Fischi di carta 44 (04/2017)

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L’estate non finirà, vivrà nella vite rugginosa, nell’amaranto che me saluta, nella collina che tu cercavi Libero de Libero, Sono uno di voi

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carta
Aprile 2017
• anno 5 gratuita Genova
n. 44
pag. 2 | Editoriale – E. Pon 3 | Poesie – A. Mantovani, C. Calabresi 5 | Planetario autori – F. Barricalla 10 | Elementi riflessioni – P. Martino, F. Asborno 14 | Migrazioni traduzioni – R. Bettini 15 | Prossa nova racconti – I. Buselli 17 | Prossa dei lettori – F. Tedeschi

EDITORIALE

MITILANZA #1: IL SENSO DI UNA COMUNITÀ

Il 25 e 26 febbraio si è tenuto, nel Centro Allende di La Spezia, il festival di poesia Mitilanza #1, organizzato dai Mitilanti, gruppo di poeti in circolazione da qualche tempo in Liguria; qui sta già una novità importante: finalmente anche la Liguria ha un suo polo, un suo serio punto di raccolta.

Mitilanza #1 si situa in uno spazio intermedio tra i festival preesistenti: se la prima parte era sinceramente rivolta ad un settore specifico, la seconda era aperta al pubblico, lo coinvolgeva attivamente in giro per la città, dove si sono tenuti vari reading, accolti a braccia aperte dagli avventori dei locali.

Non può esistere una prassi senza una teoria, né viceversa, sembra suggerirci questo Mitilanza #1. Inutile e asfittico l’approccio da “lezione frontale” di certe conferenze: da qui la volontà di definire gli incontri con l’espressione di “tavola rotonda”.

È da questo approccio che è nato il senso di comunità diffuso dal festival: una fucina di discussione e di idee in cui la qualità si misura dall’intraprendenza (anche intellettuale), e la non-qualità si misura dalla pigrizia (anche intellettuale). Chi aveva voglia di fare e di confrontarsi, il suo posto lo ha trovato.

Attriti solo costruttivi: non ci sono state “fazioni”, dissapori e siparietti di dubbio gusto e di indubbia inutilità; anche in disaccordo, la fucina è continuata, cercando soluzioni, trovando punti d’incontro laddove prima pareva impossibile.

Messa al bando ogni etichetta, rifuggendo dalle gabbie di “slam poetry”, “poesia scritta”, “poesia orale”; preziosissimi spunti di riflessione sono arrivati tanto dai “poeti tradizionali”, quanto dalle “avanguardie”, nella consapevolezza che quei termini, oggi, fanno soltanto ridere.

L’obiettivo, che richiede unione e collaborazione costanti, è comune: definire, come recita il sottotitolo della kermesse, “gli spazi mobili della poesia”. Si tratta di una discussione perennemente in fieri, da portare avanti con sempre più vigore: questo, in fondo, l’abstract dell’unica, grande “tavola rotonda” che è stata Mitilanza #1.

I Fischi hanno partecipato a tutto questo, come spettatori, come lettori, come attori: siamo stati anche noi, e fieramente, parte di questa Mitilanza, nella consapevolezza che militare/mitilare per la poesia è la cosa più importante da fare

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LIRICHE PER UNA STAGIONE

di Alessandro Mantovani

È iniziato alla spiaggia. Rimini come Hollywood, Bologna tutta d’arsura Genova e Palermo, di pesci incruditi, il perimetro di un accampamento e legioni, legioni di cose ben forti salde, lì tutte a incassarsi.

Erano costellazioni e bicchieri, birre ghiacciate su tavoli di legno territori appresi a mani nude un giro sulle biciclette e l’insieme dei tetti per illuderci di essere in qualche sfera benigna più in alto della strada.

C’era solo paura delle meduse, di pungersi con una conchiglia arrossandosi tutte le parti o dimenticare qualcuno o qualcosa sui litorali ventosi a sgretolarsi sul bagnasciuga.

Adriatico o Ionio o tirrenico che mi ti fai così patente di fronte hai svelato il tuo centro oltre le spine dei pesci-ragno, hai dissalato per sempre quelli che eravamo, impastando una miscela di fanghi fatto più istruiti alle pretese della vita.

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GOLFO ARANCI TRASFIGURINE

#2

I miei figli? li vedo ogni giorno nuotare in cornici di legno, appesi a piastrelle del bagno, quando vado a pisciare.

Seduta, li guardo imparare le cose del mare, messi a fuoco da fotografie sotto il pelo dell’acqua.

Li guardo, seduta sul cesso, non più solo cose di madre, partiti dai fianchi di chi li ha lasciati spiccare, in volo radente. Spicchi d’arancia con ali screziate di verde, di rosso.

Rimango seduta a guardare il prato sommerso del mio sono stata, la carta increspata di un nido passata di forma, non più riciclabile, sindone, coro, ventaglio di becchi, ventre marino di fiori sdentati.

La branchia che ha dato il respiro deve richiudersi in cicatrice, i miei pesci di mari invernali hanno messo le piume. Li guardo volare.

L’estate del duemiladue ci sono successe le cose del mare.

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PLANETARIO

VINCENZO CARDARELLI CARDARELLI A SANREMO di Fabio Barricalla

1. Secondo quanto è riportato nella Cronologia delle Opere, curate da Clelia Martignoni, e pubblicate nel 1981 in un volume de «I Meridiani» Mondadori, Vincenzo Cardarelli (nato il 1° di maggio 1887 a Corneto Tarquinia, oggi Tarquinia, e morto a Roma il 15 giugno del 1959) soggiornò a più riprese in Liguria: precisamente, cinque volte a Sanremo, tra il 1915 e il 1923. Proprio durante il suo primo soggiorno sanremese, durato dal dicembre del 1915 al maggio dell’anno seguente, il ventinovenne «poeta e prosatore lirico» (così la Martignoni) aveva inviato, il 21 gennaio del 1916, all’editore Gaetano Facchi, il manoscritto del suo primo libro, Prologhi (Settembre 1913 - Luglio 1914), che sarebbe già stato pubblicato nel febbraio seguente presso lo Studio Editoriale Lombardo di Milano. La definitiva stesura dell’opera di esordio, «un centinaio di paginette appena» (così scriveva l’autore all’editore), miste di prosa e versi, alternate in maniera ‘limpida’, ‘quasi geometrica’ (ancora Martignoni), si sarebbe conclusa proprio durante quel primo soggiorno sanremese. – A pubblicazione avvenuta, in una lettera del 28 aprile ’16, lo stesso Cardarelli scriveva all’amico «poeta notturno» Dino Campana, autore dei Canti Orfici, allora «arrestato a Signa [leggasi: Lastra a Signa] per mancanza di mezzi»:

autori

la tua cartolina mi ha fatto un vivo piacere. Inutile dire che se anche non ti scrivo tu sei una delle poche persone presenti e vive nella mia memoria. In quanto a venire costà è un altro affare. Io non credo che tornerò a stare in Toscana almeno per molti anni. Per adesso sono sempre a San Remo;

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Quassù è terra di gaja scienza…

e ancora: «Quassù è terra di gaja scienza, e io faccio qualche cosa in un ordine, come puoi immaginare, tutto nuovo. Ma non mi fido ancora né di mostrarmi né di parlare».

2. Il rapporto, tutt’altro che infruttuoso, di Cardarelli con la Liguria in generale, e particolarmente con Sanremo, vera e propria sineddoche, è testimoniato da alcuni componimenti, sia in versi che in prosa, che avrebbero trovato una sistemazione definitiva rispettivamente nelle Poesie del 1958 e in Prologhi. Viaggi. Favole del 1946 (entrambi pubblicati da Arnoldo Mondadori Editore): Liguria, Sera di Liguria e Idillio, nelle Poesie; e Addio, Liguria e Notturno, in Viaggi nel tempo (1916-17), seconda parte del trittico mondadoriano.

«È la Liguria una terra leggiadra»: è questo il celebre incipit di Liguria, che Stefano Verdino, introducendo le sue Riviere in versi, ha definito la «poesia forse più vulgata ispirata dalla Riviera», non inclusa però nella sua antologia «per la difficoltosa ubicazione (forse ponentino-sanremese) ed anche – confesso sinceramente – per un che di troppo a réclame con cui si avvia (“È la Liguria una terra leggiadra. / Il sasso ardente, l’argilla pulita”) e qua e là persiste, oltre singole strepitose invenzioni (“In quell’arida terra il sole striscia / sulle pietre come un serpe”; “O chiese di Liguria, come navi / disposte a esser varate!”)». Purtuttavia, in quei versi celeberrimi, non è affatto impossibile rintracciare gli elementi essenziali del paesaggio sanremese, riconoscibilissimi per uno del luogo – seppure, leopardianamente, ‘vaghi’, e ‘indefiniti’

È la Liguria una terra leggiadra. Il sasso ardente, l’argilla pulita, s’avvivano di pampini al sole. È gigante l’ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s’alternano per quelle fonde valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse.

In quell’arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai venti e all’onde liguri cimiteri!

Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore.

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E proprio passeggiando «per le vie lastricate / che vanno in su», il poeta ha un «incontro inatteso» con una «villanella» – ed è subito Idillio:

Per una stradetta ombreggiata fra due muri di pietre rugginose da cui spuntavano pampani soleggiati, vidi un giorno, in Liguria, (oh incontro inatteso!) una giovane contadina ritta sul limite del suo vigneto. Era la via romita, l’ora estuosa. Mi guardò, mi sorrise, la villanella. Ed io le dissi, accostandomi, parole che udivo salire dal sangue, da tutto il mio essere, in lode di sua bellezza. Sotto il rossore del volto imperlato dall’interrotta fatica la bocca sua rideva luminosa. Era scalza. Una scaglia d’argilla dorata rivestiva i suoi piedi usi ai diurni lavacri della fonte. Gli occhi, infocati e lustri, di gioventù brillavano, solare e profonda. E dietro a lei, così terrosa e splendida, l’ombre cognite e fide della domestica vite parevan vigilarla. Tutto era pace intorno e silenzio agreste.

Quel «silenzio» ‘idilliaco’ ritornerà anche in questo Notturno, stavolta in prosa:

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Due donne, una notte, in Riviera, la luna le aveva colte a discorrere perdutamente. Quantunque già nella loro voce circolassero le prime melodie del sonno, il tono flebile e fantastico, di veglia, che avevano le loro parole, sottintendeva: questa sera non si ha proprio voglia di andare a dormire. E il silenzio della notte intorno pareva in subbuglio. Il mare, sotto il raggio smagliante della luna, mandava lampi taciturni, vagamente scosso da un vento che non esisteva. Ed io vi dico che in una maniera così trasognata e idillica non s’è mai messa in musica una notte di luna più straordinaria. Quando un grillo stravagante si mise anch’esso a cantare.

Se, venuto in questo paese di laghi, di pace, di classiche ville disabitate, dove l’acqua tentenna a salire gli ultimi gradini e le rondini stanno a casa loro, potessi almeno non scordarmi di te, calda Liguria, e offrirti un canto spiegato!

Un canto per i miei inverni in Liguria!

Era già il tempo di ritrovarsi altrove. La natura, per molti segni, si preparava ad avviarsi verso la buona stagione. Il cielo, in quelle mattine, aveva il viola tenero e ombreggiato dell’inverno che si riposa; le nuvole erano calate all’orizzonte come un leggero auspicio; miriadi di pesci, appena generate, salivano dal fondo in grande armonia per riscaldarsi al tepore della superficie. Un inesplicabile e lungo turbamento, che a giorni scoppiava in tempeste incredibilmente chiare, aveva fatto nascere la primavera sulle acque. I venti soffiavano dall’una all’altra direzione, carichi di pioggia, di sole, di odori, e il tempo sul mare era sempre mutevole e fluttuante, ostinandosi a non passare. Allora, per andare incontro alla primavera che era sulla bocca dei venti, dovetti dire addio alla Liguria;

3. Ma agli «inverni in Riviera», dopo il suo ultimo soggiorno sanremese, durato all’incirca dall’autunno del 1922 alla primavera del ’23, Cardarelli dovette dire addio – e quell’addio è affidato a un ‘viaggio nel tempo’, intitolato, appunto, Addio, Liguria: e ancora

Addio, Liguria. Non è possibile essere grati alle terre, agli uomini, alle belle avventure. Mancano le parole.

Addio: per i tuoi grandi paesaggi d’olivi dove il colore in maggio è bronzo fiorito; per il verde chiaro delle vigne di cui vivono anche in estate le ardenti terrazze di pietra sollevate all’infinito sul mare; per la luce che mettono nei giardini le mimose; per le calde costellazioni di aranceti che lungo i greti azzurri e polverosi fanno il paese più folto, più raccolto, più dorato.

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Laggiù, dove le tue spiagge s’affumicano e ventila la miseria industriale, vedendo come il vento della sera, nelle piccole stazioni, fa crollare i garofani sui davanzali, ho ancora un insulto di nostalgia. E tu mi lasci con un ricordo quasi di adolescente poesia, di belle cene d’estate, di vita su per i balconi.

Sarà «ancora un insulto di nostalgia» per «quell’arida terra», dove «il sole striscia / sulle pietre come un serpe», a suscitare nel poeta forse i suoi versi migliori, dedicati alla Sera di Liguria, che non a caso ho lasciato per ultimi – e con i quali vorrei congedarmi:

Lenta e rosata sale su dal mare la sera di Liguria, perdizione di cuori amanti e di cose lontane. Indugiano le coppie nei giardini, s’accendon le finestre ad una ad una come tanti teatri. Sepolto nella bruma il mare odora. Le chiese sulla riva paion navi che stanno per salpare.

BIBLIOGRAFIA

Dino Campana, Canti Orfici (Die Tragödie des letzten Germanen in Italien), Marradi, Tipografia F. Ravagli, 1914; Id., Lettere di un povero diavolo. Carteggio (1903-1931), con altre testimonianze epistolari su Dino Campana (1903-1998), a cura di Gabriel Cacho Millet, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011; Vincenzo Cardarelli, Opere, a cura di Clelia Martignoni, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007 (1981); Id., Prologhi (Settembre 1913 - Luglio 1914), a cura di Clelia Martignoni, introduzione di Silvio Ramat, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2004; Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Introduzione di Giosue Carducci, Firenze, Successori Le Monnier, 1898; Stefano Verdino, a cura di, W, Ventimiglia, philobiblon edizioni, 2002.

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ELEMENTI

ESULI

Sàndor Màrai è una figura esemplare del Novecento. È stato un grande romanziere, ma è la sua vicenda umana a renderlo esemplare, molto più dei suoi romanzi, giostre giocate su trame semplicissime, che nulla hanno a che fare con le sperimentazioni narrative del tempo.

La sua vita è il perfetto manifesto di un secolo di guerre e spostamenti di confini, di lotte razziali e politiche che hanno sballottato popoli, valori e nazioni fino a costruire il sistema politico in cui ci troviamo. Basti pensare a due date, nascita e morte: 1900 (l’inizio del secolo) e 1989 (caduta del muro di Berlino). Basti pensare che Màrai era nato in Ungheria e ungherese si è sempre ritenuto, ma la città dove è nato, Košice, oggi si trova in Repubblica Ceca. Basti pensare che uno dei suoi diari, le Confessioni di un Borghese, contiene già nel titolo uno dei concetti distrutti dalla storia del secolo trascorso. Nel corso della sua esistenza Màrai si è trovato senza patria, senza valori, senza appigli per ritrovare le condizioni all’ombra delle quali si era formato come uomo e scrittore: il mito asburgico dell’impero austro-ungarico; il ceto borghese come dovere della conservazione della tradizione e collante fra l’aristocrazia in lento declino e le nuove forze popolari; il sogno di una cultura, quella mitteleuropea, che si fa

patria. Tutti questi valori con la prima guerra mondiale iniziano a crollare, e Màrai sarà l’esule degli esuli, costretto a viaggiare e a muoversi per l’Europa e non solo (il suo ultimo esilio sarà a San Diego, dove si ucciderà pochi mesi prima di veder cadere il muro che gli impediva di tornare in patria, in quanto scrittore “del realismo borghese” e dunque nemico dell’Ungheria sovietica).

Ciò che colpisce, leggendo i suoi romanzi, è l’analisi costante di una realtà che non esiste più. Non c’è nessuna allusione contemporanea, tanto che Màrai potrebbe sembrare uno scrittore ottocentesco, nello stile, nelle movenze, nei temi. Nessuna allusione si trova nella sua opera al tema dell’esilio, che è stata la costante drammatica della sua vita.

Le uniche riflessioni si trovano nei diari privati scritti nel periodo ’84-’89, ma l’autore di questi diari non è più un letterato, non scrive più letteratura, come afferma più volte nel corso della quotidiana annotazione sulla morte, che lo accompagna nella forma degli scomparsi: i fratelli, il figlio e la moglie. Màrai si riduce al silenzio. Il suo esilio non è motore per una letteratura, è la causa scatenante di una non-letteratura, di un disgusto che raggiunge un livello insostenibile: la scrittura, di fronte al dolore umano, è impotente e nauseante, non ha più nessuna utilità, è solo la

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ripetizione di un vizio.

Mentre Màrai ci racconta (non raccontandolo) il dolore disumano di un esule, Fernando Pessoa ci dimostra che si può essere esuli dentro la propria casa e nella propria patria. La letteratura di Pessoa, che è tantissime cose, è anche la verifica di uno stato che impedisce all’uomo, e quindi al poeta, di essere partecipe e di vivere, anche nei gesti minimi, dentro la storia, preferendo stare, con una scelta cosciente della propria assurdità, dentro la poesia, nella letteratura stessa.

Pessoa si scopre assente, trasparente e invisibile agli occhi di sé stesso. Si scopre inesistente, e non alienato, vittima della società come accade a tanti altri intellettuali. Si scopre esule in quanto straniero in patria, ma la patria mancante non è una nazione o un ceto, o un ruolo, come accadeva per Màrai. Quella patria mancante è la vita stessa. Il suo messaggio non è contestualizzabile: valica i confini cronologici, verifica la condizione umana al di là delle contingenze esterne.

Non si dimentichi che Pessoa fu un attento lettore del Leopardi delle Operette Morali: molto c’è di leopardiano nel suo stato d’animo, nella costante ricerca di una definizione di disperazione che non sia limitabile al discorso storico o individuale, ma che riesca ad abbracciare l’uomo di ogni epoca.

Ma come resistere a questa condizione di estraneità costante e disperazione senza sgomento? Per Pessoa la soluzione è la vita nella poesia stessa, la scomparsa dell’io e delle sue tracce dentro una letteratura intera, con le sue discussioni

e i suoi temi, i suoi apparati critici e tutto il resto: Pessoa diventa un paese, con un gruppo di poeti che dibattono (i suoi eteronimi), che non sono che lui, esistenti nella sua testa.

Il pericolo di questa scelta è la scomparsa dalla vita stessa, un problema che si pone il lettore, però, perché l’autore lo ha superato prima di iniziare il suo progetto, con la scelta di vita che ha fatto: abdicare alla vita per la letteratura e combattere il senso di estraneità con la fuga.

La proposta di Pessoa si presenta così come evasione, come fuoriuscita da una realtà estranea per entrare in un universo regolato da altre leggi, la letteratura. Lo stesso universo in cui Màrai sente di non poter più agire in alcun modo, proprio in quanto esule nella vita reale, pronto a togliersi la vita

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GLI INKLINGS di Federico

Asborno

Siamo al pub Eagle and the Child di St. Giles, ridente quartiere della parte nord di Oxford. Se tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Cinquanta foste capitati per caso in questo pub un martedì mattina qualsiasi, avreste molto probabilmente incontrato un gruppetto di accademici di età molto varia che si faceva chiamare Inklings. Ad animare le discussioni della brigata c’erano due giovani professori universitari che di lì a pochi anni sarebbero diventati i due principali autori di narrativa fantastica del XX secolo, ma che tra i loro amici erano meglio noti come “Tollers” e “Jack”. I due erano amici da quando, anni prima, si incontrarono a una riunione di Facoltà al Merton College e poco tempo dopo uno dei due – quello che sarebbe diventato più famoso –diede in lettura all’altro la prima stesura di The lay of Beren and Lùthien. L’anno in questione era il 1926 e quei due signori erano ovviamente John Ronald Reuel Tolkien e Clive Staples Lewis.

Il primo nucleo degli Inklings si faceva chiamare “Coalbiters”, nome che deriva dall’islandese “kolbiter” e che letteralmente significa “quelli che in inverno stanno così vicino al fuoco da mordere il carbone”, un gruppo di amici dedito allo studio delle epopee islandesi, dei miti nordici e alle lunghe discussioni notturne innaffiate da birra di malto. Verso l’inizio degli anni Trenta però il gruppo cominciò a

disperdersi e molti dei suoi membri più influenti – tra cui ovviamente Tolkien e Lewis – confluirono nel pre-esistente gruppo degli Inklings. Non si conosce un’etimologia certa di questo nome, ma i due riscontri più accreditati implicano la parola “inkling” (“sentore”) e la radice “ink” (“inchiostro”), ovvero due degli ingredienti principali della vita di accademici, letterati ed esegeti di opere antiche come erano i membri del circolo.

Mantenendo il fondamentale interesse per la letteratura medievale anglosassone e nordica, gli Inklings divennero anche un circolo di lettura propriamente detto: i membri si riunivano non solo per le discussioni letterarie, ma anche per leggere agli amici le loro opere work in progress. Abbiamo dunque attestazioni certe del fatto che Tolkien e Lewis lessero gran parte de Il Signore degli Anelli e Le cronache di Narnia durante le sedute del circolo letterario, confrontandosi, discutendo e stimolandosi reciprocamente. Oltre ai due autori sopraccitati facevano parte del gruppo anche personalità di indubbia fama come Hugo Dyson, Owen Barnfield, Charles Williams, Warren Lewis (fratello di Clive) e lo stesso Christopher Tolkien (figlio di John Ronald).

Quella degli Inklings non fu una storia lunga, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra i due membri più influenti, che già verso la fine degli anni Quaranta stava cominciando a sfaldarsi

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per via di incomprensioni, gelosie (Lewis aveva introdotto nuovi membri a lui devoti scatenando la gelosia di Tolkien) e un’insanabile diatriba religiosa tra il pio e praticante Tolkien – che criticava apertamente la relazione dell’amico con Janie Moore, madre di un suo ex commilitone – e il più disinvolto Lewis.

Il conflitto coinvolgeva non solo la sfera personale, ma anche le loro stesse opere: Lewis – insieme a molti altri membri degli Inklings – si stancò delle infinite letture di Tolkien ben prima che Frodo e Sam entrassero a Mordor, mentre Tolkien detestava apertamente l’opera di Lewis, definendo Il leone, la strega e l’armadio una “storia per bambini”. I tempi dei nomignoli “Tollers” e “Jack” erano ormai distanti, anche perché Tolkien disapprovava la fretta con cui Lewis scriveva le storie di Narnia e varie somiglianze che intercorrevano tra Le cronache e il suo Signore degli Anelli. Gli ultimi contatti tra i due non furono di certo idilliaci: Tolkien accolse freddamente la recensione entusiastica che Lewis fece de Il Signore degli Anelli quando uscì nel 1954 e si rifiutò di scrivere il suo necrologio quando morì nel 1963. L’astio di Tolkien deriva dal fatto che Lewis fece di tutto per catalizzare su di sé l’attenzione degli Inklings, introducendo nel gruppo – assolutamente esclusivo e restio ai nuovi ingressi – personalità che lo idolatravano come Charles Williams. Prima della rottura, però, Lewis aveva pesantemente influenzato la redazione di molte delle leggende confluite poi nel Silmarillion e svolte decisive de Il Signore degli Anelli; allo stesso modo Tolkien aveva

avvicinato Lewis alla dottrina cristiana, fattore decisivo per alcuni personaggi delle Cronache dai connotati tipicamente messianici come il leone Aslan. Al di là di una naturale disgregazione, nulla ci impedisce di provare un fascino indescrivibile per un gruppo di personalità tanto interessanti, riunite a fare quello che le grandi menti fanno fin dai tempi dei circoli classici di Mecenate o Messalla Corvino, ovvero mettersi a confronto, influenzarsi reciprocamente, parlare di ciò che avevano più a cuore, perpetrando quello che sta alla base de Il Signore degli Anelli: l’amore per le lingue e le mitologie di popoli che vengono rivitalizzate e rammodernate in modo da giungere all’orecchio dei posteri. In sostanza mantenere viva la fiamma della memoria

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MIGRAZIONI

traduzioni

Poesia di Rainer Maria Rilke scritta tra 1902 e 1906, dalla raccolta di poesie Das Buch der Bilder . Traduzione di Riccardo Bettini

VORGEFÜHL di Rainer Maria Rilke

Ich bin wie eine Fahne von Fernen umgeben. Ich ahne die Winde, die kommen, und muss sie [leben, während die Dinge unten sich noch nicht rühren: die Türen schließen noch sanft, und in den [Kaminen ist Stille; die Fenster zittern noch nicht, und der Staub ist [noch schwer.

Da weiß ich die Stürme schon und bin erregt wie [das Meer. Und breite mich aus und falle in mich hinein und werfe mich ab und bin ganz allein in dem großen Sturm.

PRESENTIMENTO di Rainer Maria Rilke

Io sono come una bandiera, circondata da [immense vastità. Avverto i venti soffiare, li accolgo tra le mie [pieghe,

mentre tutto sotto di me è ancora placido: le porte si chiudono dolcemente, nei camini il [silenzio è sovrano; le ante delle finestre non tremano, la polvere è [pesante. Ma io sento già le tormente e mi agito come il [mare.

Mi dispiego, mi accascio e mi scaglio con vigore, solitario, nella terribile tempesta.

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PROSSA NOVA

VENDETTA IN QUATTRO TEMPI di

Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza.

E l’uomo, per ambizione o per superbia, ancora tenta di emularlo, imprimendo nelle sue creazioni un segno di se stesso.

Per questo le automobili hanno sguardi. Fissano, hanno occhi cattivi, che abbagliano; indagano senza vederti e passano oltre, ingoiando chilometri e vita.

Lui non sopporta di essere osservato dai loro volti gelidi, lo atterriscono quei mostri di lamiera dai lineamenti severi.

Il loro cuore è motore. Un cuore a quattro tempi, una potenza a quattro palpiti.

Aspirazione: il primo battito, che ruba l’aria. Compressione: il secondo, che violenta e soffoca. Lo scoppio è il terzo, che romba, infiamma, distrugge. Lo scarico è lo strozzino che soffia la morte sui nostri volti, prestandoci in cambio una breve illusione di potere.

Sono demoni di metallo, in quattro fremiti rubano l’anima; e lui lo sa, lo vede. Ogni giorno, ogni ora, da ventitré anni. Ogni minuto. Ogni volta che la sbarra si alza e si abbassa, ogni volta che dice Buongiorno Grazie Buon viaggio, ogni volta che dà il resto, sorride educatamente, rilascia il biglietto.

Ironia della sorte, direte, che l’unico mestiere che possa fare sia stare a guar-

racconti

dare i suoi incubi, al confine tra una fila ordinata e un sentiero della morte dove le belve sfrecciano avvolte nella loro carrozzeria.

Un’occupazione tanto rara, poi, quella del casellante in entrata.

Ironia della sorte, dite.

Vi sbagliate. Quest’impiego l’ha scelto; l’ha desiderato, poi bramato, finalmente ottenuto. Solo per soddisfare un capriccio forse, un tarlo la cui realizzazione, presto o tardi, gli frutterà la gioia che questi assassini a motore hanno strappato via insieme alla sua anima per anni. Allora sarà la rivincita del paradosso, la sua vittoria, la sua migliore paga.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Una vita spesa in sorrisi educati.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Una vita ad aspettare il riscatto.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su... il giorno della vendetta, non farà in tempo a pensare l’ultimo movimento: sarà una vendetta in quattro tempi, per un mostro a quattro tempi. Una vita spesa ad aspettare che il quinto movimento per un errore perda il ritmo e intrappoli la bestia, che la sbarra le piombi sulla cervice metallizzata e la riduca a un’agonizzante scatola di latta.

La sbarra è il confine. Tra la dece-

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lerazione dopo il precedente tratto di strada e le nuove velocità inumane, tra il nervoso ordine della coda e il brivido dell’accelerazione; tra l’attesa e la realizzazione della sua ossessione.

Quel giorno – quello in cui il confine si spezzerà o, meglio, spezzerà una delle tante vite metalliche che lo attraversano – quel giorno verrà: è una certezza. È la meta che ogni giorno lo fa alzare, andare al lavoro, faticare, quella che lo fa resistere; quella che lo mette in moto.

Ecco che l’uomo e l’automobile non sono più così distinti: persino lui talvolta si sorprende a pensare al suo corpo come a un meccanismo di ingranaggi lubrificati, dimenticando quale sia stato il modello e quale invece la creazione, quasi i suoi organi vitali fossero una copia di pistoni e candele.

Ma in un brivido è tutto finito: si alza, si veste, va al lavoro. Entra nella sua cella e ricomincia a sognare. Nulla farà affinchè quella sbarra si abbatta sul nemico: non potranno accusarlo. Ma mentre tutti incolperanno il caso, lui si licenzierà, tornerà a casa, e sarà felice.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

Un ciclope a motore si avvicina, col suo unico occhio luminoso e il suo centauro pelle e borchie sulla schiena.

Lui guarda il motociclista con il casco slacciato e pensa che, in ogni caso, tutti siamo destinati a morire più o meno allo stesso modo: che a collassare sia una camera d’aria o un ingranaggio di muscoli e ossa.

Osserva il ragazzo sfrecciare via,

come se gli avesse dato il permesso di uccidersi, col suo ritornello Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

Ma abbiamo costruito i nostri assassini ad alta velocità forse solo per illuderci che siano loro a renderci mortali; così, lui passa la vita a sperare che quella sbarra gli impedisca di consegnare al loro destino delle vite sulle quali, in fondo, non ha alcun potere.

Trascorre il tempo oscillando tra la sicurezza che ogni macchina sia un carnefice e la consapevolezza che la loro pericolosità non è che il capro espiatorio dell’irresponsabilità del mondo.

Una ragazza bionda allunga goffamente il braccio, lui Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. C’è qualcuno sul sedile accanto a lei, lo vede chiaramente; eppure, tutti sembrano così soli quando lui li lascia partire.

Tutti così simili, poi, così ugualmente umani mentre attraversano il confine. Inghiottiti dai loro giochi di aspirazione, compressione, scoppio e scarico, non si rendono conto che quattro tempi sono un ritmo pericoloso per il cuore, una scansione innaturale.

Se solo quella sbarra si abbassasse all’improvviso, se solo il braccio meccanico di quella cella, che ventitré anni hanno trasformato da prigione a scheletro metallico, bloccasse l’incedere di pneumatici e carrozzerie smaltate... Ma lui, lui è soltanto il confine.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

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Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

E poi, un giorno, Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su.

Quattro tempi: il Giorno è arrivato.

Ma la vendetta si è confusa e adesso nulla ha più senso: la sbarra resta immobile, ritta come un saluto militare.

Qualcuno elude lo svincolo, qualcuno lo dimentica, qualcuno si ferma ugualmente.

Buongiorno Grazie Buon viaggio.

Tre tempi, il meccanismo si è rotto, la vendetta è in frantumi.

Lui chiude gli occhi, atterrito, e aspetta che tutto sia finito, che quell’esodo verso la morte sia concluso.

Non doveva finire così, quel soldato ritto in piedi ha firmato un armistizio senza il permesso dell’umanità, sta mandando al macello troppe vite senza controllo.

Non doveva finire così. Il casellante esce, solleva lo sguardo verso il cielo –Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù pensa.

Le automobili adesso non indugiano più, il casello abbandonato si trasforma da svincolo a terra liberata.

Devo solo continuare a essere il confine, pensa.

Ora le automobili sfrecciano, nessuno ha voglia di perdere tempo, di rallentare i quattro tempi della morte. Solo continuare a essere il confine, pensa lui,

un confine vivo che impedisca di morire.

Ed ecco che si è sostituito alla sbarra, ecco che è ritto in piedi anche lui.

Quando sente la belva metallica arrivare a tutta velocità, forse pensa che quel martirio abbia un senso. O forse comprende, finalmente, lo schianto della vita che fugge infrangendo i limiti di velocità. Lui che è macchina e ha osato dimenticarlo, lui che è motore di se stesso ed è un motore a quattro tempi, lui che ha preteso di essere il confine si è trovato a essere al confine.

La vendetta ha quattro tempi, la morte quattro palpiti

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PROSSA DEI LETTORI

CREPA

Quello in cui più spera M è che la motivazione di fare qualcosa della propria vita gli possa cadere dal cielo. Vorrebbe che qualcosa lo illuminasse, qualcosa di diverso però dalla debole luce giallognola che pigramente scivola tra le tapparelle fino ad accarezzare il bong. M ha appena ordinato una pizza che il volantino che tiene in mano pubblicizza come una pizza-mega. Sono diversi mesi che ha deciso di mettere a posto una crepa sul muro del salotto, ma sono diversi mesi che non lo fa. M non l’aggiusta perchè si limita a pensarci su. La guarda, la studia, immobile passa i giorni a sturare qualche bong e fissare questa venatura di muro che non si lascia aggiustare. In fondo non é che gli importi più di tanto, crepa o non crepa la sua vita non sarebbe stata diversa. Non è tanto questa ma lui il vero problema. Questo lo capisce, ma sinceramente non concepisce il fatto che non riesca ad aggiustarla. Non si tratta di un problema esistenziale, questo M lo ha già capito, quanto piuttosto di un problema pratico. Si tratta solo di rimboccarsi le maniche e agire, ma è proprio a questo punto che M non agisce. Continua a stare immobile sul divano e piuttosto prepara la mista per il prossimo bong, il suo unico e tiepido amico. Ora se ne sta seduto sul divano con in fondo al cuore il grande desiderio di sparire. Maldive? Portocervo? Jesolo? In fondo aveva importanza dove di preciso?

Dovrebbe semplicemente rimboccarsi le maniche e riempirla di stucco invece di continuare a fare così. Forse lo farebbe sentire meglio? Dopotutto pensare che dietro a quella crepa ci debba essere di più è un modo un po’ frustrante per riempirsi le giornate. Infatti non può essere semplicemente una crepa in quanto lui non può essere semplicemente un coglione che da due mesi non esce di casa. Questo è il problema principale, realizza M, lui non vuole arrendersi alla realtà dei fatti e finisce per nascondersi dietro ad una crepa più sottile di un dito. Forse è proprio lui quella crepa . Il fatto è che pensandoci su finisce inevitabilmente per trasformare tutta la faccenda in una questione celebrale, che rimane pensiero e non si trasforma mai in stucco. Quando M apre la porta gli occhi nocciola della porta-pizze lo colpiscono come un montante dato sulla punta del mento. Pensa che questi siano iridescenti, fotonici, pralinati dal sole autunnale, dello stesso colore delle foglie secche quando le guardi contro luce, come la luminescenza che stava aspettando: abbastanza forte da farlo cadere a terra svenuto e abbastanza timida da farlo silenziosamente senza pretendere niente. Come la luce costante dei pomeriggi di agosto che si infila nelle fessure per proiettarsi sui muri, inondando la casa di una luce calda che non chiede attenzione, che non sbraita per essere apprezzata, come gli arcoba -

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leni esibizionisti, ma si limita ad esserci. Una presenza silenziosa e costante che con occhio dolce ti comprende e motiva. La portapizze che aveva già sulla bocca un : “dodici euro e cinquanta ma dammeli giusti che non ho da cambiare” vedendoselo di punto in bianco scivolare a terra tira gli occhi al cielo sospirando un “echecazzo”. Così dopo essersi guardata intorno in cerca d’aiuto decide di trascinarlo dentro casa. Nota che in giro per la cucina ci sono un sacco di post-it rosa evidenziatore con scritto “CREPA”. Nel mentre M che è rinvenuto ma sta fingendo di essere ancora svenuto si sente un pò un coglione per esserle caduto ai piedi in quel modo. Vorrebbe rialzarsi ma non saprebbe che dirle. Sul momento non pensa che dovrebbe limitarsi a pagarla. M ha appena subìto un colpo di fulmine standard, ma invece che puntare all’obbiettivo e agire ci sta rimuginando su. È quando la ragazza lo scavalca per uscire che M si stanca di pensare, di sentirsi uno stupido e insomma di una sua generale politica prendi-tempo-e-sostanzialmente-perdilo. La ragazza è davanti al motorino casco-in-testa pronta per partire quando fruga in entrambe le tasche dei pantaloni per cercare le chiavi. Nella strada sotto casa di M c’e un signore anziano che attraversa la strada quando lei ondeggia il sedere per sentirne il ticchettio. Non sentendo niente sospira, impreca, si toglie il casco, si passa una mano fra i capelli e si avvia verso l’appartamento. Salite le scale trova la porta di casa aperta. Ha preso le chiavi quando si accorge che M non è più privo di sensi sul pavimento della cucina. Lo sente invece armeggiare con qualcosa nella stanza accanto. Lo trova infatti nel

salotto arzillissimo mentre sta lavorando con lo stucco. M si gira verso di lei con un sorriso smagliante. Nel mentre una signora anziana dal palazzo opposto e qualche piano più in su chiude una finestra. Questo provoca un intricato gioco di specchi e rifrazione che illumina il bong appoggiato sul tavolino al centro della stanza. Lo illumina talmente da farlo assomigliare ad un piccolo sole di colore verde, i cui riflessi si proiettano sui muri del salotto, sulla maglietta di M e sulle labbra della ragazza. Piccoli fasci di luce le camminano impertinenti lungo il labbro superiore e fin sotto lo zigomo. M si sente quella strana e standard sensazione nella pancia, tanto simile ad un battito d’ali di una farfalla. Sta per chiederle di restare ancora un pò quando lei gli chiedi i soldi della pizza. Subito lui ha la tentazione di sentirsi un coglione poi invece sorride, prende venti euro dalla tasca e glieli dà. La ragazza gli porge il resto. Lui non lo prende e gli dice di tenerselo e di scusarlo per lo svenimento. M ora è solo in casa e sorride come un ebete, mentre accarezza lo scontrino della pizza su cui la ragazza ha scritto il suo numero di telefono. Ma quando scriverle? Non sarebbe meglio aspettare qualche giorno, per farsi desiderare? Domani? Adesso? Fra qualche ora? Ma quante ore? Qual’è l’ora giusta? E se fosse sta sera, tipo per l’ora di cena? Chissà quando cena e chissà se è tipa da cena, magari è tipa da spuntini chissà ... Arrivato a questo punto si ferma, guarda lo stucco fresco e decide si non pensare più, almeno per un po’

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ILLUSTRAZIONE DI COPERTINA

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GRAFICA

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Fischi di carta è stampata presso: Genova Marassi Via Tortosa, 51r

Tel. 010.837.66.11 www.nextgenova.it centro.stampa@nextgenova.it

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