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Infischiatene – A. Moro, F. Gallo
INFISCHIATENE
INTERVISTA A LAIA JUFRESA
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AUTRICE DI UMAMI (SUR, 2017)
Trascrizione dell’intervista a cura di Amelia Moro
Intervista a Laia Jufresa, autrice di Umami (Sur, 2017), e alla traduttrice Giulia Zavagna, tenuta alla libreria falsoDemetrio di Genova, a cura di Ilaria Crotti e Andrea Benei (07 giugno 2017).
1. Questo è il tuo romanzo d’esordio, dopo essere stata una scrittrice di racconti. Come è nato? Qual è stata la sua genesi?
L’idea di Umami nacque mentre stavo partecipando ad un gruppo di scrittura su internet, per fare esercizio. L’obiettivo era quello di scrivere un romanzo di almeno cinquantamila parole in un mese. Alla fine del mese avevo scritto circa quattrocento pagine, spazzatura per la maggior parte, ma io avevo sentito che da qualche parte, nel corso della stesura, c’era stato un momento magico: quello fu il nucleo da cui nacque Umami. In realtà nel romanzo che leggete ora solo alcuni pezzettini risalgono a quella prima stesura: ho preso tanto di alcune voci, ma poco di altre. Le voci che ho recuperato maggiormente, quelle che mi convincevano di più, erano voci femminili: pensai di farne una raccolta di racconti, dove però vi fosse un filo rosso rappresentato dal fatto che le varie protagoniste abitassero tutte nello stesso comprensorio. Iniziai così a lavorare su ogni singola voce pensando di dedicare ad ognuna un racconto, ma quando facevo leggere ad altri gli appunti che stavo scrivendo, tutti commentavano: «questa non è una raccolta di racconti, è un romanzo!» Ho lasciato così che si instaurasse un liberatorio gioco di vasi comunicanti fra le varie voci, mentre gradualmente si aggiungevano altri personaggi. Dopo un anno venne fuori Alfonso, e fu lui a prendere il microfono in mano.
2. Leggendo il romanzo avevo avuto invece l’impressione che tutto il romanzo fosse stato costruito proprio intorno a lui. Dunque non è così?
Alfonso esisteva già in origine, quando ho iniziato a scrivere, ma non avevo pensato alla morte di sua moglie. Quando lui ha cominciato a parlare, ha iniziato a parlare di lei.
3. Tu hai una qualità rara, che è quella di instaurare una grande empatia con tutti i tuoi personaggi. Questa caratteristica è un dono, oppure è un effetto che ti sforzi di raggiungere? Come lo ottieni?
Costruire voci diverse è per me la cosa più importante: scrivere è vivere molte vite. A volte gli scrittori bravi “si siedono”, si limitano a scrivere pagine belle, ma fredde, senza lasciarsi pervadere dai personaggi e dalle storie che raccontano. Per farlo ci vuole umiltà, è qualcosa di primordiale. Io cerco di tenermi sempre esercitata partecipando ai gruppi di scrittura.
4. In Italia le voci femminili sono considerate generalmente più deboli e stereotipate di quelle maschili, ma non ho ritrovato in te queste caratteristiche. Cosa ne pensi?
Credo che tutti noi siamo cresciuti, nella lettura e nella scrittura, formandoci su voci maschili. Io non mi prefisso mai a tavolino i temi da trattare, ma credo sia comunque importante dare sempre voce a dei personaggi femminili. Nella letteratura messicana raramente sono presenti personaggi femminili di spessore: di solito sono stereotipati, piatti e scialbi. Tra l’altro, anche le scrittrici generalmente cercano, per farsi accettare, di uniformarsi a questo canone. Bisogna trovare il coraggio di scrivere da dentro.
5. Ho trovato il tuo romanzo molto equilibrato, sia nei contenuti che nello stile. C’è la rappresentazione della follia, ma non è stereotipata, il linguaggio è originale, ma mai strabordante. Questa armonia è stata ottenuta con un lungo lavoro di editing?
Il romanzo ha richiesto più di un anno di riscrittura lavorando da sola, successivamente l’ho sottoposto ad altre persone e poi l’ho ulteriormente ripulito. Siccome avevo molti particolari ed accadimenti da inserire nel racconto, per creare equilibrio all’interno del romanzo ho lavorato sulla temporalità, frantumando le vite dei personaggi all'interno di una linea che muove a ritroso dal 2004 al 2000 (e poi si ripete per cinque volte con lo stesso andamento). Così facendo ho potuto dare ai protagonisti la possibilità di cambiare opinione, crescere, mutare; insomma sono riuscita ad evitare che alcuni dettagli apparissero semplici ripetizioni, impedendo anche di far apparire stereotipati alcuni atteggiamenti (o trasformare i personaggi in semplici macchiette di se stessi). È stato come giocare a tetris. Tuttavia, ogni capitolo in sé è concluso, termina senza lasciare nulla in sospeso. Pur facendo parte di un’unica grande storia, ogni segmento può essere letto come un racconto: il lettore dopo aver terminato un capitolo può andare a letto tranquillo!
6. Il tuo romanzo è ambientato in Messico, tuttavia ha riscosso un grande successo anche al di fuori del paese. Che cosa c’è di universale nella storia di Umami?
Non saprei dire cosa ci sia di universale in Umami, ma sono grata che sia piaciuto in molte parti del mondo. Quello che so è che questo è un romanzo messicano, ma non vuole essere una caricatura del Messico. Poi è ambientato in un luogo chiuso, dentro un comprensorio, le preoccupazioni dei personaggi sono comuni e quotidiane… penso che il lettore, affrontando questo libro, non abbia l’impressione di fare un giro per Città del Messico, ma piuttosto di fare conoscenza con una famiglia che vive lì. Io ho una pessima memoria, ma ricordo bene gli spazi. Spesso di un viaggio ricordo piccoli particolari insignificanti legati all’architettura – come l’aspetto di una scala – a volte non so neppure se li ho visti davvero o se li ho solo letti e immaginati. Per questo volevo che il mio comprensorio fosse uno spazio accogliente, dove il lettore potesse sentirsi a casa.
7. Il romanzo è corredato da una mappa che rappresenta la pianta del comprensorio, ma che nello stesso tempo ricalca la sagoma di una lingua, suddivisa nelle varie zone adibite alla percezione dei diversi sapori. In che momento della creazione del romanzo l’hai ideata?
Il mio comprensorio ospitava quattro famiglie, più una scuola, dunque cinque elementi in tutto, come i sapori che la nostra lingua può percepire, così è nato questo
tipo di rappresentazione. Inizialmente ho fatto la cartina per me, per avere qualcosa di visivo che mi aiutasse nella scrittura, solo all’ultimo ho pensato che potesse risultare utile anche per il lettore, e ho chiesto al mio editore di inserirla.
8. Mi ha colpito il modo efficace con cui riesci ad inserire elementi inquietanti nella tua scrittura, anche questo è un tratto raro nella scrittura italiana al femminile. Come ci sei riuscita?
Non amo ciò che riguarda l’oscurità, ma per questo romanzo ne avevo bisogno, perché nella trama mancano dei misteri: gli elementi inquietanti, dunque, servono a tenere avvinto il lettore. Inoltre, credo che tutti i personaggi veramente complessi abbiano un lato oscuro, che va esplorato e raccontato. Non volevo dare un’immagine secca dei miei personaggi, ma sfaccettata, sempre diversa a seconda del punto di vista di chi racconta.
9. È in previsione una traduzione dei tuoi racconti?
Per il momento, sul sito di Sur trovate la traduzione di uno dei miei racconti. Poi, si vedrà. Spesso si dice che i racconti non vendono, anche se io ne sono stupita, visto che siamo nell’età di Twitter e delle narrazioni brevi e istantanee.
10. Qual è attualmente la situazione per gli intellettuali e gli scrittori in Messico?
Attualmente io non vivo più in Messico, a causa di un episodio violento. Posso dire che attualmente la situazione è molto ambigua, sicuramente rischiosa per i giornalisti. È difficile purtroppo dare dei dati certi, si parla di 27.000 desaparecidos, ma sappiamo che le informazioni che ci giungono sono molto parziali, probabilmente sono molti di più. Gli scrittori di finzione, invece, godono di una posizione privilegiata perché non si occupano di attualità e di politica, in Messico si legge poco e il governo li finanzia e li sostiene con un atteggiamento paternalistico. Io avevo tentato di affrontare il tema attraverso la “porta sul retro”, scrivendo una commedia commerciale che aveva però un fondo di critica politica, ma non credo uscirà mai a causa della censura. Per quel che riguarda la figura dell’intellettuale, in Messico è molto forte l’idea che uno scrittore debba anche essere un pensatore, tenuto a dare la propria opinione in campo politico. Io ritengo di non avere le competenze per questo, preferisco far riflettere i miei lettori attraverso la scrittura, generando empatia. Non scrivo mai di argomenti direttamente politici, ma questi sono presenti nel nucleo profondo della narrazione. Ad esempio, Umami è un’esplorazione del lutto, e ritengo che questo tema sia particolarmente importante da affrontare in una terra come il Messico, un paese così colpito dal lutto da non avere modo di elaborarlo
PAUL BEATTY
LO SCHIAVISTA (FAZI, 2016) di Francesca Gallo
Lo schiavista di Paul Beatty è un libro pungente, arguto, dissacrante, non a caso vincitore del rinomato Man Booker Prize. Con uno stile sarcastico e intelligente, l’autore ambienta la propria storia nella California quasi contemporanea del mandato di
Obama e tratta il tema del razzismo nell’ultimo modo che ci si potrebbe aspettare. Il protagonista, un agricoltore californiano di colore chiamato Bonbon (dalla parola con cui vinse una gara di spelling del quartiere), vive in un ghetto nella periferia di Los Angeles, Dickens, un posto tanto insignificante da essere cancellato, di punto in bianco, dalle mappe. Tra il ribaltamento di cliché e battute politicamente scorrette, l’autore immerge chi legge in una realtà difficile da afferrare per chi non la vive, dove, nonostante la formale assenza di razzismo, tutto è basato sulla razza. È lo stesso concetto di razza a rovesciarsi: i neri tra di loro si danno del negro, discriminano i messicani e danno spregiativamente del bianco a chi è mulatto. La California di Bonbon infatti non è certo quella patinata delle serie televisive: è un luogo estraneo al nostro immaginario, dove i neri muoiono per strada senza motivo, dove le gang non sono come le immaginiamo, dove persino guidare un autobus, mestiere di Marpessa, il grande amore di Bonbon, ogni giorno è un’impresa. Per salvare Dickens dall’oblio, il protagonista si ritroverà nella paradossale situazione di ripristinare la segregazione razziale e possedere, suo malgrado, uno schiavo, fatti che lo porteranno davanti alla Corte Suprema.
Con un’ironia che ricorda Swift e un sarcasmo a tratti feroce, l’autore, imbastendo una narrazione piena di digressioni, interruzioni, flashback e frasi fulminanti, tratta questioni secolari, in maniera sempre provocatoria. Quello che fa è gridare “al fuoco” in un teatro pieno di gente o, per citare il protagonista, «ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale». Proprio questo stile sempre in bilico tra sberleffo e serietà, tra un’osservazione amara e l’autoironia, ha le sue fondamenta nell’uso brillante che Beatty fa del linguaggio: se il lettore italiano può goderne deve ringraziare l’eccezionale traduzione di Silvia Castoldi, chiamata ad assolvere un compito davvero complesso. Tuttavia, nonostante questo straordinario lavoro, molti dei riferimenti culturali alla vita quotidiana in America, dal baseball al basket, dai personaggi minori della tv, a canzoni misconosciute, vanno inevitabilmente persi.
Beatty non si pone mai in modo pedante nei confronti del lettore, non offre analisi storiche o sociali strutturate; tuttavia, usando come armi lo humor e l’autoironia, dissemina lungo il testo piccole osservazioni che permettono al lettore di porsi interessanti domande, lasciandolo contemporaneamente con una sensazione di disagio e lieve frustrazione perché, a fronte di tanti interrogativi e sollecitazioni, non vengono offerte risposte definitive.
Davvero siamo contro il razzismo? Ha senso bandire la parola negro? Quanto sappiamo realmente della discriminazione? Il lettore, nel corso del libro, è costantemente messo alla prova nelle sue convinzioni: Beatty sembra sfidare chi lo legge a farsi un esame di coscienza, punzecchiando con maestria e leggerezza le nostre convinzioni. Come argutamente nota il primo giudice del processo: «L’imputato ha fatto emergere una debolezza fondamentale nel modo in cui noi americani sosteniamo di considerare l’uguaglianza. “Non mi importa se sei nero, bianco, marrone, giallo, rosso, verde o viola”. L’abbiamo detto tutti. […] eppure, chiunque di noi, se venisse dipinto di viola o di verde, sarebbe fuori di sé dalla rabbia. Ed è questo ciò che sta facendo l’imputato. Ci sta dipingendo tutti […] per vedere chi ancora crede nell’uguaglianza»
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