Fischi di carta 9 (09/2013)

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Fischi di carta

Settembre 2013 Numero 9

Poesia di cinque giovani fischianti

Illustrazione di Sara Traina

Editoriale

E scusate lo sfogo!

Dopo le vacanze estive ci si riprende e si riparte, semplicemente. Voi - se non è la prima volta che ci incrociate - noterete delle differenze, fin da subito. Dopo lungo dibattere ci siamo decisi e l'abbiamo fatto: per una volta vi trovate a vedere davvero (e non a vedere leggendola) un'immagine sul nostro piccolo fascicolo. Dobbiamo un grazie sincero alla nostra amica Sara che si è adoperata per questa copertina che noi, con gioia, vi mostriamo. Vedrete inoltre altre novità aggiunte in questo numero: le poesie dei lettori si sono duplicate e ad esse segue un articolo del buon Mantovani che speriamo possa suscitare il vostro interesse. Poi, se qualcuno si chiede il perché del disegno in copertina, se sia solo uno sfogo dell'autrice o se nasconda un qualche significato intrinseco, sfogliate e leggete, non vi sarà difficile capirne il perché. Sono davvero contento di questa nostra evoluzione che sicuramente è un'evoluzione piccola, ma su cui abbiamo lavorato con amore. Dopo avervi parlato di questi nostri passetti - che hanno senso perché voi, leggendoci, ce lo dateavrei voglia di trattare una questione che saltuariamente mi tocca ma lo fa sempre in modo discretamente intenso, una questione ovviamente relazionata alla cosa che facciamo. Visto che non desidero dissertare partendo da verità che siano solo mie, decido di partire da definizioni comunemente condivise e su cui non ci sia proprio nulla da dire. Partirei dal lemma poeta che vi riporto direttamente da lo Zingarelli 2012: il primo significato dice molto stringatamente "Chi compone poesie". Molto bene. Il secondo invece narra così: "(est.) Persona dotata di grande sensibilità e immaginazione, che ricerca e coltiva ciò che è bello, nobile, ideale" e, poco più avanti, "(iron.) persona priva di senso pratico, che persegue ideali utopistici". Il terzo dice ”Indovino, vate” ma non tange il discorso che sto per farvi, quindi non lo tratteremo. Partiamo da queste prime due definizioni e proseguiamo. Ora mi rivolgo a chi scrive a partire dai miei quattro amici e colleghi: vi hanno mai definiti poeti? E vi siete mai sentiti etichettati? Parte di un gruppo ristretto e spettacolare non meno di una fiera selvaggia? Ecco, ora io vi chiedo: quella parola, quel poeta, è stata usata caricandola di qualcosa più simile alla prima o alla seconda accezione che vi ho riportato più in alto? Ora vi dico la mia: ho sempre avuto la

percezione che quella parola fosse usata con la seconda accezione, forse addirittura con un ampliamento di ciò che dice il vocabolario, prevalentemente con la parte (est.) buttandoci un malcelato pizzico di (iron.), talvolta utilizzato addirittura in modo non ironico.

Ecco. No. Mi spiego meglio. No perché personalmente odio essere inserito in una immagine del poeta stereotipata e che marcia, scusate se mi permetto, su ideali romantici e pedanti. Preferirei non sentirmi dare le botte di poeta che, pur raramente, sento darmi. Preferirei sentirmi poeta in modo sincero e senza “aura” o vanto, semplicemente perché scrivo poesie, proprio come il maratoneta è tale perché corre nelle maratone, il fruttivendolo perché vende frutta ed il postino perché consegna la posta, ovvero secondo il primo significato. Sia chiaro, non sto dicendo che il vocabolario sbagli: ciò che dice, basandosi appunto sull'uso comune, non può che essere esatto (è un vocabolario dell'uso, non ci sono puristi qui!)ma inevitabilmente ricade nello stereotipo e lo stereotipo, in quanto tale, non può che essere sbagliato. E so bene che sarei cieco se comunque non mi rendessi conto del valore ideale della parola poeta, d'altronde esiste la prosa poetica, e non è tale per questioni tecniche (prosimetro e prosa ritmica sono altre cose) bensì perché c'è un certo stile, tristemente standardizzato, che rimanda alla poesia. D'altronde uno stile è un modo di fare le cose, e, se si vuole scrivere, il modo in cui lo si fa è fondamentale, e più si ha carattere più si sarà mossi da questioni ideali. Però dico: non facciamoci accecare dagli stereotipi! Diamo alle parole il proprio peso oggettivo e impariamo - col nostro sincero impegno di scoprire - cosa si portano dietro, non accettiamo passivamente le strutture preconfezionate che si legano in automatico ad esse! Brevemente: siamo critici e sempre sinceri con noi stessi!

E scusate lo sfogo!

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YAWP

Un giorno, un giorno scoprii la Vita e mi frastornò come il tuono reboante, per caso, senza rendermene conto; passai lungo tempo col volto prostrato guardando a terra dolorante e confuso. Fu come un'ogivale punta di lancia che, inaspettata, mi fora la schiena, fu il più violento scontro, le prime linee degli [eserciti in corsa, fu l'ariete che scardina, la mazza che ammacca, la spada che, truculenta, si conficca. Poi mi risvegliai con una nuova fede insieme a pochi altri veri furoreggianti e come bibbia mi fregiai degli incensati libri dei [Poeti! Fu la mia scelta. Dopo la muta: cambiai forma, ne assunsi la corrosa di Poeta ed il cambiamento esteriore fu pari a quello [profondo: mondo mi cinsi di giunco, piegato all'immondo subire la Vita dell'Uomo. Ora lo capisco: siamo un rumore rutilante, di lame sugli scudi un TARATATÀ ed abbiamo tanta voglia di urlare! Avanti, proseguiamo, noi siamo i Poeti!

Non un sasso che frange lo stagno ma il terremoto che squassa la massa marina. Abbiamo l'umanità da affrontare, e lo faremo: siamo i Poeti!

Ci armiamo: la ferita da aprire è profonda! Siamo la manopola fregiata nello scontro: l'uomo affrontiamo che oggi decade nel buio, nel bavoso poltrire, nel morire inetto, combattiamo col favore della forza di esserci saputi alzare ed inclinato il volto

guardarci attorno e poi sferrare il colpo: UN COLPO, ancora un colpo ed il sangue della gente che ci prende ci sporca e ci rende esseri multiformi levigati dalle esistenze. Noi Poeti possiamo urlare al tempio dell'Oblio che, SÌ!, la Vita c'è dopo la Morte ed il furore è nostro nell'eterna memoria dalla dardania daga antica all'odierno nostro svelarci e abbiamo da affrontare una fatica iraconda perché puntiamo in alto per vedere il mondo, puntiamo a sfiorare col capo il moto ancestrale. Allora, solo allora forse ci potremo cullare ma ora è il momento di URLARE!

NOI

SIAMO I POETI!

Affronteremo il dolore e l'inerzia dell'uomo [moderno. Poi dopo la notte ci eleveremo al giorno ancora col rimbombo dell'urlo nei nervi, col gusto del sangue nella bocca e impareremo il sudore di chi affronta l'Oblio e [conquista l'Eterno coi segni in alto del firmamento e nelle palme quelli, sanguigni, delle unghie.

Poscritto: leggendo la poesia si potrà pensare facilmente che io mi contraddica rispetto a quanto detto nell'editoriale, me ne rendo conto. Tuttavia credo nella figura del poeta come colui che fissa su carta parole che possono essere un tacito e duraturo urlo, e nella mia poesia posso avere esagerato, ma alla fine anche noi, nel nostro piccolo, proviamo a farlo fischiando.

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Periferia

Ricordi il tremolio triste arrugginito dei lampioni? ero solo, eri lontana;

un'ombra sottile a sorridere e sfuggire osservare e scomparire.

Ricordo la neve rumorosa, piove dagli schermi dei bar: si posa sul resto, sul dolce profumo d'alcol, di notte.

Non una stella, stasera, intorno, un pianoforte distante.

C'è il vetro arrogante di bicchieri troppo pieni, pieni del ronzio, sordo, di quei volti molli, simili al tuo, già dimenticati.

Emanuele Pon (da Dalla Parte della Notte)

Passeggeri

Il fumo soffoca la nebbia viva, appesantito da quei passi sordi: osservo da una panchina arrugginita soltanto volti che non ricordo mai. Bramano tutto, cercano nulla, forse il buio: bruciano ricordi nella spazzatura di ventiquattrore lasciate indietro sulla strada, appoggiate, cadute. Lontano dal loro fetore di plastica in fiamme superano con un salto, sorridendo la striscia di sole annerito, negli occhi nuove stelle: pregano di strapparle ad altri quando il treno li inghiotte infinito, nel suo ronzio di fondo.

Emanuele Pon (da Dalla Parte della Notte)

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Hispania

Sull’istmo ho preso le conchiglie d’una vacanza ancora incolore. Da quel dì Per le strade di Tarragona è comparsa una tetragona figura in cerca dell’ambrosia che si assaggia nel viaggio. In sua compagnia seguivo le pietre del selciato romano, masticando le once di sabbia e il tessuto della notte.

Il ticchettio d’una sveglia antica come la seta della poltrona, su cui ignaro ho investito minuti del giorno, mi ha instradato nel sentiero d’un dubbio postumo. Su quegli scogli duro come il marmo, in quelle strade unto d’indolenza forse ero io.

In vero di quest’avventura in anticipo ho scrutato il fondale pregno d’indifferenza, perché nelle conchiglie di quell’anfratto ho preferito ascoltare il rumore del mare.

Playa

Atentoni lungo il porto mi sono perduto nel El Besòs e lungo la riva ho spremuto la ferocia d’un anno gravitato sulle mie spalle. Gremito era il portafogli prima di perdermi a desinare con la forma dei bicchieri orfani di alcol. Ho visto la realtà mutare con il muso intinto di sabbia aspettando il mattino che stentava ad arrivare. Come i miei amici ci siamo fermati alla locanda e senza l’oste abbiamo contato colmi di divertimento il pasciuto rumore del vuoto. Ho raccolto le pietruzze dei ricordi sbiaditi della notte nell’ore del pomeriggio, cercando di costruire la ragione dello sballo. Infine ho appreso un altro capitolo dell’esistenza: siamo carenti di quello che vogliamo per la paura di averlo davvero in mano.

Tutto ciò ho imparato a chiamarlo Destino.

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Andrea Pesce
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Vacanze in Campagna

Sei partita stamattina in un campano estivo mattino di rugiada, il timido sole all'imbarazzo dei suoi raggi. Io ero ancora sopito e non ho sentito i tuoi movimenti: la preparazione della macchina, la trazione dei bagagli, la collocazione, il lieve sudore per il peso, l'accensione; no, io sognavo di qualche mito antico e di una speranza più lontana delle stelle. Al risveglio solo l'abbacinante luce del sole e un'assenza che sento abbarbicata sulla nuca, la tua presenza asportata come un organo, malato forse, donato ad un tale più bisognoso.

Ma nell'arsura della vita il tormento più acuto è il forzoso silenzio impostomi come condizione di sopravvivenza ai casi dell'esistenza.

Sei partita presto questa mattina ed io non ho sentito il mio dolore, forse perché sognavo così profondamente forse perché mai fosti lì veramente.

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Comandamento numero 0

Non odiare, piuttosto rompi Un fiore e piangine. Chè il pensiero ritorto Come un truciolo di sole Ti torturerà, ti brucerà. La natura ricrea, perdona. Cosa prova a essere sopra Le cose, torre abbandonata, Gloria di rudere e maceria? Non certo boria, o verde Paura, o vergogna, invidia. I forti sospesi sulle colline Vegliano in assopita fermezza, Sopra la città, confusa, Di parole polverose, rumori Di felicità, su di noi, su me,

Sul mio occhio, fermo, Che s’è fissato d’esistere.

Silvio Magnolo

De Ferrari

La luce copre metà Di questa pagina E il mio ardore si rifà D’ombra improvvisa.

La parola tremerà Nel presente, La rosea fontana Che mi bagna la mente,

Soave relitto di qualcosa.

Silvio Magnolo

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Le poesie dei lettori

Sulla scia delle novità inserite in questo numero abbiamo deciso di arricchire la nostra rubrica! L'idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

Davide Roccati nasce a Genova nel 1992. Indossa sovente camice turche. Da qualche mese a questa parte si diletta nell'umile mestiere del mimo (potreste averlo già incontrato e potrete anche in un futuro prossimo) ed è attualmente alla ricerca di una propria via. Nel mentre si applica in diverse forme d' arte, tra cui la musica e soprattutto la poesia. Infatti scrive e suona da quando ha sedici anni, ma solo di recente si orienta verso la ricerca di una propria personalità artistica.

CARA X.

Se è vero che spero promitto iuro reggono l'infinito futuro ma anche se non

Io spero di vivermi un futuro infinitamente grato al presente contingente

Il passato ecco a lui sarò infinitamente grato quando mi sarà passato sin-cero

Quindi prometto a chi?Ame di non accettarmi una vita inautentica caro Heidegger

Giuro al caro Charlie C. che sarò solo finchè non troverò il dono di piacerti così come sono

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Il secondo autore che vi presentiamo questo mese è Dario Carere. Dario nasce a Reggio Calabria nel 1990, e si trasferisce a Genova nel 2001. Da sempre lascia ovunque foglietti pieni di scritte e macchie d'inchiostro. Scrive poesie, racconti, romanzi. Sta per laurearsi a Genova.

Poltergeist

Fossero di moda le apparizioni Incipit: uso troppo comune della sintassi nei supermercati, o durante i viaggi in treni negletti e ingialliti d’ansia, o in centri commerciali schiumosi d’adolescenti e lusinghe di cantici suasori, direi che mi sei apparsa in un serioso squilibrio d’organza, : e sarebbe come avere un motivo, forse, almeno per oggi, su cui bulinare tripudi e slanci.

- per i sabati spesi in fumo e porno per le pance infingarde d’impiegati per le chieriche lustre di partito per il quotidiano schermo/rosario, biondo strale di pizzo la tua linea severa, incesso di neve e nebbia il tuo sguardo senza dolcificanti, poltergeist per cavi palazzi e tasse, “L’ho fatto APPOSTA per attirare l’attenzione: uno ad uno lontano e più lontano è straniera e paranormale”, n.d.P. scagliante con ripulsa gli aneurismi della noia comune

- Fosse di moda piangere e gridare come una Fedra che non è costretta a lavare stoviglie a cambiare i piumoni a fare da mangiare a buttare i rifiuti, nobile sarebbe allora il mio grido, e sublime, magari, il convocarti a testimone del mio bolso attendere.

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Un Uomo allo Specchio

Una delle novità strutturali della rivista è questa rubrica, spazio mutevole dove tratteremo, di volta in volta, temi e autori che ci possono sembrare interessanti come proposte di lettura. Inauguriamo dunque questo spazio parlando di letteratura turca e presentando la raccolta Un Uomo allo Specchio di Cahit Sıtkı Tarancı (1910-1956) pubblicata dalla casa editrice veneta Lunargento. Ammettendo una certa ignoranza riguardante il panorama nazionale della poesia turca contemporanea a Tarancı non intendo addentrarmici, rimando gli interessati alla postfazione del volume che illustra bene questo rapporto poetico tutto turco di influenze, echi e discordanze. Ma iniziamo questa tentata analisi. La poesia turca, qui in Italia, è spesso -e con giusta causa- associata al nome di Nazim Hikmet. Dico con giusta causa perché la sua opera poetica si radica nel contesto sociale turco di quegli anni compenetrando e riflettendo a pieno i suoi problemi: a diciotto anni Nazim passa dalla natia Salonicco in Anatolia, scoprendo le origini del suo popolo e le sue lotte. Appoggia l'impeto d'indipendenza, il sudore e il sacrificio che bisogna impiegare per vivere, e ancor di più per vivere liberi. Non a caso ricordato per le sue Poesie d'Amore e di Lotta, Nazim, oltre che l'intimità dirompente del sentimento umano, scopre e canta le radici di un popolo anaflabeta che combatte con armi preistoriche, insieme a cavalli magri soffrendo la fame. Ma dall'altra parte, chi? Sull'altro versante sta l'alta società borghese, quella delle Chevrolet americane, di Istanbul, i cui figli dabbene compiono gli studi nelle capitali della cultura europea, estraniati in una sorta di feudalesimo anacronistico e assurdo vivono separati dai problemi del quotidiano che affliggono la povera gente dell'Anatolia, baloccandosi in quei sogni decandentisti in un orizzonte puramente soggettivo. E Cahit Sıtkı Tarancı è proprio uno dei massimi esponenti della poesia che canta questa società imborghesita e fuori dalla realtà. Rampollo solitario e di non bell'aspetto Tarancı sviluppa una poesia di disimpegno, strettamente intimista, legata ai suoi personali problemi ma non recettiva di altro, chiusa in se stessa e nella sua solitudine. Questo è appunto il motore dominante del suo canto: La solitudine nella mia vita è, per l'appunto, il titolo della sua prima raccolta datata 1933, faro per questo lavoro non può essere che Baudelaire i cui fiori del male Cahit legge durante gli anni trascorsi al liceo francese. Questa nostra silloge

riassume il percoso dell'autore divisibile tra due poli tematici: il primo, di tempo giovanile, legato appunto alla sua esclusione, all'essere solo e senza nessuno -con il contrappeso dell'evasione-; il secondo inerente ai grandi temi della vita e della morte con una forte carica pessimistica. Un uomo allo specchio dunque, ma perché? È nei turbolenti anni della giovinezza, tra liceo e università, durante i quali il giovane poeta si sente sperso tra la moltitudine anonima della folla di Istanbul o ingrigito tra le piccole pareti della pensione studentesca, lontano da casa e famiglia, che va ricercato l'emergere di questo senso di nonappartenenza a qualunque cosa, un sentirsi ''fuori di chiave'' solo al mondo e nel mondo; senso che non smetterà di attanagliarlo nemmeno quando si trasferirà nella sua sognata Parigi. Credo, a mio avviso, che sia proprio il suo primo periodo quello maggiormente esemplificativo dei nodi tematici più rilevanti. Non ci stupiamo perciò, alla luce di quanto detto, di versi come: ''Corri fra le braccia aperte del tuo letto/ [...] lontano dal ricordo di un giorno duro assai./Negli intimi sussurri e nell'amplesso/ lasciate il sonno a dopo, quale un bacio della fine;/ lontani dal ricordo di un giorno duro assai.'' (Il Letto) dove il rapporto con il letto è anche correlativo di una sessualità frustrata che si combina con una definizione negativa dello spazio condiviso con altre persone; o ancora: ''mi affaccio e vado via./ Non ho chiara dimora, nessuno che io ami''(Vado via). Percepiamo così una frustrazione relazionata all'incapacità di essere accettato che congela le sue opportunità di vita; oltre che le grandi assenze ''di provenienza'', come la famiglia, sempre più grande si sentirà l'assenza ''contemporanea'' della donna, l'amore vanificato, l'inanità di ogni tentativo: ''Non ho un amore che senta ciò che sento io'' (I Miei Giorni). Ed è il senso di non appartenenza e di esclusione a generare tutte le tematiche che troviamo nella raccolta: solitudine, pessimismo, rassegnazione, esclusione, estraneità, specchi. Tutti questi sono indissolubilmente legati ma mi preme presentare proprio l'ultimo dell'elenco. Lo specchio è vissuto come unico interlocutore della solitudine: ''Chi mi capisce se non il frammento di uno specchio,/nello sciogliermi come cera in queste nozze senza fine?/Fraterno è il soccorso che mi recano gli specchi:/senza di loro, che farei mai nella mia vità?'' (La Solitudine). La solitudine si fa specchio interlocutore, riflesso, salvezza, ma viene anche da

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chiedersi il perché dell'ultimo verso: guardarsi allo specchio è un'attività degna di vivere? Forse. Lo specchio viene vissuto in molteplici maniere dal poeta e una di queste è proprio l'evasione; nemmeno noi siamo estranei a dei mondi ''negli specchi'', basti pensare all'Alice di Lewis Carroll dove lo specchio diventa strada per un mondo differente e completamente rovesciato, la ragazza entra in una nuova dimensione, fantastica certo, ma in qualche modo connessa con la nostra, l'essere dentro lo specchio fornisce una nuova prospettiva da cui guardare la vita, questa nuova ottica è poi popolata da creature strampalate tra le quali degli scacchi che ricordano chiaramente un altro romanzo dal tema affine e cioé La scacchiera daventi allo specchio di Massimo Bontempelli dove il bambino protagonista, vedendo il riflesso di una scacchiera nello specchio, intavola una discussione con il re bianco riflesso che lo introduce alla stessa dimensione ''al di là del vetro''. Questo per dire che non è una novità il ricercare altro nell'immagine specchiata, un mondo di evasione e forse, per una personalità così a disagio, anche di comprensione. Se nella dimensione di una poesia “in ritardo” come quella Sereniana gli specchi sono ciechi (vedi Piazza in Frontiera), non più atti a riflettere il vuoto che permea le cose, in Tarancı essi sono il luogo dell'accoglienza: ''O specchi, specchi, amati specchi,/nessuno quanto voi mi ama e mi capisce./ e quando sarò morto, chi come voi/saprà pensarmi e custodire il mio riflesso?/Specchi, specchi, solo voi.''. Comprensione dunque e accettazione paritaria in un consorzio di esistenze ricercata in luoghi sbagliati: gli specchi, le ''quattro mura'' della camera; ''Il soffitto si è chinato su di me, come una madre,/i muri mi sono intorno come fossero fratelli,/rivolti ai miei gli occhi misteriosi.//Dire vogliamo, ma la voce non ci esce:/ e batte questo cuore e di chi è, il loro o il mio?/ Si mischiano e confondono i sospiri miei e loro.'' (Il Silenzio della mia Camera). La descrizione di una camera non personale, in affitto, provvisoria come l'esistenza contingente che si sta vivendo, non può che richiamare l'esule Hikmet a Berlino: ''Anche questa mattina mi sono svegliato/ e il muro, la coperta, i vetri, la plastica, il legno/ si son buttati addosso a me alla rinfusa/ e la luce d'argento annerito della lampada// mi si è buttato addosso anche un biglietto del tram/ [...] e la camera d'albergo e questo paese nemico/[...] mi sono svegliato anche questa mattina/ e ti amo.'' ma quanto distano tra loro questi due spazi! Entrambi

condividono un' intimità sofferta, ma il secondo reagisce ad una condizione oggettiva (l'esilio) con tanta forza quanta è l'abbandono del primo al proprio mal de vivre. Non voglio certo con questo, si intenda, negare i risultati più che apprezzabili dell'intimismo di Tarancı, sono semplicemente due piani di sentire differenti. Ma torniamo agli specchi e al gesto di guardarsi, palliativo denudarsi e ripiegarsi su se stessi. Lo specchio assume altre caratteristiche forse più inquietanti come riflesso di sè, della propria persona. Per J.L. Borges lo specchio è un elemento deformante perché il dato che riflette non è profondo e fugge in spazi metafisici di nulla e vuoto. L'uomo presagisce nel riflesso la stortura interiore a lui, quell'abisso che sente dentro e attorno a se, che non vede riflesso ma che percepisce lì, incombente in qualche angolo non remoto del vetro; e se accade che Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila di Pirandello, viene portato sulla strada che gli svela quello ''spontaneo artificio'' che è l'autocostruzione umana semplicemente dal guardarsi bene in uno specchio, con Gozzano ci si lamenta che l'essenza vera dell'uomo ''non può per intelletto esser compresa/da poi che l'io solo con se stesso,/soggetto, oggetto della conoscenza,/come uno specchio vano si moltiplica/inutilmente ed infinitamente/e nel riflesso è prigioniero il raggio/di verità che l'occhio non discerne.'' (Ah! Difettivi Sillogismi); così anche il nostro Cahit percepisce questa inquietudine: ''Quando mi apparto, dagli uomini lontano/ e resto a tu per tu con il mio specchio/quello tace e nel riflesso mi ricorda/che un uomo sono anche io alla fin fine.// il mio specchio mi rivela e dentro e fuori/come un gigante e insieme come un nano,/lo sento quel contrasto e mi spavento'' (La Forma Stretta) o ancora, e meglio, ''Il mio riflesso nello specchio, la mia ombra ed io./Quelli ci sono o non esistono davvero?/Quelli non sanno delle mie tribolazioni;/provi uno di loro al posto mio.'' (Un Mio Istante). Lo specchio dunque come elemento di separazione, estraneità rispetto al mondo -''E invece me ne resto dietro ai vetri'' (In un Clima Lontano)- allo stesso tempo però evasione, conforto e accettazione, sutura di uno strappo tra l'io e gli altri ma riflesso del proprio inesprimibile e non esternabile abisso, custode della storia intima, toccante di un uomo che riflette se stesso e su se stesso, in quel senso di profonda e anonima fragilità che si prova seduti da soli in una stanza a guardare i propri occhi scrutarci da quel mondo pieno di significati non colti al di là del vetro.

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Contatti

fischidicarta@gmail.com

Per lodi, insulti, consigli, proposte, domande e quant'altro potete contattarci a questa mail. Usiamo un solo indirizzo in comune, perciò se qualcuno volesse contattare uno soltanto di noi deve semplicemente specificarlo. Grazie! www.facebook.com/FischiDiCarta www.twitter.com/FischidiCarta

Tutti gli arretrati sono liberamente consultabili all'indirizzo www.scribd.com/FischiDiCarta

Fischi di carta è fondata ed animata da:

Federico Ghillino autore di Rintocchi d'ombra (Habanero, 2011) e Corrosione (Habanero, 2013)

Silvio Magnolo autore di Guglie di vento (Ibiskos Editrice, 2013)

Alessandro Mantovani

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

Andrea Pesce

Emanuele Pon

membro della Società dei Masnadieri (www.facebook.com/SocietaDeiMasnadieri) autore di Dalla Parte della Notte (Noirmoon, 2013)

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