Di me e del mio sangue (un'alegoria calcistica)
Alesandro Mantovani
Di me e del mio sangue scrivo della partita che anche cominciata non ci dicono se e quando fnisce, in cui non ricordo di aver frmato tutta quella serie di documenti capiziose burocraticità tipiche dei grandi eventi nelle quali sono abile a sbagliare casella o gruppo. E non se i tacchi che ho sotto le suole siano suffcienti, anche se erba non ne vedo anche se sembriamo tutti molto troppo inadatti a tramestare coi piedi come scimmie e il sole è dritto, il collo nel sudore di chi senza volto si avvicenda non spiegato, da imparare, su tutta questa terra battuta e ribattuta che appiccica arancione ottura le narici, offusca la visione. Lo stadio è troppo grosso di granito e di lamiera di classico e moderno di centurie o di pezzenti, i qui presenti non invitati al pallone, come fosse nutrimento, rabidi nell’angoscia angosciati dalla corsa.
Mio padre sta in panchina il femore ritorto “vorrei tanto ma non posso” dice rosso gettandomi a terra chiavi di non so che cielo automobile porta o soluzione, che le volevo prendere io prima del fschio di calcio iniziale e invece le ho perse trucco tradito per evitare la lotta. Dietro di lui tutti gli altri in fla riservisti malandati per il tempo e le stampelle così inattuali da non saper muovere se stessi o una parte dello schema, loro intimo fallimento l’agire non credendo all’azione collettiva alla costruzione defnitiva al totem schifosamente irregolare fatto con tutta questa carne strappata macerata e rigonfa rivoltante e necessaria che versiamo oltre al sangue, giorno per giorno in tributo al tempo. Da fermi mi implorano un tifo di lacrime per le donne e per i fgli ma io sono un calciatore irrispettoso delle categorie spazio e tempo – non metterò
frutti oltre l’ultimo minuto, oltre lo scatto performante in cui non so protendermi. Dunque? Siete ancora vicini?
{“E lei come gradisce?” “Vorrei cacciando i leoni. Fucile di tracolla sudore dentro al cuoio sul respiro della fne, spasmodico lottare come bestie primigenie, per il pelo la carne e poi conquistarsi giù nel petto il dolore delle emozioni.” Così dabbasso mi rispecchio anche nel pubblico, nel signore col giornale, chissà quale anche lui forma primordiale, mio cromosoma irreale.}
Poi dall’angolo vuoto il turista o scafsta al telefono che prega, lo sento: “Querida, mi vida, las sombras adonde ahora voy son huellas de tu cuerpo. Y donde estas querida? No me dejes perder este juego porque solo una vez lo aprendì todo y nunca puedo mas hacerlo.” È lo spagnolo che
s’impara sul banco della strada nel caffè di San Miguel dove ho vegliato notti di balconi insonni, segugio impantanato.
Poi mi fssa, chiede il cambio e lo vedo Don Chisciotte, lancia in resta su palloni per non vedenti, si stropiccia nell’azione nel braccio da colluttazione fantasmatica, cade si ferisce impreca sulle croste di sangue alle ginocchia e la terra rossa che lo copre – mica siam professionisti –, toro y sangre da corrida “Ay querida todavia me pierdo en los rincones. Vees otra via? Que yo no quiero no puedo y no siento otro dolor que de mis piernas asì deshechas en el fnal, la rodilla de fracaso, el tobillo mas doblado y aunque de nube en nube oigas gritas estrelladas no me mires como estoy, tan pinto todo de negro.” Si trascina morto per le mani,
unghie sud occidentali il lerciume il sudore il guano e le lumache e del ceviche tutto fuori dallo stomaco. Stramazza il fato e la vita, lo guardo, lui altro cambio fallito nell’immensa partita.
Dopo il barelliere ed il minuto di silenzio il fato mozzo, sozzo scopro il singhiozzo della gamba dell’orso che sta di fronte, il tremore al lato del terzino. Si tratta di errore difensivo spiegano i tecnici ma nel mucchio non so come io la prendo la porto avanti la donna o la palla che mi lega al suo rotolìo ed i piedi biascicanti un senso tentoneggiano colpi senza coordinazione. Ed ecco la stirpe trasandata subito a festa per l’azione ancora non fnita, si alloreggiano ma il vero è il muro del portiere che per non fare ombra ai rimpianti tra l’erba mi prende in mano dentro l’area e sedendo “Questo mare di salsedine e malattie – dicono – lo avevo scordato per gli anni trascorsi a battere chiodi sulle antefsse del futuro.
Ed ho anche capito che il tempo solo ci riesce ad ingannare bene e il tarlo fremente lo abbiamo tutti nei muscoli fbrosi e tesi in ogni movimento a riempire i vuoti, soprattutto la notte con gesti di saggezza.” Poi ci alziamo e nella bibbia della mano rinvia a giudizio le mie pallonate e i calci alla pancia che ho tirato sugli stomaci avversari con gli errori involontari e sulla pelle di mia madre.
L’acqua che non vedo la sento tutta sullo scoglio levigato che sembra volersi fettere roccia impossibile tesa ad essere assenza. Sarà pure il caldo e questa clausola colloquiale che additereste tutti, signorotti scrannacei, eppure io ci credo al miraggio del cavallone che copra i maledetti spalti, ma voi ancora cosa ridete lassù, sotto gli ombrellini da cinesi in vacanza?
Non avete niente a che spartire con me, che trovo il mondo sotto questa terra, nelle tute di ordinanza dei guardalinee, nella mucca che irrompe e che sembra una visione infantile di quando si sapeva che anche gli animali erano noi e che carne polpe e sangue stavano negli stessi posti. Ora lo scopro, allora, e abbandono il gioco per il coltello lesto di taglio e la squarto la vacca, come compagno incosciente di un Odisseo, la apro e mentre diventa pars mei mi sento vivamente violento evoluto (è voluto?) il gesto che poi dal sangue passa al vino rosso. Tanto disgusto da fermare il gioco minuto di riposo entra il flippino, secchio acqua e straccio.
A un dato punto della gara irrompe la palla terra di rosso piena di latte, uova e il resto di quello che hanno lasciato gli uomini sui tavoli del bar o nelle cantine impolverate. La prendono tutti gli avversari
come uno e vedo lo scambio di punta il passo il cambio del centravanti e dico anche io -cambio dico che voglio un -cambio di maglia di pelle di anima di ossa quelle che ho rotto alla bestia come barbaro ineducato per la mia stessa evoluzione che non so dove mettere che non so dove la mia squadra scalcinata stia per interposte stampelle incastrata immobile in una perdita anticipata già a metà tra il campo e il sottocampo tutta ancora perfettamente viva e anche se grido cambio cambio il cambio vedo la frotta avanzare, il temporale alle porte e grido CAMBIO e gli occhi di tutti sono umidi di un pianto che schiaffeggerei e grido CAMBIO e strozza la gola.
Ma ecco poi mio zio mediano di fortuna tra la nonna in carrozzella, la badante poco bella i diari della motocicletta che non ha mai scritto pugni serrati, unico esempio di omitá per me spaesato nella lotta da animale, nell’apprendimento sociale della vena e della catena; e rosso rosso corre su se stesso
si calpesta i piedi dice “mamma quanto ho perso anche io tra le donne ed il furgone, non trovando mai neppure la giusta chiave inglese per allentarvi un po' più tutti, a parte te” eppure si slancia graffa selvaggio e aggredisce la sfera perfetta che vuole donare all’amore dell’anima puttana che lo può ancora aspettare sotto il tettuccio di una fermata per bus nell’ultima via in fondo a Cornigliano. E non sapendolo, ci fa assaggiare un dolce alla pietà di Cristo, per questi perdenti senza coraggio riconquistato il vantaggio ignaro verso il suo miraggio già morto sparisce tra la folla epicamente convulso.
Nessuno lo aspettava ma è insistente il trillo monotono e indifferente di un telefono, specola di altrità di chissà quale voce. Me lo lanciano e “Pronto”
Eccola, mia madre, grande assente indenne non voluta o ferma ancora col biglietto ai tornelli di ferro
“A quanto siete?”
Ancora a zero, pare, dico del sole, che se non mettiamo un cappello... Dell’arbitro che non ho visto e il senso di ingiustizia che pervade ogni azione non fschiata tanto che “Mamma, ci vorrebbe davvero qualche fschietto da usare per fermare o per far muovere asini incaponiti o mandrie estrose tutte incolonnate e fallose nelle volontà di vendette non commesse.” Ma soprattutto il dolore di sentirsi incerti nell’inadeguatezza delle gambe quelle senza allenamento. “Tranquillo, bevi tanto” prima si raccomanda, poi chiude momentanea.
È più dall’attaccante nemico che s’impara, nella schermaglia a quattro zampe, a difendere tutti sui polpacci con movimenti a scatto, tesi nel fato corto da dilettanti. Io gli vorrei chiedere di queste foglie così caduche che mio padre non mi ha mai insegnato, da che albero vengano,
ché fno in cima alla gradinata solo teste.
E invece imparo, come plasma imitandolo, il dribbling tra i pesi, i picchi scoscesi della vita, al passaggio gamba a gamba piede interno e poi l’assist fno al fondo dove la punta manca o non conclude. Lui quindi, apologeta da sconftta direbbe che le foglie sono quelle di Mimnermo, del tempo accartocciato, immerse nel ciclo perenne da cui tutti un po’ vorremmo uscire “Se vuoi l’infnito – direbbe – fatti ago sempreverde e reggiti saldo, anche se a fatica.’’
Finalmente chiedo cambio, vado e vengo e nel riposo scorro i resti della panchina così malconci e ignoranti, capre zoppe, da pensare “Chi spera di vincere questa partita?” Eppure la lumaca l’ho vista forse in sogno così ostinata nell’incedere contro al proprio limes sul confne del bancone-bar quello delle noccioline
per il prima e per il dopo. La osservavo e no, non voleva smettere di salirlo il monte di legno e plastica, che tanto – diceva – avrebbe usato bene il guscio, che la mano non l’avrebbe danneggiata; per che mai? Per che male? Quando poi l’ho rivista in pezzi nel cestino ho pensato avrà scrocchiato come la sabbia in mezzo ai denti la sua morte e che forse non possiamo slimitare e valicare come vaccari o mandriani i gioghi di questo tempo che non sappiamo, non certo senza il passo cadenzato di una guida esperta. Mi coglie di rifesso il doppio fschio, resto lì, intervallo. *
[E tu che sei Ermes, da quando non ne ho idea, che passi nel silenzio i crocicchi delle vie i mercati di Palermo le babeli mediorientali; tu, psicopompo e flo di rame come le braccia con su Priamo perché non vieni? Ambiguo di scaltrezza che dici annunci e parli, arcangelo per quelli senza un dio, quando vieni a interrompere questo gioco perverso? Con che dito guidi l’emigrante o la mano col fucile verso l’idea della terra promessa e noi all’eden perduto?
Perché se sei volpe l’uva non t’inganna e nemmeno le ruote dei bracconieri che possiamo bucare coi canini o gli incisivi simulando i roditori. Ma non c’è più tempo dio benevolo, che ho visto solo in legno in una villa a Bologna, tutta senza senso come il tuo dito alzato a dire che le nuvole oltre il tetto c’erano e belle dense che la grandine è il sollievo rispetto a questo deserto. E dunque non strapperai
il terzo fschio dalla bocca dell’arbitro che negli occhi uno prima lo ha visto Caronte, intromettersi nei corridoi di pietra dello stadio a battere col remo di nascosto quanti in vero hanno già perso. Ermes, se non tu, chi ci guida?]
*
All’intervallo trovo il padre nel rifocillìo, come capitano a cui non so affdarmi io che desisto troppo spesso dal correggere le posizioni in campo. Gli spogliatoi hanno sempre l’odore della lamiera d’uso quella che non importa a nessuno che fa comodo volta per volta, come donna a pagamento da bisogni di un momento. L’adunata è medievale, coi signori coi vassalli i servi i contadini e le cento salmerie le bestie da traino e i cavalli, che siamo un po’ tutti qui a correre senza trama. Alzo la mano, lo scettro da Miceneo e lo faccio presente, lo dico che forse sarebbe bello vederlo il fuori, il sole che ci arrossa un po’ più da vicino oltre la veranda all’ultimo anello che a malapena copre quelli là, puntini deformi. Ma in fla tutti mi snobbano i saggi rachitici che è rinunciare ed è male che la vittoria va col sangue, non ancora così intersecato
da farsi sudore e acqua e vino, mi spiegano che c’è un ciclo di sperma, come quello dell’acqua in natura tra cielo e terra e sotto che pare mi ostini a rifutare e che le colpe sarebbe meglio non commetterle per non reiterare, per loro meglio è tentennare. Allora mi scuoto sibilando rabbia e lo vedo nell’ombra più grande di altri, lui, Eracle fallito, le membra da animale intento alla sopravvivenza, dice: “Ma no, non andare dove lo sprint delle gambe non ti può servire, non oltre la curva tra le panche dello spogliatoio o ancor peggio nelle vie fuori dove i bambini bruciano insetti per sadismi totalmente irrisolti. Non andare in quel bar oltre il crinale ove consumarti, tutto consunto all’interno, qualche treccia alla ricotta o una granita di gelsi in offesa al caldo. Lascia che segnino questo punto infame lascia perdere le bocche di leone su in cima alle vette, perché se di sangue ancora abbastanza
non ne abbiamo versato la catena di gocce già ci stringe anche nel bene, anche nelle dita gonfe e tese nel colmare lo spazio, che è troppo, tra noi e loro. Ci punge il cuore una umana linea meridionale di disattese vacuità e ozi, ma la sfera, se la vedi bene è davvero solo plastica e puzza e scioglierà a breve. Tu però non abbandonare la tenaglia i propositi il dramma di questa maglia su cui non ho mai letto un numero su cui il cognome è un falso che ne vale tanti altri, vana forma di necessità da te stesso equivocata. Puoi anche toglierla e non fa niente gli eroi hanno già vinto per tutti senza edifcargli il futuro, lascia i meriti l’oro secco e le coppe torte in rovina a ricordargli il tempo perenne scorso e irrimediato. Tu resta con me a sminuzzare nelle mani sudate i pinoli che ogni giorno meticolosi scorgiamo tra le pigne inerti di tutti questi sempreverdi inutili pini e abeti
inusuali fgure da miraggio tra le righe vuote del campo.”
Prima del rientro movimenti troppo lenti prendo congedo dal tragitto mi siedo e c’è scritto “Catania” sul trono del vecchio che millanta essere barbiere a cui assomiglio così tanto e che sciorina le sue perle da vecchiaia disoccupata. Io mi guardo e vedo forse i labirinti che non capisco fessi nelle pieghe delle immagini, i volantini malconci ai muri sfregiati dalle piogge, i calciatori pentiti dal tacco d’Achille o piede o menisco, e tutti in seguito passano ad ogni taglio gli io sfaldati dal tanto passato questi untumi residuali dai quali forse mai sarò pulito; poi continua che era meglio passarla a destra, che il pallonetto si fa solo con certezza dice che non gli è piaciuto il gioco a due punte e non l’intoppo disarticolato sulla panchina
che potrebbe ricordarmi mio padre, ma che non lo fa. Allora provo tangibile il rischio irrimediabile di perdersi, tutti quelli che so e forse anch’io sciacquati giù come peli nel lavabo. Non pago, me ne vado.
A centrocampo mi spingo alla battuta sotto il fschio (di chi, poi?) per l'impostazione di gioco e trovo la pecora nera, lo zio col nome del santo dopo Natale, la festa secondaria, fatto anche lui con gli scarti delle consolazioni.
Biascica, – la palla! – gli grido, ma biascica, la bocca leporina ridotta ad un brandello “Io non lo sapevo quanti e come sarebbero morti, non lo sapevo che il tempo non sfruttato ci deteriora e marcisce, il tempo dell’invidia o del sollazzo accresce il Muro e sempre peggio è scavalcarlo e io son vecchio di voglia e di passione. E allora vetraio, vasaio, chi tu sia artigiano per queste mani crea un’ultima barriera, ch’io non possa superarla, fai della mia vita un rimpianto un po’ più comodo e giustifcato
per esser pago del mio fallimento.”
In quattro gli avversari murano il tiro macilento, la palla un po’ strappata al bordo si sposta senza vita, come i tappi di bottiglia troppe volte buttati a terra. E il muratore a me “Non provare pietà, siamo ciò che facciamo, ma il tempo, quello sì, cattedrale di fretta di incoccature, di linee da tracciare prima dell’inverno, di solchi da fecondare fnché si è in tempo, nel tempo. E dare tempo? No, il mio tesoro più grande è quanto ancora posso investire, come droga in vena al secondo al minuto, che sia mordente per l’irrefrenabile desiderio di costruzione, lassù, sempre più in alto.’’
Prima di battere il calcio d’angolo li vedo, là rintanati, i vili, nello spicchio di ombra sotto gli anelli; e dire che pensavo fosse perennemente mezzogiorno e invece qualche buio s’allunga come linea metamorfca, un Ade da discesa, alla quale non siamo pronti e “come vedi c’è già fnito qualcuno” ammicca l’amico che legge nel pensiero
“tu fuggila la linea d’ombra che inghiotte con l’indolenza; ci sarà il momento di varcare usci indicibili, ma sarà per combattere ancora.” E tra quelli là, alcuni pure della mia parte, uno prova a tornare al campo, al sole, le mani già di cenere si riscalda sul confne ma lo interdice un guardalinee che non vedo o il limite delle sue scelte.
Scatta dunque il calcio il pallone che sorvola è colomba di Cristo ulivo in bocca da afferrare come cacciatori nordici, fucili imbracciati, ansia brutale. Lo schema è fuido, i passi funzionano di copertura, si smarca repentino mio padre con valore, entrato non so quando. E per me, bambino nato solo, è lui lì un titano mastodontico e incedente, si strappa di dosso le minuzie degli avversari, con le mani da rematore, entra in chiave fuori area e nello spasmo dei muscoli tira, cannone da fregata, pregando che un punto, anche solo uno, possa liberarci tutti
dal peso dell’esistenza e dalla nostra carne andata a male. È traversa fschio rinvio, lui piange silenzioso, i generali non possono vacillare.
Nel gioco, ma per serio imparo tutto a farmi fume per costruire il letto, i detriti solo in avanti ché i fasti o le ragnatele dietro sono già pronti a intonacarsi nei sempre della storia. Ora la palla che è placenta e vita, sacca di liquido d’ebbrezza movimento di linfe umane a cui attaccarsi, la voglio tutta e nelle mandrie del pastore che pensava ancora d’essere tra i ruderi del Colosseo, ci sono sopra con un movimento da bandito contrabbando di piaceri, parto in contropiede e il primo davanti troppo lento lo fotto con parola volgare sulla fascia lo sgambo e lo salto perché forse è un terzino che si accontenta di passare solo la mediana del campo, che dice “basta giocare di là…”
e allora addio ignavo mediocre mio specchio di paure, di ozi capuani in cui perdere le braci ardenti che se scottano producono fatti, mio fotto di sangue esternato, di gene imitato con gli occhi del padre. Col coltello nel cuore lo seppellisco in fretta dopo il pallonetto lungo tanto per sviare l’attenzione. D’ora in avanti vada avanti. Forsennatamente.
Azione d’attacco, schema funzionale alla chiusura della partita, io, sempre più indietro di tutti che forse è meglio evitare la responsabilità d’esser soli nel contropiede e poi si evita pure il fuorigioco che se sei bravo e segni non è poco, preferirei in compagnia, tre o quattro e la birra o il vino (felicità endemiche) e magari non dover sobbarcare ogni peso, qualcuno lasciarlo in pace a coprirsi d’edera a bordo campo, da cui si vede bene una stringa di spalti, il taglio del cielo e la terra di feti che non restituisce frutti. Lo sbaglio però è uno: il rifutare il carico, l’ammollimento del sedersi. No. Correre correre correre in testa
sul roccione difensivo, scavalcarlo per tirare, anche contro la carica avversaria, battaglia tra opliti. Quando mi hanno preso sul corpo sulle gambe e spinto e battuto la terra nel naso, io pensavo ai manghi nel ghiaccio del mercato di San Miguel, a come si sentono esuli i sudamericani che ho conosciuto, tutti troppo perdenti e soli; pensavo a Tres Cantos, all’Avenida Colmenar, alla Quinta do Seixo, al Douro come un sentiero di frutti più vicino al confne. E tra la nebbia dell’ematoma li vedo tutti, uno zio centauro crepuscolare, l’altro nero di pecora sacrifcale, la madre inchiodata ancora fuori piangendo un fallimento più profondo del ritardo, il padre un po’ codardo, sforzato come me dalle pressioni disumane di una vita incatenata ai doveri degli altri. E la schiera di Bergamo o Bologna, le radici chissà dove sperse per la Spagna o un po’ più oltre dove Ulisse s’è rivoltato come il mio stomaco all’ingiù
per la pretesa di inglobare troppo per la velleità di essere tutto.
È una donna il soccorso che rialza il viso. Nel sangue molto a terra i richiami di qualche fglio da venire, quel sangue che darei a qualunque mano che lo sappia gestire, anche a lei, donna, e dirle: “Fanne qualcosa di buono ché io devo imparare ancora a gestirmi il petto, lo stomaco e le gonadi e mettere le mani sull’altra metà del mondo.” Ma nessuna che la sappia l’ansia della Fame, tutti troppo presi a controllare il centesimo di resto lo strato della polvere a chiudere bene le fnestre, la spesa e il cielo visto solo per dire che piove. Allora infermiera, lo prendi tu questo sangue versato, che è anche veleno? Ne hai forza o volontà? “Stai tranquillo, non sei rotto” dice con tono da cristiano caritatevole, quello di chi sa darsi quasi tutto e quasi in fondo, a tutti ma non a se stesso.
*
Mi ero forse solo assopito, la panca dello spogliatoio a travi infsse per la schiena, la gamba e tutto il resto davvero dolorante, sonno di membra vinte, fatica di zappa e campo (quello da arare) fatica da remare. Di nuovo al campo entro e c’è l’erba solo in ciuff nelle piaghe le dune infnitesimali le impronte primordiali di me e quelli prima. Non c’è luce non c’è vento non c’è gioco, ora tutti immobili occhi vitrei li vedo a malapena allentati gli arti sotto tre croci da Golgota lassù, dove prima i fari. C’è il freddo della fne isolate sfere individuali, ma nessuno più la palla la vittoria stringe o cerca fermi archi d’acqua più lieve concentrici al sasso che sono io caduto e sempre sbagliato. Mi aggiro e sono solo mummie: il padre la madre scomparsi, gli scheletri dei fenicotteri
che non c’erano (o erano) prima la panchina e la tettoia e tutti lenti e bianchi i macilenti lembi striscianti dalle grate osservano attenti. Io non li guardo i panni delle stragi i sangui fratricidi gli uteri spezzati i feti alterati nella crescita dal poco amore incassato, non li tocco i peccati che non vedo miei, nego e rinnego dalla croce al martirio alla catena e le mani impresse sulle spalle e sulle teste di tutti questi padri sui fgli, di quelli morti con l’infarto per le sigarette fumate a notte fonda o d’amore come adolescenti; degli uomini irredenti e delusi maschi inscatolati nei doveri non chiesti e regalati dei mariti e delle mogli con i numeri delle puttane giovani sode appena maggiorenni, meglio se a casa loro, per tessere, ahinoi, le ultime e uniche colle dei rapporti sociali; di quelli di fgli ai centri sociali
con il fumo le siringhe e le scivolate sulla ghiaia gambatesa a chiunque; e di quelli poi scappati a vivere lontano ancora meglio, ancora un po’.
*
[C’era Oreste fanco a me nel greto una o due notti fa e non lo ricordavo. Mostrava il suo corpo nudo ben più agile del mio cantava in spagnolo tra se “Non è tremore uccidere la carne che si fonde addosso, non peccato tagliare il pellame unto dei bastoni anteriori. Non si può negare a qualcuno di bucarsi un occhio con l’ala spalancata anche se ancora in volo, né di coniugarsi al participio futuro.” Nell’acque le sostanze e il sangue dilavanti li curavano gli dei e io pensavo – Oreste, tutti voi che fate, compite i gesti sulle cime, ci vedete a noi qui con queste code di salmerie pesanti? Oreste, tuo padre con la gola in famme pensava al Mirmidone traftto, tibia o polpaccio, alla lacrima che perdeva insieme al nome? Oreste lo sanno le autobombe e i missili aerei i nomi del fglio del padre e dello spirito umano che profuma diverso in tutti noi altri? Oreste, Oreste, Oreste,
Eumenidi, e foreste di poeti, sapete i nomi di tutte le donne amate, dei cicli delle genti, del pescatore nel villaggio Focide che si tagliò Dio quando scoprì le mani? Ne avete di bene di gloria di fama di giustizia – non parliamo di felicità –ne avete di ‘riuscire’ (di re-uscire fuori, dallo stadio dalla sbarra, dal legame), di salire questa pena anche per chi è rimasto con un gol segnato nella mente che si distoglie, raggelato nella sconftta? E dopo gli altri, i patres, οἰ παλαίοι, i nonni il γένος di cromosomi e di mitocondri nel sangue che si vede solo porpora di Murice denso, resta qualcosa? Resta anche a noi?] *
Se non è scirocco è tramontana
– mi dico – i venti non li ho mai saputi eppure il timone lo so tra i calli appena uscenti, saldo nel ruvido legno, nel segno di ogni passaggio di tempo o di porto che mi è compito imparare. Allora via, via la torcia, la cera, il benzene via le croci via gli dei gli eroi e la mia stirpe solo il sangue dentro al corpo solo il rossore, il resto cada tutto sul suolo, vieppiù calpestato, cada sui piedi di chi capita tra queste ombre attonite impalate indistinte fli di rame di vuoti impulsi.
Quando la vedo, mi chiedo come avessi fatto a non scorgerla prima la porta di quercia o leccio, la trave pesante che riesco a spostare le fniture in ottone rigate da qualche ciclope o da una bicicletta. “Vi lascio, se non venite” ma non tono gentile, non cigolio sottile le ora-ombre fssano le croci indefesse nello stare in piedi, io i piedi li giro, dal portale richiuso. Fuori, tutto il mare che non potevo credere, le burrasche i gorghi roridi di verde i mille occhi dei pesci
con le bocche delle sirene così belle nei ricci e nei seni subito accorse a giurare che se qualcuno ci tornasse in questo mare nessuno lo avrebbe ingannato, poi, anche le balene dalle setole giganti madri di correnti in cerca di serenità. Dopo, invece, i futti piatti e gli altri armenti, i miei piedi già bagnati ai calcagni in questo avanzare di passi sempre giusto e sempre dovuto sui sassi dolorosi, alcuni fatti di vetro che mi assumo la dignità di calpestare.
Non perderò altro tempo: le vele e le vene da cucire ancora sono tante, tanto è il lavoro che resta da fare.
Che vinca il migliore.
Alesandro Mantovani è nato nel 1991 alesandro.mantovani3@pec.it
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Di me e del mio sangue è stato composto tra magio ed otobre 2015 Redato nel'aprile 2016
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