Fischi di carta
Poesia di cinque giovani fischianti
Editoriale Sogno d'estate
La Sorte, che ha la peculiarità di non guardare in faccia nessuno, ha voluto che, nel giro degli editoriali dei Fischi di Carta, toccasse proprio a me, che considero il caldo quasi un Olocausto (un “errore di Dio”, per rubare qualche parola a Nietzsche) aprire il mese di Luglio; immagino che qualcosa debba pur voler dire. Perciò, mia cara Banalità, a noi due: ora è necessario parlare dell’Estate. Con la E maiuscola, perché, come naturalmente le altre stagioni, anche quella estiva porta con sé un bagaglio potenzialmente sterminato di significati, stati d’animo, momenti, suggestioni. Ma dite un po’, amati lettori: quand’è stata l’ultima volta che avete “pensato” l’Estate in modo neutro, oggettivo, aprendovi a più punti di vista? Perché questa è la verità: si tende, è innegabile, a considerare questi mesi come positivi a prescindere; e questo è dovuto all’affastellarsi l’uno sull’altro di concetti divenuti ormai quasi archetipici, mitologici: il Mare, la Vacanza, il Sole, l’Ombrellone, la Borsa Frigo. E a fine Settembre puntualmente si ricomincia a bestemmiare insieme a Lord Eddard Stark del Trono di Spade, oh no, “l’inverno sta arrivando”. Io dico, parliamone. Facendo un po’ di psicanalisi da salotto, per divertirci, diciamo che l’Estate rappresenta la pace, la tregua, il momento preposto alla ricreazione dell’animo, dopo la frenesia dell’Inverno e soprattutto della Primavera; è per alcuni, dopo la rinascita in Aprile e in Maggio, il trionfo della vita e della natura, tant’è che un D’Annunzio, che sa ciò che piace alla gente, ci scrive sopra l’Alcyone. Da qui si dipana un filone, che prosegue fino ad oggi, quando le sillogi poetiche best-seller sono state sostituite dalla canzone innalzata al soglio, quasi pontificio, di “tormentone dell’estate”. I temi sono sempre gli stessi, il mare, il divertimento, le discoteche sulla spiaggia, la spensieratezza, la vodka ghiacciata e le donne semi-nude; sono motivi che traggono la loro ragion d’essere da noi. E noi siamo i giovani, le ultime reclute della vita, siamo coloro che l’Estate l’hanno finora sempre aspettata, insieme alla fine della scuola. Dunque è vero, questa stagione ha un fondo di positività ben
sedimentato nell’immaginario collettivo, e io non sono certo qui a negarlo. Non nego che un paio di giorni fa, quando ho portato il mio cane a fare il suo giro mattutino e mi sono ritrovato nei vicoli deserti e silenziosi, appena illuminati dal primo sole e invasi solo dal chiarore e dalle urla dei gabbiani, mi sono sentito sereno, ho respirato una comunione non comune, e scusate il bisticcio. Non nego di avere una gran voglia di nuotare. Ma, e questo è evidente soprattutto nella letteratura e più in generale nella storia della cultura, c’è da considerare l’altra faccia della medaglia. Se l’Estate ha un fondamento immutabile di positività e gioia, è proprio questo a renderla, per certi versi, immutabilmente identica a sé stessa. Piatta, addirittura. Ed è così che si trasforma nell’emblema della condizione di fissità dell’Uomo in Montale, che nell’Estate è come se vedesse un Inverno dell’anima: i suoi paesaggi sono gonfi di calura e pregni di aridità. E’ il “meriggiare” andando “nel sole che abbaglia”, è “il rivo strozzato che gorgoglia”. E il sudore, vogliamo parlare del sudore? In questi mesi sudiamo stando fermi, senza fare alcuna fatica, anzi, senza fare assolutamente nulla. Ho sempre pensato al sudore estivo non come a simbolo di movimento e quindi di vita attiva, ma come spazzatura immotivata: è figura, per me, dell’immobilità di un tempo che ognuno vive e sente in modo diverso, naturalmente, ma al quale tutti si sforzano di dare lo stesso significato. Il senso è la sospensione comune, l’estraniarsi dal tempo, dalla routine di ogni giorno: è il motivo per cui in questo periodo ci si sente genericamente “più felici”, o comunque si fa di tutto per esserlo. Ed è da questo tentativo di trovare una sorta di calmo rifugio da condividere che nasce l’idea di Vacanza, o, per prenderla da un verso più storico-culturale, è da qui che è potuto nascere qualcosa come la Summer of Love. Riuscite per caso a immaginare un Woodstock sotto un plumbeo e uggioso cielo novembrino, o imbiancato dalle nevi di gennaio? Collegata a questa idea della felicità estiva forzata, ho sempre sentito anche come vitale e
caratteristico della stagione un altro aspetto: la nostalgia. Ora voi mi direte: ma di cosa stai parlando? Quando mai si prova nostalgia d’estate?
La nostalgia è per l’inverno! Rispondo: appunto, ed è proprio qui che volevo arrivare. Non avete mai pensato che il ricordare con malinconia l’estate scorsa, o un’estate particolare, sia qualcosa di leggermente codificato e convenzionale? Non so voi, ma io ricordo inverni bellissimi ed estati tetre. Per mille motivi, è l’Estate il regno della nostalgia, credetemi.
In ogni caso, il mio contorto ragionamento giunge (o giungerebbe) alla sua conclusione dicendo che, come scrittori o aspiranti tali, noi abbiamo il dovere di vedere ogni cosa da un’altra prospettiva, quando non da ogni prospettiva possibile, come faceva brillantemente notare Monia Balsamello della casa editrice Ibiskos, alla memorabile
presentazione di Guglie di Vento, primo libro del nostro compagno di viaggio Silvio. Gli scrittori, in questo caso i poeti, devono, pascolianamente, “cogliere corrispondenze arcane tra le cose”; ed è per questo che, in merito all’Estate, ho cercato prima di “recensirla” nel modo più obiettivo possibile, per poi proporre la mia visione personale. Che si potrebbe riassumere una volta per tutte così: godetevi l’Estate, carissimi (e spero accaldati quanto me) lettori, tuffatevi tra le onde di questi mesi, e bevete Vodka anche per me, anche se preferisco il Whisky. Io, per parte mia, me ne starò all’ombra, credo. E ci ritroveremo a svegliarci a vicenda, quando settembre finisce.
Eclissi (Il Momento)
Mi dicono spesso della memoria, dei ricordi, degli unici frammenti che rimangono qui, quando fa sera vibrando, a pulsare sempre in ritardo;
oggi non ascolto più il loro pianto, mentre affondo piano i denti stanchi nella mia rosa di vita improvvisa.
So che ricordare è assaporare la pienezza di un tramonto già freddo, immerse al buio le nuvole, quando il vento ha già portato la notte qui.
Non importa: senza sosta mastico la luce d’una luna appena nata, debole, o scurita di nostalgia; così il mio sguardo, che va a ritroso cercando ciò che adesso è diventato, mentre la mia voce si unisce all’eco, e risuona un canto in morte del momento.
Emanuele Pon Emanuele PonGray
Erano giorni afosi Tra le lunghe colline Toscane, Ho incontrato il tedio Quello delle pieghe Di un letto sfatto, Come un sole a picco Sulla candida pelle.
L’ombra della solitudine Lambiva e sbirciava Dallo stipite d’una porta Smaniosa di riempirmi Appena lei, si assentava. Avevo una amante Non di carne, Mi sentivo animale.
Come un cane carnale E inverecondo, nutrivo L’assenza con il vizio Della apparenza, Affogavo nell’immaginazione. Copulavo con il falso E castigavo ancora La mia mendace amante.
E al ritorno dell’amata Sudavo ancora dentro lei. Rinvigorito e frenetico Non mi accorsi Che nello specchio Come il sudicio Gray Si imprimeva il ritratto Del mio misfatto.
Andrea Pesce
Hagelseewli
Silenzio Colore Buio Dinnanzi alla sudditanza Del Hagelseewli. Ho subito Un buco nell’anima, E nel limo Del suo fondale La pietra che Con spavalderia Ho gettato È identica
Ad un mio organo. Volevo rompere L’identica Forma Del mio presente Ma ho concluso la giornata A piangere parte d’umanità E sudare il grigiore Del feroce cittadino Metropolitano. Sento dentro Qualcosa da allora: In quelle acque Un frammento di me dimora.
Andrea Pesce