Fischi di carta
Maggio
Poesia di cinque giovani fischianti
Editoriale
Il poeta Enrico Testa ha definito questa prima pagina uno spazio di auto-definizione, definizione (tanto per bisticciare un po') sulla quale vorrei soffermarmi. In questo spazio di poche righe noi fischianti abbiamo tentato fino ad ora di spiegare ai lettori cosa è che spinge ognuno di noi a scrivere ed è stato necessario farlo data l'eterogeneità di questo progetto che sono i Fischi di Carta. Il momento iniziale è, come dire, la messa nero su bianco dell'ordinato riferimento, del punto della situazione compiuto nel momento di un'analisi che ci porta a farci domande. Nel momento storico in cui ci troviamo la ''definizione'' di se stessi è una richiesta, un'esigenza da parte di ogni termine posto nella nostra vita: amici, società, famiglia, scuola etc. L'uomo si definisce, ne ha l'assoluta necessità; chiaramente nei ruoli (figlio, amico, fidanzato e così via) ma questa definizione di sé travalica anche la funzione momentanea di ciascuno. Le definizioni, gli inquadramenti che riguardano il nostro essere o modo di comportarci o di pensare ci piovono addosso da ogni angolo e non abbiamo ombrelli con cui ripararci da essi: secchione, hipster, montato, metallaro, depresso, poeta, tamarro etc. Ecco, credo che oggi l'ansia di definizione abbia raggiunto dei massimi quasi detestabili diventando il correlativo di una chiusura di pensiero: oggi ricerchiamo la fissità, sorgono dei quadri di inserimento attorno a noi e in essi tentiamo di identificarci di trovare le definizioni, appunto, che facciano dire ''Io sono così''. Questa è una frase che ho sempre detestato, nessuno è ''così'', perché spesso dire questo significa dire ''non posso fare nulla per cambiarlo, è così'' e precludersi quindi al cambiamento il quale, per me, è la condizione basica della vita. È un po' la vecchia storia tra Eraclito e Parmenide, scorrere o stare fermi, muoversi o fissarsi, e qual è meglio? Certamente non ho le pretese di enunciare verità dalle piccole righe di questa rivista, posso solo limitarmi a dire la mia ed invitare ogni lettore a riflettere su ciò. Nel numero scorso ho scritto ''La vita in movimento'' ovvero un tour de force nel fiume della vita, un esserne immersi come lo si è nell'acqua quando si nuota e muoversi con essa, che è la trasposizione poetica di quanto sto dicendo ora. Il punto è che io credo, su una scia Sveviana, che il meglio sia non fissarsi, essere tutto e il contrario di tutto perché tutto è quello che veramente possiamo essere anche con una certa dose di incoerenza. Può sembrare banale ma non lo è: congelarsi significa togliersi opportunità e quello che voglio dire è, anche e sopratutto in nome della letteratura, che il nostro compito primario in quanto giovani è quello di non fermarci, di non abbandonare ''la vita in movimento'' ma aprirci sempre alle esperienze, non alla Dorian Gray in un tentativo di sperimentazione del tutto quasi fine a se stessa ma per raggiungere una più piena consapevolezza con il costante esercizio della curiosità. Il pericolo che sento è quello di iniziare a subire la realtà passivamente, senza domande, senza ricerca e sto parlando proprio riguardo al livello più basso, il concreto e contingente: chiedersi come funzionano le cose, perché sono fatte in un modo o in un altro, un'analisi totale, insomma, della realtà e di noi stessi che ci svincoli dal dire ''io sono così e non cambio'' aprendoci ad un'aderenza vissuta che di volta in volta può verificarsi o meno a seconda di ciò che riteniamo opportuno. Lo stesso Socrate dice che una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta e se, come dice Qoelet nell'omonimo libro del Vecchio Testamento, non possiamo contare le cose che non conosciamo allora dico: non abbandoniamo la nostra anima scientifica, l'interesse, la curiosità e la voglia di scoprire. Ho detto di affermare ciò in nome della letteratura perché, come Calvino e Vittorini nelle idee del Menabò, credo ch'essa abbia e debba avere un'anima scientifica oltre a quella estetica: fin dai tempi di Omero infatti si è incaricata di ''raccontare verità'' e questo è quello che desidero faccia di nuovo oggi. Si badi che non intendo con ciò ridurre lo scrivere a mero spalmarsi sul reale, l'anima scientifica letteraria è chiaramente diversa da quella che appartiene all'ambito propriamente scientifico: qui ci vuole creatività, fantasia, genialità! E queste vengono dalla sorpresa, dallo stupore. Perciò stupiamoci ancora per quello che vediamo, per le scoperte che facciamo, immergiamoci nella vita in movimento e scopriamo con meraviglia quali oggetti e persone la popolano. Se è vero, come abbiamo detto l'altra volta con Fortini che ''non sempre giovinezza è verità'' io dico con José Saramago che ''La gioventù non sa quel che può ma la maturità non può quel che sa'' e se così è, se non sappiamo quanto possiamo, allora cari lettori, lanciamoci.
2013 Numero 6
Alessandro Mantovani
Fitte
Ho sentito per la strada l'odore che c'era in casa di tua nonna le prime notti sussurrate quando mi stringevi i polsi fremente.
Ti ritrovo a volte epifania tra le pieghe annodate dei miei giorni, come un capello sceso nel boccone per guastarne il nutrimento. Altre volte sei invece riferimento per le suture della memoria, che tirano e bruciano, dopo la boria, nella solitudine fissa dell'ora notturna ricordandomi il dolore - quello però ancestrale -
Alessandro
Mantovani
Le Mani del mio Amore
Le mani del mio Amore sono fredde anche di giorno, né posson raccontare quanto di me hanno inchiodato nel tempo.
Le mani del mio Amore mi vengono a cercare sotto la grigia coperta malinconica dei miei sogni, rubando il male che ho d'intorno, e sono io che non le so accettare; sfilacciano le corde del petto e, chirurghi instancabili dei sentimenti miei, mi curano di illusioni col veleno.
Le mani del mio Amore mi san bucare il cuore ed il vento improvviso del cosmo scuote allora in tempesta la mia vita, stretta, salda ed imbrigliata in quelle mani che mi strappano la notte.
Alessandro Mantovani
Estraneità
Da piccolo mi dicevano ch'era bello avere un ruolo. Ora vivo nel dubbio di chi sa che si può essere ma non qualcuno.
Alessandro Mantovani
Fischi di Carta
2
Fermata di un coro qualunque
“Il sole è alto, l’aria è fredda”
Tutti annuiscono, Nomi duri suonano Parole che lanciano, Perdono, depredano partenze. Parlano tra loro, parlano A se stessi.
“Vorrei andarmene”
Evocano campagne, Palazzi di vetro, trucioli di fuoco, Il lavoro vero sotto il cielo, I rami, la terra.
La terra è la fine del discorso. Tutti smettono di parlare. Il silenzio somiglia alla natura.
Qui tra questi volti solcati Già visti, nella verecondia Del tempo che passa, La mia bocca aperta non parla. Questi vecchi urlano spesso Cercando di parlare. Osservo e un poco Sorrido…
Perché il sole è alto E l’aria è veramente fredda.
Silvio Magnolo
Blank
Occorre cedere alla chiarezza. Che sia piano sole O carta bianca… Dove ancora Non ha imbrattato mistero E inchiostro e porpora, Il sangue d’un fiore Che sorteggia le mie parole Fioche.
Silvio Magnolo
Fischi di Carta
3
Promontorio1
I
Dietro questa casa c'è un piccolo colle; quando la mia anima sola vaga nella mente confusa cerco riposo fra il verde scuro e le code delle lucertole scomparse nel suolo.
Non ho mai incontrato Dio. Ma sento l'essenza dell'esistere nella rondine che fischia quando incrocia lo sguardo col mio.
II
Per fuggire ho seguito la strada che conduce sui colli. Lì mi sono seduto su un muro di pietra, ascoltando soltanto una libellula muta.
Nel tramonto la porta di questa piccola chiesa si chiude.
Accanto pensavo al dolore e lo vedevo nell'erba irta, nel rumore che produce; poi è passato un gatto, e secca, ha scricchiolato. Allora mi sono rimaste torme di fiori e stormi di uccelli lontani.
Federico Ghillino (da Corrosione)
Fischi di Carta
4
1 Minimo ordito di crêuze sui colli di Sampierdarena, Genova.
Darklands
Non riesco a chiudere gli occhi, non riesco a vedere nulla.
Ascoltando un fruscio di corde -dimenticato, forse, tra le lacrimenel buio di cristallo morbido,
offro l'eco lenta di passi notturni a questi brividi che gocciolano tra le note di un canto sottovoce.
Cercando il suono di un dolore, troppo lontano per sanguinare, nel tempo scandito da un arpeggio
guardo l'oscurità dipinta intorno sui muri da una vecchia lampadina, e in quei disegni intuisco storie e volti
simili al mio, e diversi, che scorrono abbandonati come mostri in esilio -non c'è tempo per i rifiuti della luce-:
sorrido a quell'ombra, sottile spazzatura infinita della ragione che chiama per nome le parti di me.
Emanuele Pon
Vetro
Ho rotto un altro specchio per avere meno da vedere, meno da scoprire di me.
Con le mani che pulsavano ho pensato e atteso la sorte, senza credere che nel mio sangue;
nell'angoscia lucida che raccoglievo a frammenti, vedendo più di prima ho guardato oltre il mio riflesso:
sono un altro specchio rotto, un vetro opaco o un'anima spigolosa rigata di pioggia.
Emanuele Pon
Fischi di Carta
5
Amante
Ho vangato la vita Con il manico dell’esperienza Inzuppando la camicia di sudore, Come il bucaniere ubriaco Ho riempito con perizia Il bicchiere del tuo colore. Scuro è il sapore delle fossette Incavate e colme di desiderio Appena poso la zappa Del mio essere comune. Gusto dopo il dovere Il premio tosto
Come per l’affamato il pasto. Non ho pace, Di te berrei Ogni piccolo profilo E prima di scomparire Nelle pieghe della solitudine, Tengo a tergere ancora
I miei occhi con il succo Che i tuoi connotati colora, Bagnare le ciglia di gioia Sentendoti a me vicina. Sono un illuso E domani mi rinnegherai Gettandomi nell’oblio. So che dimenticherai
Il vigore delle curve Degli occhi in letto. So che mi sputerai Rifiutando i minuti In cui abbiamo Teso la pelle rovente E lavato il dolore Dell’essere soli. Ma non mi rassegno E pesto con furia Il vuoto della notte Cingendolo della tua compagnia. Il futuro non dimora Tra le lingue
Della nostra partita, Giochiamo ora e basta. Voglio solo vederti Riflessa nelle onde Dell’oscurità Assaggiare il mare Del nostro orgasmo E di giorno voltare Il corpo rotto Dal volto che ci ha sedotto.
Andrea Pesce
Praga
Zero come il cerchio Disegnato sulla Moldava Che ho costeggiato Con afa e brividi notturni. Ho divorato il gusto A me non usuale Di mescere la tenebra E l’alba tenue Impressa sul Carlo, Mentre circoscrivevo La coscienza nella tela Di un variopinto ragno. Ero di vetro come Il vaso che ho acquistato Spalmato tra l’entusiasmo Di sentirmi novità E il disagio di scorgere Le cupe cavità Di chi l’amore Lo vende a carte. Tra fiumi di assenzio E musiche libere Ho ritrovato finalmente Il vero me in un parco. Seduto innanzi Ad un salice scorrevo Il tempo a plasmare La vita altrui con lo sguardo, Finché nella fretta Ho seguito l’ozio D’una giovane mamma Vegliare la bambina. Sono stato portato Dall’amore materno Nella culla in famiglia, Finalmente Ho ristabilito alle cose Il loro vero valore Mosso dall’ebano Morbido e caldo Del suo tenero sguardo.
Andrea Pesce
Fischi
di Carta
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Le poesie dei lettori
Come vi sarete accorti dai numeri precedenti, questa settima pagina è uno spazio duttile ed eterogeneo. Malgrado ciò, pur mantenendo questa sua flessibilità, ci piacerebbe da questo numero in poi creare una rubrica in cui accogliere poesie di altri autori che noi conosciamo direttamente o che si manifestano contattandoci. L'idea è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti, quindi, ringraziando tutti coloro che senza timore si sono mostrati, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!
Questo mese vogliamo introdurvi Edoardo Garlaschi. Giovane poeta genovese, ci presenta una poesia tratta da La Voce della Notte, sua prima raccolta edita a fine 2012 per Habanero edizioni.
L'incubo di Orfeo
“Il mio respiro sussurra il tuo nome. Euridice. Un nome che ferma il moto delle tenebre sotterranee. Un simbolo di dolore che mi trascina ancora sotto una Luna sporca di cenere. Mi spinge a urlare contro le pareti dell’universo. A cosa pensavo mentre le Baccanti straziavano il mio corpo?
La mente vagava come uno squallido spettro verso di te pallido ricordo di una driade morta, fiore appassito tra le mani dell’inverno. ”
La tua testa invece? Separata dal cuore ha accettato di ascendere tra i timidi astri che si mostrano galleggiando nel buio.
“Incubo e Sogno sono la stessa divinità beffarda. Essa concede ora nettare ora sangue. Cercando come un rabdomante uno sfortunato da torturare per soffocare il tumultuoso mormorio che avanza feroce nella sua testa stanca dell’eternità.”
Edoardo Galrlaschi (da La Voce della Notte)
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Contatti
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Fischi di carta è fondata ed animata da:
Federico Ghillino
autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)
Silvio Magnolo
Alessandro
Mantovani
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
Andrea Pesce
Emanuele Pon
membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)
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