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Planetario autori – E. Garlaschi
SINFONIETTA PER VOCALE SCOMPAGNATA
di Federico Ghillino
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Eravamo due vocali senza vezzi aggettivali, suonavamo bene insieme, ma non troppo, solo bene. Poi per una scordatura fummo iato da paura.
Fu per un fatto di suono, non tradimento o perdono, più tono che sentimento, forse per liti d’accento, ma la vocale da sola anche se grida non suona e non basta chicchessia per tentare un’armonia. Se ci mette un po’ di testa può ambientarsi ad una festa ma il problema, quello vero, è quadrare con l’intero oltre l’attimo e il contesto: è inserirsi dentro un testo.
Signorine consonanti fanno cuore a tutti quanti: gutturali a cui risalta gonna corta e vita alta, palatali birichine con le calze parigine, le dentali con i tacchi, le labiali giacche a scacchi, poi ci sono le alveolari coi vestiti floreali. Sono tutte meraviglia, caramelle, vetro, biglia, ma non voglio sillabare o sforzarmi di rimare, a me serve una vocale per serate da assonare per i giorni silenziosi di sussurri vergognosi: per suonare a tutto tondo cerco solo il mio dittongo.
PLANETARIO autori
AMY LOWELL, DRAMMI E SILENZI
di Edoardo Garlaschi
Dopo un «periodo calderone» definito, non si sa quanto correttamente, «Romanticismo Americano» in cui la letteratura fiorì e adattò se stessa al mondo circostante, grazie ai vari Poe, Withman, Melville e infine alla Dickinson, il testimone venne passato a un’altra generazione. La generazione dei Titani, di Eliot, Pound, di Gertrude Stein e di Fitzgerald. Ma per tutti quelli che hanno scritto la storia, per arrivare fino a noi, quanti sono rimasti nell’oblio?
È il caso di Amy Lowell, che intrattenne relazioni con questi esponenti dell’età dell’oro poetica senza condividerne la gloria culturale. Una donna che iniziò con il teatro, dopo il colpo di fulmine durante un incontro con Eleonora Duse in un tour di quest’ultima, nel 1902. Decise di dedicarsi al teatro «di una volta», non quello luminescente e gioioso di Broadway che tiranneggiava in America, ma quello dei monologhi, dei personaggi soli, sul palco e nella vita, e dalla scenografia minimale. Nacquero così i Little Theater, che potevano consistere in una semplice stanza, un garage, un salotto qualsiasi o, come nel caso del Wharf Theatre, un magazzino per il pesce vicino ad un molo di Cape Cod. Per questo motivo alcuni componimenti della Lowell, essendo destinati alla rappresentazione drammatica, superano anche i duecentotrenta versi, come nel caso di Causa Numero Tre e Il Giorno che fu quel giorno. Il passo verso la poesia in quanto tale non sempre è scontato ma di sicuro è breve, soprattutto per la Lowell. È infatti innamorata del teatro ma affamata di drammaticità, di quella pura, non esprimibile tramite una susseguirsi di scene e atti, ma destinata al silenzio. Un’altra parte della sua eredità è, infatti, rappresentata da poesie molto brevi, condizionata sia dai componimenti giapponesi (che ebbe modo di studiare grazie al fratello Percival, che trascorse molti anni in Giappone, e a Pound, profondo conoscitore della cultura nipponica). Ne sono un esempio i Ventiquattro Hokku su di un tema moderno dove l’hokku rappresenta un componimento della stessa lunghezza dell’haiku (diciassette sillabe divise in tre versi) che però non necessariamente deve contenere il Kigo, ovvero il riferimento a una delle quattro stagioni. Questi componimenti brevi risultano dei piccoli quadri, altro elemento che condizionò la Lowell, essendo vicina agli ambienti delle gallerie d’arte, in particolare la 291 di New York.
Nonostante queste relazioni e queste continue influenze, Amy Lowell passò spesso in secondo piano, mai del tutto apprezzata, al punto che vinse il premio Pulitzer solo nel 1926, un anno dopo la sua morte. Venne spesso tenuta in considerazione ma come semplice conoscente dei grandi, quali Pound che, inoltre, le concesse l’utilizzo del termine imagismo. Per quanto interagisse in
termini di quantità, la qualità e la profondità di tali interazioni sono discutibili. La Lowell rimase incatenata a se stessa e ai propri traumi. In un periodo in cui molti fuggivano dall’America, Amy non poté. Nel suo primo viaggio da bambina, in Europa, iniziò ad avere paura del buio, che si trascinò fino all’età adulta, e dopo la morte della madre partì per un viaggio sul Nilo che si concluse con un esaurimento nervoso. Esiliarsi nello spazio per lei risultava dunque impossibile e spesso nefasto: non le rimase che esiliarsi nel tempo. Invertì i suoi ritmi di vita, dormendo di giorno, scrivendo e incontrando gli altri di notte. Quasi paradossale, considerata la paura del buio giovanile, ma nella sua casa e nelle camere d’albergo in cui soggiornava, faceva montare pesanti tendaggi, non solo alle finestre ma anche sugli specchi. Amy Lowell non accettava il suo essere sovrappeso a tal punto da rifiutare la visione del proprio corpo. Esso rappresentava un impedimento, una zavorra per la sua interiorità e le rare volte che le capitava di cercare se stessa in uno specchio, in realtà cercava altro, come apprendiamo da Tempo: «Mentre mi guardavo nello specchio, / vidi, appena abbozzato, / il profilo di un airone / inciso sul metallo». La vita e la natura per lei sono un’opera teatrale da cui non può fuggire, portatrici di una delicata tristezza. In Dettaglio leggiamo «Sulle foglie dell’acero / brillano rosse gocce di rugiada, / ma sul fiore di loto / hanno la pallida trasparenza delle lacrime». Non si trattava dei capricci di una ricchissima ereditiera (la famiglia Lowell era, letteralmente, proprietaria dell’omonima città, dove nacque Kerouac), ma della delicatezza emotiva di una donna nella cui vita mancò sempre qualcosa. Un vuoto senza contorni precisi, qualche pezzo d’esistenza che provò ad aggiungere e raggiungere nelle atmosfere dei suoi componimenti come in Dopo una tempesta: «Cammini sotto gli alberi di ghiaccio / ma sei più abbagliante dei fiori di ghiaccio, / e il latrare dei cani / per me non è forte come il tuo silenzio». Nell’epoca di una poesia «nuova» che non sapeva ancora a cosa doversi protendere, Amy Lowell forse fu capace di raggiungere proprio il concetto di poesia, intesa come era solito fare Pound: la danza dell’intelletto tra le idee.
Sereno con leggeri venti variabili
La fontana si piegava e si drizzava nel vento notturno, sbocciando come un fiore. Luccicava e scintillava, un alto giglio bianco, sotto l’occhio d’una luna d’oro. Da una panca di pietra, sotto un tiglio in fiore l’uomo la osservava. E lo spruzzo insistente picchiava sull’erba opaca ai suoi piedi.
La fontana gettava l’acqua, sempre più in alto, come sfere d’argento. È un braccio che vede? E per un istante coglie l’insinuante curva di una coscia? La fontana gorgogliava e spruzzava, e il volto dell’uomo era bagnato.
È un canto che sente? Come una filastrocca per giocare a palla? La luna risplende sulla dritta colonna dell’acqua,
attraverso vede una donna, che getta bolle d’acqua. Il suo seno proteso, e i suoi capezzoli come boccioli di peonia. I suoi fianchi ondeggiano mentre gioca, l’acqua non è più sinuosa delle linee del suo corpo.
“Vieni, poeta!” è il suo canto “Non sono più degna delle tue dame solari, coperte di goffe sciocchezze, irreali, inattraenti? Perché hai paura di prendermi? Non è forse per il poeta la notte? Sono il tuo sogno, ricorrente come l’acqua, sbocciato insieme alla luna!”
Ella avanza verso il bordo della fontana e l’acqua le corre, battendo, sui fianchi. Stende le braccia, e l’acqua scorre dietro di lei come un velo aperto.
Al mattino i giardinieri vennero al lavoro. “C’è qualcosa nella fontana”, disse uno. Rabbrividirono nel distendere il loro padrone morto sull’erba. “Gli chiuderò gli occhi”, disse il capo giardinieri, “è strano vedere un morto fissare il sole”. Assenza
La mia coppa è vuota questa sera, freddi e vuoti i suoi bordi, raffreddati dal vento che entra dalla finestra aperta. Inutile e vuota, risplende di bianco nella luce lunare. La stanza è colma dello strano profumo dei glicini. Oscillano nella radiosità lunare e battono dolcemente contro la parete. Ma la coppa del mio cuore è immobile, e fredda, e vuota.
Quando vieni, trabocca rossa e tremante di sangue, sangue del cuore per la tua sete; per riempire la tua bocca d’amore e del sapore dolciastro di un’anima.
Fuggitiva
Luce del sole, tre calendule, e un baccello di papavero porpora scuro – da questi ho creato un mondo bellissimo. Tu li vuoi – splendore, oro, e un sonno di sogni? Sono piaceri fragili, certo, ma dove ne puoi trovare di migliori? Non si sceglie la rosa perché vive a lungo, e Giugno è solo di trenta giorni.
Crepuscule du matin
Per tutta la notte ho lottato con un ricordo che bussava insistente ai cancelli del pensiero. Le macerie degli anni passati hanno foggiato la disillusione; ora chiedo soltanto la pace, la forza di dimenticare la menzogna che la speranza troppo a lungo ha sussurrato. Così ho cercato il sonno che non veniva, la notte era carica di antiche emozioni che piangevano silenziose. Ho sentito ancora la tua voce, e sapevo che le cose da te promesse eran solo vuoto vanto. Ho sentito la stretta delle tue mani mentre le ampie ali della notte custodivano nel buio il nostro amore. Dal giardino un uccello ha levato improvviso il tremito di un canto, come un rimprovero. Nulla stringevo tra le braccia, solo il vuoto di un’aurora.
Proporzione
Nel cielo, luna e stelle, e nel mio giardino falene gialle che svolazzano intorno a un bianco cespuglio di azalee.
TESTI TRATTI DA: Amy Lowell, Poesie, a cura di Barbara Lanati, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1990.