non è motore per una letteratura, è la causa scatenante di una non-letteratura, di un disgusto che raggiunge un livello insostenibile: la scrittura, di fronte al dolore umano, è impotente e nauseante, non ha più nessuna utilità, è solo la

ripetizione di un vizio.

Mentre Màrai ci racconta (non raccontandolo) il dolore disumano di un esule, Fernando Pessoa ci dimostra che si può essere esuli dentro la propria casa e nella propria patria. La letteratura di Pessoa, che è tantissime cose, è anche la verifica di uno stato che impedisce all’uomo, e quindi al poeta, di essere partecipe e di vivere, anche nei gesti minimi, dentro la storia, preferendo stare, con una scelta cosciente della propria assurdità, dentro la poesia, nella letteratura stessa.

Pessoa si scopre assente, trasparente e invisibile agli occhi di sé stesso. Si scopre inesistente, e non alienato, vittima della società come accade a tanti altri intellettuali. Si scopre esule in quanto straniero in patria, ma la patria mancante non è una nazione o un ceto, o un ruolo, come accadeva per Màrai. Quella patria mancante è la vita stessa. Il suo messaggio non è contestualizzabile: valica i confini cronologici, verifica la condizione umana al di là delle contingenze esterne.

Non si dimentichi che Pessoa fu un attento lettore del Leopardi delle Operette Morali: molto c’è di leopardiano nel suo stato d’animo, nella costante ricerca di una definizione di disperazione che non sia limitabile al discorso storico o individuale, ma che riesca ad abbracciare l’uomo di ogni epoca.

Ma come resistere a questa condizione di estraneità costante e disperazione senza sgomento? Per Pessoa la soluzione è la vita nella poesia stessa, la scomparsa dell’io e delle sue tracce dentro una letteratura intera, con le sue discussioni e i suoi temi, i suoi apparati critici e tutto il resto: Pessoa diventa un paese, con un gruppo di poeti che dibattono (i suoi eteronimi), che non sono che lui, esistenti nella sua testa.

Il pericolo di questa scelta è la scomparsa dalla vita stessa, un problema che si pone il lettore, però, perché l’autore lo ha superato prima di iniziare il suo progetto, con la scelta di vita che ha fatto: abdicare alla vita per la letteratura e combattere il senso di estraneità con la fuga.

La proposta di Pessoa si presenta così come evasione, come fuoriuscita da una realtà estranea per entrare in un universo regolato da altre leggi, la letteratura. Lo stesso universo in cui Màrai sente di non poter più agire in alcun modo, proprio in quanto esule nella vita reale, pronto a togliersi la vita

GLI INKLINGS

di Federico Asborno

Siamo al pub Eagle and the Child di St. Giles, ridente quartiere della parte nord di Oxford. Se tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Cinquanta foste capitati per caso in questo pub un martedì mattina qualsiasi, avreste molto probabilmente incontrato un gruppetto di accademici di età molto varia che si faceva chiamare Inklings. Ad animare le discussioni della brigata c’erano due giovani professori universitari che di lì a pochi anni sarebbero diventati i due principali autori di narrativa fantastica del XX secolo, ma che tra i loro amici erano meglio noti come “Tollers” e “Jack”. I due erano amici da quando, anni prima, si incontrarono a una riunione di Facoltà al Merton College e poco tempo dopo uno dei due – quello che sarebbe diventato più famoso – diede in lettura all’altro la prima stesura di The lay of Beren and Lùthien. L’anno in questione era il 1926 e quei due signori erano ovviamente John Ronald Reuel Tolkien e Clive Staples Lewis.

Il primo nucleo degli Inklings si faceva chiamare “Coalbiters”, nome che deriva dall’islandese “kolbiter” e che letteralmente significa “quelli che in inverno stanno così vicino al fuoco da mordere il carbone”, un gruppo di amici dedito allo studio delle epopee islandesi, dei miti nordici e alle lunghe discussioni notturne innaffiate da birra di malto. Verso l’inizio degli anni Trenta però il gruppo cominciò a disperdersi e molti dei suoi membri più influenti – tra cui ovviamente Tolkien e Lewis – confluirono nel pre-esistente gruppo degli Inklings. Non si conosce un’etimologia certa di questo nome, ma i due riscontri più accreditati implicano la parola “inkling” (“sentore”) e la radice “ink” (“inchiostro”), ovvero due degli ingredienti principali della vita di accademici, letterati ed esegeti di opere antiche come erano i membri del circolo.

Mantenendo il fondamentale interesse per la letteratura medievale anglosassone e nordica, gli Inklings divennero anche un circolo di lettura propriamente detto: i membri si riunivano non solo per le discussioni letterarie, ma anche per leggere agli amici le loro opere work in progress. Abbiamo dunque attestazioni certe del fatto che Tolkien e Lewis lessero gran parte de Il Signore degli Anelli e Le cronache di Narnia durante le sedute del circolo letterario, confrontandosi, discutendo e stimolandosi reciprocamente. Oltre ai due autori sopraccitati facevano parte del gruppo anche personalità di indubbia fama come Hugo Dyson, Owen Barnfield, Charles Williams, Warren Lewis (fratello di Clive) e lo stesso Christopher Tolkien (figlio di John Ronald).

Quella degli Inklings non fu una storia lunga, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra i due membri più influenti, che già verso la fine degli anni Quaranta stava cominciando a sfaldarsi

per via di incomprensioni, gelosie (Lewis aveva introdotto nuovi membri a lui devoti scatenando la gelosia di Tolkien) e un’insanabile diatriba religiosa tra il pio e praticante Tolkien – che criticava apertamente la relazione dell’amico con Janie Moore, madre di un suo ex commilitone – e il più disinvolto Lewis.

Il conflitto coinvolgeva non solo la sfera personale, ma anche le loro stesse opere: Lewis – insieme a molti altri membri degli Inklings – si stancò delle infinite letture di Tolkien ben prima che Frodo e Sam entrassero a Mordor, mentre Tolkien detestava apertamente l’opera di Lewis, definendo Il leone, la strega e l’armadio una “storia per bambini”. I tempi dei nomignoli “Tollers” e “Jack” erano ormai distanti, anche perché Tolkien disapprovava la fretta con cui Lewis scriveva le storie di Narnia e varie somiglianze che intercorrevano tra Le cronache e il suo Signore degli Anelli.

Gli ultimi contatti tra i due non furono di certo idilliaci: Tolkien accolse freddamente la recensione entusiastica che Lewis fece de Il Signore degli Anelli quando uscì nel 1954 e si rifiutò di scrivere il suo necrologio quando morì nel 1963. L’astio di Tolkien deriva dal fatto che Lewis fece di tutto per catalizzare su di sé l’attenzione degli Inklings, introducendo nel gruppo – assolutamente esclusivo e restio ai nuovi ingressi – personalità che lo idolatravano come Charles Williams. Prima della rottura, però, Lewis aveva pesantemente influenzato la redazione di molte delle leggende confluite poi nel Silmarillion e svolte decisive de Il Signore degli Anelli; allo stesso modo Tolkien aveva avvicinato Lewis alla dottrina cristiana, fattore decisivo per alcuni personaggi delle Cronache dai connotati tipicamente messianici come il leone Aslan. Al di là di una naturale disgregazione, nulla ci impedisce di provare un fascino indescrivibile per un gruppo di personalità tanto interessanti, riunite a fare quello che le grandi menti fanno fin dai tempi dei circoli classici di Mecenate o Messalla Corvino, ovvero mettersi a confronto, influenzarsi reciprocamente, parlare di ciò che avevano più a cuore, perpetrando quello che sta alla base de Il Signore degli Anelli: l’amore per le lingue e le mitologie di popoli che vengono rivitalizzate e rammodernate in modo da giungere all’orecchio dei posteri. In sostanza mantenere viva la fiamma della memoria

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