Valentini
4 maggio 2017
Emanuele Pon Matteo
UNO
ANCHE L’ORSO FISCHIA
L’idea è proprio questa: che tutti, ma proprio tutti abbiano la possibilità – se ne hanno la voglia, requisito fondamentale – di fischiare insieme a noi.
Questo significa non solo sostenere il nostro progetto – leggendoci su carta e su internet, seguendoci sui social network, e così via – come sempre senza alcun costo obbligato, ma ci piace pensare che significhi anche che chiunque, in parte più o meno determinante, possa partecipare al progetto. Si può scrivere per noi e insieme a noi, certo, ma si può anche iniziare così: ascoltandoci, confrontandoci e parlando con noi.
Questo è lo scopo dei tre reading (le date le trovate in fondo): portare in giro per Genova la notizia che anche l’Orso fischia. Non un reading di soli testi ma nemmeno una lezione frontale di sole spiegazioni e dibattiti, che finirebbero per sfociare in quell’accademismo che sentiamo non appartenerci.
Molto semplicemente, i testi oltre ad essere letti saranno raccontati dai loro autori con le loro parole, spesso improvvisate, e magari accompagnate da un bicchiere di birra.
Provare a spiegarvi in modo interessante ciò che
INTRODUZIONE
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facciamo ci sembra un buon modo per condividere quello che si potrebbe dire “il nostro lavoro” con voi, che tenete questi libretti in mano. Lettori, ascoltatori, follower, o con qualunque altro termine preferiate definirvi.
È per voi che leggiamo, a voi ci raccontiamo, con voi desideriamo parlare, confrontarci, litigare: tutto il necessario. Perché è a voi che dobbiamo la nostra stessa esistenza. Adesso, quindi, tocca (anche) a voi: ascoltateci, se volete. Nello spazio di un’oretta proveremo a raccontarvi qualcosa di uno degli aspetti più importanti della nostra rivista e del nostro progetto: la parte artistica.
Sentirete versi di strofe e paragrafi di racconti e le nostre voci che, incalzate dall’informalissima moderatrice, tenteranno di raccontarvi cosa c'è dietro.
Siate anche voi moderatori immoderati: urlate, alzate la mano per parlare oppure no, parlate e basta, ridete, piangete, fateci domande, venite a leggere qualcosa di vostro, se lo avete.
Partecipate.
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Incrocio
di Emanuele Pon
Alla «Stampa» della piazza quadrata c’è chi ha annerito le lettere giuste sulla targa di sole fissa al muro: resta il nome di una squadra di pallone di gente di città – vecchio gioco puro;
qui passa – pietra miliare – il crocevia dei canneti, da marinai c’è da navigare tra le insegne: tabacchi frutta macelleria s’inseguono – ognuno la sua voce rigogliosa –puntuali dall’alba, ché il vicolo non si riposa;
tavoli di plastica, sedie d’umido rigate di pioggia danno stazione al bar «Paradiso» a chi cammina la via crucis sempre viva delle compere, del trattare col sorriso ciò che il mondo fuori – strade larghe – non offriva: odia la verdura, testardo, il macellaio, e chi non mangia carne per morale, mentre trita ortaggi nel mortaio del fruttivendolo algerino, e spezie africane;
la madre del tabacchi è vecchia e buona, sbaglia i resti senza il figlio a contare e non ha vergogna: a una donna d’altra storia s’insegnava ad agire, mai a calcolare; c’è chi urla chi s’assopisce in osteria all’angolo – nutre il rosso sfuso più del pane –
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o di fronte, un avanzo di trippa di rosticceria quando alla sete risponde – sola – la fame.
Sono all’anima gli acquisti, non al corpo – occhi parole di chi qui piange ride prega –: per il quadrivio di parlate del porto non c’è merce di scambio, o moneta ma la storia di chi passa, scritta in volto.
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Se stasera sono qui
di Matteo Valentini
«Mandami a fare in culo, ti prego. Insultami. In questo momento credo di averne bisogno». Così disse Anna appena uscimmo dalla sala.
Le risposi che io ero lì per caso, a dire il vero, e che non ero mica suo padre per poterla mandare a fanculo così. «Mio padre, ecco, appunto».
Le chiesi cosa centrasse. «Quasi banale: il mio pessimo rapporto con gli uomini...»
La interruppi, che non mi dicesse, il suo pessimo rapporto con gli uomini era dovuto, senz’altro, al pessimo rapporto con suo padre, incredibile, innovativo, davvero notevole.
«Pensi che ti stia fregando?», mi chiese incredula.
Le risposi che, in realtà, pensavo mi avesse già fregato.
Dalla sala arrivava una techno dal ritmo di “Salsa e merengue”. Avrei voluto saltare giù dal terrazzo pieno di gente e correre in strada fino a spezzarmi i tendini, ma rimasi al mio posto, col gomito sulla balaustra.
«Ti ho già fregato? Ma se ti riferisci a quest’estate, davvero io… Le cose si fanno in due».
Le chiesi come avrei potuto mandarla a fare in culo se già protestava alla prima critica. Se aveva un così gran bisogno di essere insultata, insomma, mi lasciasse fare. «Ho solo detto che l’abbandono di mio padre ha influito e influisce sul mio rapporto con gli uomini. Questo è Freud. Io ho paura degli uomini: fino ai tredici anni io coi ragazzi non ci parlavo».
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Non davo molto credito alla psicologia e glielo dissi. Pensavo che la psicologia rappresentasse una manleva, un sollevamento dalla responsabilità. Mi indicò: «Signore e signori: un primitivo!». Avrei voluto ricordarle che non ero stato io a chiedere di essere insultato quella sera. Chiesi invece se avesse capito quel che le avevo scritto nei giorni precedenti. «Certo, ho capito». Rispose con voce diligente. «Secondo te io mangio gli uomini». Non aveva capito nulla. Per quanto mi riguardava, lei e la figura di donna fatale non c’entravano niente… meglio, non c’entravano più niente. Anna aveva, e glielo ripetei, l’abitudine di creare situazioni profondamente intime con persone di cui non le fregava un accidente. Non era una divoratrice di uomini, non le interessava, perché poi nella pratica, nel concreto, non arrivava granché nel profondo (o almeno, non con me). Ad Anna piaceva, piuttosto, essere una specie di sole: unica fonte di luce per una riga di gonzi in posizione orbitale di immutabile distanza. E forse questo era un bene, per i gonzi. «Dove tu vedi malizia, io vedo ingenuità. Può sembrare esagerato, ma io sono di una purezza, di una purezza… Non me ne accorgo, non mi accorgo che tutti mi amano, ho questo problema. Devo essere un cesso perché un uomo sia mio amico? Perché non posso avere amici maschi?».
La guardai: una pastorella capricciosa che, dopo una vita passata a guardare le capre, scopre gli uomini e la loro tremenda fame. Anna non voleva convincermi di questa visione. Nessuno avrebbe potuto convincersene, lei lo sapeva, e lei stessa non ne sarebbe stata capace, ma voleva che i suoi gonzi pensassero che si
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sentisse così. Tutto il fascino della donna del destino, ma senza finire strangolata, nuda, a letto. Glielo dissi. «E come farei a trascinarvi tutti nella mia orbita? Perché posso includere anche te nella riga dei gonzi, vero?», mi chiese. Con la faccia scocciata fissava gli occhi su un punto preciso per terra.
Le dissi di ripensare ai nostri primi giorni insieme. Esagerai, la volli provocare, le chiesi se non le sembravano, a distanza di tempo, composti da esclusivissima fuffa, quei giorni in cui andavo a mangiare da lei all’una di notte se sua madre non c’era. Non me lo avrebbe dovuto permettere. Non aveva il diritto di permettermelo. Le dissi anche che, qualche sera prima, l’avevo vista al cinema con uno che conoscevo. Il classico tipo che abborda ogni ragazza carina che trova. Un coraggioso. E un gonzo. L’avevo vista permettere a quel tipo di stendere un braccio sulla sua spalla. Chiesi se le interessava.
«No», mi rispose, portando lo sguardo su di me e poi abbassandolo.
E perché, allora, aveva permesso che la abbracciasse? Mi guardò per dire qualcosa, ma poi stette zitta. L’aveva pure baciato, o magari era finita più in là. Ma di lui non le importava. Non avrei potuto essere io quel tizio? «Sì, potresti essere tu .Tra l’altro me lo ricordi moltissimo, avete un modo di parlare che è identico. Gliel’ho detto l’altra sera. Ecco, lui è uno con cui potrei intraprendere una relazione seria, se mi accontentassi. Non ha niente di sbagliato».
Risi forte e le chiesi di andare a farci un giro, dato che la musica era orribile e poi, se ce l’aveva fatta quel tipo…
Lei però nicchiò e disse che il suo ex voleva parlarle e che era in sala.
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La vidi sparire tra i bambini alcolizzati e pensai solo che avesse un gran bel culo, questo sì.
Quella sera incontrai un’altra mia amica, che mi sembrava particolarmente in vena di scrollarsi di dosso una storia finita malissimo. Lei è una ragazza con cui potrei intraprendere una relazione seria, se mi accontentassi.
Non ha davvero niente di sbagliato.
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Dell’amore qui intorno
di Emanuele Pon
Dirò dell’amore qui intorno ovvero di liti tra donne al sexy shop, tra uomini al cinema porno.
***
Qui di cuore si parla al buio sotto tegole strette di bucato: non c’è vergogna nel mio fiuto per l’amore in bilico del vicolo – sudato.
A questo regno di carne la boutique di lussuria è sovrintendente: tra gli spazzini il lusso – lì dove il cielo a malapena si sente; la matrona è procace rotonda vestale del culto di vestirsi di poco – di pizzo di seta di rete, a chi guarda mostrare da lontano la posta che è in gioco; terrena ad un passo dalla vetrina, la merce è celeste, un nume di pregio: fa di te – uomo – euforia e rovina, a te – donna – dà rabbia o rifugio.
***
Ad un vicolo storto dal trono sensuale di donne che fanno le carni divine, sta il cinema porno su puzza umorale – onesta bottega per la carne che vive;
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stazione triste di viandanti riarsi asciugati dal sole – pellegrini scalzi non in cielo, non in terra, ma tra le pellicole cercano qui le vie dell’amore:
qui è pastore l’uomo attempato – di nastri di rulli umano motore sulla soglia della sala proiezione –per chi coltiva lo sguardo proibito,
pastore all’anima che si sa alla deriva – così la messa dice, in televisione, così dicono le buone signore in boutique, torcono il naso dalla vetrina.
***
Persi a contare a spartire il ricavo su chi compra migliorie per il cuore o un sogno usato per non faticare, non sentono – forte – il mio latrato: troppe le urla – ognuno dei due è legislatore di leggi incrociate sulla via per amare.
«Vergogna!» «Matrona!» «È droga a luci rosse che dà la tua grotta, immagini false!» «E tu vuoi la fuga per l’uomo stregato da fate perverse!» «Non sai che dar lustro a una fogna!» «Tu fai dell’amore faccenda di classe!»
***
Non sentono chiamare, o la voce che ride del prete che passa, si sfrega le mani, e disegna una croce.
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AMIU
Della purificazione
di Emanuele Pon
Alla fine di ogni luce o rumore a portare i passi vicini sulla strada di qui, il vicolo è deserta, mistica rada dove niente c’è, adesso, che muore;
sono rimasugli al campo di battaglia della sera passata i muri di sudore, il vomito a terra, cocci di bottiglia opachi che graffiano d’orrore,
muti scarti della guerra dell’Io in cui è mutata ora ogni giornata – del fiume in piena in cui era cominciata scorre, madido nel vicolo, il piscio in un rio.
Non ha più spazio la città, né tempo per cantare ad occhi aperti il giorno – c’è il soffio caldo di farina nel forno a portare il gusto del pane nuovo nel vento;
è l’ora, questa, del mio guaire di cane – per i canti lontani affievoliti c’è spazio, fuori dalla finestra per il ronfare di chi all’alba riaprirà il negozio.
Questo è il tempo del sussurro muto che alza la saracinesca agli spazzini, del lamento di camionetta che porta il fiuto
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di sporco – come il mio – dei netturbini:
il loro mestiere è la notte da nettare, fosforescenti tra il ruvido e il pietrisco ramazze trascinare, chiamandosi col fischio attraverso quelle strade – pietre da spazzare.
Vago scodinzolando anche con loro a ricordare infine il bello in questo porto vario di vicoli in intrico lastricati di scuro: con loro preparo a domani il Circondario.
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Stato di bassa fedeltà
di Matteo Valentini
Pronto? Pronto? Scusi, non sento niente. Chi parla? Non… No, guardi, se è per un’offerta non mi interessa. No, sì, ma immagino cosa sta per dire, il conguaglio, la tariffa, il consumo…, ma io la bolletta non gliela dico. Non glielo dò il numero della bolletta, mi dispiace. E quando mi chiede se ho capito o se è tutto chiaro, io rispondo “ho capito” o “tutto chiaro”, e non dico “sì” perché la telefonata ha valore legale, voi montate le mie risposte e io mi ritrovo con l’operatore cambiato, gli operai in casa e no, proprio no. Che scema sono, ho detto “sì”. Questo “sì” non valeva eh? Anche io sto registrando la chiamata e vi porto in tribunale, vi avverto, so come funziona!
Pronto? Pronto? Io non sento nulla, ma da che Paese mi sta chiamando? Questa interferenza è assurda. Chi parla? Che cosa vende?
Michele, ma sei tu? Pronto, Michele? Michele, la smetti di starmi addosso? Così è ridicolo, davvero. Ormai sono mesi che è finita. Smettila. Smettila, lasciami stare. Ma no, non è un errore solo tuo, forse era destino, avrò avuto anche io le mie colpe, non sarò stata brava a capire, non lo so. Pronto? Ma sei tu? Non fare la superstar. Non fa bene, a nessuno, lasciami andare, ti prego, lasciami andare avanti. Devo andare avanti, devo andare avanti, avanti, avanti, avanti, avanti, avanti. Ma poi, tra l’altro, mi hai mollata tu: cosa vuoi, adesso, cosa torni, dove vai. Ti annoi? Anche con me ti annoiavi, so che è vero. E pure io mi annoiavo, negli ultimi tempi.
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Tutto quel teatro… Pronto, ci sei? Possibile che tu sia sempre fuori campo? Ma sei tu?
No, aspetta, forse no. Marta? Non è la tua voce, questa? Sì, Marta, sei tu, meno male! Come va a Milano? Marta? Marta? Scusami, non sento niente: oggi col telefono è un disastro, figurati che ti ho scambiata prima per un call center albanese e poi per Michele. Un incubo, Michele: forse non te l’ho più raccontato, ma qualche tempo fa è stato tutta la notte in macchina sotto casa mia. Due giorni fa ha inseguito a piedi il mio autobus per dirmi che ero bella. A me non serve questo. Ho bisogno di qualcuno che mi capisca, che mi faccia sentire bene. Michele diceva: “Cora, continua a mostrarmi le gambe e tutto andrà liscio come loro”, ma Michele è un maniaco del controllo: non mi ama, vuole solo tenermi lì. Figurati che, il giorno dopo che mi ha lasciata, ha ordinato ai suoi amici di non provare nemmeno a sfiorarmi, altrimenti li avrebbe uccisi. È così infantile. Anche perché poi non l’ha fatto… Tanto sciàto per poi venire, ieri sera, sotto la mia finestra a scongiurare di amarlo. Euge, ieri sera, gli ha confessato che ci siamo messi insieme e lui è corso da me, senza torcergli un capello. Euge mi ha detto che era come svuotato, che si è come inchinato davanti al volante mentre la macchina continuava ad andare, tanto che lui aveva paura di un incidente, gliel’ha detto, ma Michele non l’ha fatto scendere: gli ha chiesto a che ora ci fossimo baciati, in quale vicolo, cosa avessimo fatto dopo. Un maniaco. Quando ieri è arrivato a casa mia ha bussato sulla mia finestra con le pietre. E io ero lì, lunga sul letto a piangere per la paura. Gli intervalli erano regolarissimi e io ho pensato “adesso apro la finestra e mi spara”. Una
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volta che l’ho visto lì sotto, con gli occhi sbarrati, ho pensato che davvero ogni riconoscimento tra noi fosse saltato. Non so, sarà il tempo, il senso di libertà mio, le sue mancanze (per favore ricordatele da sola)... Avrei voluto amarlo, in quel momento, forse quasi avrei dovuto amarlo, ma proprio non mi riusciva. Michele abita in un film e da lì non ne esce. Ha detto: “Ti sogno sempre”. Ma pronto? Mi senti? Ci sei?
Pronto? Pronto? Euge? Euge? Mi chiami per stasera? Se mi chiami per stasera va bene, ci vediamo davanti al cinema per le nove. Ma io non ti sento, sei tu? Non sento niente. Ora scusa un secondo, mi mangio un po’ di parmigiano, sono nervosissima, forse è meglio che per stasera… ma no, dai, andiamo, che mi frega. Non dire niente, sì, sì, non ci penso mai, non ci penso neanche ora, figurati, è solo che mi innervosisce. Vorrei che sparisse con quell’aria da finto disperato e con tutti che gli chiedono “Michele come stai oggi?” e con tutti che si preoccupano e che mi dicono che dovrei e potrei... Ma nessuno, eh, quest’estate gliel’ha detto che avrebbe potuto e avrebbe dovuto. O comunque lui se n’è battuto, e allora me ne batto anche io, che problema c’è? Scoppino tutti. Sai, come in Bruci la città. Mi sta sulle palle Bianconi quando canta di profilo e alza la manina, fa l’egiziano, parla di Baudelaire e dei corvi, ma canta sicuramente meglio di quella vacca di Irene Grandi, anche se fa un po’ la voce impostata, tipo: “Muoia sotto un tram più o meno tutto il mondo, esplodano le stelle, esploda tutto questo”, e poi il pezzo dopo, aspe’, bellissimo, mmm “Muoia quello che è altro da noi due, almeno per un poco, almeno per errore”… E poi il ritornello, va be’, ti risparmio. Comunque non ce n’è, questa canzone è stupenda.
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Io continuo a non sentire niente… Euge? Eugenio? Volevo anche chiederti se Michele ha pensato a qualche altra schifezza da dedicarmi, dopo l’uomo nudo che cade e quella femminista arrapata in biblioteca. So che non ti parla, ma bisognerebbe che qualcuno gli dicesse di smetterla con questo spettacolo. Anche perché è fallimentare sia dal punto di vista strategico che dal punto di vista artistico! Pronto? Mi senti? Puoi chiedere tu a Giulia o a Lorenzo di farlo? Io non posso perché poi sembra che mi interessi a lui e lui torna alla carica e allora pietre, finestre, regali... È così capriccioso. Tra l’altro qualche giorno fa ho letto alcune righe de I detective selvaggi che proprio lo identificano, lo inchiodano, sentile (poi mi rispondi stasera, dato che proprio da te, adesso, non ricevo segnali intellegibili): «Non ha mai visto quegli uccelli ridicoli che ballano fino allo sfinimento per conquistare la femmina? Arturo Belano era così, un pavone sciocco e presuntuoso. E il realismo viscerale, la sua estenuante danza d’amore per me. Il problema era che io non lo amavo più. Si può conquistare una ragazza con una poesia, ma non si può tenerla con una poesia. E nemmeno con un movimento poetico». Te lo consiglio, I detective selvaggi, ma non so se lo leggerai mai: so che i libri lunghi ti annoiano. A dopo.
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Adriatica
di Emanuele Pon
S’era qui che si pensava al mare dall’altro lato rispetto al litorale che ci crebbe – è il fiato dell’Adriatico salmastro di palude che lo tocchi a perdita d’occhio o di passo oltre il frangiflutti, oltre i rumori, i passi incerti di tutti i giorni del tempo che abbiamo come venduto al miglior offerente –e senza un come un perché, camminiamo avanti in bilico sulla secca costante della fonda adriatica, cercando la fine
tra il verde e le alghe (il non toccare più, la cognizione del fondale che ci accompagna, tesori come scarti da scandagliare); tu forse la ami la meccanica di quest’acqua strana che almeno non ti sprofonda – io solo spero di discernere, alla fine, un’altra sponda.
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Terra!
di Emanuele Pon
È stato così facile essere mare, darsi il movimento con le onde – quel rollio senza forma né fine né colpe, una deriva da saldare come un debito – ma anche tu, solo sei una crepa in un sistema che è chiuso, falla sciocca nel meccanismo dell’acqua che ti inganna, ti risputa o ti sprofonda.
Se sei la terra, non hai una scusa: se è la pietra nei suoi angoli storti e naturali – onde ferme – a scolpire, a scandire il tuo giorno sul finire, mai scuse potrai pensare di avere – solo scelte a cui dar nome –se la terra nel suo fisso ti appartiene; non certezze o derive, non onde: raggiungimi – ho lasciato gli inganni del mare: ora la terra mi tiene.
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Titoli di coda
Anche l’Orso fischia è nato da un’idea di Emanuele Pon e di Simone “Orso” Mazzini; a questo volume hanno lavorato Valentina Marzi per la copertina e Federico Ghillino per la grafica; gli eventi sono presentati da Laura Calpurni ed a leggere i brani scelti c’è Giacomo Simoni.
Oltre ai sei lettori che si susseguiranno in queste tre serate, hanno lavorato al progetto, in fase di ideazione e di realizzazione, tutti i membri della rivista Fischi di carta.
Lo spazio in cui si svolge l’evento è il pub Dall’Orso, il paradiso della pinsa.
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Indice
Anche l’Orso fischia 3
Incrocio di Emanuele Pon 7
Se stasera sono qui di Matteo Valentini 9
Dell’amore qui intorno di Emanuele Pon 13 AMIU. Della purificazione di Emanuele Pon 15 Stato di bassa fedeltà di Matteo Valentini 17
Adriatica di Emanuele Pon 21 Terra! di Emanuele Pon 22 Titoli di coda 25
ANCHE L’ORSO FISCHIA
presso il pub
Dall’Orso Il paradiso della pinsa in via San Bernardo, Centro storico Genova
4 maggio 2017 18 maggio 2017 1 giugno 2017 copia numero
Letture organizzate dalla rivista Fischi di carta – di 50 –