Battuta di caccia - Federico Ghillino (01/2017)

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Federico Ghillino

Battuta di caccia

L’unicorno

Fu tutto piuttosto normale: scrollandomi forte la testa, frugando fra i loro capelli, trovai dei frammenti del nostro coraggio, un possibile slancio, e senza una strana trovata, così, ne assemblai una granata. – Intanto sentivo qualcosa da fuori, che urgeva, per noi raggiungibile, sì: proiettati: spostai l’attenzione scagliando la bomba. Il muro non resse. Si vide la strada.

(Prima. – la stanza un grigiore –Lui, sul divano, le gambe incrociate e tutto macchiato, oscillava tra «Forse è da fare.» e «Ormai è troppo tardi, lasciamoci stare…»

Lei lo prendeva nei polsi, faceva «Dobbiamo provare!». Ma glielo diceva col viso di un misto screziato, e lui a testa bassa: un fulcro sfumato.

Lì mi credevo un baleno, ma ero uno squasso di vuoto tonale, perché pensavamo alla vita diversa che avremmo voluto e che forse sfuggiva. Sentii solo allora un odore di bestia.)

(Poi. – un bagliore –Noi tre ci accalcammo alla breccia. Non lo diedi scontato, ma logico sì, che in fondo ci fosse, di là, l'unicorno.

Lì per lì ne rimasi confuso perché non trovavo un buon modo di porci: se in minore accostarci già a lui o se in attesa di lui lo eravamo, ma solo in potenza. Quando mi scossi lo vidi com'era: non molto, soltanto un cavallo bianco, col corno, col crine arricciato, un po’ sporco di terra, una bestia che sfugge, alla gente sicuro per nulla abituata, destriero a nessuno, un nulla di che.

L'unicorno ci era: figura di noi un po' più in là, ma di poco, ancora incompleti: corretti in postura, andamento e chiarezza. Esercizio meccanico sempre inesatto. Una vaga stranezza.)

I

Una vetta. Dal fondovalle non potevo altro che salire. Mi avevano detto dei draghi, ma continuavano a sfuggirmi nella quantità dei dettagli e in ciò che c’è d’inaspettato. Erano una mimesi esatta con lo sfondo, la narrazione fatta di fatti non poteva, però, trascurarne l’irruenza. D’un tratto li scorsi in quest’ordine: il lacustre, il terragno, l’aereo, il minerale col roccioso, e l’arboreo. L’unico modo per distinguerli, dalla vetta, era cercarmi dentro gli occhi per poi vedere meglio intorno. A quel punto, io, ebbi paura: mi ero finto guerriero, mago, astuto manipolatore, ma ero sfinito e disarmato. Ero uno, solo, e solo uno. Sondandoli li riconobbi tutti come parti di me: non erano ostili, potevo provare a capirli ma c’era dell’incomprensibile, dato dal beneficio dell’altezza. Fossero somma nel mio cuore sarei un rifulgere di fiamma inarrestabile, ma stanno fuori: animali impossibili da domare, come le cose. Non lo so fare, niente più. Hanno negli occhi quel riflesso da cui si può scorgere il resto, e quindi ci provo, mi vedo in loro e nel complesso colgo la vertigine della vetta: la mia natura di sconcerto.

II

Una scansione indecifrata di me. Percepii così i loro occhi cangianti, squadernati per tutta la cresta dei monti. La notte fu fredda. Cercai sonno e calore tra le scapole dell’arboreo. Trovai un giaciglio di fogliame. So che sognai. Nel sogno mi sento potente, al cento per cento, il tutt’uno. Sono in un luogo sconosciuto, che non mi è nuovo, che non mi è. Sento lei però, la baccante, inesauribile nell’impeto, lei balla e mi tocca e strofina la schiena e mi bacia sul collo. Le prendo il seno, è composito come l’intrico che dal capo le rabesca il volto, arzigogola di rami il brunito del ventre e con foglie e linfa le intarsia i fianchi di edera minuta. Quanto di sesso ho in me raccoglie il suo corpo. Lei ne rimane carbonizzata. Io non so. Io non so come fare. La stringo sul petto ed uno sparachiodi la assicura a me, anche se ormai, sfrigolando, l’ho resa nulla: espiro e mi scopro di fiamma. Senso di caduta. Nell’acqua. Mi bagno. Mi spengo. Mi sveglio. Mi svegliai fradicio per l’umido di quel giaciglio di fogliame.

Vidi che i draghi convergevano verso me a causa di quel sogno: loro sapevano, perché l’avevano sentito, visto, e vedendolo m’ero visto. Bastò lo sguardo a intimorirmi.

Weird

III

Composti duplici, eravamo forme plurime dell’uguale, così – quando i draghi volarono – realizzai; trasalii; e volai. Riconobbi una nuova sagoma, la loro meta, un altro drago: quello siderale: fu un’altra accezione del comprensibile, perché era un nuovo approccio, un nuovo sistema di riferimento, – quello stellare – per intendere senza sperare di capire. Oltre l’atmosfera mi colse l’immensità, lo spaesamento, e cercai la dilatazione del suo sguardo, ma troppo denso, nel corpo troppo rarefatto – benché lucente – mi sfuggiva. Nello spazio, dove sta tutto, senza rumore e attrito, piansi. Con un gesto deviai la rotta di un meteorite. Colpii il drago per scavare in lui, per trovare qualcosa, per caso, non so che cosa, un’intuizione. Forse mi aspettavo viscere, ma vidi solo me, in cose e in fatti. E anche lei, che non mi dà requie. Mi si coagulava davanti la vita e non fui preparato. Pensai di usare una cometa per cauterizzare il reflusso ma non servì, i draghi divennero instabili fino al collasso, marcirono, si compattarono e ne scaturì un buco nero che iniziò a fagocitare. Anche la Terra innocua fu coinvolta. Era il mio buio. Una deriva. E ne rimasi annichilito.

Voracità di crociera

Il leviatano in totale silenzio appariva dal fondo, divorando le navi. (il mare piatto)

Dileguava in un flutto d'acqua immenso con la testa di bestia, masticando le travi. (il mare matto)

Era già lontana la còcina che la nave attraccata al porto partiva. Io senza una fiocina non ero che il vile: già morto.

Monomania

Sull’altipiano incrociai il grifone. Planava e ricorreva, in piena caccia: con una beccata mi staccò la spalla, nel contundersi il mio braccio finì a terra ed io mi sentii davvero poco bene. Tutto sbilanciato (in sostanza uguale a prima) corsi fino allo strapiombo, e nel lago in fondo, vidi il tremulo riflesso delle nubi. Allora mi tuffai. Scappai da quel pensiero. Il grifone bestia rancida, che inseguiva. Ebbi il senso di libertà, al vuoto, del suicida, e cadevo e cadevo e già non ci pensavo ma roteando lo rividi: perse le penne nella coda dell’occhio mi apparve una donna.

Poi subito. Capii che il lago distava. Mi schiantai con un rombo nel querceto.

[Non l’ho detto. In realtà ero armato ma fui debole istintuale, non so: mi buttai. Forse cercavo dell’altro oltre uno spazio metrico: cercavo una profondità umana che superasse lo specifico di una forma discreta, forse volevo mollare creta e pongo abbandonarmi a un senso d’estuario: un passaggio migliorativo. D’Iperuranio.]

Foodporn

Mi accorsi d’improvviso della selva: naiadi pubiche dal pelo chiaro sedevano vicine a bordo vasca; cosce generose; coi piedi in acqua chiacchieravano vivaci, mostrando una certa fluidità; e ridevano. L’oreade dal caschetto color ghiaccio ha invitato tutte a casa, nell’attico in cima al grattacielo; lei ha movenze di grazia e piena urbanità, ha solo il naso un po’ aquilino, però è splendida ha una bellezza montuosa, elegante; (ma io ero mosso da un altro disegno). Vidi la driade frondosa, castani i capelli, gli occhi verdi, vestita della sua rigogliosa nudità; del suo petto era un esubero il seno, fra le braccia un elogio, sgomitante; aveva i piedi un po’ sporchi di terra. L’apostrofai col seguente argomento:

«Signorina, ora mi ascolti con attenzione e sappia che i mutamenti si svilupperanno quando lei sarà distratta da una ninfa. A breve trasmuterò in creatura. Non cada nel panico, è libera di immaginarmi con tutta la dovizia della sua fantasia, ma mi conceda l’indefinitezza della forma: è la mia piccola mania estetizzante! Comunque, signorina, che lei riesca a vedermi rinnovato o meno (non è importante), negli istanti seguenti, con un movimento inclusivo della mandibola e la giusta reverenza che comporta la vostra ninfatica bellezza, mi troverò a farvi parte di me, – “inglobarvi” o “fagocitarvi”, se lei preferisce –. Ma non si intimorisca, la consideri una prospettiva di raccolta del dato, non la legga come un barbaro “divorare”: ne avrebbe una visione straniata. In seguito, forse inaspettatamente, con una dilatazione che non sia esuberanza approccerò a questa città e, perché no, al mondo.

A quel punto potrò affrontare il riordino volto alla crescita personale ma con punto d’arrivo sconosciuto, o – lo temo, mi creda – una totale dispersione di me e del resto: in realtà un banale “sfuggire di mano” di tutta la situazione. Se considerasse tutto ciò solo una possibilità, beh, le direi che, nel caso, mi permetterei, ma nel concreto dei fatti è certo: mi permetterò. Odierei però risultarle tracotante, la invito a tenere presente, signorina, che la mia sicurezza ha tappe stringenti e passa inevitabilmente attraverso di lei. Lei, che sarà la prima, per pura vicinanza, le assicuro, non è una questione personale, in questa scelta non si misura il suo valore: la sua specificità e quella delle sue amiche è materia da trattare in altra sede. Mi guardi signorina, non sia pudica e non ancheggi con fare ancillare: il successo di questo progetto si fonda su una sua disattenzione. Ora la nereide la chiama. Inizia il processo. Enchanté, signorina. È stato un piacere.»

Cerchi

Camminando facevo il cerchio, cercando un inizio nel percorso mi chiedevo se andavo indietro o tornavo avanti, camminando.

Pensai all'uroboro, alzai il capo e ne vidi un frammento immenso mezzo nascosto di nubi.

Caccia selvaggia

La ragazza nuda correva, correva nel bosco. Lei, con quel fisico nervoso da modella, un pezzo d'arte, trafugato al gala. Aveva la testa da piccione, fuggendo talvolta tubava.

Correndo fuggiva. Da me. Cacciatore alla bisogna, armato sul ronzino, fracassato, sollevato da un appiglio di convinzione: nozione comprensiva della mia indigenza. Mi allacciava.

Correndo. Fuggiva da lui. Furetto nel corpo più grosso del mio, negli occhi tutto pieno d'anima. Quanto mi spaventava di pericolo e attesa: troppo agile per me gracile.

Ogni tanto fra le frasche lo stoccavo di un'occhiata. Mi restituiva acume ed un canino. Preda una: aspiranti due. Non poteva finire bene non poteva non finire.

Lei era una pancia piatta sotto un seno ballerino. Arrossata a chiazze qua e là, un rossore malato sotto il becco un piumaggio screziato. Io e lui cacciatori in due due uccellatori.

Nebbia di bosco e rocce con muschio: correvamo. Il furetto soffiava tra gli arbusti, io tossivo: la raggiunse lui; la morse; la torse; lottò; perse le forze; sangue; in forse.

Poi viscere, certo, che li raggiunsi in breve e li trapassai insieme con la lancia. Li ho finiti col coltello e caricati. Un macello. Un commesso che sveste i manichini. E adesso?

Mi sfuggiva il punto. Ah. Non sapevo bene a che serviva tutto, forse a far andare

le cose, da amatore improvvisate: il massimo di questa roba performativa, la vita.

Mi spiegavo – non – il senso della loro morte. Con poco: la pelle di un furetto il corpo di una devota al culto decaduto del Suo Cuore. Guarda. È una loro statua quella là infranta, venata.

Una statua irrappresentabile che parla di tutte le cose abbandonate, con sofferta sintassi. È di pietra, giù dal piedistallo, oggi parla dello stallo, se è afono il gallo.

Nell'occhio sinistro avevo un colore. Guarda: il martin pescatore sgargiava, sembrava curioso, maldisposto a confidenze, senza aria accomodante. Taceva, nascosto.

Ma l'avevo visto, sapevo che c'era, ci ha stretto uno scambio di sguardi. Volli parlargli di non so che, ma non potemmo capirci. Poi andò. Anche lui avrà avuto da fare, pescare.

Sopra, fra gli alberi intravedevo bluastra la sagoma del monte dedicato ai caduti per decadenza, ai derivati da derive.

Larici granito percorsi per aspera ad astra.

Un vasto mausoleo. Mondo fluttuante a cui si impigliava una sciarpa di nebbia, un fiato corale senza canzoni; il resto il cielo, un viso aggrottato, l’aurora boreale a mancare.

Col grifone ero impreparato. L'uroboro l'avevo indagato. Con le ninfe, beh, non avevano istanze, fu un istante. L'unicorno mi ha impietosito, quasi deluso.

I draghi, loro sono stati complessi, perché mescolavano il dentro e il fuori (c'è differenza? davvero non so) ad oggi non saprei ugualmente gestirli, nemmeno ucciderli.

Mi riguardavano troppo per sapere se c'è un meglio, se forse peggio in agguato acquattato nell’uggia nel monte lontano desiderato mai esplorato.

Poi pensai agli altri: chissà se loro erano riusciti a catturarli vivi i loro obiettivi. Se gli erano sfuggiti, li avevano uccisi o inseguendoli erano finiti.

Sapevo che tutti avevamo l'opportunità di sfruttare il recesso di tempo rimasto per incontrarci sul monte. La paura era del buio, la penombra dava una soffusa inquietudine.

Tutti avevamo quel fine cavo quel poco che c’era di filo per accendere un lume ci fosse l’ora peggiore percossa dai colossi d’ombra.

Tutti noi. Che nella folla eravamo un marasma ben equipaggiato: al disarmo interiore sopperivamo con armi speculative, vesti retoriche, canovacci, strumenti conoscitivi.

Del nostro tempo sapevamo poco, percepirlo come un organo digerente già qualcosa: concedeva spazio di manovra per dire che uno sbocco c’era, da un'assurda bocca.

Dell'arte sapevamo meno: forse nulla ma ci aggrappavamo alla tenacia

e sfibravamo l'artefatto auspicando il vero, facendo genio della burla di vivere con senso di sfratto.

Ma gratta gratta c'era il rischio che ci restasse un misero nulla di fatto, fibra sfilacciata in mano, bruciacchiata: timore in vita: così forse si spiegava la caccia.

Allora passi di felpa la caccia gli occhi nervosi a cercare una traccia inciampi contusi in letture mal fatte fatta di muso e di faccia la nostra minaccia.

Poesie scritte tra settembre e dicembre 2016 federicoghillino@gmail.com

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