Anche l'Orso fischia 2 (18/05/2017)

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DUE 18 maggio 2017

ANCHE L’ORSO FISCHIA

L’idea è proprio questa: che tutti, ma proprio tutti abbiano la possibilità – se ne hanno la voglia, requisito fondamentale – di fischiare insieme a noi.

Questo significa non solo sostenere il nostro progetto – leggendoci su carta e su internet, seguendoci sui social network, e così via – come sempre senza alcun costo obbligato, ma ci piace pensare che significhi anche che chiunque, in parte più o meno determinante, possa partecipare al progetto. Si può scrivere per noi e insieme a noi, certo, ma si può anche iniziare così: ascoltandoci, confrontandoci e parlando con noi.

Questo è lo scopo dei tre reading (le date le trovate in fondo): portare in giro per Genova la notizia che anche l’Orso fischia. Non un reading di soli testi ma nemmeno una lezione frontale di sole spiegazioni e dibattiti, che finirebbero per sfociare in quell’accademismo che sentiamo non appartenerci.

Molto semplicemente, i testi oltre ad essere letti saranno raccontati dai loro autori con le loro parole, spesso improvvisate, e magari accompagnate da un bicchiere di birra.

Provare a spiegarvi in modo interessante ciò che

INTRODUZIONE
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facciamo ci sembra un buon modo per condividere quello che si potrebbe dire “il nostro lavoro” con voi, che tenete questi libretti in mano. Lettori, ascoltatori, follower, o con qualunque altro termine preferiate definirvi.

È per voi che leggiamo, a voi ci raccontiamo, con voi desideriamo parlare, confrontarci, litigare: tutto il necessario. Perché è a voi che dobbiamo la nostra stessa esistenza. Adesso, quindi, tocca (anche) a voi: ascoltateci, se volete. Nello spazio di un’oretta proveremo a raccontarvi qualcosa di uno degli aspetti più importanti della nostra rivista e del nostro progetto: la parte artistica.

Sentirete versi di strofe e paragrafi di racconti e le nostre voci che, incalzate dall’informalissimo moderatore, tenteranno di raccontarvi cosa c'è dietro.

Siate anche voi moderatori immoderati: urlate, alzate la mano per parlare oppure no, parlate e basta, ridete, piangete, fateci domande, venite a leggere qualcosa di vostro.

Partecipate.

www.fischidicarta.online info@fischidicarta.online

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Golfo Aranci

I miei figli? li vedo ogni giorno nuotare in cornici di legno, appesi a piastrelle del bagno, quando vado a pisciare.

Seduta, li guardo imparare le cose del mare, messi a fuoco da fotografie sotto il pelo dell’acqua.

Li guardo, seduta sul cesso, non più solo cose di madre, partiti dai fianchi di chi li ha lasciati spiccare, in volo radente. Spicchi d’arancia con ali screziate di verde, di rosso.

Rimango seduta a guardare il prato sommerso del mio sono stata, la carta increspata di un nido passata di forma, non più riciclabile, sindone, coro, ventaglio di becchi, ventre marino di fiori sdentati.

La branchia che ha dato il respiro deve richiudersi in cicatrice, i miei pesci di mari invernali hanno messo le piume. Li guardo volare.

L’estate del duemiladue ci sono successe le cose del mare.

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Vendetta in quattro tempi

Dio creò l'uomo a sua immagine e somiglianza. E l'uomo, per ambizione o per superbia, ancora tenta di emularlo, imprimendo nelle sue creazioni un segno di se stesso.

Per questo le automobili hanno sguardi. Fissano, hanno occhi cattivi, che abbagliano; indagano senza vederti e passano oltre, ingoiando chilometri e vita.

Lui non sopporta di essere osservato dai loro volti gelidi, lo atterriscono quei mostri di lamiera dai lineamenti severi.

Il loro cuore è motore. Un cuore a quattro tempi, una potenza a quattro palpiti.

Aspirazione: il primo battito, che ruba l'aria. Compressione: il secondo, che violenta e soffoca. Lo scoppio è il terzo, che romba, infiamma, distrugge. Lo scarico è lo strozzino che soffia la morte sui nostri volti, prestandoci in cambio una breve illusione di potere. Sono demoni di metallo, in quattro fremiti rubano l'anima; e lui lo sa, lo vede. Ogni giorno, ogni ora, da ventitré anni. Ogni minuto. Ogni volta che la sbarra si alza e si abbassa, ogni volta che dice Buongiorno Grazie Buon viaggio, ogni volta che dà il resto, sorride educatamente, rilascia il biglietto.

Ironia della sorte, direte, che l'unico mestiere che possa fare sia stare a guardare i suoi incubi, al confine tra una fila ordinata e un sentiero della morte dove le belve sfrecciano avvolte nella loro carrozzeria. Un'occupazione tanto rara, poi, quella del casellante in entrata.

Ironia della sorte, dite.

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Vi sbagliate. Quest'impiego l'ha scelto; l'ha desiderato, poi bramato, finalmente ottenuto. Solo per soddisfare un capiriccio forse, un tarlo la cui realizzazione, presto o tardi, gli frutterà la gioia che questi assassini a motore hanno strappato via insieme alla sua anima per anni. Allora sarà la rivincita del paradosso, la sua vittoria, la sua migliore paga.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Una vita spesa in sorrisi educati.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Una vita ad aspettare il riscatto.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su... il giorno della vendetta, non farà in tempo a pensare l'ultimo movimento: sarà una vendetta in quattro tempi, per un mostro a quattro tempi. Una vita spesa ad aspettare che il quinto movimento per un errore perda il ritmo e intrappoli la bestia, che la sbarra le piombi sulla cervice metallizzata e la riduca a un'agonizzante scatola di latta.

La sbarra è il confine. Tra la decelerazione dopo il precedente tratto di strada e le nuove velocità inumane, tra il nervoso ordine della coda e il brivido dell'accelerazione; tra l'attesa e la realizzazione della sua ossessione.

Quel giorno – quello in cui il confine si spezzerà o, meglio, spezzerà una delle tante vite metalliche che lo attraversano – quel giorno verrà: è una certezza. È la meta che ogni giorno lo fa alzare, andare al lavoro, faticare, quella che lo fa resistere; quella che lo mette in moto.

Ecco che l'uomo e l'automobile non sono più così distinti: persino lui talvolta si sorprende a pensare al suo corpo come a un meccanismo di ingranaggi lubrificati, dimenticando quale sia stato il modello e

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quale invece la creazione, quasi i suoi organi vitali fossero una copia di pistoni e candele.

Ma in un brivido è tutto finito: si alza, si veste, va al lavoro. Entra nella sua cella e ricomincia a sognare. Nulla farà affinché quella sbarra si abbatta sul nemico: non potranno accusarlo. Ma mentre tutti incolperanno il caso, lui si licenzierà, tornerà a casa, e sarà felice.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Un ciclope a motore si avvicina, col suo unico occhio luminoso e il suo centauro pelle e borchie sulla schiena.

Lui guarda il motociclista con il casco slacciato e pensa che, in ogni caso, tutti siamo destinati a morire più o meno allo stesso modo: che a collassare sia una camera d'aria o un ingranaggio di muscoli e ossa. Osserva il ragazzo sfrecciare via, come se gli avesse dato il permesso di uccidersi, col suo ritornello Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Ma abbiamo costruito i nostri assassini ad alta velocità forse solo per illuderci che siano loro a renderci mortali; così, lui passa la vita a sperare che quella sbarra gli impedisca di consegnare al loro destino delle vite sulle quali, in fondo, non ha alcun potere. Trascorre il tempo oscillando tra la sicurezza che ogni macchina sia un carnefice e la consapevolezza che la loro pericolosità non è che il capro espiatorio dell'irresponsabilità del mondo.

Una ragazza bionda allunga goffamente il braccio, lui Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. C'è qualcuno sul sedile accanto a lei, lo vede chiaramente; eppure, tutti sembrano così soli quando lui li lascia partire.

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Tutti così simili, poi, così ugualmente umani mentre attraversano il confine. Inghiottiti dai loro giochi di aspirazione, compressione, scoppio e scarico, non si rendono conto che quattro tempi sono un ritmo pericoloso per il cuore, una scansione innaturale.

Se solo quella sbarra si abbassasse all'improvviso, se solo il braccio meccanico di quella cella, che ventitré anni hanno trasformato da prigione a scheletro metallico, bloccasse l'incedere di pneumatici e carrozzerie smaltate...

Ma lui, lui è soltanto il confine.

Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù.

E poi, un giorno, Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù. Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su. Quattro tempi: il Giorno è arrivato. Ma la vendetta si è confusa e adesso nulla ha più senso: la sbarra resta immobile, ritta come un saluto militare.

Qualcuno elude lo svincolo, qualcuno lo dimentica, qualcuno si ferma ugualmente. Buongiorno Grazie Buon viaggio. Tre tempi, il meccanismo si è rotto, la vendetta è in frantumi.

Lui chiude gli occhi, atterrito, e aspetta che tutto sia finito, che quell'esodo verso la morte sia concluso.

Non doveva finire così, quel soldato ritto in piedi ha firmato un armistizio senza il permesso dell'umanità, sta mandando al macello troppe vite senza controllo.

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Non doveva finire così. Il casellante esce, solleva lo sguardo verso il cielo – Buongiorno Grazie Buon viaggio Sbarra su Sbarra giù pensa.

Le automobili adesso non indugiano più, il casello abbandonato si trasforma da svincolo a terra liberata. Devo solo continuare a essere il confine, pensa.

Ora le automobili sfrecciano, nessuno ha voglia di perdere tempo, di rallentare i quattro tempi della morte. Solo continuare a essere il confine, pensa lui, un confine vivo che impedisca di morire.

Ed ecco che si è sostituito alla sbarra, ecco che è ritto in piedi anche lui.

Quando sente la belva metallica arrivare a tutta velocità, forse pensa che quel martirio abbia un senso. O forse comprende, finalmente, lo schianto della vita che fugge infrangendo i limiti di velocità. Lui che è macchina e ha osato dimenticarlo, lui che è motore di se stesso ed è un motore a quattro tempi, lui che ha preteso di essere il confine si è trovato a essere al confine.

La vendetta ha quattro tempi, la morte quattro palpiti.

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Testo scelto da Irene Buselli

da Palomar

La pantofola spaiata di Italo Calvino

In viaggio in un paese dell'Oriente, il signor Palomar ha comprato in un bazar un paio di pantofole. Tornato a casa, prova a calzarle: s’accorge che una pantofola è più larga dell’altra e gli cade dal piede. Ricorda il vecchio venditore seduto sui calcagni in una nicchia del bazar davanti a un mucchio di pantofole di tutte le dimensioni, alla rinfusa; lo vede mentre fruga nel mucchio per trovare una pantofola adatta al suo piede e gliela fa provare, poi si rimette a frugare e gli consegna la presunta compagna, che lui accetta senza provarla. «Forse adesso, – pensa il signor Palomar, – un altro uomo sta camminando per quel paese con due pantofole spaiate.» E vede una smilza ombra percorrere il deserto zoppicando, con una calzatura che gli sguscia dal piede a ogni passo, oppure troppo stretta, che gli imprigiona il piede contorto. «Forse anche lui in questo momento pensa a me, spera d’incontrarmi per fare il cambio. Il rapporto che ci lega è più concreto e chiaro di gran parte delle relazioni che si stabiliscono tra esseri umani. Eppure non ci incontreremo mai.» Decide di continuare a portare queste pantofole spaiate per solidarietà col suo compagno di sventura ignoto, per tenere viva questa complementarietà così rara, questo specchiarsi di passi zoppicanti da un continente all’altro. Indugia nel rappresentarsi quest’immagine, ma sa che non corrisponde al vero. Una valanga di pantofole cucite in

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serie viene periodicamente a rifornire il mucchio del vecchio mercante di quel bazar. Nel fondo del mucchio resteranno sempre due pantofole scompagnate, ma finché il vecchio mercante non esaurirà le sue scorte (e forse non le esaurirà mai, e morto lui la bottega con tutte le merci passerà ai suoi eredi e agli eredi degli eredi), basterà cercare nel mucchio e si troverà sempre una pantofola da appaiare a un’altra pantofola. Solo con un acquirente distratto come lui può verificarsi un errore, ma possono passare secoli prima che le conseguenze di questo errore si ripercuotano su un altro frequentatore di quell’antico bazar. Ogni processo di disgregazione dell’ordine del mondo è irreversibile, ma gli effetti vengono nascosti e ritardati dal pulviscolo dei grandi numeri che contiene possibilità praticamente illimitate di nuove simmetrie, combinazioni, appaiamenti. Ma se il suo errore non avesse fatto che cancellare un errore precedente? Se la sua distrazione fosse stata apportatrice non di disordine ma d’ordine? «Forse il mercante sapeva bene quel che faceva, – pensa il signor Palomar, – dandomi quella pantofola spaiata ha messo riparo a una disparità che da secoli si nascondeva in quel mucchio di pantofole, tramandato da generazioni in quel bazar.»

Il compagno ignoto forse zoppicava in un’altra epoca, la simmetria dei loro passi si risponde non solo da un continente all’altro, ma a distanza di secoli. Non per questo il signor Palomar si sente meno solidale con lui. Continua a ciabattare faticosamente per dar sollievo alla sua ombra.

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Un documentario

Immaginatevi la situazione: una metro qualunque, le luci fredde, i sedili color circostanza. E all’improvviso mi spunta la coda.

Niente panico: avevo il cappotto. Spuntava soltanto di poco. Ma sono arrivate le orecchie. E le macchie. E poi tutto il resto. Lì per lì ho fatto finta di niente, ma mi guardavano terrorizzati.

Ho pensato che fossi in un film: il protagonista ritrova se stesso sulle pendici innevate in Himalaya e torna uomo grazie a un santone una volta redento dal multitasking.

Ma è difficile andare in Himalaya se sei un ghepardo, e non è il tuo habitat. Il WWF mi denuncerebbe. Sono scappato e basta.

Niente santoni, quaggiù. Ho galoppato invano, veloce come una Porsche. Mi hanno inseguito ovunque. Non mi hanno acciuffato.

Di notte, verso le quattro, quando ci sono soltanto i tossici, ho vagato

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per strade deserte. Aspettavo l’inverno, e un po’ mi mancavi.

Vivacchiavo, rubando il tonno e qualche carezza ai gatti randagi. Le vecchiette non si spaventavano: mi credevano un grosso gatto.

Si è fatto più freddo. Aspettavo la neve. Mi hanno preso, portato al gattile. Ma non sono riuscito a integrarmi, non ho il pedigree, non so farmi valere. Sono scappato.

Ed eccoci qui. È scesa la neve. L’ho aspettata perché pensavo ancora all’Himalaya. Sono salito sui monti, tra le pale eoliche (bello spettacolo, un po’ postmoderno). Ma tu non c’eri.

Lì ho quasi visto un santone, un uomo vestito da Babbo Natale. Che ci faceva lì in mezzo, non so: forse era stufo di fingersi allegro. Vedendomi ha riso di gusto, gli si è persino staccata la barba.

“Che ci fa qui un ghepardo?”

“Storiaccia. Tu sei un santone?”

“Ma che stai dicendo?”

“I santoni, in certi kolossal, fanno tornare gli uomini umani.”

“In che senso gli uomini umani?”

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È rimasto un po’ zitto, pensava. Nel frattempo mi hanno sparato, ho sentito il latrare dei cani. Scappavo, l’ennesima volta.

Mi sono trovato a seguire per sbaglio le mie tracce scure sul bianco, girando in tondo, mezzo contento, mezzo arrabbiato. Mezzo contento?

La vita è difficile se sei un ghepardo, non puoi più prendere i mezzi pubblici, e non puoi chiedere ad una ragazza finalmente, una volta per tutte di vedere un film sul divano, che magari ci scappa l’amore.

Ho corso sempre più piano. Casa tua, come sempre, lontana, in cima a un’immensa salita da fare in macchina.

Ho capito perché i milionari cavalcano Porsche e non i ghepardi.

Un quadro perfetto, da illustrazione: io moribondo, tu stavi portando la spazzatura nella spazzatura. Non hai detto una sola parola, sapevi chi fossi. Ho visto nero.

Quando mi sono svegliato stavi guardando Sette anni in Tibet. “Ti sei salvato. Niente di grave” mi hai sussurrato.

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Volevo piangere, ma i felini non sanno commuoversi.

Non so cosa sia successo: forse l’Himalaya alla televisione, forse che tu, sei tu il mio santone, ma sono tornato umano.

Quanti prodigi, nell’era moderna! Ti ho guardato con attenzione, controllato più da vicino. “Non hai più la neve su un occhio.” Mi hai sorriso.

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La bufera

di Eugenio Montale

La bufera che sgronda sulle foglie dure della magnolia i lunghi tuoni marzolini e la grandine, (i suoni di cristallo nel tuo nido notturno ti sorprendono, dell’oro che s’è spento sui mogani, sul taglio dei libri rilegati, brucia ancora una grana di zucchero nel guscio delle tue palpebre)

il lampo che candisce alberi e muro e li sorprende in quella eternità d’istante – marmo manna e distruzione – ch’entro te scolpita porti per tua condanna e che ti lega più che l’amore a me, strana sorella, –e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere dei tamburelli sulla fossa fuia, lo scalpicciare del fandango, e sopra qualche gesto che annaspa...

Come quando ti rivolgesti e con la mano, sgombra la fronte dalla nube dei capelli, mi salutasti – per entrar nel buio.

Testo scelto da Claudia Calabresi
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Tentacoli

Sei avvolta da tentacoli. Il tuo petto sembra alzarsi e abbassarsi al loro ritmo; gli occhi, invece, non si muovono.

Dalla mia sedia, accanto a te, l’unica cosa che avverto è l’incertezza. Non sento il dolore che devi aver provato nell’impatto, non sento né la tua né la mia paura. Sento solo il tuo corpo in bilico tra lo sforzo della resistenza e la tentazione di cedere per sempre. Sento il bordo freddo del tuo letto contro il mio ginocchio, l’unico confine possibile tra la mia carne viva e il tuo pallore immobile.

Agonia vuol dire lotta – me l’hai spiegato tu – una lotta che ora vibra in questo pezzo di metallo che circonda il tuo letto, lucido e freddo contro la mia pelle, una spada che non sono in grado di impugnare.

Se potessi sentirmi, forse mi insegneresti tutte le etimologie di questa brutta storia. Mi diresti qual è il vero significato di “trauma cranico”, rideresti della mia incredulità; rideresti, e quella risata ti libererebbe dai tentacoli di plastica che cercano di tenerti in vita. Invece la piovra ti tiene a sé, copre alla mia vista parti della tua pelle, mi ruba centimetri. Per ognuno di questi centimetri la spada affonda nelle mie viscere, perdo sangue ma il sangue è il tuo, sporca le mie mani, i miei vestiti e questo pavimento bianco appiccicoso.

"Non provare a buttarmi il telefono in faccia. Non ci provare", ti ho detto.

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E tu mi hai dato retta, non hai riagganciato. Mi hai buttato in faccia un urlo, e le tue carni stritolate, mi hai buttato in faccia lamiere deformate, ma non il telefono; ho sentito lo schianto e la tua distrazione e il nostro litigio a distanza che finiva, insieme a tutto il resto, su quell’autostrada.

Mentre ti parlo mi accorgo che il volume della mia voce continua a salire, eppure non riempie il silenzio con cui la accogli: le parole che mi cadono di bocca adesso non possono sostituire le altre, quelle che solo un paio d’ore fa non sono riuscito a trattenere.

La piovra è uno strano animale: ha tre cuori, ma nessun’attitudine al perdono.

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da Lolita

Con un tono assolutamente serio e sereno la mia Lolita osservò: "Sai, quello che è tremendo della morte è che l’uomo è completamente abbandonato a se stesso"; e mi resi conto con stupore, mentre le mie ginocchia di automa andavano su e giù, che non sapevo proprio nulla della mente del mio tesoro, e che probabilmente, dietro gli atroci cliché giovanili, c’era in lei un giardino e un crepuscolo, e la cancellata di un palazzo – regioni velate e adorabili a me lucidamente e assolutamente proibite, a me coi miei stracci insozzati da miserabili spasmi; giacché notavo spesso che, vivendo come vivevamo, lei e io, in un mondo di male assoluto, ci coglieva uno strano imbarazzo quando io cercavo di affrontare un argomento di cui avrebbero potuto parlare lei e un’amica più grande, lei e un genitore, lei e un innamorato vero e sano, io e Annabel, Lolita e un sublime Harold Haze, purificato, analizzato, deificatoun’idea astratta, un quadro, il punteggiato Hopkins o il rapato Baudelaire, Dio e Shakespeare, qualunque argomento genuino. E non parlatemi di buona volontà!

Lei corazzava la sua vulnerabilità con la trita sfacciataggine e la noia, mentre io, usando per i miei commenti disperatamente distaccati un tono artificioso che mi faceva digrignare gli ultimi denti che mi erano rimasti, provocavo nel mio uditorio tali scoppi di villania da rendere impossibile ogni ulteriore conversazione, o mia piccola bambina con l’anima pesta.

Testo scelto da Irene Buselli
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Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’aimais, je t’aimais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller.

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Non siamo noi la volpe

Sempre stata nel recinto questa volpe spelacchiata messo in fuga del finale sulla zattera.

Verbale di riunione, il ventitrè dicembre: – contare gli agnelli trovare l’assente.

Armati era bello sentirsi invincibili, o forse è una lusinga a trabocchetto brandire il coltello.

L’abbiamo stanata a parole soavi, informata dei purtroppo molti tagli al personale (sangue ovunque) invitato le altre bestie al funerale di Natale con: la cheese-cake, le pizzette, i sorrisini. Siamo amici, amici, amici e adesso anche più amici, che ci siamo fatti male e il male unisce quasi quanto l’alcool senza volpe stiamo meglio, siamo tanto buoni e cari, non siamo noi la volpe, la volpe non ci piace, le avevamo dato un nome, persino, ma nessuno lo riusciva a pronunciare, e stava in casa nostra, nel recinto, sempre stata. Lì, nascosta e coccolata. Nostra figlia. L’assassina. Non è nostra e non è figlia. L’innocenza ci appartiene, ci fa pelle. Non siamo stati noi,

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lasciaci in pace. C’è caldo nella stalla, pandoro e panettone, ti scartiamo come un pacco di Natale se non lasci –se non ci lasci andare, per favore... –segretaria, per favore, non lo dire, non è successo niente, l’agnello è ancora vivo, la volpe è là nei boschi, ci vogliamo così bene, non è un alibi? Se di notte qui spariscono gli agnelli, la colpa è senza dubbio della volpe. Sorridete e festeggiate. Siamo armati.

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Testo scelto da Claudia Calabresi

Insufficienza

Dentro un assopirsi – bislacca apparizione –top doc, mio padre scappato da una guerra chino sulla soglia ripeteva: “Per favore” e come ferito generale che a nessuno più non comandava

coi radi capelli qua e là sventolanti parlava di un grande sentimento, insieme il giusto e l’ingiusto confondendo; e noi a deridere il suo rovesciato cappotto…

Dalla bocca salivava parole striminzite: “Devo confessarvi la mia terribile meschinità, proteggetevi da soli in quest’ora terribile”.

O sconclusionato nostro paladino che senza armi di qua disertavi! Era l’insufficienza che in te amavamo e noi più forti a sbocciare finalmente…

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L’invenzione dell’elettricità

di Claudia Calabresi

Se desideri abitare corpo doppio, non saranno le tue spinte a ricucirmi. Procederai a divellere il mio centro. Folgorato, scoprirai la carne elettrica.

Di certo, appartenessi alla mia pelle, non saresti più un tumore da asportare, ma un parassita liquido, muscoso abbecedario, tangibile promessa di un insieme: lo spontaneo doloroso del lichene quando infiltra piano prima, poi più forte ed incolpevole tra i sassi, nella sequenza intatta del carnale.

Sfiateremmo da cetacei, quasi strali di tempesta, nell’ordire il disperato accoppiamento.

Ma mi credi un esercizio di astrazione dal reale. Viscerale reticenza all’abbandono, sfiori i cavi, ricercando la simbiosi per tensione.

Non mi tocchi. Non toccarmi.

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Titoli di coda

Anche l’Orso fischia è nato da un’idea di Emanuele Pon e di Simone “Orso” Mazzini; a questo volume hanno lavorato Valentina Marzi per la copertina e Federico Ghillino per la grafica; l’evento è presentato da Giacomo Simoni ed a leggere i brani scelti c’è Emanuele Pon.

Oltre ai sei lettori che si susseguiranno in queste tre serate, hanno lavorato al progetto, in fase di ideazione e di realizzazione, tutti i membri della rivista Fischi di carta.

Lo spazio in cui si svolge l’evento è il pub Dall’Orso, il paradiso della pinsa.

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Indice

Anche l’Orso fischia 3

Golfo Aranci di Claudia Calabresi 7

Vendetta in quattro tempi di Irene Buselli 8

Testo scelto – da Palomar di Italo Calvino 13

Un documentario di Claudia Calabresi 15

Testo scelto – La bufera di Eugenio Montale 19

Tentacoli di Irene Buselli 20

Testo scelto – da Lolita di V. V. Nabokov 22

Non siamo noi la volpe di Claudia Calabresi 24

Testo scelto – Insufficienza di Tiziano Rossi 26

L’invenzione dell’elettricità di Claudia Calabresi 27

Titoli di coda 29

ANCHE L’ORSO FISCHIA

presso il pub

Dall’Orso Il paradiso della pinsa in via San Bernardo, Centro storico Genova

4 maggio 2017 18 maggio 2017 1 giugno 2017 copia numero

Letture organizzate dalla rivista Fischi di carta – di 50 –

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